| Per misurare in ampiezza 
                  e profondità i danni provocati alla stabilità 
                  mondiale dal texano dagli occhi bovini e dalla sua corte, basta 
                  sfogliare giorno dopo giorno i giornali e scorrere le immagini 
                  delle televisioni. Appare sempre più chiaro che gli attentati, 
                  le ritorsioni, i sabotaggi e gli attacchi mirati esulano sempre 
                  di più dalle logiche di conflitti circoscrivibili in 
                  territori specifici, per assumere le dimensioni di una grande 
                  e unica guerra di tutti contro tutti che si sviluppa su piani 
                  diversi e trasversali.    Rozza concezione All’inizio del conflitto iracheno, avevo scritto su questa 
                  stessa rivista che la destabilizzazione del mondo arabo che 
                  sarebbe derivata dalle operazioni belliche avrebbe provocato 
                  un effetto domino molto diverso da quello che si aspettava la 
                  Casa Bianca, la cui rozza concezione della esportabilità 
                  della forma democratica occidentale in un mondo così 
                  diverso come quello mediorientale, e per di più con l’uso 
                  delle armi, avrebbe invece compattato l’intero mondo arabo 
                  contro l’Occidente, con conseguenze catastrofiche. Non 
                  era una previsione difficile e si basava sulla conoscenza diretta, 
                  anche se saltuaria, dei luoghi e delle popolazioni oltre che 
                  delle condizioni specifiche dei singoli territori, certamente 
                  gestiti e strumentalizzati dall’occidente con governi 
                  fantocci, il più delle volte inaffidabili, ma con tessuti 
                  sociali, etnici e religiosi assai coesi, tra loro spesso in 
                  conflitto ma sempre pronti a scendere in campo compatti per 
                  difendere la loro identità. A noi che stiamo perdendo 
                  la nostra sembra un delirio, appare insensato che uomini altrimenti 
                  pacifici, per poter conservare le loro tradizioni e per essere 
                  lasciati liberi di progettare un loro modello di sviluppo, basato 
                  sull’uso delle loro risorse, possano abbandonare le loro 
                  case e i loro paesi per combattere una battaglia che ritengono 
                  vitale. Perché questo è l’aspetto più 
                  singolare e preoccupante del conflitto: governi timidi, indecisi, 
                  preoccupati di venire deposti o attaccati dalla più grande 
                  potenza mondiale vedono i loro concittadini affluire in quelle 
                  che, con terminologia semplicistica e consolatoria, sono definite 
                  le brigate del terrore (semplicistica perché si fa di 
                  tutta un’erba un fascio, si mettono insieme la resistenza 
                  irachena o quella palestinese con la rete di Bin Laden; consolatoria 
                  perché si coltiva l’illusione che assimilando ogni 
                  forma di opposizione armata all’ideologia del terrorismo, 
                  si possa ridurre tutto ad un problema di ordine pubblico internazionale, 
                  occultando le vere cause che sono alla base degli attuali sommovimenti). 
                   Conflitti trasversali Ma la rottura di equilibri già precari provocati dalla 
                  guerra in Iraq, come dicevamo all’inizio, sta determinando 
                  conflitti trasversali che destabilizzano lo stesso schieramento 
                  occidentale. Ormai il dilemma guerra sì o guerra no è 
                  largamente superato dal fatto del tutto evidente che la guerra 
                  c’è stata. Solo che troppo ottimisticamente la 
                  si è dichiarata conclusa vittoriosamente per le armi 
                  della coalizione, mentre la realtà delle cose ci dice 
                  che non solo le armi non tacciono ma che l’aver voluto 
                  risolvere con l’intervento armato il problema Saddam Hussein 
                  ha determinato lo scatenarsi di conflitti sopiti oltre che un 
                  diffuso senso di insicurezza e paura nell’intera regione. 
                  Perché è bene non farsi illusioni: se il disegno 
                  coltivato dall’Occidente è quello di istituire 
                  in Medio Oriente nuove forme di protettorato, la prospettiva 
                  è quella di veder moltiplicata per quanti sono i paesi 
                  della regione la situazione che si vive attualmente in Iraq. 
