| Bruma sul ponte Non conosciutissimo in Italia (anche se ultimamente molti suoi 
                  romanzi sono stati pubblicati da Fazi Editore), ma ammirato 
                  quasi al pari di Simenon in Francia, il giallista Léo 
                  Malet (Montpellier 1909-Parigi 1996), personaggio singolare 
                  nel panorama letterario d’oltralpe, fu assiduo frequentatore 
                  degli ambienti anarchici parigini e, anche se le sue peripezie 
                  lo allontanarono, negli anni della maturità, dalle amicizie 
                  giovanili, il suo distacco dal mondo e, soprattutto, dal pensiero 
                  libertario, non fu mai totale. Di modeste origini e uomo dai 
                  mille mestieri (lavabottiglie, fattorino, chansonnier, 
                  operaio, impiegato, scaricatore, strillone), quella di Malet 
                  è una biografia ricca e movimentata. Negli anni venti 
                  e trenta, dopo un breve periodo trascorso in carcere, lo troviamo 
                  fra i collaboratori e diffusori di riviste quali «l’en-Dehors», 
                  «L’Insurgé», «La Revue Anarchiste», 
                  poi esponente del movimento surrealista, amico di Breton e Dalì, 
                  quindi occasionale aderente al movimento trotzkista. Nel 1940 
                  è nuovamente in prigione con l’accusa di avere 
                  attentato «alla sicurezza interna ed esterna dello Stato» 
                  e poco dopo viene catturato dai tedeschi e inviato, per quasi 
                  due anni, in campo di concentramento. Tornato in libertà, 
                  inizia la sua carriera di giallista (sono circa settanta i suoi 
                  lavori) dando vita a numerosi personaggi, tra i quali il più 
                  conosciuto è l’investigatore privato Nestor Burma, 
                  anch’esso anarchico in gioventù e ancora fortemente 
                  influenzato, nel giudicare il mondo e le situazioni nelle quali 
                  si trova ad indagare, dalle idee libertarie che avevano infiammato 
                  la sua giovinezza. Inevitabile, dunque, viste queste frequentazioni e le caratteristiche 
                  della sua creatura, che il milieu dell’anarchismo 
                  parigino diventi quasi una costante delle sue opere. Così 
                  nel famoso Chilometri di sudari il deus ex machina 
                  è un miliziano francese morto nel 1936 combattendo nella 
                  Colonna Durruti, e non è un caso che in Nebbia sul 
                  ponte di Tolbiac, uscito nel 1956 e giudicato 
                  fra i suoi lavori più riusciti, i protagonisti siano 
                  alcuni degli ex componenti di un Centro vegetaliano anarchico 
                  situato nel cuore del XIII Arrondissement. Uno di loro, Abel 
                  Benoit Lenantais, ex calzolaio soprannominato Liabeuf ed ora 
                  rigattiere, rimasto fedele anche in tarda età ai rigorosi 
                  costumi libertari, viene misteriosamente accoltellato nella 
                  propria abitazione, ma prima di morire riesce a raggiungere, 
                  con un messaggio affidato a una misteriosa gitana, l’antico 
                  compagno Burma, avvertendolo così del pericolo che incombe 
                  su altri camarades già frequentatori del vecchio 
                  sodalizio. Nel corso delle indagini, complicate dalla misteriosa 
                  presenza della bella zingara e ricche degli immancabili colpi 
                  di scena di un «giallo» che si rispetti, l’investigatore 
                  ritrova altre antiche conoscenze, più o meno memori degli 
                  antichi ideali, ma tutte ancora significativamente segnate da 
                  quella specie di imprinting che deriva da una adesione 
                  anche saltuaria all’anarchismo. Va da sé che l’intreccio, 
                  lo svolgimento di questa intricata storia piena di ombre e di 
                  luci, nasca e muoia nell’ambito degli antichi habituées 
                  della comune vegetaliana, in una fosca resa dei conti di avventurose 
                  vicende e ambigue complicità, nate trent’anni prima 
                  e quindi amaramente svelate e risolte da Nestor Burma. E l’amarezza 
                  dell’investigatore, quando si ritrova a riannodare i fili 
                  di storie nate nell’entusiasmo dell’ideale e risoltesi 
                  nella banalità del delitto, è la stessa che Léo 
                  Malet affida, cinicamente, alle parole con cui l’assassino 
                  confessa il proprio misfatto: «Abbiamo litigato e l’ho 
                  pugnalato. Ho reso un servizio alla società perché 
                  quel Lenantais era un puro. Vale a dire molto più pericoloso 
                  per la società di molti altri».
