|  Quadro 
                  emergenziale
 Negli ultimi due numeri di A è riemerso, sia pure in 
                  modo un po’ rapsodico, il tema della prassi politica del 
                  movimento anarchico e libertario. Prima, un costruttivo intervento 
                  di Luigi Veronelli sulla opportunità di portare le 
                  idee libertarie anche dentro la competizione elettorale. L’articolo 
                  è stato relegato poco generosamente in fondo alla rubrica 
                  delle lettere (pagina 82) e se ciò non fosse bastato, 
                  c’era una tiratina d’orecchie a Veronelli nell’editoriale 
                  di pagina 4 dai toni vagamente sacerdotali di chi evidentemente 
                  considera chiusa la discussione. Nel numero successivo ha richiamato la mia attenzione, in particolare, 
                  la scorribanda dialettica di Andrea Papi, prima con una lunga 
                  ma inconcludente riflessione sull’azione politica anarchica 
                  e poi con una risposta, di altrettanta o maggiore vaghezza nei 
                  contenuti e acerbità nei toni, alla lettera 
                  di Dario Sanniti che poneva in modo concreto (certo, approssimativo) 
                  una questione politica nella quale, a voler guardar bene, l’emergenza 
                  trascende l’utopia: come favorire la percezione collettiva 
                  delle idee libertarie e la loro capacità di contribuire 
                  al benessere (alla riduzione del malessere) dell’individuo 
                  e delle comunità.
 Non nascondo che mi ha disturbato l’atteggiamento che 
                  mi è parso di cogliere nelle reazioni tra il paternalista 
                  e l’infastidito a due utili suggerimenti di tenere aperto 
                  e alto il ragionamento sulla partecipazione politica del movimento 
                  anarchico e libertario e (aggiungo) socialista oggi.
 La sperimentazione continua nel nome della libertà e 
                  della giustizia, direi, è altra cosa dalla conservazione 
                  tout-court di una sorta di dogma strisciante, frutto di precedenti, 
                  discutibili e molto datate verifiche empiriche.
 Ora non voglio perdermi in definizioni e distinzioni tra chi 
                  è dentro e chi è fuori il movimento: ritengo che 
                  la saldatura stia per tutti noi sulla linea di fondo della organizzazione 
                  non gerarchica, contro la sopraffazione di pochi e per il libero 
                  dispiegarsi delle vite di ognuno e di tutti (confesso, tuttavia, 
                  che recentemente ho avuto qualche dubbio sull’adesione 
                  ideale di alcuni dei sommi depositari del credo anarchico italiano 
                  dei quali ho letto tristemente smarrimenti e dubbi liberisti 
                  che mal celavano una tragica confusione teorica prima ancora 
                  che pratica).
 Se siamo d’accordo sulla necessità prioritaria 
                  di operare per una rottura del paradigma gerarchico, «padre» 
                  della violenza delle organizzazioni umane (Stato e sue articolazioni, 
                  chiesa, famiglia, scuola, lavoro...) e dei loro rapporti con 
                  il resto degli esseri viventi, la ricerca pragmatica e in costante 
                  evoluzione delle prassi adeguate dovrebbe essere un’ovvietà.
 La ricostruzione continua di condizioni non gerarchiche e di 
                  potere diffuso (nello spazio e nel tempo) investe ogni contesto 
                  umano ed è tanto più urgente quanto più 
                  immediati sono gli effetti dannosi di una data organizzazione 
                  gerarchica/violenta. In altre parole, se ogni soggetto si adopera 
                  nei luoghi che gli sono propri per favorire una trasformazione 
                  tendente all’anarchia, esistono luoghi nei quali questo 
                  processo «utopico» deve rispondere a un’emergenza 
                  e dunque richiede strumenti ispirati a un marcato pragmatismo. 