                  Storicamente lo hanno già sperimentato gli inglesi che, 
                  in poco più di un cinquantennio di permanenza in quei 
                  territori, hanno dovuto contare 85 mila morti, e si era, in 
                  quelle plaghe, nell’era dell’arco e delle frecce 
                  o poco oltre, del nomadismo diffuso e delle istituzioni indigene 
                  evanescenti. Vi era inoltre un’indifferenza diffusa sulla sorte di 
                  quelle popolazioni e il giuoco delle maggiori potenze europee 
                  era solo di carattere egemonico e strategico-militare. Nulla 
                  a che vedere con gli interessi concreti di natura economica 
                  e di assoggettamento politico che muovono oggi le forze trainanti 
                  della globalizzazione. Le quali, però, proprio perché 
                  ubbidiscono alla logica del mercato e della competizione, mostrano 
                  di avere interessi non propriamente coincidenti. Torniamo così, 
                  esemplarmente, all’Iraq dei nostri giorni ed ai contrasti 
                  occulti e manifesti che agitano lo schieramento occidentale.
 Le divergenze tra Europa e Stati Uniti sul futuro dell’Iraq 
                  riguardano o, per lo meno, si dice che riguardino, aspetti di 
                  legittimità internazionale che l’intervento unilaterale 
                  della coalizione angloamericana avrebbe posti e che ancora adesso 
                  appaiono irrisolti. Si chiede quindi che, andata com’è 
                  andata l’avventura bellica irachena, si ritorni all’ONU, 
                  togliendo agli USA l’arbitrio di decidere il futuro del 
                  paese medio orientale. Ratificata la falsità delle motivazioni 
                  che erano state addotte per legittimare la guerra, si evidenziano 
                  le ragioni vere dell’intervento alle quali si è 
                  dato coerentemente seguito, disegnando un progetto di privatizzazione 
                  del territorio affidato alle lobby economiche statunitensi.
 Qualche cifra e alcune annotazioni pertinenti servono a chiarire 
                  la situazione.
 Il piano di intervento degli USA per il 2004/2005 prevede lo 
                  stanziamento di circa 18,7 miliardi di dollari così destinati: 
                  5,56 miliardi nel settore elettrico, 4,56 miliardi, sicurezza 
                  e giustizia, 4,307 miliardi sistema idrico, 500 milioni trasporti 
                  e telecomunicazioni, 1,89 miliardi petrolio,790 milioni edilizia 
                  e sanità, 1,046 infrastrutture: totale 18,646 miliardi. 
                  I destinatari veri di questi soldi sono oltre alla Halliburton 
                  di Richard Cheney, vice presidente degli Stati Uniti, la Bechtel 
                  Group, per la quale avevano lavorato George Schultz e Gaspar 
                  Weinberger, rispettivamente segretario di stato e ministro della 
                  difesa del governo Reagan, la Parsons Corp, la Louis Berger 
                  Group, la Fluor Group e la Washington Group, tutte aziende che 
                  avevano finanziato la campagna repubblicana per l’elezione 
                  di George Bush per un totale di 2,8 miliardi di dollari. Naturalmente 
                  queste aziende costituiscono le capofila dell’operazione 
                  ricostruzione dell’Iraq e potranno subappaltare i lavori 
                  a imprese estere, ma solo di quei paesi che non si siano mostrati 
                  ostili alla guerra. L’ufficio preposto all’assegnazione, 
                  supervisione e gestione dei contratti sarà il PMO (Program 
                  Management Office) diretto dall’ammiraglio David Nash, 
                  affiancato da due vice, di cui uno iracheno.
   Strumento di pressione Trattandosi di stanziamenti annuali, i contratti di subappalto 
                  avranno identica durata e sarà discrezionalità 
                  delle aziende capofila americane rinnovarle o meno, il che potrà 
                  dipendere certamente dal grado di efficienza delle aziende subappaltatrici, 
                  ma potrà pure trasformarsi in strumento di pressione 
                  politica per discriminare di volta in volta quei paesi che sono 
                  riluttanti ad allinearsi pedissequamente alle posizioni statunitensi. 
                  E ancora. Si valuta che per riportare ad una efficienza adeguata 
                  il complesso dei servizi pubblici iracheni, occorreranno dai 
                  50 ai 70 miliardi di dollari e almeno sei/sette anni di lavoro. 
