|  La provocazione permanente di 
                  Serge Gainsbourg
 Seconda parte – Dottor Gainsbourg/mister Gainsbarre 
                  (1979-1991) Un sottile equilibrio ha tenuto inchiodato Gainsbourg per i 
                  primi vent’anni della sua carriera a un ruolo di notorietà 
                  laterale: conosciuto, ma non celebre; ammirato, ma 
                  non idolatrato; apprezzato e vicino allo star system, per cui 
                  scriveva canzoni di enorme successo, dimostrandone al contempo 
                  il vuoto assoluto, non era però entrato a far parte di 
                  questo star system in prima persona.
 Per se stesso, come abbiamo visto, si riservava il ruolo di 
                  ricercatore di forme nuove, di esploratore dei rapporti del 
                  linguaggio col vuoto concentrico del continuo fluire delle mode. 
                  Per una serie di eventi, dal 1978 al 1991, anno della sua morte, 
                  Gainsbourg assurge al ruolo di star, forse l’unico idolo 
                  fra i grandi autori francesi, certamente l’unico della 
                  sua generazione, l’unico di cui tutt’oggi si trovino 
                  i poster offerti dai venditori ambulanti, sui marciapiedi e 
                  nelle stazioni dei metro, accanto a quelli delle star autolesioniste 
                  della storia del rock (Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, 
                  ecc.).
 Quasi dovesse tener fede, per una sorta di coerenza con se stesso, 
                  con la sua dimostrazione per assurdo del nulla con cui identifica 
                  la società dell’immagine o lo spettacolo della 
                  società, Gainsbourg si assume questo ruolo sulla sua 
                  persona fino in fondo creandosi un alter ego: Gainsbarre.
 Gainsbarre è la parodia di come Gainsbourg viene rappresentato 
                  dai mezzi di comunicazione, una laida macchietta dell’erotomane 
                  sempre ubriaco, incontrollabile e pericolosamente goffo, del 
                  pigmalione depravato che crea ninfette inconsistenti (l’ultima 
                  delle quali sarà Vanessa Paradis, per cui scriverà 
                  un bellissimo album). Gainsbarre sarà in quegli anni 
                  eternamente presente in televisione, intervistato tutti i giorni 
                  su tutte le questioni possibili, e, alla fine, imprigionerà 
                  Gainsbourg in un abisso di degradazione evidente, fino alla 
                  morte.
 E già, sono io, Gainsbarre Mi si trova per caso
 Nei night-club e gli american-
 Bar, un po’ bonnard.
 Ecce Homo
 Lo si riconosce, Gainsbarre
 Per i Jeans, per la bar =
 Ba di tre notti, per il fumo
 E per la sua disperazione.
 Ecce Homo
 Bizzarro questo Gainsbarre
 È cool, si direbbe
 Che di tutto non gliene
 freghi niente, insomma…può darsi
 Ecce Homo
 E sì, inchiodato Gainsbarre
 Al monte Golgota
 È un reggae-ilare
 Il cuore trafitto da parte a parte
 Ecce Homo. (Ecce Homo, 1981).
 
 L’enorme successo personale per Gainsbourg interprete 
                  di se stesso, arriva appunto con quella che sarà la più 
                  pericolosa provocazione della sua carriera: nel 1978, appena 
                  scoperta una nuova forma musicale, vola a Kingston, e, primo 
                  fra tutti i musicisti europei, incide un album totalmente reggae. 
                  Il brano cui è affidata la promozione del disco è 
                  un incredibile versione dell’inno nazionale, La Marseillese, 
                  le cui strofe sono eseguite per intero, ma il cui ritornello 
                  ripete solo, beffardamente, “Aux armes, et coetera…” 
                  (“Armatevi, eccetera…”) tutto ovviamente con 
                  tanto di coriste giamaicane e col gruppo di Peter Tosh alle 
                  spalle. Il risultato è irresistibile. Nella patriottica 
                  Francia la cosa è accolta come un affronto intollerabile, 
                  le associazioni di paracadutisti ed ex combattenti, gli antichi 
                  torturatori fascisti delle guerre d’Indocina e d’Algeria, 
                  insorgono, e si presentano ai concerti (che Gainsbourg tornava 
                  a dare quell’anno, dopo diciotto di assenza dalle scene), 
                  tanto che quello di Strasburgo deve essere annullato perché 
                  il palazzo in cui si doveva tenere viene minato col plastico. 
                  Gainsbourg, pallidissimo, appare solo sul palco e con un filo 
                  di voce ringhia “io sono un rivoluzionario, che cantando 
                  su una musica rivoluzionaria, ha ridato alla marsigliese il 
                  suo senso originale!” e la intona con un incredibile trasporto 
                  (e con un coraggio non indifferente) davanti ai parà 
                  in mimetica e armati. Due anni dopo, nel suo secondo disco reggae, con più 
                  sarcasmo, dedicherà a quell’episodio la terribile 
                  Che nostalgia, camerata!
 Che cosa ti ha preso, cazzo, per spaccare la capanna Di questo baluba poi sguainare il coltello
 Aprire la pancia al primitivo
 Che sbaraccava dalla sua savana
 Che nostalgia, camerata!
 Che cosa t’ha fatto afferrare quella ragazza diafana
 Fuori dalle grazie e sotto le sue unghie
 Hai rimpianti? Rispondi: “negativo”
 O meglio, ridacchi…
 Che nostalgia, camerata! (Che nostalgia camerata, 1981).
