| Niente ti prepara davvero 
                  a quel che vedi, girando per gli spazi della scuola La Villetta 
                  della Rete dei nidi e delle scuole d’infanzia di Reggio 
                  Emilia. Sai che sono ormai famose in tutto il mondo, hai letto 
                  magari articoli, visto una mostra, ne hai sentito parlare con 
                  ammirazione o invidia. Ma quando Paola, la pedagogista che mi 
                  fa da guida, mi porta a girare per gli spazi dove i bambini 
                  stanno lavorando, quando ti soffermi a vedere che cosa si può 
                  progettare e immaginare dai tre ai cinque anni (questa l’età 
                  delle scuole d’infanzia), allora quasi ti vien da piangere 
                  a pensare quel che c’è fuori. La maestra che sento urlare fin dal mattino dalla mia finestra 
                  che dà sul cortile della scuola elementare non la riconoscerebbe 
                  come scuola. Intanto è una villa con giardino, occupata 
                  nel 1969 fa da un gruppo di donne per insediarvi una scuola 
                  autogestita, e che poco dopo diventa scuola comunale.
 Entri e c’è una cucina con due cuoche e dei bambini 
                  che trotterellano intorno per aiutarle ad apparecchiare. L’atrio, 
                  con un’ampia vetrata che dà sul giardino, con un 
                  bel pergolato di glicine, diventa la sala comune in cui si mangia. 
                  E già da questo primo approccio ti rendi conto di entrare 
                  in un mondo progettato per i bambini.
 Lo diceva Malaguzzi, il papà delle scuole di Reggio, 
                  in una bellissima intervista nel libro I Cento linguaggi 
                  dei bambini (1): in ogni scuola 
                  c'è “un atrio di ingresso che informa, documenta, 
                  anticipa le forme organizzative della scuola”. Da lì 
                  si raggiungono i diversi spazi della scuola collocati su più 
                  piani. Qui vivono circa un’ottantina di bambini, divisi 
                  in tre classi per età (3, 4, 5 anni). Ciascuna classe 
                  ha due insegnanti, e in più c’è la figura 
                  dell’atelierista che qui ha un ruolo fondamentale: “l'atelier 
                  come luogo di lavoro, manipolazione, sperimentazione e fusione 
                  dei linguaggi grafici, visivi, pittorici, disgiunti e connessi 
                  con quelli verbali e simbolici” (2).
  
  Piccoli geni?
 Già di per sé le bambine e i bambini di quest’età 
                  sono così sorprendenti che staresti ad osservali per 
                  ore. Ma quando li senti discutere di come costruire un tunnel 
                  per le talpe, come arredarlo in modo che sia confortevole, e 
                  poi li vedi armeggiare insieme all’atelierista con un 
                  tubo di acetato lungo due metri, mettendoci dentro una lunga 
                  striscia piena di cose disegnate che è la strada della 
                  talpa, con tanto di soste riposo e piccoli stagni per lavarsi; 
                  quando li vedi a tre anni formulare teorie su come costruire 
                  un ponticello sul laghetto che sta in cortile che permetta ai 
                  gatti di passarci sopra senza sfondarlo, e molto altro ancora 
                  ti chiedi: ma da dove vengono questi bambini? Hanno forse qualcosa 
                  di speciale, oppure siamo noi che siamo ormai abituati a considerare 
                  i bambini secondo l’etimologia (bambaino in greco 
                  rimbambire, balbettare; se ne conserva traccia nel nostro “bamba”), 
                  piccoli idioti, carini, magari sì, ma in fondo decisamente 
                  selvaggi e stupidi? Magari dovrebbe farsi un giro qui il prof. 
                  Bertagna, coordinatore della commissione dei nuovi programmi 
                  morattiani che per difendere la scelta di non parlare dell’evoluzionismo 
                  sostiene che “per i primi otto anni è necessario 
                  riflettere sulla esperienza, perché la scienza non è 
                  immaginazione ma verifica delle teorie. E solo dopo i primi 
                  otto anni è possibile affrontare in modo adeguato le 
                  teorie sull'evoluzione della specie umana, solo allora i giovani 
                  sono in grado di apprendere con una complessità e comparazione 
                  diverse”. Il fatto è che qui ai bambini si dà ascolto per 
                  davvero, come se stessero facendo la cosa più importante 
                  del mondo: apprendere.
 Ti rendi conto, girando per gli spazi della scuola, di come 
                  le insegnanti abbiano un'attenzione davvero speciale per i bambini, 
                  non finta e caramellosa, ma come se stessero effettivamente 
                  imparando qualcosa anche loro. Sarà un'impressione, ma 
                  ho parlato con persone che lavorano lì da più 
                  di trent'anni e mi sembrano entusiaste come il primo giorno. 
                  Ora, per chi frequenta le scuole normali, dove la demotivazione 
                  è una nebbia fitta che si taglia con il coltello, già 
                  questo è un miracolo. E siccome non ci credo, chiedevo: 
                  ma come fate? Voglio dire, certo, ci saranno i giorni sì, 
                  e quelli no; avremo tutti la luna girata dei giorni, ci saranno 
                  bambini più tristi, faranno pure loro i capricci, ci 
                  saranno le difficoltà del vivere quotidiano. Sì 
                  certo, ma tutto questo poi diventa secondario quando davvero 
                  ti occupi dei bambini che ti coinvolgono in modo quasi totale 
                  nei loro progetti e nei loro mondi fantastici.