                  Questi luoghi dell’emergenza possono essere la fabbrica 
                  che uccide dentro e fuori i suoi stabilimenti (condizioni di 
                  lavoro, inquinamento, produzioni pericolose per l’ambiente 
                  e/o per i consumatori); il campo nomadi, il centro di detenzione 
                  per immigrati o il carcere che violenta l’umanità; 
                  un sistema mercantile locale e globale che esalta disparità 
                  e sfruttamento tra individui e gruppi; un contratto di lavoro 
                  che condanna alla precarietà e alla malattia eccetera; 
                  una mobilità che nega il diritto all’aria pulita 
                  e alla salute; una scuola che inibisce curiosità e pensiero 
                  critico; un esercito e i suoi apparati di morte che accresce 
                  il vigore (simbolico e reale) anziché estinguersi e così 
                  via.
 È con lo sguardo all’emergenza quotidiana – 
                  al susseguirsi di morti, di malattie, di catene e di infelicità 
                  evitabili – che trovo debole e in certa misura fuorviante 
                  la proposta di una «società nella società» 
                  ripresa da Andrea Papi: momenti di autorganizzazione collettiva, 
                  centri sociali libertari, scuole libertarie e quant’altro 
                  che dovrebbero, in sostanza, coltivare e diffondere la «società 
                  altra» di cui sarebbero modello. Non sottovaluto il valore 
                  di siffatte esperienze, pur notandone sia il rischio avanguardistico 
                  sia la tentazione isolazionistica (purtroppo tipica di una diffusa 
                  interpretazione velleitaria ed elitaria dell’anarchismo 
                  che talora si sostanzia in una prassi autoreferenziale molto 
                  poco incisiva tanto sulle emergenze del momento storico quanto 
                  sul confronto dialettico della politica di tutti).
 I laboratori di sperimentazione anarchica concreta sono senz’altro 
                  di utilità sociale, è preziosa Summerhill School 
                  come lo sono le comuni che resistono in varie forme nelle campagne 
                  italiane; ma ridurli a momento culminante dell’azione 
                  politica mi pare segno di grande smarrimento.
 Indicare un piccolo opificio autogestito, modello della «società 
                  altra», a un operaio d’acciaieria malato di cancro 
                  come migliaia d’altri, mi parrebbe davvero pochino: sia 
                  in termini di condivisione solidale, sia di contestazione del 
                  paradigma gerarchico.
 Per fortuna la realtà delle prassi anarchiche – 
                  soprattutto di quelle spontanee e inconsapevoli – non 
                  è solo questa. Nonostante la repressione e l’autoritarismo, 
                  la società è percorsa da innumerevoli dinamiche 
                  di presa di coscienza e di aggregazione non gerarchica per rispondere 
                  a una qualche emergenza: comitati di base, gruppi di colleghi, 
                  sindacalismo libertario, associazioni eccetera.
 Se la rete del potere gerarchico e dei suoi punti di forte intensità 
                  delle aspirazioni di dominio pervade l’intero corpo sociale, 
                  la risposta data dalle vittime non consenzienti è un’azione 
                  altrettanto reticolare che si concentra sui nodi dell’autorità 
                  ma non tralascia il resto.
 In questo quadro mi pare che il contributo del movimento anarchico 
                  e libertario, oggi, in una società formalmente democratica, 
                  potrebbe essere assai più pregnante attraverso una presenza 
                  pressoché sistematica in tutti i luoghi in cui si esercita 
                  la violenza del potere gerarchico. E per forza di cose, pena 
                  la perpetuazione del sistema contestato, dovrà essere 
                  un contributo non solo – come scrive Papi – antiviolento 
                  ma intrinsecamente nonviolento nel contesto istituzionale dato 
                  per trasformarlo.
 È vero che la rete è vasta e che bisogna agire 
                  in ogni suo punto e forse è altrettanto vero che – 
                  nel medio periodo – una cattiva legge può non farcela 
                  a imbrigliare una comunità, tuttavia sarebbe miope non 
                  notare che alcuni luoghi del potere determinano conseguenze 
                  pressoché immediate per gli esseri umani e l’ecosistema.
 E sarebbe miope anche non notare che una legge può favorire 
                  – nella complessa dinamica individuo/comunità/autorità 
                  – l’eterno processo di avvicinamento all’anarchia 
                  piuttosto che reprimerlo brutalmente (con la forza fisica o 
                  nei cervelli dei cittadini).