 Personaggi originali e strampalati Senza dubbio, nell’invenzione di queste storie «anarchiche», 
                  c’è una certa condiscendenza, da parte di Malet, 
                  verso la sensibile curiosità di un lettore facilmente 
                  affascinabile dalla descrizione di situazioni e personaggi originali, 
                  stravaganti e vagamente strampalati, quali appaiono, ad esempio, 
                  nelle pagine sulla Comune vegetaliana. Ma l’ironico distacco 
                  con il quale l’autore rimarca la frattura definitiva con 
                  le sue precedenti esperienze politiche e sociali, lascia trasparire 
                  pur sempre una venatura di affetto, e anche di rispetto, che 
                  non fatichiamo a credere più che sincera e motivata dall’avere 
                  riconosciuto, invecchiando, la peculiare dimensione spirituale 
                  ed intellettuale del pensiero libertario. E del resto l’anarchismo 
                  francese, forse perché cosmopolita crocevia delle obbligate 
                  migrazioni degli anarchici di mezzo mondo, non ha mancato di 
                  dar vita a personaggi e correnti filosofiche che spesso, ben 
                  più che in Italia, hanno rischiato di apparire come bizzarre 
                  caricature di un estremismo esistenziale da noi sostanzialmente 
                  sconosciuto.
 Se, infatti, le correnti organizzatrici e sindacaliste sono 
                  state, in Francia, particolarmente forti e capaci di influenzare 
                  anche il percorso del nostro anarchismo organizzato, altrettanta 
                  importanza e diffusione hanno avuto quelle tendenze che esprimevano 
                  un rifiuto totale dell’azione sociale e di propaganda 
                  per rifugiarsi ora nell’illegalismo più o meno 
                  estremo, ora nella edificazione di una vita «altra» 
                  e separata rispetto alla società. Tendenze che non hanno 
                  mancato di esprimersi ovunque fossero diffuse le idee libertarie, 
                  ma che in Francia più che altrove hanno trovato fortuna 
                  e ragion d’essere. Se da una parte, infatti, i lettori 
                  del «Père Peinard» ritrovavano nello scoppiettante 
                  argot di Emile Pouget e dei suoi collaboratori il linguaggio 
                  dei bassifondi e di quel sottoproletariato urbano, tanto generoso 
                  quanto tenacemente illegalista e pericoloso per l’ordine 
                  borghese, a cui appartenevano, dall’altra parte diversi 
                  discepoli della diade Libertà e Uguaglianza sperimentavano, 
                  nella più coerente delle pratiche nonviolente, anche 
                  se non sempre legalitarie, gli insegnamenti della scuola neo-Malthusiana, 
                  precorritrice della liberazione sessuale degli anni sessanta, 
                  espressi dai vari Charles Albert, Eugéne e Jeanne Humbert, 
                  Mauricius, René Chaughi, Sebastien Faure ed E. Armand. 
