| Presentazione all’edizione italiana 
                   Nel maggio 2003, Horacio Pietragalla Corti, di ventisette anni, 
                  è diventato il settantacinquesimo dei neonati rubati 
                  durante la guerra sporca in Argentina e poi recuperati dalle 
                  loro vere famiglie. Anche se un essere umano non può 
                  mai diventare un numero. E malgrado sia stato proprio quello 
                  il tentativo messo in atto dai militari con i suoi genitori, 
                  Horacio e Liliana, assassinati nel 1976. Settantacinque bambini e adolescenti – ormai divenuti 
                  giovani uomini e donne – dei cinquecento stimati dalle 
                  Abuelas di Plaza de Mayo sono tornati ai loro veri nomi, alla 
                  loro storia autentica, alle loro origini e alla loro realtà.
 Questo non è successo grazie agli zelanti interventi 
                  di qualche governo, né in seguito agli sforzi di qualche 
                  corpo di polizia o di altri organismi statali di qualsivoglia 
                  genere. Al contrario, l’atteggiamento costante dei governi 
                  «democratici» del Cono Sud è consistito nel 
                  lasciar fare e nel lasciar correre, nel lavarsene le mani tollerando 
                  i sequestri.
 Horacio, Simón, i settantacinque bambini rubati, sono 
                  stati recuperati soltanto grazie all’instancabile impegno 
                  delle Abuelas di Plaza de Mayo e degli organismi per 
                  la difesa dei diritti umani.
 In tutti questi casi, così come in altri legati a conflitti 
                  fra i settori popolari e coloro che detengono il potere sociale, 
                  i governanti – con le loro azioni o omissioni – 
                  si sono tenuti lontani dal popolo e vicini al denaro e al potere.
 Il fatto che una simile aberrazione si presenti come normale, 
                  moderna e conforme ai tempi che corrono, si sposa perfettamente 
                  con il cinismo della destra «moderna», così 
                  diffuso ai nostri giorni. Che la complicità da parte 
                  dei governi sfoci nel fornire giustificazioni vergognose e spiegazioni 
                  che non spiegano mai niente la dice lunga sui rapporti esistenti 
                  fra governanti e governati, fra l’eternamente trafugata 
                  sovranità popolare e l’esistenza di influenti cerchie 
                  di privilegiati che, per ciò stesso, diventano intoccabili.
 Per quanto concerne le vittime, persone che oggi hanno ventisette 
                  anni (gli stessi dell’ancora impunita dittatura militare), 
                  voglio qui ricordare qualcosa che ho scritto in un romanzo pubblicato 
                  recentemente in Italia che ha tutto a che vedere con la vicenda 
                  dei bambini rubati.
 
                  
                    |  |   Strappato dalle braccia
 Il collegamento era nato a proposito della «notizia» 
                  – erronea, in quel momento – del ritrovamento di 
                  Simón Riquelo nel 1991. Ho rivisto quel testo, che rimane 
                  la mia maniera migliore per affrontare il tema. Eccolo, dunque: 
                 A tredici anni dal sequestro, Sara ha ritrovato Simón. 
                   «Il mio nome è Sara Méndez. Mio figlio 
                  Simón mi fu strappato dalle braccia quando aveva appena 
                  venti giorni di vita...». Aguirre lesse. Il bambino era stato sequestrato a Buenos Aires 
                  il 13 luglio 1976 da un commando di militari uruguayani, appoggiato 
                  dall’esercito argentino, agli ordini del maggiore dell’esercito 
                  uruguayano José «Nino» Gavazzo. Adesso era 
                  stato ritrovato, e sua madre faceva onore al genere umano con 
                  le sue affermazioni: «La coppia che ha Simón non 
                  ha partecipato alla repressione; non sono militari». [...]
 Dopo tredici anni ricompare un altro dei bambini rapiti ai suoi 
                  familiari da agenti della repressione. A intervalli variabili 
                  ma sempre lunghi, e in occasioni diverse ma sempre rare, il 
                  fatto si ripete. Risolverlo non è mai semplice, perché 
                  al bambino in questione occorrerà una forza enorme, al 
                  momento irreperibile, per iniziare mutilato il resto della sua 
                  vita.
 Non vi sono altre soluzioni: restituire il sequestrato alla 
                  cerchia della sua vera famiglia.
 La soluzione però non è perfetta.
 A volte, la maturità e la generosità degli adulti 
                  contribuiscono a mitigare le ferite del minore.