 Non sto a dilungarmi oltre, chiudo questa riflessione semplicemente 
                  osservando che la potenza delle idee anarchiche e libertarie 
                  rischia il corto circuito o l’autoreferenzialità 
                  se non si mantiene alta la tensione attorno al ragionamento 
                  sulla prassi e sul pragmatismo. E in questo contesto, mi pare 
                  che nell’epoca attuale sia fondamentale l’abbandono 
                  di ogni tentazione aristocratica, che sia necessario – 
                  per rispondere al grido dell’emergenza e insieme rafforzare 
                  le fondamenta dell’utopia – «sporcarsi le 
                  mani» nei movimenti sociali (certo talvolta contraddittori, 
                  spesso inconcludenti, talora anche gerarchici talaltra inconsapevolmente 
                  anarchici...) e nei luoghi istituzionali della politica rappresentativa 
                  che vogliamo sostituire con quella diretta (l’esperimento 
                  dei bilanci partecipativi e altre esperienze più o meno 
                  riuscite indicano, se non una vera risposta, l’esistenza 
                  di un desiderio individuale e collettivo di camminare oltre 
                  il presente).
 Se in parlamento o in consiglio regionale si decide del destino 
                  immediato (parliamo del presente, di qui e ora) di una, mille 
                  o un milione di persone e io posso fare qualche cosa, fosse 
                  anche per ridurre il danno, mi pare un dovere etico cercare 
                  di esserci. Qui come altrove, per affrontare l’emergenza 
                  e seminare l’utopia con prassi di rottura del paradigma 
                  consolidato. Se parliamo di un partito, per esempio, sarà 
                  un partito senza gerarchia, aperto e assembleare a rotazione 
                  continua dei mandati eccetera, un’identità che 
                  sta nel presente per superarlo. E l’idea democratica – 
                  oggi sottoposta alle sevizie dell’autoritarismo liberale 
                  – si può prestare tanto allo sperimentare quanto 
                  al filosofare libertario. «Democrazia = governo di tutti. 
                  Anarchia = governo di nessuno. Democrazia = Anarchia», 
                  scriveva Merlino.
 Raccordarsi con la realtà e soprattutto con i suoi aspetti 
                  più inquietanti è estremamente complicato. La 
                  realtà è complicata e scivolosa. Ma provarci in 
                  tutti i modi possibili – dunque nella sperimentazione 
                  continua – corrisponde pienamente, nella prassi, allo 
                  straordinario bagaglio di idee dell’universo anarchico. 
                  Oggi, in giro ci sono, per esempio, alcuni preti e frati che 
                  mi sembrano più anarchici di molti eremiti anarchici. 
                  Paradossalmente, io, che sono agnostico e profondamente anticlericale, 
                  mi sporco volentieri le mani con loro per ridurre la sofferenza 
                  umana, contrastare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo 
                  e favorire la trasformazione/liberazione sociale (anche verso 
                  una chiesa libera che non sarebbe più la Chiesa). Più 
                  dei preti che ammiccano all’anarchismo, mi spaventano 
                  i teorici dell’anarchismo che ammiccano al capitalismo.
 Finisco con un breve cenno alla questione nonviolenza. La lettura 
                  dell’articolo di Andrea Papi 
                  mi lascia intendere che per l’autore la nonviolenza è 
                  la rinuncia all’uso della forza nell’azione politica 
                  (o in altri contesti). La piccola casa editrice che con non 
                  poca fatica cerco di mandare avanti, Nonluoghi, ha come slogan 
                  «libri per una cultura critica, libertaria, nonviolenta». 
                  Questo, per significare il legame intimo attribuito ai tre elementi. 
                  La sequenza non è casuale: critica (presa di coscienza 
                  della complessità e malignità del reale), libertaria 
                  (assunzione del paradigma non gerarchico quale momento ispiratore 
                  di una trasformazione), nonviolenta (insieme condizione e prassi 
                  del percorso e dei punti di approdo di ogni sua tappa). Nonviolenza, 
                  dunque, come teoria intrinsecamente libertaria (il dominio gerarchico 
                  è violenza) e come strumento di lotta: non la semplice 
                  assenza dell’uso della forza (delle armi), bensì 
                  lo sviluppo e l’adozione di altri metodi per interagire 
                  con il reale e tentare di trasformarlo (disobbedienza civile, 
                  dialogo con l’avversario, informazione diffusa, mobilitazioni 
                  individuali o di gruppo, obiezione di coscienza eccetera).