                  Profeti di un mondo nuovo, libero dai condizionamenti di una 
                  morale codina e repressiva, assertori della necessità 
                  che un’umanità sempre più soffocata dalle 
                  convenzioni sociali trovasse finalmente la capacità di 
                  uniformarsi alle sole leggi accettabili (vale a dire quelle 
                  naturali), questi anarchici, che alcuni begli spiriti avrebbero 
                  potuto trovare stravaganti, pagarono comunque con lunghi anni 
                  di carcere e di emarginazione il fio della loro irriducibile 
                  estraneità ad ogni forma di potere. Liberi dagli schematismi, 
                  attenti solamente al rispetto delle individualità altrui 
                  e delle rispettive differenze, gli uni e gli altri, tanto i 
                  proletari illegalisti quanto i sognatori di un mondo nuovo, 
                  si ritrovavano a discutere, probabilmente, nel Centro anarchico 
                  vegetaliano del XIII Arrondissement, quello stesso al quale 
                  Malet, avendolo evidentemente frequentato, si è ispirato, 
                  in questo suo Nebbia sul ponte di Tolbiac.
  Massimo Ortalli
  
                  
                    «Maledetto anarchico!»di Léo Malet
 Gli restituii prima la stretta, poi la mano e risi: «Per fortuna che non sono un poliziotto. Altrimenti la 
                  segnalerei ai suoi superiori. Cos’è questo vocabolario? 
                  Aderisce forse a una cellula comunista?».
 Replicò anche lui ridendo:
 «È a lei che bisogna chiederlo».
 «Io non sono comunista».
 «È stato anarchico. Forse lo è ancora. Per 
                  me, è la stessa cosa».
 «È ormai molto tempo che non lancio bombe», 
                  sospirai.
 «Maledetto anarchico!», ridacchiò l’ispettore.
 Sembrava divertirsi sul serio.
 «Oh! Ma smettiamola! Signor Mac Carthy», dissi. 
                  «Ha mai sentito parlare di Georges Clemenceau?».
 «La Tigre?».
 «Si, la Tigre. O, se preferisce, il Primo Poliziotto di 
                  Francia, come si è autodefinito lui. Purché mi 
                  lasci in pace, le ripeterò quello che ha detto un giorno 
                  la Tigre, detto o scritto, cito a memoria: “L’uomo 
                  che a sedici anni non è stato anarchico è un imbecille”».
 «Davvero? La Tigre ha detto questo?».
 «Si, vecchio mio. Non lo sapeva?».
 «Ma si, certo...».
 Sospirò:
 «…La Tigre!…».
 E con un gesto automatico gettò uno sguardo in direzione 
                  dell’orto botanico.
 Poi, tornando a me:
 «…La sua citazione mi sembra incompleta. Non ha 
                  per caso aggiunto: “…ma lo è – imbecille 
                  – anche chi è ancora anarchico a quaranta”, 
                  o qualcosa del genere?».
 «È esatto. Ha aggiunto qualcosa del genere».
 «E allora?».
 Sorrisi:
 «Tra le affermazioni di Clemenceau bisogna fare una cernita. 
                  Io ne scarto non poche».
 Sorrise a sua volta:
 «E lei però non è un imbecille!».
   «Un buon amico»di Léo Malet
 «Forse non si considerava né Martine Carol, né 
                  Juliette Greco. Era un tipo originale». «Sì. Mi dia qualche informazione su di lui. Al 
                  punto in cui siamo… tanto è morto. Le chiacchiere 
                  non possono più fargli alcun male».
 «Cosa vuole che le dica? Era un bel tipo, un buon amico. 
                  Era calzolaio e, a causa del suo mestiere, che esercitava a 
                  intermittenza, lo chiamavamo il Ciabattino. Sempre per via del 
                  suo mestiere lo chiamavamo anche Liabeuf sebbene non avesse 
                  mai ucciso nessuno, né uno dei vostri colleghi né 
                  un normale cittadino».
 «Effettivamente sono i nomi che figurano nel casellario 
                  giudiziario. Allora? Nessun errore?».
 Prima di rispondere esaminai un’altra volta, e molto a 
                  lungo, il viso severo, indurito dalla morte. Gli tolsi i baffi, 
                  gli aggiunsi i capelli biondi indisciplinati, capelli da anarchico. 
                  Quello e il naso, tornava tutto.