 Altre volte, i bambini i cui genitori sono stati assassinati 
                  vengono contesi ferocemente dai nonni e da coloro che li hanno 
                  allevati e amati come fossero figli propri, ricoprendoli magari 
                  di doni e complimenti per scongiurare il senso di colpa nei 
                  loro confronti. E in quel festival della stampa scandalistica, 
                  in quel banchetto della tivù più abominevole, 
                  si offre al pubblico una telenovela dal vivo e in diretta, i 
                  cui protagonisti piangono guardando la telecamera e mostrano 
                  i denti per difendere i loro affetti.
 Aguirre scrutò quegli occhi, la cui durezza era tutta 
                  quanta al servizio della missione che ispirava i passi e le 
                  ore di quella donna. Ricordò le stragi della furia nelle 
                  sue notti insonni, così inefficaci, così poco 
                  funzionali. Pensò a quei vecchi che dal loro accecamento 
                  avevano tratto saggezza. Teneri, ma duri come la pietra levigata 
                  e il metallo. Come facevano? Come potevano continuare per tredici 
                  anni a indagare su tracce che un Paese si ostinava a cancellare? 
                  Come potevano ricomparire dopo tredici anni con lo stesso sorriso 
                  e lo stesso sguardo, inalberando una foto ripresa da un giornale, 
                  scommettendo un uccellino ferito sul ritorno dell’estate? 
                  Simón, a tredici anni, è lo stesso Simón 
                  di quando aveva venti giorni? E cosa può fare Simón? 
                  Cosa può fare una persona che alla confusione e alle 
                  contraddizioni che i suoi tredici anni gli riversano sul corpo 
                  e sui pensieri, pulsioni, interessi, prese di posizione e smarrimenti 
                  di fronte alla vita, deve ancora aggiungere altro, e poi togliere, 
                  e cambiare di nuovo tutto quanto? Come riuscirà ad affrontare 
                  il fatto che lui non è lui, che non si chiama come si 
                  chiama, che la sua famiglia non è la sua famiglia, e 
                  che la storia che gli hanno raccontato non è la storia 
                  che gli appartiene? Chi gli spiegherà che il bianco è 
                  il nero, e il buono è il cattivo? In cosa crederà 
                  quel ragazzino sulla soglia dell’età adulta essendo 
                  stato ingannato – nel miglior stile di un tango di Discépolo 
                  – «fin dal giorno in cui era nato»?... Sfiduciato, 
                  forse irrecuperabile, decisamente sfiduciato, nel migliore dei 
                  casi gravemente ferito per la fiducia concessa, malato cronico 
                  della fede, messo in una condizione schizofrenica con cui dovrà 
                  fare i conti e a cui dovrà pagare tributi per il resto 
                  della vita... In cosa crederà quel ragazzo? In chi, senza 
                  che la sua fede, la sua matura decisione, il suo spontaneo ottimismo, 
                  la sua necessità di credere debbano sopportare i colpi 
                  della realtà e i morsi della fantasia? Come evitare che 
                  i meandri meno protetti del suo cervello distillino un antidoto 
                  contro qualsiasi tentativo di avere fiducia? Come scacciare 
                  da cantine e corridoi proibiti agli imperativi della coscienza 
                  i mostri che si trovano lì per combattere qualsiasi speranza, 
                  pronti ad attaccare, una notte, non appena lo avranno deciso? 
                  Che ne sarà dunque di Simón, e che ne sarà 
                  del nipote di Luisa Bellusci? E cosa può fare Aguirre, 
                  se non sottomettersi a una linea d’azione più chiara 
                  della sua? Cos’altro, se non prendere parte al secondo 
                  atto del dramma o della tragedia e lottare per trovare quel 
                  bambino di tredici anni, legato a lui come se fosse un figlio 
                  suo? Cos’altro, se non piegarsi alla ferma volontà 
                  della nonna e gettarsi su qualsiasi pista bislacca?
 «Cosa vuole che faccia?» domandò.
 «Voglio che lei indaghi su un poliziotto». [...]*
  Che ne sarà degli assassini?
 Queste righe, beninteso, sono letteratura. E mirano a enfatizzare 
                  i problemi. Non impediscono che i nostri desideri e le nostre 
                  convinzioni si orientino in senso ottimista. L’amore è 
                  un balsamo meraviglioso. Le ferite cicatrizzano e, senza dimenticare, 
                  per sempre con la loro tremenda verità, Horacio Pietragalla, 
                  Simón Riquelo e ciascuno dei neonati rubati e poi recuperati 
                  hanno avuto l’occasione più importante della loro 
                  vita. E i responsabili della repressione? Che ne è dei criminali? 