 La conquista nonviolenta e libertaria di una trasformazione 
                  umanizzante in un quadro emergenziale rappresenta, per le sue 
                  stesse modalità, un approdo sul quale proseguire con 
                  minori rischi di involuzione il percorso verso l’utopia.
 Zenone Sovilla(Civezzano)
    Risposta 
                  a Zenone Sovilla
 Dal momento che secondo Zenone Sovilla sembra 
                  esservi una specie di gerarchia, di cui per altro ci sfugge 
                  la logica, pubblichiamo (o si dice releghiamo?) la sua lettera 
                  in prima battuta. Abbiamo chiesto al nostro collaboratore Andrea 
                  Papi una replica che ci trova del tutto concordi.   
 Caro signor Sovilla, io non la conosco e leggo qualcosa 
                  di suo per la prima volta. Innanzitutto la ringrazio per aver 
                  occupato il suo tempo su riflessioni che le sono state suscitate 
                  da cose da me scritte, che spaziano e si dilatano mettendo in 
                  campo svariati punti e qualche argomentazione. Non le risponderò 
                  su ogni cosa da lei sollevata, perché altrimenti mi richiederebbe 
                  troppo spazio, mentre mi soffermerò in breve solo su 
                  alcuni dei punti che lei ha posto, senza per questo aver la 
                  pretesa di essere esaustivo. Ma la polemica, quando è 
                  autentica e sentita, è sempre interessante. Per prima cosa una chiarificazione sulla risposta a Sanniti. 
                  Forse lei non ha vissuto le sue parole come le ho vissute io. 
                  Ma mi sembrava chiaro, leggendo la sua polemica, che vi fosse 
                  un tono tra il saccente, anche se non erudito, e l’arrogante. 
                  Del tipo «…ma non avete capito niente…», 
                  «…ma non sapete che gli operai, le casalinghe, ecc.», 
                  «…adesso vi spiego io cosa fare…» ed 
                  altre simili gradevoli facezie, arricchite a un certo punto 
                  con l’offesa liquidatoria, tipica dei metodi polemici 
                  di staliniana memoria, che in fondo siamo tutti piccolo-borghesi, 
                  quindi… Davanti a tale aggressione, che tale è 
                  anche se non accompagnata da turpiloquio, mi son divertito ad 
                  essere ironico con qualche piacevole punta di sarcasmo. Ora 
                  le chiedo: «Perché il Sanniti può usare 
                  quell’atteggiamento di linguaggio, mentre Papi, secondo 
                  lei, dev’essere sempre e solo carino? Dovrei essere sistematicamente 
                  un santo nonviolento che porge d’istinto l’altra 
                  guancia?».
 Per quanto riguarda il rimprovero alla redazione di A di aver 
                  relegato poco generosamente in fondo alla rubrica delle lettere 
                  Veronelli, faccio fatica a capire di che cosa rimprovera i compagni 
                  della redazione. Qualsiasi redazione, giustamente, da sempre 
                  decide la filosofia d’impaginazione in base alle sue scelte. 
                  Non l’hanno mica censurato. Se l’avessero ritenuto 
                  rilevante l’avrebbero messo in maggior rilievo, come invece 
                  da quello che scrive avrebbe fatto lei, che al contrario della 
                  redazione di A ritiene fondamentale ciò che Veronelli 
                  ha scritto. Legittime entrambe le posizioni. Oppure, caro signor 
                  Sovilla, ritiene in realtà che siano legittime solo le 
                  sue di posizioni e che debbano diventare un’unità 
                  di misura critica capace di stabilire il meglio e il peggio 
                  di qualsiasi altra cosa?