 Entro nella classe dei tre anni, al piano terra (la classe dei 
                  4 è al primo piano, la classe dei 5 al secondo piano: 
                  si cresce e si sale), uno spazio molto ampio suddiviso in aree 
                  dove gruppi di bambini stanno lavorando: c'è un miniatelier 
                  dove si lavora la creta, un'area di costruzioni, tavoli su cui 
                  i bambini stanno disegnando, spazi per isolarsi.
 L'attività viene decisa dai bambini nelle riunioni che 
                  si tengono al mattino: molti scelgono di continuare i progetti 
                  che, immagino, nel corso del tempo saranno di maggiore durata.
 Le due insegnanti volteggiano tra un gruppo e l'altro con il 
                  loro blocco di appunti e osservano i bambini al lavoro, interagiscono 
                  con loro. Ma quando le senti parlare tra loro di quello che 
                  han fatto i bambini, senti davvero la meraviglia, che è 
                  esattamente ciò che ti permette di continuare a fare 
                  il tuo lavoro con piacere, sopportando le inevitabili difficoltà. 
                  La meraviglia nasce però quando non è tutto programmato, 
                  quando lavori, come dice Malaguzzi, con un terzo di certezza 
                  e due terzi di incertezza. Ma come si fa a sostenere tanta incertezza?
   Pedagogia e dintorni Quando Loris Malaguzzi, il papà dei Reggio Children, 
                  ha cominciato a mettere in piedi questo progetto ci credevano 
                  in pochi e ancora adesso forse è guardato da molti come 
                  una sorta di museo, bello sì ma separato dal mondo, mentre 
                  è una realtà vivacissima che propone un altro 
                  modo di vivere e di pensare, scomodo per i più, ma non 
                  meno reale. Giovanni che fa l'atelierista multimediale ed è 
                  lì da trent'anni mi racconta di come sia essenziale il 
                  contesto di Reggio, la realtà cooperativa che sta intorno, 
                  certo anche il contesto politico e sociale che fa di Reggio 
                  qualcosa di diverso da Milano. E questa è una delle ragioni 
                  per cui quel modello non si può esportare. Ma Malaguzzi ha avuto il merito indubbio di intrecciare percorsi, 
                  mettere in comunicazione persone, pratiche, culture, teorie 
                  per dar vita e senso a un progetto estremamente complesso anche 
                  dal punto di vista pedagogico, e che è cresciuto nel 
                  corso degli anni grazie alla collaborazione di tutti gli insegnanti, 
                  le famiglie, gli educatori, ma che ha anche avuto sempre un'attenzione 
                  alle nuove teorie psicopedagogiche, senza farsi intimidire dal 
                  principio d'autorità.
 “La pedagogia, dice Malaguzzi, quando gode di libertà 
                  sufficienti e ancora di buona sorte può correre tra adozioni 
                  e restauri, sopportare errori e ritardi e azzardare intuizioni 
                  e scelte di qualche originalità. Importante è 
                  da parte sua non essere prigioniera di grandi o troppe certezze, 
                  così da essere sempre pronta a rendersi conto della relatività 
                  dei suoi poteri, delle estreme difficoltà di tradurre 
                  in pratica le formulazioni ideali” (3).
 Per Reggio sono transitati, tra l'altro, Bruno Ciari, Gianni 
                  Rodari, Lamberto Borghi, Francesco De Bartolomeis, insomma con 
                  il meglio della pedagogia italiana e ciascuno ha forse in qualche 
                  modo lasciato una traccia nel progetto generale.
 
  Attività costruttiviste
 Se si dovesse definire in termini generali l'approccio delle 
                  scuole di Reggio, si potrebbe usare il termine “costruttivismo”, 
                  che è ormai un'etichetta usata per cose ormai molto diverse, 
                  ma nella quale si comprendono teorie, euristiche, epistemologie 
                  che convergono tutte almeno su un principio: conoscere la realtà 
                  significa costruirla attivamente e non rappresentarla specularmente 
                  (4). Nella versione che troviamo anche a Reggio, possiamo vedere 
                  in atto questi principi:
 • la conoscenza è il prodotto di una costruzione 
                  attiva del soggetto;
 • ha carattere situato, ancorato cioè nel contesto 
                  concreto;
 • si svolge attraverso particolari forme di collaborazione 
                  e negoziazione sociale (5).
 Tutto questo porta a rifiutare una scuola trasmissiva, a mettere 
                  davvero al centro dell'educazione i soggetti dell'apprendimento, 
                  a considerare essenziale all'apprendimento la cooperazione. 