                  Che ne sarà dei ladri e degli assassini?
 Nella Divina Commedia Dante Alighieri ha riservato 
                  il settimo cerchio infernale ai violenti, a tutti coloro che 
                  danneggiarono gli altri ricorrendo alla forza. E in quel recinto 
                  il poeta ha immerso in un fiume di sangue bollente e nauseabondo 
                  alcuni condannati da lui così descritti: «...Ei 
                  son tiranni, / Che dier nel sangue e nell’aver di piglio. 
                  / Quivi si piangono li spietati danni».
 I credenti, forse, possono rifugiarsi nell’idea di una 
                  superiore giustizia finale. Altri, e io con loro, ritengono 
                  che l’idea di giustizia elaborata dall’umanità 
                  nel suo lungo cammino esige che si proteggano le società 
                  e si castighino i colpevoli.
 Per la prima volta, dopo il 1976, l’Argentina ha un presidente 
                  che sembra deciso a non coprire i crimini dei militari. Contro 
                  di lui si stanno già sollevando tutte le forze di destra. 
                  Potenti, indubbiamente, così com’è forte 
                  il sostegno popolare all’iniziativa di Kirchner. L’esito 
                  del conflitto è un’incognita. Il suo risultato 
                  dipenderà da tutti gli argentini.
 La storia che vi accingete a leggere tratta problematiche come 
                  queste.
 Città del Messico, novembre 2003  Rolo Diez
 * Brano tratto da: Il passo della tigre, trad. di 
                  E. Mogavero, Marco Tropea editore, Milano 2003 (il passo si 
                  trova alle pp. 62-64, ma presenta delle varianti ed è 
                  stato tradotto ex novo). Il protagonista del romanzo, Aguirre, 
                  ex militante di sinistra che si era infiltrato nella polizia 
                  e ha finito per restarvi, sia pure fra mille contraddizioni, 
                  si confronta con un’Abuela di Plaza de Mayo impegnata 
                  nella ricerca del nipote. La donna gli mostra un foglio di giornale 
                  che parla del ritrovamento – poi rivelatosi illusorio 
                  (vedi cap. VII) – di Simón.  
 Introduzione  Buenos Aires, 1976. Esibite o nascoste, le armi mettevano in 
                  allarme le strade. La paura e la polvere da sparo impregnavano 
                  l’aria, i muri e le facce. La violenza, in realtà, 
                  non era una novità in Argentina, durava almeno da quarant’anni. 
                  Adesso però era diverso, si trattava di vero terrore. 
                  La sinistra AAA (Alianza Anticomunista Argentina), organizzazione 
                  che riuniva poliziotti, peronisti di destra e fondamentalisti 
                  di estrema destra, fondata dall’allora ministro della 
                  Previdenza sociale José López Rega – noto 
                  anche come «el Brujo», lo stregone, per la sua devozione 
                  alla pratica di culti esoterici – e dal nazista Aníbal 
                  Gordon, aveva già inaugurato nel 1974 il metodo del sequestro 
                  degli oppositori, cui seguivano l’assassinio o la scomparsa. 
                  López Rega era stato un oscuro caporale di polizia a 
                  riposo prima di guadagnarsi la fiducia di Juan Domingo Perón 
                  durante l’esilio e, soprattutto, quella di sua moglie, 
                  María Estela Martínez Perón, «Isabelita» 
                  per il popolo. Nel maggio 1974, alla presidenza della Repubblica, 
                  Perón lo promosse da caporale a commissario generale, 
                  facendogli saltare quindici gradi. Nel luglio 1974, dopo la 
                  morte del «Generale», «Isabelita» assunse 
                  la presidenza, e insieme a lei i settori fascisti del peronismo. 