 Inoltre vorrei farle notare che quando si dà dell’inconcludente 
                  a qualcuno, la buona creanza del dibattere richiede che si motivi 
                  perché lo è stato, altrimenti risulta soltanto 
                  un giudizio liquidatorio che lascia il tempo che trova. Ora 
                  mi sembra di aver esposto delle conclusioni, ovviamente non 
                  con la pretesa che siano le uniche, anche motivandole. Quindi 
                  non capisco dove sia la da lei accusata non concludenza. Oppure, 
                  e ci risiamo, siccome ritiene che le sue conclusioni siano le 
                  uniche che abbiano senso, allora di conseguenza qualsiasi altra 
                  diventa non conclusione, argomentata o no, ed è perciò 
                  inconcludente? Ma se è così, perlomeno avrebbe 
                  dovuto dichiararlo.
 Ed ora veniamo al punto centrale ed incandescente del quale 
                  m’interessa veramente discutere. Ripeto, con la consapevolezza 
                  che qualche battuta non esaurisce una questione tanto importante. 
                  Respingo e respingiamo la scelta elettoralistica, da lei tanto 
                  sostenuta, perché non ci piace. E non per un fatto estetico. 
                  Ma perché è del tutto incoerente e contrastante 
                  con le proposizioni che distinguono l’essere anarchici.
 Innanzitutto vorrei chiarire che ritengo sostanzialmente differente 
                  l’andare a votare per qualcuno, cosa che fra l’altro 
                  personalmente non condivido affatto, e presentarsi invece come 
                  lista a parte con un programma elettorale sedicente anarchico, 
                  come mi sembra che lei proponga.
 In passato è già successo che, per questioni di 
                  tattica politica, degli anarchici abbiano concesso il loro voto. 
                  Lo hanno fatto individualmente dei singoli compagni per sostenere 
                  persone che ritenevano degne. Ma, per esempio, anche in Spagna 
                  nelle elezioni del 1936 la partecipazione al voto fu incentivata 
                  sottobanco dalla CNT, la quale ufficialmente fece però 
                  una campagna astensionista, per far trionfare le sinistre contro 
                  il montante fascismo. Lo riporta Vernon Richards in Insegnamenti 
                  della rivoluzione spagnola.
 Considerazioni di tattica politica, che si possono condividere 
                  o meno, che però smentiscono in pieno, caro signor Sovilla, 
                  la sua accusa di essere dogmatici da parte degli anarchici. 
                  Se è per questo, e qui vado a memoria quindi mi scuso 
                  per eventuali errori, nell’ottocento Fanelli e Friscia, 
                  pur essendo anarchici attivi, erano parlamentari. È interessante 
                  la motivazione per cui lo erano. Non perché volevano 
                  agire per portare la voce anarchica e proletaria in parlamento, 
                  del quale continuavano ad avere una considerazione del tutto 
                  negativa e contraria, ma perché così potevano 
                  viaggiare gratis, a spese del governo, e tenere i contatti tra 
                  gruppi e compagni. Un’altra considerazione di tattica 
                  politica, che si può condividere o meno, ma che anch’essa 
                  smentisce in pieno l’accusa di dogmatismo. Mi fermo con 
                  gli esempi perché penso che siano sufficienti.
 Ciò che lei propone è tutt’altra cosa. Lei 
                  vorrebbe che gli anarchici, in quanto forza politica, al pari 
                  di Rifondazione, dei DS e di quant’altri, si presentassero 
                  alle elezioni per far sedere degli anarchici, come regolari 
                  parlamentari, negli scranni del parlamento. Quindi vorrebbe 
                  che nel suo programma politico l’anarchismo comprendesse 
                  la lotta parlamentare all’interno della democrazia rappresentativa.
 È questo che non funziona. Per farlo, dovrebbero infatti 
                  presentare un programma di governo, accettare quindi la possibilità 
                  teorica di trovarsi nelle condizioni di gestire, con gli strumenti 
                  dello stato che dichiarano di voler abolire, l’attuale 
                  stato di cose. Ma siamo anarchici proprio perché non 
                  vogliamo un governo centrale che con la forza imponga le sue 
                  leggi all’insieme dei cittadini, o no? Con quale faccia 
                  e quale coerenza d’intenti propagandiamo una società 
                  altra che si autogestisca, senza poteri centralizzati dall’alto, 
                  e poi nei fatti partecipiamo alla torta del potere, perché 
                  se si va lassù, nel parlamento, volenti o nolenti siamo 
                  parte della torta contro la quale dichiariamo di lottare? Questo 
                  si, lo trovo veramente, oltre che incoerente, privo di senso 
                  politico pratico.
