| Teatro sociale Molto probabilmente non avevano la «dignità» 
                  letteraria del teatro maggiore, e anche la fama degli autori 
                  non varcava gli angusti ambiti delle sale dove recitavano le 
                  filodrammatiche. Però non erano neppure testi scritti 
                  con la mano sinistra, alla buona, per palati grossi a un tanto 
                  al chilo, perché il piccolo, grande mondo proletario 
                  al quale si rivolgevano dall’alto del palcoscenico aveva 
                  un palato fine, da intenditore esigente. E soprattutto avevano 
                  una funzione, la manifesta funzione di parlare direttamente 
                  al cuore di un popolo affamato di buone letture, di speranze 
                  di riscatto e di emozioni capaci di dare corpo a quella solidarietà 
                  di classe che, sola, poteva garantire il loro «diritto 
                  all’esistenza». Il teatro sociale, il teatro rivoluzionario, il teatro degli 
                  esclusi e dei sovversivi! Un genere letterario copioso e fortunato, 
                  che fra il finire dell’ottocento e i primi decenni del 
                  novecento divenne uno fra gli strumenti culturali più 
                  importanti per l’educazione politica e «sentimentale» 
                  del nostro proletariato. Un genere dai contenuti dichiarati, 
                  esplicitati con la chiarezza del fine rivoluzionario: contenuti 
                  didascalici, pedagogici, formativi di una coscienza e di una 
                  consapevolezza che potessero, una volta svuotatasi la sala della 
                  recita, trasformare le tensioni e le ingiustizie in volontà 
                  di lotta e di attacco alle strutture dello sfruttamento. Un 
                  teatro che portava sulle scene la vita quotidiana delle plebi, 
                  le lotte, gli scioperi, gli eccidi, le infamie di una borghesia 
                  infame e irrecuperabile, le disgrazie di vite sofferte e infrante 
                  da una durezza senza speranza. Un genere che fra gli anarchici, 
                  soprattutto, ebbe larga diffusione, sia perché la propaganda 
                  diretta (e questa era propaganda diretta coi fiocchi) era strumento 
                  naturale per l’azione dei libertari, sia perché 
                  la diaspora del movimento, coi suoi membri costretti ad emigrare 
                  per trovare condizioni di vita più dignitose o per sfuggire 
                  alle continue attenzioni repressive del potere, creava ovunque, 
                  nel nord dell’Europa come nelle Americhe, affollate comunità 
                  di compagni. E in queste il fiorire di una letteratura che riusciva 
                  a mettere in sintonia l’esistenza quotidiana con i momenti 
                  di svago o di arricchimento umano e culturale, diventava fondamentale 
                  strumento di coesione e di identità.
 Militanti autodidatti Molti furono i nostri compagni che si cimentarono col teatro 
                  sociale, e alcuni famosi, come Pietro Gori o Luigi Damiani, 
                  infaticabili autori di fortunatissimi testi più e più 
                  volte portati sulle scene di mezzo mondo. E lo stesso Malatesta, 
                  a lungo stimolato dagli amici e consapevole dell’importanza, 
                  per la diffusione dell’Idea, di questa forma di comunicazione, 
                  si cimentò diligentemente in un Lo sciopero, 
                  dramma in tre atti edito postumo a Ginevra nel 1933 per i tipi 
                  de «Il Risveglio» di Luigi Bertoni. Ma più 
                  spesso gli autori sono figli del popolo, lavoratori fra i lavoratori, 
                  militanti autodidatti quotidianamente impegnati nella lotta 
                  e partecipi, sul posto di lavoro e nella società, delle 
                  situazioni rappresentate sul palco e delle contingenze vissute 
                  giorno per giorno dagli spettatori. E fra i tanti, in questo 
                  Ritratti in piedi, propongo all’attenzione dei 
                  lettori l’operaio tessile di Schio Ausonio Zuliani (Tempeste 
                  Sociali. Dramma sociale in tre atti con Prologo in versi martelliani, 
                  La Spezia, «Il Libertario», 1915), il calzolaio 
                  vercellese Tomaso Concordia (Lo Sciopero dei risaiuoli. 
                  Dramma rivoluzionario in quattro atti con prologo d’introduzione, 
                  Genova, La Comune, 1920) e il minatore aquilano Umberto Postiglione 
                  (Come i falchi. Scene drammatiche in due atti, Philadelphia, 
                  Circolo di Emancipazione Sociale, 1939).