                  AAA omicidi e sparizioni
 Nel settembre di quello stesso anno si contavano già 
                  centotrenta assassinati dalla «Triple A» e numerosi 
                  intellettuali, docenti e artisti avevano preso la via dell’esilio 
                  dopo aver ricevuto minacce di morte. Il governo di «Isabelita» 
                  chiuse giornali, si intromise nelle università e coprì 
                  il massacro degli oppositori, mentre veniva sommerso da accuse 
                  di corruzione. Intanto i movimenti guerriglieri – fondamentalmente, 
                  l’Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP), trotzkista, 
                  e i Montoneros (peronisti di sinistra) – intensificavano 
                  le attività e gli attentati. López Rega cadde in disgrazia nel luglio 1975, in seguito 
                  a lotte interne al peronismo, e si ritirò negli Stati 
                  Uniti, ma non per questo l’AAA smise di operare. I militari 
                  continuarono a conquistarsi progressivamente spazi finché 
                  si fecero carico della lotta contro la guerriglia in tutto il 
                  Paese. Il governo era in bilico. Agli inizi di marzo del 1976 
                  il quotidiano del mattino di Buenos Aires, «La Prensa» 
                  informò che, secondo un calcolo delle «forze di 
                  sicurezza», negli ultimi tre anni erano morte «per 
                  motivi politici» 1.358 persone, fra cui 1.122 civili.
 I militari argentini, abituati a un ruolo da protagonisti nella 
                  vita politica del Paese, destituirono il governo peronista il 
                  24 marzo 1976 e una giunta di comandanti militari designò 
                  presidente della Repubblica il generale Jorge Rafael Videla. 
                  A partire da quel momento le bande paramilitari furono integrate 
                  in un vero e proprio piano di sterminio orchestrato dalle forze 
                  armate stesse. I gruppi operativi congiunti ebbero a disposizione 
                  non solo l’infrastruttura militare, ma anche le risorse 
                  e la copertura dello Stato. I commando sequestravano gli oppositori 
                  di giorno e di notte, nelle loro case, sui posti di lavoro o 
                  per strada, e godevano di assoluta impunità.
 I militari uruguayani, al potere già dal 1973, erano 
                  riusciti a stabilire qualche contatto con le prime bande paramilitari 
                  argentine. Grazie a ciò, nel 1975 riuscirono ad ammazzare 
                  diversi oppositori loro connazionali che vivevano in esilio 
                  a Buenos Aires. Ma questa era l’occasione per operare 
                  su grande scala. E non la sprecarono. Il 7 maggio, quarantacinque 
                  giorni dopo il colpo di Stato, l’allora cancelliere uruguayano 
                  Juan Carlos Blanco si recò a Buenos Aires, dove incontrò 
                  il suo omologo argentino e le alte gerarchie militari, forse 
                  per concordare qualche dettaglio politico e diplomatico prima 
                  di scatenare la muta.
 L’accordo fu siglato: i commando uruguayani furono autorizzati 
                  ad agire liberamente in territorio argentino godendo dell’appoggio 
                  logistico delle forze locali. I risultati non si fecero attendere: 
                  quindici giorni dopo quell’incontro furono sequestrati 
                  nei rispettivi domicili a Buenos Aires e successivamente assassinati 
                  il senatore Zelmar Michelini, ex ministro e figura di primo 
                  piano del tradizionale Partido Colorado, che aveva abbandonato 
                  nel 1971 per fondare insieme ad altri esponenti politici il 
                  Frente Amplio, e il deputato Héctor Gutiérrez 
                  Ruiz, giovane e brillante parlamentare del Partido Nacional. 
                  I loro cadaveri furono ritrovati in un’auto accanto a 
                  quelli di altri due uruguayani: Rosario Barredo e William Whitelaw. 
                  Il candidato alla presidenza del Partido Nacional, Wilson Ferreira 
                  Aldunate, era il quinto nella lista nera di quella notte, ma 
                  riuscì a sfuggire miracolosamente e cercò rifugio 
                  in Europa. Come tanti altri uruguayani, anche loro dopo il colpo 
                  di Stato avevano optato per l’esilio, e di lì denunciavano 
                  costantemente il regime militare. Da quel momento in poi, centinaia 
                  di uruguayani esiliati a Buenos Aires avrebbero subìto 
                  persecuzioni, torture, esecuzioni o sarebbero scomparsi come 
                  risultato di un piano di sterminio degli oppositori divenuto 
                  noto come «la guerra sucia», la guerra sporca, che 
                  contemplava fra l’altro la cooperazione fra gli eserciti 
                  delle dittature della regione, un coordinamento delle forze 
                  repressive denominato «Operazione Condor».