 Quando dico che Gainsbourg divenne famoso nel ’78 ovviamente 
                  tengo conto dell’enorme successo commerciale di dieci 
                  anni prima con Je t’aime, moi non plus, ma in 
                  quell’occasione Serge si eclissò dietro il personaggio 
                  del “signor Jane Birkin”, che, anche in qualità 
                  d’attrice, impersonava la star; i due furono una celeberrima 
                  coppia mediatica, ma lei riuscì a fare da paravento, 
                  proteggendo così la fragilità reale del marito. 
                  Con la dissoluzione di questa coppia (ma Serge continuò 
                  fino all’ultimo a scrivere per lei), lui si trovò 
                  ad affrontare da solo il rapporto suicida con i mass media, 
                  dando come abbiamo visto vita a Gainsbarre.  Depressione al disotto del giardino La tua espressione di tristezza
 Mi hai lasciato la mano
 Come se niente fosse
 Stato, che l’estate fosse finita
 I fiori hanno perso il loro profumo
 Che porta via uno a uno
 Il tempo assassino. (Depression au dessous du jardin, 1980).
 Gainsbarre fece il diavolo a quattro… Per protestare 
                  contro la pressione fiscale bruciò in diretta televisiva 
                  un biglietto da 500 franchi (e bruciare titoli di Stato è 
                  un reato). Invitato in una trasmissione con Withney Huston che, 
                  secondo la migliore tradizione americana, si presentò 
                  discinta e provocante nei modi, ma anche assolutamente puritana 
                  nelle espressioni, lui, completamente ubriaco, la scioccò 
                  (e gelò il povero conduttore ignaro) rivolgendole un 
                  molto prosaico “Baby, i want fuck you” (ragazza, 
                  voglio fotterti). Alla fine tutte queste gaffe, divertenti all’apparenza, 
                  viste di seguito rivelano la profonda disperazione, il clichè 
                  ripetuto alla nausea di un uomo che spinge sempre un po’ 
                  più in là il suo disagio di esistere e che continua 
                  a osare, quasi volesse capire dove lo lasceranno arrivare; la 
                  stessa ossessione erotica che lo anima e che contrasta con un 
                  fisico decisamente ingrato, se lo si svuota del suo carisma, 
                  appare l’esplicita aggressione di un essere che vive molto 
                  male nella sua pelle, e che, non avendo niente, rilancia per 
                  prendersi tutto.
 Ma quest’esistenza rappresenterebbe ancora solo una riflessione 
                  sul tema del divismo, ardita ma non unica, se non fosse che, 
                  con Gainsbarre occupato a fare il personaggio pubblico, Gainsbourg, 
                  dall’interno, continua a creare opere, rivoluzionarie 
                  per linguaggio e temi, e a distillare illuminazioni di poesia 
                  purissima.
 I dessous chics È un niente a svelare il tutto
 È dirsi che quando si arriva al fondo
 È tabù
 I dessous chics
 È una giarrettiera che sbatte
 Nella testa come un tip-tap
 I dessous chics
 È il pudore dei sentimenti
 Truccato oltraggiosamente
 Rosso sangue
 I dessous chics
 È conservarsi sul proprio fondo
 Fragili come una calza di seta
 I dessous chics
 Sono trine e merletti
 Di amarezza su un paravento
 Desolante
 I dessous chics
 Sarebbe come il tacco a punta
 Che attraversasse il cuore delle ragazze. (Les dessous 
                  chics, 1983).
 
 I suoi ultimi dischi, ancora e sempre all’avanguardia, 
                  sono suonati dai musicisti di Micheal Jackson e in filigrana, 
                  fra le solite tonnellate di perfidia e cinismo, lasciano intravedere 
                  la tenerezza dell’uomo, si prenda ad esempio I’m 
                  the boy, sull’omosessualità: “Il 
                  ragazzo che ha il dono dell’invisibilità./Ombra 
                  fra le ombre dei notturni torridi/mi perdo nel numero /per giungere 
                  al sordido./Maschera fra le maschere/di tragedia o amarezza/cuoio 
                  nero e caschi/che scintillano alla luna./Anima fra le anime/febbrile 
                  nell’angoscia/quando brilla la lama/o scintilla lo sguardo./Uomo 
                  fra gli uomini/nel nero o in avorio/ricercando i sintomi/di 
                  un orgasmo illusorio./Puttana fra le puttane/m’infogno 
                  nel fango/dove s’abbracciano i bruti/e si insanguinano 
                  gli angeli”. In questa canzone, paradigmatica dei 
                  due lavori pubblicati rispettivamente nell’85 e nell’88, 
                  un montaggio serrato di immagini, che cortocircuita stereotipi 
                  e accostamenti arditi, fa contrasto con una perfezione formale 
                  che tiene in equilibrio la lirica, facendola assomigliare a 
                  una statua della classicità ellenica, come il Lacoonte 
                  che viene sostenuto dagli stessi serpenti che lo stanno strangolando; 
                  in questa, come nelle altre canzoni di questo periodo (e si 
                  pensi già solo alla controversa Incesto al limone, 
                  cantata in duo con la figlia Charlotte), tutto resta sospeso 
                  in una rappresentazione che non conosce relazioni morali fra 
                  le cose, ma solo una grande estetica dell’esistente in 
                  cui con-vivono (o forse muoiono assieme) sordido e sublime. 
                  Ma sono gli ultimi fuochi. Quasi insopportabilmente stravolto 
                  dagli eccessi di Gainsbarre, Gainsbourg fu folgorato dall’ennesima 
                  crisi cardiaca il 2 marzo del 1991.
  Alessio Lega alessio.lega@fastwebnet.it
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