 «Un malfattore onesto»di Léo Malet
 «Torniamo al tatuaggio», disse. «Ricorda 
                  cosa rappresenta?» «Tatuaggi, al plurale. Una moneta sul braccio e “Né 
                  Dio né Padrone” sullo stomaco».
 «Esatto», disse il poliziotto.
 «… una moneta».
 Prese il lenzuolo da sotto il mento del morto per abbassarlo 
                  fino alla vita. L’iscrizione sovversiva, che decorava 
                  i suoi pettorali, era di un blu slavato. La D di Dio non era 
                  più visibile. Una brutta ferita d’arma bianca l’aveva 
                  cancellata in modo più definitivo di quanto avrebbe saputo 
                  fare un professionista. Un altro profondo sfregio sottolineava 
                  la parola “Padrone”. Sul grasso del braccio destro 
                  era disegnata una moneta con l’immagine della Seminatrice.
 «Né Dio né Padrone», sospirò 
                  l’ispettore. «Non molto originale per un anarchico».
 «E stupido, soprattutto», dissi. «Anche se 
                  ero più giovane di lui, e di parecchio, all’epoca 
                  ero un ragazzino, ricordo di averlo rimproverato per esserselo 
                  fatto».
 «Non le piaceva lo slogan? Credevo che…».
 «Non amavo, e continuo a non amare, i tatuaggi. Bisogna 
                  essere imbecilli per farsi tatuare».
 «Oh! Lo sono spesso anche i re!».
 «Una cosa non nega l’altra. E poi, i re hanno la 
                  pappa pronta. Possono concedersi qualsiasi fantasia. Mentre… 
                  Cerchiamo di capirci, ispettore, non era esattamente un santo, 
                  per lo meno non del genere che viene abitualmente venerato…».
 Tirai su il lenzuolo fino alla calvizie quasi oscena del cadavere. 
                  Il guardiano in casacca grigia completò l’opera 
                  con un gesto preciso e meticoloso, quasi materno.
 «… Anche se non era apertamente favorevole all’illegalità, 
                  Lenantais non era nemmeno del tutto contrario», proseguii. 
                  «Prima che lo conoscessi era stato coinvolto in una storia 
                  di banconote false. Ecco perché ho fatto riferimento 
                  alle sue impronte. Ad ogni modo, era stato al fresco, vero?»
 «Esatto. Si è preso due anni».
 «Quando l’ho conosciuto era tranquillo e, glielo 
                  ripeto, anche se non si dichiarava apertamente a favore dell’illegalità 
                  perché non voleva fare proselitismi, la questione non 
                  era risolta, si capiva che, presto o tardi, l’illegalismo 
                  lo avrebbe sedotto di nuovo. E io pensavo che quando uno è 
                  destinato a entrare in aperto conflitto con la società 
                  non deve esporsi e attirare inutilmente l’attenzione. 
                  I mezzi di identificazione dei recidivi sono già sufficientemente 
                  numerosi. Inutile fornirne dei supplementari ai poliziotti».
 I1 guardiano spalancò gli occhi rotondi. L’ispettore 
                  rise:
 «Benissimo! Vedo che, malgrado la giovane età, 
                  dava già ottimi consigli!».
 Gli feci eco. A ciascuno il suo turno:
 «Ho conservato questa qualità”.
 «Bene, e dove ha conosciuto questo fuorilegge?».
 «Non lontano da qui. Anche questo è buffo, no? 
                  In trent’anni non si può dire di aver fatto molta 
                  strada. L’ho conosciuto al Centro vegetaliano di rue de 
                  Tolbiac».
 «…riano. Voleva dire vegetariano».
 «No, vecchio mio. Ma cosa vi insegnano a scuola? Vegetaliano. 
                  I vegetariani non mangiano carne, ma si concedono uova e latticini. 
                  I vegetaliani invece mangiano, mangiavano, almeno quelli che 
                  ho conosciuto io, non so se ne esistano ancora, esclusivamente 
                  vegetali, con appena un filo d’olio di oliva per condirli. 