 Per finire cito alcuni esempi illustri. Andrea Costa, Francesco 
                  Saverio Merlino, Pier Carlo Masini. Tutti e tre erano anarchici 
                  e poi, anche se in modi diversi e con diverse motivazioni, hanno 
                  optato per la tattica di usare anche il parlamento, proprio 
                  per sfruttare le possibilità democratiche ai fini dell’anarchismo 
                  e della rivoluzione sociale. Nel momento in cui hanno fatto 
                  questa scelta, di fatto hanno smesso, anche dichiaratamente, 
                  di essere anarchici. E non può che essere altrimenti. 
                  L’una cosa esclude, per principio e di fatto, l’altra.
 Andrea Papi(Forlì)
    Anarchia 
                  e non violenza
 Vorrei esporre un mio breve commento all’articolo 
                  pubblicato sul numero di febbraio dal titolo Antiviolenti 
                  sì nonviolenti no, di Andrea Papi. A mio avviso 
                  l’autore cade in un fraintendimento apparentemente sottile 
                  ma non di poco conto, specialmente da un punto di vista teorico, 
                  per quanto concerne il significato effettivo dell’etica 
                  nonviolenta. L’autore scrive: Il riferimento principale 
                  cui ispirarsi non è affatto quello etico, bensì 
                  lo scopo ultimo di fondo cui pervenire, cioè la società 
                  autogestita secondo i principi anarchici della libertà 
                  sociale, che diventa perciò il fondamento di un’etica 
                  conseguente. Ecco le mie obiezioni:
 la società sopraccitata rappresenta un semplice modello 
                  organizzativo? O è invece un modello di vita sociale 
                  animato, radicato, fondato, su principi etici? L’autore 
                  afferma il primato del progetto di società da cui deriverebbero 
                  poi i principi etici conseguenti. Questo a mio avviso non ha 
                  alcun senso, o almeno, se ha un senso, rappresenta un falso 
                  problema. I principi etici e la costruzione del progetto vanno 
                  di pari passo! Secondo il mio punto di vista sono momenti inscindibili! 
                  Parlo in pratica di un’etica attualizzata e pragmatica, 
                  non di principi ultimi e trascendentali che non trovano mai 
                  conferme nella realtà. A mio avviso questa mia posizione 
                  rileva un filo conduttore evidente tra etica-pratica nonviolenta 
                  e anarchica.
 Andrea Papi inoltre evidenzia la differenza tra nonviolenza 
                  e anarchismo sulla base dell’uso che quest’ultimo 
                  farebbe della violenza come atto di legittima difesa. Questa 
                  posizione non è teoricamente fondata se consideriamo 
                  i principi etici e politici della nonviolenza (che non è 
                  pacifismo né non-violenza) espressi dai suoi massimi 
                  teorici. Penso a Gandhi che espresse parere favorevole all’entrata 
                  in guerra dell’Inghilterra e che ammise l’uso della 
                  violenza misurata come strumento estremo di autodifesa.
 Grazie,
 saludos.