                  Pertanto, almeno per tale lasso di tempo, la vita economica 
                  e sociale dell’Iraq sarà interamente nelle mani 
                  dell’amministrazione americana. Se si considera poi che 
                  la parte più consistente degli stanziamenti deriverà 
                  dalla commercializzazione del petrolio iracheno e che tale commercializzazione 
                  avrà come tramiti prevalentemente la Exxon Mobil e la 
                  Shell (Russia e Francia attendono di conoscere la sorte delle 
                  concessioni ottenute da Saddam Hussein) si vedrà come 
                  anche le risorse energetiche di quel territorio saranno privatizzate 
                  e sottratte alla gestione dell’eventuale governo autonomo 
                  che dovesse insediarsi dopo il fatidico 30 giugno 2004.
 Stabilite queste premesse resta da capire di cosa mai vanno 
                  cianciando i vari politici europei quando invocano il ritorno 
                  dell’ONU in Iraq. Ammesso, per un giuoco dell’assurdo, 
                  che Bush vada fuori di testa e ceda il maltolto, non si capisce 
                  con quali mezzi e quale credibilità politica le Nazioni 
                  Unite possano sostituirsi a questo imponente apparato economico-organizzativo 
                  messo in campo dall’amministrazione americana. Rischiano 
                  invece di occultare, con una copertura politica che renda possibile 
                  la partecipazione all’impresa di nazioni che sinora se 
                  ne sono chiamate fuori, l’effettiva colonizzazione della 
                  regione.
 
   Guerra non ancora conclusa Certo non tutto fila per il verso giusto. Per il momento il 
                  territorio non è praticabile per le imprese che dovrebbero 
                  ricostruirne le funzioni essenziali. La guerra è ben 
                  lungi dall’essersi conclusa e l’opposizione all’occupazione 
                  angloamericana ha anzi elevato i toni della resistenza. Anche 
                  dal punto di vista dell’assetto politico interno, il governo 
                  provvisorio è contestato dalla maggioranza sciita e non 
                  si vede come possa avviare il paese ad una qualsiasi normalizzazione. 
                  In questa situazione è difficile ipotizzare persino l’inizio 
                  di lavori, che, per la loro vastità e complessità, 
                  richiedono livelli di sicurezza assai costosi (è significativo 
                  che alla voce “sicurezza e giustizia” sia destinato 
                  lo stanziamento più consistente dopo quello previsto 
                  per il settore elettrico). Poi c’è la questione 
                  del petrolio: prima della guerra i malandati pozzi petroliferi 
                  iracheni producevano 2,5 milioni di barili al giorno. Oggi quale 
                  sia la loro reale capacità produttiva è difficile 
                  da sapere. Secondo fonti americane nel 2003 dal petrolio iracheno 
                  si è avuto un controvalore di circa 3 miliardi di dollari, 
                  nulla in confronto ai costi della ricostruzione. E per elevare 
                  la produzione a 4/5 milioni di barili, sempre secondo previsioni 
                  americane, occorrono cinque o sei anni di lavoro e costi altissimi 
                  che è persino difficile valutare con adeguata approssimazione, 
                  anche perché continuano i sabotaggi. Infine ci sono gli inghippi di competizione internazionale. 
                  È infatti difficile che i paesi più industrializzati 
                  dell’Occidente si rassegnino ad avere un ruolo marginale 
                  nella colonizzazione (perché di questo si tratta) della 
                  regione. Ci sono implicazioni di natura geopolitica nel disegno 
                  espansionistico del Pentagono che non possono lasciare indifferenti 
                  Francia, Germania, Russia e persino India e Cina, per citare 
                  solo i principali interlocutori attuali degli Stati Uniti.
 È prevedibile, quindi, che qualcosa nel prossimo futuro 
                  cambi. Ma finché i popoli non si svegliano, i movimenti 
                  di contestazione non si chiariscono le idee e scelgono una strategia 
                  d’intervento adeguata, c’è il rischio concreto 
                  che il superamento dei conflitti interni che agitano i governi 
                  dell’Occidente avvenga congiunturalmente all’insegna 
                  della spartizione. Come di consueto!
  Antonio Cardella
 
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