| Questo scritto si propone 
                  di costituire un piccolo contributo al dibattito che si sta 
                  svolgendo in gran parte della sinistra radicale ed alternativa 
                  sui temi della violenza e della non violenza. Esso si presenta 
                  solamente come il punto di vista, la semplice opinione (anche 
                  per quanto riguarda le definizioni adottate), di una individualità 
                  che si riconosce, anche se non acriticamente, nel poderoso e 
                  variegato movimento che in questi anni ha posto all’ordine 
                  del giorno la costruzione di un mondo diverso dall’attuale, 
                  basato sulla libertà, la fratellanza, l’uguaglianza 
                  nelle relazioni tra tutti gli esseri umani e tra questi e la 
                  natura. Non ha l’ambizione di essere “la Verità”, 
                  ma spera di comunicare altri spunti di riflessione e arricchire, 
                  quindi, il dibattito già in corso, così utile 
                  specialmente nell’attuale realtà che sembra dominata 
                  dal binomio guerra-terrorismo.
   Significato della parola «violenza» La «violenza» è il «violare» 
                  qualcosa o qualcuno, imporre, cioè, il proprio volere 
                  a chi, senza questa imposizione, non lo accetterebbe. Tale imposizione e costrizione può avvenire mediante 
                  la forza fisica (costrizione fisica) o anche mediante altri 
                  mezzi, per esempio il ricatto, la menzogna, la promessa di un 
                  «premio» che poi, una volta ottenuto lo scopo che 
                  ci si era prefissati, non si elargirà più.
 Lo scopo della violenza è quello di sottomettere l’altro, 
                  di utilizzarlo per i propri fini senza il suo consenso che deriva 
                  da una mente pienamente cosciente, di trasformarne la personalità, 
                  di opprimerlo, per soddisfare determinati interessi.
 Da ciò deriva che tutte le forme di potere sono violenza, 
                  proprio perché chi esercita il potere impedisce a chi 
                  il potere lo subisce di esprimere in pienezza la sua personalità, 
                  di essere, quindi, libero.
 Per esempio, il potere statale (potere politico) impedisce ai 
                  cittadini di autogestirsi senza delegare ad altri la cura dei 
                  propri interessi e costringe i cittadini stessi ad obbedire 
                  a delle leggi che possono essere, nel migliore dei casi, una 
                  ripetizione distorta di principi morali che ciascuno può 
                  trovare in se stesso, senza essere costretto a seguirli, oppure 
                  codici che possono arrivare addirittura alla schiavitù 
                  dei cittadini, come nel caso della leva militare e del servizio 
                  civile obbligatori.
 Un altro esempio è il potere religioso (potere morale), 
                  che promette una vita beata futura a chi segue acriticamente 
                  i sui dogmi e la sua gerarchia, distorcendo anche gli insegnamenti 
                  di colui al quale si afferma di ispirarsi, per esempio Gesù 
                  Cristo nel caso della gerarchia ecclesiastica.
 Infine, si può ricordare il potere capitalista (potere 
                  economico), che costringe le persone a vivere per lavorare, 
                  soddisfacendo in primo luogo tale potere, e non il contrario, 
                  impedendo a chi lavora di essere se stesso anche nel lavoro, 
                  non valorizzando la sua opera che, essendo opera di essere umano, 
                  non ha prezzo. Il lavoratore che non si piega a tale potere 
                  rischia di essere ancor più emarginato, vessato, sopraffatto 
                  (mobbing) dal potere stesso.
 Si può, quindi, affermare che la violenza è presente 
                  dovunque esiste una gerarchia nella quale «chi sta sopra» 
                  opprime «chi sta sotto» impedendogli di essere pienamente 
                  se stesso.
 Nel vasto panorama dei casi di violenza esiste anche una violenza 
                  che «a fin di bene» è esercitata da genitori 
                  nei confronti dei figli, quando, ad esempio, si costringe un 
                  figlio ad intraprendere la stessa professione del padre, mentre 
                  il figlio, avendo una personalità sua propria, può 
                  avere aspirazioni e interessi diversi.
 È indubbio, comunque, che la violenza più eclatante 
                  è quella fisica, che offende la persona nella sua fisicità, 
                  nel suo corpo: per esempio l’aggressione, il ferimento, 
                  la tortura, lo stupro, ecc., fino ad arrivare al culmine della 
                  violenza fisica: l’uccisione, di cui la pena di morte 
                  costituisce la sua versione statale, cioè legale.