  “Bottino di guerra”
 La guerra sporca regionale – il cui scenario principale 
                  fu Buenos Aires – aveva vari obiettivi. Forse il più 
                  sinistro era quello concernente i bambini: anche contro di loro 
                  venne applicata una politica sistematica di sequestri e sparizioni, 
                  con la variante che spesso erano tenuti in vita e consegnati 
                  a famiglie di responsabili della repressione. I bambini erano 
                  considerati alla stregua di «bottino di guerra», 
                  e il loro sequestro acquisiva il significato di aggiungere all’eliminazione 
                  fisica una sorta di «scomparsa morale» del «nemico», 
                  poiché i suoi discendenti sarebbero stati educati in 
                  un sistema di idee e valori che non solo giustificava l’assassinio 
                  dei loro veri genitori, ma proclamava altresì la volontà 
                  di rifarlo nel caso lo si fosse ritenuto necessario. L’effetto 
                  più perverso di quella politica è che sicuramente 
                  molti dei bambini che non sono ancora stati ritrovati interpretano 
                  quella fase della storia recente secondo il punto di vista dei 
                  loro carnefici: inconsapevolmente, forse giudicheranno i veri 
                  genitori alla stregua di «terroristi», «assassini», 
                  «traditori della patria», utilizzando gli stessi 
                  concetti di discriminazione politica con i quali si è 
                  preteso giustificare un genocidio di cui essi sono, in realtà, 
                  vittime. A quell’epoca scomparvero in Argentina (secondo un elenco 
                  parziale elaborato dalle Abuelas di Plaza de Mayo) 
                  settantadue bambini: quaranta sono stati ritrovati, sei sono 
                  risultati morti, ventisei non sono ancora stati individuati. 
                  Furono inoltre sequestrate centotrentuno donne incinte e vi 
                  sono prove che la maggioranza partorì. Di quei bambini 
                  nati in cattività finora ne sono stati identificati solo 
                  quattro.
 La guerra sporca fu condotta anche contro i bambini.
 Sara e Simón sono due delle sue vittime.
 
 Carlos 
                  Amorín 
                  
                    | Una 
                        muta di cani rabbiosi  Fu 
                        come l’esplosione di una bomba. Il campanello suonava 
                        senza sosta mentre i vetri della porta sulla strada andavano 
                        in mille pezzi. Non ebbero neanche il tempo per pensare. 
                        Intanto che Sara e Asilú giungevano davanti alla 
                        porta, una dozzina di uomini in borghese con armi da guerra 
                        entrarono in casa come una muta di cani rabbiosi. La porta 
                        a vetri con sbarre in ferro battuto dava accesso al garage, 
                        dov’era parcheggiata la jeep che Mauricio usava 
                        abitualmente per i suoi spostamenti. Era bastato rompere 
                        i vetri e girare la chiave infilata nella serratura interna. 
                        Le due donne furono immobilizzate contro la jeep mentre 
                        gli altri militari circondavano la casa. Urlavano ordini, 
                        buttavano giù le porte a calci. «Voi: controllate 
                        di sopra! Voi: qui, sulla scala! Forza! Passate tutto 
                        al setaccio!». Tutto succedeva in maniera vertiginosa. Puntando contro 
                        di loro le armi, chiesero urlando i loro nomi. Sara non 
                        riusciva a ricordare il suo nuovo nome falso e continuava 
                        soltanto a esclamare: «Mamma! Mamma! Chi sono questi 
                        uomini?». Asilú le rispose che erano poliziotti 
                        e Sara, entrando nella parte pur senza riuscire a ricordare 
                        il nome che figurava sui propri documenti, tentava di 
                        fare la commedia: «No, mamma, non possono essere 
                        poliziotti!».
 «Di sopra non c’è nessuno!» gridò 
                        qualcuno.
 Per un attimo i militari rimasero un po’ sconcertati. 
                        Si aspettavano di trovare anche un uomo in casa, e invece 
                        c’erano solo due donne. La loro esitazione tuttavia 
                        durò assai poco. Un membro del commando aveva trovato 
                        nel doppio fondo di un cassetto la foto di Gerardo Gatti 
                        disteso su una branda del centro di detenzione di Orletti. 
                        Cominciarono subito a torturarle: Asilú veniva 
                        picchiata in una stanza del pianterreno, mentre Sara veniva 
                        massacrata di pugni e calci sul letto nella sua stanza. 
                        A ogni colpo vedeva ballonzolare la culla di suo figlio 
                        e cercava di afferrarla perché non cadesse sul 
                        pavimento. Volevano sapere dov’erano nascoste le 
                        armi, dove si trovava Mauricio e quando sarebbe tornato. 
                        Una ventina di minuti dopo le botte e gli insulti cessarono.
