| Apprendo da un articolo 
                  di Eva Cantarella sul «Corriere della Sera» del 
                  23 marzo che a maggio potremo ammirare, in tutte le sale e multisale 
                  superstiti, un colossal cinematografico di raro impegno 
                  produttivo, liberamente ispirato al racconto omerico della saga 
                  troiana (in inglese si intitola, semplicemente, Troy e chissà 
                  come se la caveranno i distributori italiani) e interpretato 
                  nientemeno che da Brad Pitt nella parte di Achille figlio Peleo. 
                  Non me ne aspetto – in realtà – niente di 
                  buono, ma il fatto in sé mi sembra abbastanza inevitabile. 
                  Il cinema, per quanti capolavori abbia creato a partire da storie 
                  private, si lascia incantare periodicamente dai grandi miti 
                  della cultura occidentale e se Mel Gibson ha avuto l’audacia 
                  di seguire le orme di Cecil B. De Mille trascrivendo sul grande 
                  schermo la vita di Cristo, non vedo perché qualche suo 
                  collega non debba cimentarsi, a sua volta, con l’Iliade 
                  e dintorni. Il compito, oltretutto, è più facile, 
                  perché di modelli classici con cui misurarsi non ce ne 
                  sono. Se ben ricordo, a non contare un peplum di culto come 
                  L’ira di Achille di Marino Girolami, del ’62, 
                  in cui i panni dell’eroe omerico erano cuciti sulle robuste 
                  membra di Gordon Mitchell, l’unico altro tentativo di 
                  un certo spessore ricordato dalle storie del cinema è 
                  l’Elena di Troia di Robert Wise (1955), che, 
                  nonostante la regale presenza di Rossana Podestà e la 
                  prima comparsa su celluloide di una giovanissima Brigitte Bardot, 
                  non è esattamente un capolavoro.    Né bello né simpatico Non è questo, comunque, il problema e non intendo rubare 
                  all’amico Felice Accame le sue competenze di critico. 
                  Neanche la Cantarella, d’altronde, si occupa di storia 
                  o dottrina del cinema. Lei, vi sembrerà strano, ha scritto 
                  quell’articolo perché l’idea di Brad Pitt 
                  nella parte di Achille proprio non le va giù. I capelli 
                  biondi, lo ammette, ci sono, ma qui si ferma qualsiasi somiglianza 
                  tra i due. Achille, per la nota studiosa, non era né 
                  bello né simpatico (e Brad Pitt, evidentemente, sì). 
                  Si era bruciate le labbra quando quella sconsiderata di sua 
                  madre aveva cercato di renderlo immortale attraverso il fuoco 
                  e come si fa a definire bello chi non è in grado di sorridere? 
                  Lei (la Cantarella, non Teti), quando a scuola leggeva l’Iliade 
                  “stava” sempre con Ettore, come – d’altronde 
                  – la maggior parte dei suoi compagni, pochissimi dei quali 
                  tifavano per il figlio di Peleo. Il quale, non si può 
                  negarlo, aveva un pessimo carattere: “a causa della sua 
                  proverbiale ira funesta” leggo “i greci muoiono 
                  a migliaia sotto le mura di Troia” e tutto per una “reazione 
                  a un’offesa dell’onore”, una forma di “odio 
                  coltivato in sprezzante isolamento con totale insensibilità 
                  alle esigenze altrui.” L’articolo ammette che nessuno 
                  degli eroi greci può definirsi altruista, che erano in 
                  pochi, tra loro, a conoscere la mitezza. “Ma Achille supera 
                  tutti in arroganza, in presunzione, nel culto narcisistico della 
                  propria immagine. Di quel che accade ai suoi commilitoni, di 
                  quel che accadrà alla Grecia ben poco gli importa.” 
                  E via dicendo. Io, naturalmente, non so quale scuola abbia frequentato l’autrice. 