                  E nemmeno loro erano dei puri. Ce n’era uno che sosteneva 
                  che l’unico modo accettabile di consumare l’erba 
                  era brucarla a quattro zampe in un campo».
 «Ma dice sul serio? Che mondo!».
 «Sì, uno strano mondo. Ho passato la vita a circondarmi 
                  di fenomeni. Ne ho una bella collezione nei miei ricordi».
 Puntò l’indice verso il corpo rigido:
 «E Lenantais? Sappiamo che non fumava, non beveva, non 
                  mangiava carne. Era anche lui un pazzo di quel genere?».
 «No. Cioè, ai vostri occhi potrebbe anche sembrare 
                  un pazzo, ma di un’altra categoria. Le racconto un episodio. 
                  C’è stato un periodo in cui era quasi un barbone. 
                  Anzi, senza il quasi. Viveva alla bell’e meglio…».
 «Rubacchiando qua e là?».
 «Non credo. Oppure visitava solo negozi da fame, perché 
                  non mangiava tutti i giorni. Ora, a quell’epoca era tesoriere 
                  di una piccola organizzazione. Gli avevano dato l’incarico 
                  prima che si riducesse in miseria…».
 «Capito. Ha sgraffignato il malloppo?».
 «No, appunto. C’erano cento o duecento franchi in 
                  cassa. Era il 1928 e allora erano una discreta somma. Gli altri 
                  se ne erano fatti un vero e proprio cruccio e non osavano parlarne, 
                  pensando, come lei, che lui se ne fosse accaparrata sicuramente 
                  una parte. E invece no! Restava giorni senza mangiare accanto 
                  a quel malloppo senza toccarlo. Erano i soldi degli amici, dell’organizzazione. 
                  Ecco che tipo di uomo era Albert Lenantais quando l’ho 
                  conosciuto».
 «Insomma, un malfattore onesto!», ironizzò 
                  l’ispettore.
 A dieci gradi sottozerodi Léo Malet
 Tornò a sedersi sullo sgabello. Poco dopo l’adolescente 
                  raggiunse il proprio letto e vi si distese. Da dove si trovava, 
                  con le mani incrociate sotto la nuca, poteva vedere la sveglia. 
                  Alle quattro sarebbe dovuto andare al lavoro. Maledetta neve! 
                  Se fosse caduta fitta come il giorno prima non sarebbe stato 
                  per niente piacevole vendere i giornali sotto la burrasca, ma 
                  bisognava pur mangiare. Non doveva lasciarsi abbattere come 
                  lo spagnolo. No, non doveva. «Albert Lenantais sembrava 
                  disapprovarmi», pensò l’adolescente, «quando 
                  ho parlato di viaggiare senza biglietto». E però… 
                  se quello che si raccontava era vero, il Ciabattino aveva fatto 
                  due anni di prigione per complicità con dei falsari. 
                  L’adolescente si sorprese a porsi delle domande su Lenantais, 
                  detto il Ciabattino, detto Liabeuf. Cosa che si rimproverò 
                  l’istante dopo. Tra anarchici non si fanno domande. L’adolescente 
                  smise di fissare le lancette della sveglia, si sistemò 
                  sul letto e abbracciò con lo sguardo l’intera fila 
                  di miseri letti. In fondo alla stanza, tre uomini quasi mescolavano 
                  le loro opulente capigliature per discutere aspramente un punto 
                  delicato di argomento sociobiologico. Più vicino, steso 
                  sul letto, sognante, calmo e solitario, un giovane fumava beatamente 
                  una pipa dal lungo cannello. Lo chiamavano il Poeta, ma nessuno 
                  aveva mai letto i suoi versi. Sotto le coperte, lo spagnolo 
                  si agitava. Il suo vicino russava protetto da un manifesto che 
                  annunciava per la sera stessa, alla Casa dei Sindacati, boulevard 
                  Auguste-Blanqui, la seduta del «Club degli Insorti». 