 Altri quattro uomini entrarono nella camera da letto. 
                        Quello che sembrava il capo dell’operazione diede 
                        un’occhiata alla stanza soffermandosi un attimo 
                        sulla culla. Prese la federa di un cuscino, ci fece un 
                        nodo a un’estremità, andò fino all’armadio 
                        a muro e cominciò a riempirla con tutte le cose 
                        di valore che gli cadevano sotto gli occhi. Guardò 
                        Sara e le domandò: «Sai chi sono, vero?». 
                        Lei negò scuotendo la testa. «Non mi conosci? 
                        Sono il maggiore José Gavazzo, dell’esercito 
                        uruguayano, mentre lui» disse indicando un uomo 
                        al suo fianco «è un ufficiale dell’esercito 
                        argentino».
 Molti anni dopo Sara avrebbe riconosciuto nell’«ufficiale 
                        dell’esercito argentino» il nazista Aníbal 
                        Gordon, capo dell’Alianza Anticomunista Argentina 
                        (AAA).
 «Ha detto qualcosa?» domandò Gavazzo.
 «Dice che non ci sono armi» rispose un tipo 
                        che si distingueva dagli altri per la particolare crudeltà 
                        nel picchiare. Era alto, magro, con i capelli neri imbrillantinati. 
                        Tutto nel suo aspetto era ripugnante. D’improvviso 
                        tirò fuori la catena di una bicicletta e cominciò 
                        a farla roteare per aria.
 «La lasci a me, maggiore, la faccio cantare in due 
                        minuti» pregava.
 I membri del commando abbandonarono per il momento le 
                        due donne e con la stessa violenza che avevano esercitato 
                        contro di loro si misero a perquisire minuziosamente tutt’intorno. 
                        Spaccarono i mobili, sventrarono i materassi con i coltelli, 
                        fecero saltare gli infissi delle porte, sfondarono gli 
                        armadi a muro. Nulla sfuggì alla perquisizione. 
                        «Signora, prenda il bambino» disse Gordon, 
                        che fino a pochi minuti prima l’aveva picchiata 
                        brutalmente. Voleva perquisire la culla. Sul letto c’era 
                        un bambolotto che Mauricio aveva comprato per Simón. 
                        Uno degli uomini lo prese per i capelli e con una mossa 
                        rapida e brusca gli tagliò la testa con un coltello 
                        per controllare l’interno. Non ci trovò niente.
 Sara era seduta sul pavimento, rannicchiata in un angolo 
                        della camera da letto. Le sanguinavano la bocca e il naso, 
                        ma non se ne rese conto finché non vide le macchie 
                        sugli indumenti di Simón. Non sentiva dolore. Sapeva 
                        che poteva sperare di vivere ancora solo pochi giorni 
                        e che l’avrebbero torturata selvaggiamente. Il suo 
                        nome sarebbe stato uno in più nella lista dei desaparecidos. 
                        Pensò alla sua famiglia, a Mauricio, e si aggrappò 
                        al corpicino del figlio. Lui doveva sopravvivere. Simón 
                        doveva vivere. Se lo stringeva al petto. Ormai non sarebbe 
                        più stata il suo cappotto. Ormai non avrebbe più 
                        potuto proteggerlo, allattarlo, crescerlo. Ma voleva credere 
                        che quella non sarebbe stata la sua fine.
 Sentì qualcuno dire qualcosa a proposito del «trasferimento». 
                        Strinse Simón più forte e chiuse gli occhi. 
                        Gavazzo entrò nella stanza.
 «Meglio se lo lasci, dove vai non puoi portarlo 
                        con te. Lui starà bene, non preoccuparti. Questa 
                        guerra non è contro i bambini».
  Carlos Amorín
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                    | Rolo 
                        Diez giornalista e scrittore argentino, esule dal 1977, 
                        ha vissuto in Francia, Italia, Spagna e infine a Città 
                        del Messico, dove risiede tuttora.  -------------------------- 
                        Carlos Amorín (Montevideo, 1954) è giornalista 
                        e scrittore. Esule dal 1971 al 1985 (dapprima in Cile, 
                        poi in Svezia, infine in Francia), è ora caporedattore 
                        del settimanale uruguayano «Brecha» e ha scritto 
                        altri tre libri su tematiche ambientali e sui diritti 
                        umani.
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  Carlos 
                        Amorín LA GUERRA SPORCA CONTRO I BAMBINI
 storia di Sara e Simón
 176 pp.
 euro 14,00
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