 Fabrizio(Bologna)
    Risposta 
                  a Fabrizio
 Caro Fabrizio, non ho affatto affermato il primato del 
                  progetto di società sui principi etici, come mi attribuisci 
                  tu. E sono d’accordo con te che i principi etici e la 
                  costruzione del progetto vanno di pari passo! Ciò che 
                  ho affermato, invece, è che non si deve e non si può 
                  giudicare la validità della scelta di mezzi di lotta 
                  violenta tenendo conto solo dei principi etici di riferimento, 
                  in quanto non esiste una sola etica, ma più etiche, ognuna 
                  legata strettamente ad una visione esistenziale e filosofica 
                  di sé e del mondo. La società autogestita secondo 
                  i principi anarchici della libertà sociale, di cui scrivo, 
                  è un principio di riferimento per progettare, non un 
                  progetto, come mi attribuisci tu. E nelle mie intenzioni, almeno 
                  mi sembrava chiaro, non c’è nessuna sottovalutazione 
                  dell’etica, dal momento, fra l’altro, che ciò 
                  che ha sempre distinto gli anarchici è la preminenza 
                  dell’etica in politica, contrapposta alla visione, spesso 
                  in auge, di un maldigerito machiavellismo. Inoltre mi è poco chiaro quello che mi sembra il tuo 
                  tentativo di semplificare il problema riducendolo ad un’unica 
                  contrapposizione teorica tra violenza e nonviolenza. Da quello 
                  che scrivi mi sembra che salti fuori che o esiste la violenza 
                  o esiste la nonviolenza. Come ogni altra semplificazione è 
                  astratta ed in genere serve a giustificare posizioni prestabilite. 
                  Come sempre non esistono mai solo due posizioni, il bianco ed 
                  il nero (fra l’altro nell’arcobaleno non esistono 
                  né l’uno né l’altro, ma la gamma delle 
                  sfumature che portano dall’uno all’altro), ma una 
                  pluralità, perché sia la realtà che la 
                  sua lettura sono complesse e problematiche.
 Come si fa a dire che l’antiviolenza anarchica non ha 
                  senso in quanto differenziata dalla nonviolenza, come a dire 
                  che o è nonviolenta o è violenta. Gli anarchici 
                  si sono storicamente riconosciuti nell’insurrezione rivoluzionaria 
                  e per questo si sono scontrati teoricamente e di fatto con le 
                  posizioni nonviolente. A riprova il fatto che le tesi di un 
                  anarchico riconosciuto come Tolstoj, che fu fondatore della 
                  pratica nonviolenta e che fu fra l’altro maestro a Ghandi, 
                  furono rifiutate dal movimento anarchico internazionale perché 
                  rinnegavano e contrastavano la pratica insurrezionale in quanto 
                  violenta. La concessione ghandiana della violenza misurata come 
                  strumento estremo di autodifesa, che citi, non è equiparabile 
                  all’incitamento alla rivolta che ha sempre distinto l’anarchismo 
                  ed in cui ancora si riconosce.
 Andrea Papi(Forlì)
     
                    
                     
                      |  I 
                          nostri fondi neri 
                            |   
                      |  
                           Sottoscrizioni. Aurora e Paolo (Milano) ricordando Pio Turroni a 22 
                            anni dalla sua scomparsa (7 aprile 1982) 500,00; Roberto 
                            Carloni (Roma) 20,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino 
                            Scalo) 30,00; Giampaolo Verdecchia (Firenze) 20,00; 
                            Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo) 21,50; Silvio 
                            Gori (Bergamo) ricordando Egisto e Maria Gori, 30,00; 
                            Marco Parmigiani (Varese) 5,00; Rossella Frattini 
                            (Bernate Ticino) 10,00; Salvatore Piroddi (Arbatax) 
                            10,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Stefano Giaccone 
                            (Galles – Gran Bretagna) 20,00; Ugo Fortini 
                            (Signa) ricordando Milena Marè, 25,00; E.C. 
                            (Roma) 200,00; Adriano Paolella (Roma) 200,00; Enrico 
                            Posenato (Costalunga) 5,00; Franco Leggio (Ragusa) 
                            5,00; Misato Toda (Tokyo – Giappone) 8,00.
 Totale euro 1.129,50.
 Abbonamenti sostenitori. Alfredo Mazzucchelli (Carrara) 500,00; L.D. (Ancona) 
                            ricordando il suo meraviglioso compagno, 200,00; Renato 
                            Girometta (Vicobarone) ricordando Ivan Aiati e Pietro 
                            Di Paola, 100,00; Paolo Santorum (Arco) 100,00; Adriano 
                            Paolella (Roma) 100,00; Andrea Albertini (Merano) 
                            100,00.
 Totale euro 1.100,00.
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