                  Argomento trattato: Chi è il colpevole? La Società 
                  o il Bandito? Oratore: André Colomer. Quello che russava 
                  aveva passato la notte, con un bicchiere di latte in pancia 
                  come unico viatico, a incollare quei manifesti in tutto l’arrondissement, 
                  a dieci gradi sottozero, e da bravo attacchino clandestino si 
                  era preso cura di strappare un angolo di ogni manifesto, per 
                  ingannare la polizia, per farle credere che in quel brandello 
                  scomparso, verosimilmente strappato da vandali, fossero stati 
                  apposti i sigilli obbligatori. Il suo armamentario, un secchio 
                  da marmellata da cui emergeva il manico di un pennello, riposava 
                  alla testa del letto, accanto a uno zaino vuoto e a una cassa 
                  straripante di giornali. 
                  
                    |  |    Mancanza di sinceritàdi Léo Malet
 «Ma lascia perdere, Lacorre», intervenne Lenantais 
                  senza muoversi dalla sua postazione, senza nemmeno sollevare 
                  gli occhi dal volantino che stava leggendo. «Lascia perdere. 
                  Cosa vuoi che faccia? Ti credi forse più anarchico di 
                  lui?». La sua voce era fredda, tagliente come una lama. Lenantais non 
                  amava Lacorre. Sentiva istintivamente, sotto gli eccessi verbali, 
                  una mancanza di calore interiore e di sincerità.
 «Certamente», rispose l’altro.
 Lenantais abbandonò il volantino:
 «Mi domando se tu sappia anche solo lontanamente cosa 
                  significhi. È bello arrivare un giorno e dire “Sono 
                  un compagno”. È molto bello, semplice e facile. 
                  Da noi chiunque può entrare e uscire come vuole. Non 
                  si fanno domande a chi si presenta».
 «Ci mancherebbe altro!».
 «Ciò non significa che secondo me un anarchico 
                  sia un’altra cosa, ecco tutto».
 «Spiegamelo allora!».
 «Non ho tempo da perdere».
 «In ogni caso», disse Lacorre, «un anarchico 
                  che ha il senso della dignità non adotta un’attitudine 
                  passiva e rassegnata come questo giovanotto. Non si abbassa 
                  a vendere questa robaccia borghese. Si difende, se la cava, 
                  si mette a rubare…».
 «Eccoci al punto!».
 «Esattamente!»
 «Sono tutte stronzate! Ognuno è libero di fare 
                  la vita che vuole purché non offenda in nulla la libertà 
                  dei compagni. Lui vende i giornali. Tu simuli incidenti sul 
                  lavoro. Siamo tutti liberi…».
 «Se gli illegalisti…».
 Lenantais si alzò:
 «Gradirei non essere seccato con l’illegalismo e 
                  la riconquista individuale», articolò. (Il naso 
                  di traverso fremeva). «È un argomento vietato agli 
                  incapaci che simulano incidenti sul lavoro e sudano di paura 
                  all’annuncio di una visita di controllo nella sede dell’assicurazione. 
                  Fino a quando non hai assalito un esattore, devi solo chiudere 
                  il becco. Parlare! Parlare! Ne ho conosciuti anche troppi di 
                  questi teorici bravi a parlare che però restavano tranquilli 
                  a casa loro mentre altri poveri coglioni passavano all’azione 
                  e si facevano beccare».
 «Soudy, Callemin, Garnier…», cominciò 
                  Lacorre.
 «Hanno pagato», l’interruppe Lenantais. «Hanno 
                  pagato due volte. Hanno pagato e io li rispetto. Ma tu, se li 
                  avessi capiti almeno un po’, se avessi capito quanto erano 
                  superiori a un semplice furfante come te, non li offenderesti 
                  con i tuoi omaggi».
 Lacorre si imporporò:
 «Per parlare così hai forse assalito anche tu un 
                  bancario?».