                  Visto che siamo, più o meno, coetanei, immagino che non 
                  sarà stata molto diversa dalla mia. E io, che allora 
                  leggevo l’Iliade nella traduzione del Monti, 
                  che, per un ragazzo delle medie è un tantino più 
                  difficile da decifrare dell’originale greco, ero troppo 
                  occupato a cercare di capire cosa diavolo volesse dire il sacerdote 
                  Crise quando ricordava ad Apollo di averne unqua adornato con 
                  serti il leggiadro delubro e di avergli arso i fianchi opimi 
                  di tauri e giovenchi per potermi permettere il lusso di schierarmi 
                  con questo o quell’eroe. La Cantarella aveva, evidentemente, 
                  il vantaggio di essere figlia di un grande grecista (di cui 
                  peraltro, in seguito, avrei avuto anch’io l’onore 
                  di essere allievo) e aveva già capito, da piccola, quello 
                  che noi meno fortunati avremmo scoperto un decennio dopo sulle 
                  pagine dello Snell e dello Jäger, che l’areté, 
                  la «virtù» dell’eroe greco arcaico, 
                  ha a che fare, lo insegna l’etimologia, solo con l’aristéuein, 
                  il «primeggiare», e che Achille vuole solo ed esclusivamente 
                  essere il primo in qualsiasi campo, dall’ammazzare i nemici 
                  al piangere gli amici, e del destino di chi, come Agamennone 
                  e i suoi, gli nega la relativa investitura non potrebbe importargliene 
                  di meno. Che certo da nostro punto di vista non è un 
                  tratto simpatico e mal si concilia con i nostri odierni ideali 
                  di collaborazione in vista di un risultato comune. Che le virtù 
                  “antagonistiche” degli antichi non c’entrino 
                  una beata fava con quelle «collaborative» dei moderni, 
                  e che nel sistema di valori dell’etica greca il concetto 
                  di responsabilità sia piuttosto latitante, lo ha d’altronde 
                  magistralmente illustrato Arthur W. H. Adkins in un grande saggio 
                  del 1959 ed è assunto comune che la sua analisi resti 
                  insuperata e – forse – insuperabile.
 
   Il più cialtrone di tutti Ma certo, guardandosi intorno oggi, si ha qualche motivo di 
                  dubitarne. Le virtù collaborative saranno tipiche di 
                  noi moderni, ma in questi tempi non godono certo di una particolare 
                  popolarità. Di villanzoni prepotenti che pensano soltanto 
                  a se stessi e al proprio primeggiare, considerando un patetico 
                  residuo del passato qualsiasi impegno di solidarietà, 
                  ne conosciamo, per nostra disdetta, fin troppi. Alcuni, si sa, 
                  presiedono ai nostri destini, a partire da colui che su tutti 
                  primeggia in ricchezza e potere mediatico, che in quanto ad 
                  arroganza, presunzione e culto narcisistico della propria immagine 
                  non è secondo a nessuno, e che, se a qualcuno può 
                  sembrare, per avventura, un perfetto cialtrone, del suo essere 
                  il più cialtrone di tutti è riuscito a fare una 
                  strategia consapevole. Achille, poveretto, non poteva farsi 
                  fare il lifting alle labbra bruciate e, comunque, affrontava 
                  la sua parte di pericoli, nel senso che sapeva benissimo che 
                  subito dopo quello di Ettore sarebbe venuto il turno suo. Ma 
                  lui non si lasciava guidare, nella norma del suo agire, da considerazioni 
                  di utile personale e questo – mi sembra – ha una 
                  certa importanza. Perché il solidarismo, figuriamoci, 
                  è fuori moda, preoccuparsi troppo degli altri è 
                  – dicono – contrario alle leggi di un sano sviluppo 
                  economico, ma a furia di prendere a calci nei denti quelli che 
                  si considerano propri inferiori si finisce per ricadere in quella 
                  barbarie dalla quale, ai tempi di Omero, l’umanità 
                  stava appena emergendo e che non a caso un altro pensatore di 
                  origine greca metteva in contrapposizione, qualche decennio 
                  fa, con il socialismo. Achille, tutto sommato, non faceva gran danno. Si limitava a 
                  far fuori, in leale tenzone, un certo numero di parigrado non 
                  meno trucidi di lui. Non gli sarebbe mai passata per l’anticamera 
                  del cervello l’idea di approfittare dei più deboli, 
                  di arricchirsi a loro spese e di pretendere, per di più, 
                  la loro ammirazione. Il continuo sgomitare di quanti oggi agiscono 
                  in base al presupposto inespresso che per giungere in vetta 
                  e restarvi non c’è altra via che calpestare chiunque 
                  faccia da ostacolo, produce, come sappiamo, molte più 
                  vittime.
  Carlo 
                  Oliva
   
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