 D’altra parte, si può notare che tutte le leggi 
                  dello Stato, ed anche tutto il suo apparato repressivo, nel 
                  corso della storia non hanno mai impedito e sradicato la violenza 
                  e, quindi, il suo culmine, l’uccisione.
   Significato della parola «anarchia» «Anarchia» significa assenza di governo. Possiamo includere nella parola «governo» tutte 
                  le forme di potere esercitato dall’uomo sull’uomo. 
                  Anarchia significa, conseguentemente, forma di convivenza sociale 
                  basata sull’assenza di ogni forma di potere e, quindi, 
                  di oppressione che impedisce il libero sviluppo delle capacità 
                  e, quindi, della personalità di ogni individuo: in altre 
                  parole, assenza di violenza, completa libertà.
 Ciò presuppone che i rapporti sociali (rapporti tra gli 
                  individui) nell’anarchia siano basati sul riconoscimento 
                  reciproco delle diversità e l’azione comune degli 
                  individui sia fondata su una coincidenza di interessi, valori, 
                  caratteri, ecc., che può essere anche non permanente: 
                  il libero accordo, su cui inevitabilmente si basano i rapporti 
                  personali in una società anarchica, presuppone il suo 
                  scioglimento ogni qualvolta uno dei contraenti non si riconosce 
                  più nell’accordo stesso.
 Si può obbiettare che l’anarchia non è altro 
                  che una condizione di disordine della società, perché 
                  ogni individuo per sua natura è portato a salvaguardare 
                  il suo proprio interesse e non quello della collettività. 
                  Ma questo è innanzitutto il tratto peculiare delle nostre 
                  società, dove chi ha il potere lo esercita principalmente 
                  per i propri interessi e impedisce a chi il potere lo subisce 
                  di avere altri interessi e aspirazioni. Viceversa, lasciando 
                  le varie individualità libere dai lacci del potere esercitato 
                  o subito, si dà ad esse l’opportunità di 
                  potenziare le proprie capacità con la condivisione delle 
                  personalità che si attua con la libera unione ed associazione.
   Confronto tra «violenza» ed «anarchia» Da tutto ciò si deduce che i termini «violenza» 
                  ed «anarchia» sono tra loro antitetici e, quindi, 
                  inconciliabili, perché l’una presuppone la mancanza 
                  dell’altra e viceversa. Per esempio, la violenza del potere statale (politico) trova 
                  la sua antitesi nel libero accordo tra le individualità. 
                  In questo caso, le decisioni prese a maggioranza in condizioni 
                  di democrazia diretta, cioè con la partecipazione di 
                  tutte le individualità, non vincolano in nessun modo 
                  chi non accetta tali decisioni, che può sperimentale 
                  da solo, se vuole, se il suo punto di vista è giusto 
                  o si scontra contraddittoriamente con la realtà oggettiva.
 Anche il potere religioso (morale) esercitato da una gerarchia 
                  verrebbe meno in una società anarchica, in quanto ciascuna 
                  individualità potrebbe adorare Dio «in Spirito 
                  e Verità» (Giovanni 4, 23) nella sua infinita purezza, 
                  senza condizionamenti, unendosi con autenticità con chi 
                  condivide questa sua fede e vivendo in accordo con i principi 
                  morali che trova in se stesso.
 Infine, il potere capitalista (economico) sfruttatore verrebbe 
                  sostituito dall’associazione dei produttori legati tra 
                  loro e con i consumatori (di prodotti materiali, servizi, prodotti 
                  spirituali, cioè artistici, ecc.) da vincoli non gerarchici 
                  e autoritari, ma ispirati al principio del mutuo appoggio, dove 
                  ciascuno sia realmente se stesso, cioè possa esprimere 
                  veramente e liberamente le proprie capacità, eventualmente 
                  con l’aiuto degli altri.
 In ogni caso, la violenza si basa su rapporti gerarchici, cioè 
                  autoritari, incentrati sulla mancanza di un rispetto pieno della 
                  personalità di ciascuno, mentre l’anarchia, al 
                  contrario, cancellando ogni forma di oppressione e sfruttamento, 
                  si basa sul pieno, cioè libero, sviluppo di ciascuna 
                  persona nel rispetto e nel concorso di ogni individualità.
 Se la violenza è in palese contraddizione con l’anarchia, 
                  occorre, tuttavia, distinguere tra l’uso della violenza 
                  e l’utilizzo della forza, anche fisica, per impedire o 
                  rimuovere un atto di violenza, cioè per legittima difesa.