 «Anch’io ho pagato. Mi sono beccato due anni di 
                  prigione per aver falsificato del denaro, i compagni te lo possono 
                  raccontare. Non ne vado assolutamente fiero, ma mi sembra un’altra 
                  cosa rispetto ai finti incidenti sul lavoro».
 «Non continuerò così per sempre», 
                  gridò Lacorre. «Un giorno mi ci butterò 
                  davvero e vedrete di cosa sarò capace. Lo farò 
                  ruzzolare anch’io un esattore».
 «Oh! Non ne dubito», lo canzonò Lenantais. 
                  «Mi stupirebbe se tu non riuscissi a fare una cosa così 
                  intelligente. E quando avrai fatto fuori uno di quegli imbecilli 
                  che portano in giro delle fortune in cambio di un tozzo di pane, 
                  finirai in galera o salirai alla ghigliottina, senza nemmeno 
                  aver avuto il tempo di comprarti un cappello con il ricavato 
                  del colpo. Io ci tengo alla mia vita. E non mi sorride affatto 
                  l’idea di dispiegare la mia individualità tra quattro 
                  assi o in galera. L’ideale, vedi…». (Si mise 
                  a ridere). «… sarebbe assalire un esattore senza 
                  spargimento di sangue e senza che la cosa si venga a sapere, 
                  e vivere di quella fortuna acquisita in modo disonesto, ammesso 
                  che esistano fortune che non siano state acquisite in modo disonesto, 
                  nella totale impunità. Ammetto però che un progetto 
                  del genere non è per niente facile da realizzare».
 Lacorre alzò le spalle con uno sguardo di pietà:
 «Direi di sì. Queste sono fesserie. E grosse anche. 
                  Mi fanno venire il mal di pancia!».
 Si alzò e si avviò verso l’uscita. Furioso, 
                  sbatté la porta dietro di sé. Il suo interlocutore 
                  rise piano e, siccome la notte iniziava ad allungare dappertutto 
                  le sue ombre, andò a manovrare un interruttore. Qualche 
                  lampadina anemica, fissata al soffitto dell’ampia sala, 
                  diffuse una luce giallastra. Lenantais tornò a sedersi 
                  accanto alla stufa. Gli uomini dai capelli lunghi continuavano 
                  a discutere a voce bassa, troppo assorti nel loro dibattito 
                  per interessarsi a ciò che aveva visto opporsi – 
                  ancora una volta – Lenantais a Lacorre. Il Poeta aspirava 
                  silenziosamente dalla pipa. L’adolescente si dedicava 
                  ai propri calcoli. Lo spagnolo e l’attacchino dormivano.
 Brani tratti da: Léo Malet, Nebbia sul ponte di 
                  Tolbiac, Fazi Editore, Roma, 2002.    Una specie riconoscibiledi E. Armand
 Della solidarietà imposta L’uomo è un essere socievole e l’individualista 
                  che fa parte del genere umano non fa eccezione alla regola. 
                  L’essere umano non è socievole per puro caso, poiché 
                  la sua organizzazione o costituzione fisiologica lo costringe 
                  a ricercare, per completarsi, per riprodursi, uno dei suoi simili 
                  di sesso diverso. In linea di massima, si può pertanto 
                  costatare che gli uomini praticano la sociabilità senza 
                  riflessione o sotto la minaccia di una violenza: a scuola, in 
                  caserma, più tardi all’officina, essi vivono una 
                  gran parte della loro esistenza in comune con degli individui 
                  verso i quali nessuna simpatia li spinge; nelle grandi città, 
                  dimorano in immensi edifici, altra specie di caserme, uscio 
                  a uscio con dei vicini ai quali non li unisce alcuna affinità 
                  intellettuale o morale. Sovente, si sposano anche senza conoscersi, 
                  senza avere alcuna conoscenza dei rispettivi bisogni.