                  È quell'insieme di valori che Malaguzzi chiamava “pedagogia 
                  della relazione”: “le connotazioni interattive-costruttiviste, 
                  l'intensità della relazione tra gli attori, lo spirito 
                  del cooperare, lo sforzo della ricerca individuale e collettiva, 
                  l'attenzione per i contesti, i consolidamenti affettivi, l'apprendimento 
                  dei processi bi-direzionali delle comunicazioni…” 
                  (6). La cooperazione si estende all'esterno della scuola, attraverso 
                  il coinvolgimento delle famiglie che partecipano alla gestione 
                  della scuola, non nella forma di altre scuole libertarie, ma 
                  in modo abbastanza massiccio. Ci sono tutte le varie istituzioni, 
                  Consiglio di gestione, Consulta, Consigli di sezione, riunioni 
                  a vario livello, che secondo i dati raggiungono una partecipazione 
                  superiore al 60%. Ciò che nel mondo appare un’inutile 
                  scocciatura, al più un rito inutile, qui diventa parte 
                  integrante del progetto educativo. I genitori hanno aiutato 
                  nel passato a costruire una parte della scuola; ora collaborano 
                  ai progetti dei bambini. Ci sarà l’idraulico che 
                  li aiuta a costruire il luna park per gli uccellini e un microsistema 
                  di fontane; l’ingegnere che fornisce consulenza di robotica, 
                  e così via.
 
  La creatività non è un lusso
 Ma forse la cosa davvero più straordinaria che si vede 
                  a Reggio è la creatività dei bambini all'opera. 
                  Reggio insegna che la creatività non è un lusso 
                  per pochi, ma una pratica quotidiana per cambiare il mondo intorno 
                  a sé. Nelle loro classi, negli atelier i bambini sviluppano 
                  progetti che mettono insieme idee, linguaggi diversi, creta 
                  con fil di ferro, informatica musicale, teatrini delle ombre, 
                  fotografia e mille altre cose ancora. Due in particolare mi 
                  hanno colpito. I bambini, come sempre fanno, sono partiti da 
                  una domanda: ci sono strade nel cielo come in terra? Da lì 
                  hanno cominciato a sviluppare ipotesi, a creare modelli, a fare 
                  domande e ricerche, a vedere video, a chiedere ai bambini di 
                  altre scuole. Da lì sono arrivati all'astronomia (ma 
                  in modo del tutto empirico), alla cosmologia e, al punto in 
                  cui erano arrivati, stavano costruendo dei micromondi di molti 
                  materiali sospesi con fili di nylon. Mi ricordavano in piccolo 
                  le scatole di Cornell cui parla William Gibson in Giù 
                  nel cyberspazio. In tanti altri lavori si trova forte la 
                  presenza di qualcosa che ci ricorda l'arte contemporanea, non 
                  perché gli insegnanti parlino ai bambini degli ultimi 
                  artisti d'avanguardia, ma forse perché i bambini hanno 
                  davvero dei potenziali di creatività artistica quasi 
                  del tutto inesplorati.
 L'estetica qui è hard, non ci sono oleografie, quadretti 
                  stucchevoli, corretti dalle maestrine dal pennello rosso, ci 
                  sono progetti e opere dei bambini, con la loro durezza e ingenuità, 
                  la loro complessità e la loro bellezza.
 L'altro progetto, ancor più complesso, riguardava l'adozione 
                  da parte delle classi di luoghi della città. Per farla 
                  breve i bambini di una classe avevano adottato una certa strada 
                  in cui c'era un negozio di calzature. Da lì è 
                  partito il progetto delle scarpe fantastiche che hanno realizzato 
                  in creta, ma hanno anche realizzato un CD con i rumori della 
                  via, ecc.
 Mi fermo qui. Come forse si intuisce, le scuole di Reggio mi 
                  hanno affascinato. Non saranno forse come titolava Newsweek 
                  nel 1992 le scuole più belle del mondo, ma certo sono 
                  qualcosa che si avvicina molto a una comunità libertaria 
                  creativa, dove ogni termine ha un suo peso specifico e necessario: 
                  una comunità di liberi, che in relazione tra loro sviluppano 
                  i mezzi più creativi per migliorare la convivenza, per 
                  costruire insieme.
 Certo, direte, ci sei stato poche ore, accompagnato e i problemi 
                  non sono certo esposti in vetrina. Ma sapere che una scuola 
                  simile dura da più di trent'anni e si sviluppa ancora, 
                  rende felici.
  Filippo Trasatti
 
                  
                    | 1. 
                      AA.VV, I Cento linguaggi dei bambini, Ed. Junior, 
                      Bergamo 1995. 2. Idem, p. 75.
 3. Idem, p.62.
 4. Detto questo ci sono correnti tra loro assai divergenti: 
                      il costruttivismo radicale di von Glasersfeld, il costruzionismo 
                      sociale di Clifford Geerz e ancora altri teorici come Moscovici, 
                      Schutz, Garfinkel, Berger, Maturana e Varela e tanti altri.
 5. Si vedano in proposito i libri di A. Calvani, Elementi 
                      di didattica, Carocci, Roma 2003 e di Salvatore Lazzara, 
                      Conoscenza condivisa, Manifesto libri, Roma 2003.
 6. I Cento linguaggi, cit. p. 69.
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