 Penso che chiunque sia di animo nobile non possa non reagire 
                  alla vista di un’azione di violenza che si stia commettendo 
                  nei confronti di una persona inerme e faccia di tutto per respingere 
                  con energia gli aggressori.
 Anche se per neutralizzare i violenti si dovesse non intenzionalmente 
                  ucciderli, ciò non costituirebbe un atto di violenza.
 Anche l’utilizzo della forza da parte degli oppressi per 
                  rimuovere una struttura violenta, cioè una qualsiasi 
                  forma di potere, non costituirebbe di per sé un’azione 
                  di violenza, ma di legittima difesa della propria libertà.
 La forza si trasforma in violenza quando si spinge al di là 
                  di tutto ciò, quando cioè si trasforma da difesa 
                  a offesa della dignità della persona che si neutralizza, 
                  cioè in vendetta.
 Tuttavia, l’uso della forza per rimuovere una situazione 
                  di ingiustizia non va confuso con le guerre promosse da governi 
                  per scopi «umanitari», per portare cioè «la 
                  democrazia» in paesi retti da dittature. Lascio al lettore 
                  giudicare se bombardamenti che colpiscono gente innocente ed 
                  inerme costituiscano un buon esempio di utilizzo della forza 
                  per la legittima difesa di quei popoli stessi o, invece, di 
                  uso della violenza, che per difendere ed estendere il potere 
                  di caste politiche ed economico-finanziarie, non si ferma neanche 
                  di fronte alla dignità ed alla vita dell’essere 
                  umano più indifeso.
   Coerenza tra fini e mezzi Errico Malatesta scrisse, senza per questo volere ridurre ad 
                  uno slogan il suo articolato pensiero in proposito: «Anarchia 
                  vuol dire non-violenza» («Pensiero e Volontà», 
                  1 settembre 1924). Conseguentemente, si pone per gli anarchici il problema della 
                  coerenza tra fini e mezzi.
 Infatti, chi utilizza la violenza per combattere il potere si 
                  trasforma egli stesso in oppressore, perché la violenza, 
                  corrompendolo e distogliendolo dai fini che si era proposto, 
                  gli impone lo stesso carattere, la stessa personalità 
                  dell’oppressore che aveva intenzione di combattere.
 Basti pensare, ad esempio, alle rivoluzioni più importanti 
                  della storia dell’umanità: la Rivoluzione Francese 
                  del 1789 e la Rivoluzione Russa del Novembre 1917. Nel primo 
                  caso, l’utilizzo del terrore portò il governo rivoluzionario 
                  più conseguente, quello giacobino, a Termidoro e poi 
                  all’imperialismo napoleonico. La Rivoluzione Bolscevica, 
                  che aveva l’intenzione di costruire una coerente società 
                  socialista, portò invece, ad un regime che represse, 
                  come nella Grande Rivoluzione, i suoi stessi figli.
 Dopo tanti fallimenti storici e tanti lutti non resta che considerare 
                  la possibilità concreta di far coincidere tra loro mezzi 
                  e fini: la costruzione di una società libertaria. Creare, 
                  cioè, dal basso, a partire da noi stessi, relazioni non 
                  gerarchiche, non autoritarie, cioè non violente, in ogni 
                  ambito del nostro agire: da ogni forma di associazionismo, dal 
                  volontariato, dalle vere cooperative di produzione, di consumo 
                  e di servizi, non quelle false che in realtà sono imprese 
                  capitalistiche dietro le quali si nascondono forme di sfruttamento 
                  tra le peggiori, dalle nostre famiglie e dai nostri rapporti 
                  di amicizia, che possono nascere anche in un ambiente altamente 
                  oppressivo, come quello lavorativo, fino ad investire tutta 
                  la società umana nel suo complesso.
 E quando, eventualmente, qualche struttura oppressiva, qualche 
                  potere gerarchico si opporrà a tutto ciò, sarà 
                  nostro compito difenderci, difendere cioè le nostre relazioni 
                  personali, le nostre capacità individuali, la nostra 
                  libertà, anche con l’uso della forza, se necessario, 
                  ma sempre considerando l’altro, anche se ci opprime, come 
                  una persona, non solo da rispettare nella sua unicità, 
                  ma da conquistare con il nostro amore.
 È la lotta per questo nostro obbiettivo che dà 
                  senso alla nostra vita.
  Paolo Soragna
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