 
                  
                    |  |  Gli individualisti anarchici considerati come “una 
                  specie”Ora, è appunto questo che non vuole l’individualista 
                  anarchico. Egli non intende essere schiavo della sociabilità 
                  imposta, più di quanto intenda mettersi sotto il giogo 
                  della solidarietà forzata. Egli potrà associarsi 
                  ai suoi compagni, agli individualisti, a quelli del «suo 
                  mondo», della «sua specie». «A quelli 
                  della sua specie» è proprio la espressione adatta, 
                  giacché non è possibile negare che gli individualisti 
                  formino, in mezzo al genere umano, una specie riconoscibile 
                  da delle caratteristiche psicologiche ben determinate. Gli individui 
                  che, scientemente, ripudiano le dominazioni e gli sfruttamenti 
                  di ogni specie, vivono o tendono a vivere senza idoli o padroni: 
                  cercano di riprodursi in altri esseri al fine di perpetuare 
                  la loro specie e di continuare la loro fatica intellettuale 
                  o pratica, la loro opera di emancipazione e, insieme, di distruzione: 
                  codesti individui formano bene una specie a parte, nel genere 
                  umano, una specie assai differente dalle altre specie di uomini, 
                  così come, nella specie canina, il terranova differisce 
                  dal botolo.
 Intendiamoci bene: non si tratta già di fare dell’individualista 
                  anarchico un “superuomo” fra gli uomini, più 
                  di quanto non si tratti di fare del terranova un “supercane” 
                  fra i cani. Esiste pertanto una differenza: il terranova è 
                  un tipo fisso che non evolverà; il tipo individualista 
                  evolverà. Esso compie nel genere umano, la funzione esercitata 
                  dalle specie dei veggenti e dei precursori nella evoluzione 
                  degli esseri viventi. Si può anche assimilarlo a quei 
                  tipi meglio dotati, più vigorosi, più atti alla 
                  lotta per la vita, che appaiono ad un certo momento in seno 
                  ad una specie e finiscono con determinare il divenire di questa 
                  specie. Con le loro imperfezioni, le loro manchevolezze, i loro 
                  errori, gli individualisti anarchici, costituiscono, noi pensiamo, 
                  allo stato latente il tipo dell’uomo futuro: l’individuo 
                  dallo spirito libero, dal corpo sano, dalla volontà educata, 
                  pronto all’avventura, disposto all’esperienza, vivente 
                  pienamente la vita, ma che non vuole essere un dominato più 
                  che un dominatore.
 Il «mutuo appoggio» nella specie. Il cameratismoL’individualista non è, dunque, un isolato nella 
                  sua specie. Fra di loro gli individualisti praticano il «cameratismo»: 
                  come tutte le specie in costante pericolo d’essere attaccate, 
                  essi tendono istintivamente alla pratica del «mutuo appoggio 
                  nella specie». Ritorneremo più tardi su talune 
                  delle forme che può assumere questo «mutuo appoggio». 
                  Comunque, esso tende alla scomparsa della sofferenza evitabile 
                  nella specie: non è un compagno chiunque tenda, al contrario, 
                  a prolungare o ad aumentare la sofferenza dei propri compagni.
 L’individualista incita colui che vuol procedere con lui 
                  a ribellarsi praticamente contro il determinismo dell’ambiente 
                  sociale, ad affermarsi individualmente, a forgiare la propria 
                  personalità interiore, a rendersi quanto più possibile 
                  indipendente da tutto l’ambiente morale, intellettuale, 
                  economico che lo circonda. Egli spingerà l’ignorante 
                  ad istruirsi, l’indolente a reagire, il debole a diventar 
                  forte, il supino a raddrizzarsi. Egli indurrà coloro 
                  che sono male dotati ed i meno atti a trarre soltanto da loro 
                  stessi tutte le risorse possibili, ed a non fare assegnamento 
                  su gli altri.
 Brani tratti da: Emile Armand, Iniziazione individualista 
                  anarchica, Firenze, 1956.  |