 I testi di questi autori, quanto mai sintomatici e felicemente 
                  rappresentativi di quanto fin qui detto, mostrano una sostanziale 
                  uniformità, sia nella struttura narrativa caratterizzata 
                  da stilemi comuni, che nella scelta degli argomenti. Da una 
                  parte i buoni e dall’altra i cattivi, qui gli operai, 
                  i contadini, gli apostoli della redenzione sociale, là 
                  il potere e la ricchezza, il padrone, il giudice, il prete, 
                  lo sbirro. E poi la provocazione padronale, la durezza dello 
                  sfruttamento, lo sciopero, la lotta, la sollevazione delle plebi 
                  incitate dagli anarchici e dai socialisti a cui si contrappone 
                  la crudeltà e l’infamia del nemico, l’ardire 
                  e l’ardore del giovane protagonista, la purezza d’animo 
                  della figura femminile legata all’eroe, la nobile figura 
                  del transfuga della borghesia che ha dedicato la sua scienza 
                  al proletariato. E il tradimento del crumiro o della spia (frequenti 
                  per ricordare allo spettatore la necessità di tenere 
                  sempre gli occhi aperti), la fame, il dolore, la fatica di trovare 
                  un lavoro, la lotta per la sopravvivenza, fino alla tragedia 
                  finale. Perché è una costante la mancanza del 
                  lieto fine, del «vissero tutti felici e contenti», 
                  non solo in quanto impedita dalla crudeltà di quella 
                  vita così fedelmente riportata sulla scena, ma anche 
                  perché il dichiarato intento didascalico non può 
                  assecondare sentimenti di ottimismo contrari all’impegno 
                  e alla durezza dello scontro. E infatti è essenziale, 
                  per la struttura del testo, lo scontro finale, redentore, catartico, 
                  durante il quale le masse, vincenti o perdenti a questo punto 
                  ha meno importanza, cercano di prendere in mano le proprie sorti 
                  senza permettere a nessuno di provare a fermarle.
 Nelle Tempeste Sociali di Zuliani, precedute da un 
                  prologo nel quale l’autore declama gli intenti educativi 
                  di questa forma di propaganda e la auspicata adesione del teatro 
                  alla realtà, si intreccia alle traversie politiche del 
                  protagonista, latitante per sfuggire a una condanna rimediata 
                  per alcuni articoli di giornale, una fosca storia di calunnie 
                  e tradimenti famigliari orditi dal proprietario della fabbrica 
                  tessile di Schio. Calunnie e provocazioni che porteranno lo 
                  sventurato Ermete de Fiori, vero e proprio alter ego 
                  di Zuliani, costretto ad emigrare in Svizzera per sfuggire alle 
                  rappresaglie padronali, a morire in carcere dopo sette anni 
                  di ingiusta detenzione.
 Particolarmente drammatica è la descrizione dell’eccidio 
                  che segue alle provocazioni padronali, durante il quale muore 
                  il miglior compagno di Ermete, come singolare è la figura 
                  del carceriere, giovane non ancora segnato dalla durezza del 
                  mestiere, che aiuta e compatisce il giovane prigioniero contribuendo, 
                  nel momento supremo, ad allontanare il cappellano della prigione, 
                  torvamente appollaiato sul letto del moribondo.
 Minatore e hobo
 In tutt’altra landa il testo di Postiglione, fra i minatori 
                  della Pennsylvania, una comunità di emigrati italiani 
                  dove ancora non è arrivata la parola sovversiva dell’anarchia 
                  liberatrice ed emancipatrice. Una comunità che senz’altro 
                  riproduce una delle tante frequentate dall’irrequieto 
                  abruzzese, minatore, hobo e instancabile militante 
                  sindacale. Qui è il capoccia, proletario traditore della 
                  sua classe trasformatosi in aguzzino degli ex compagni di lavoro, 
                  a fare una brutta fine, ucciso ed appeso alla vista di tutti, 
                  come i falchi secondo una ancestrale tradizione contadina, 
                  a monito per i suoi pari e ad incitamento alla rivolta per gli 
                  sfruttati abituati a tremare dinanzi a lui. La sua colpa il 
                  ricatto e il sordido tentativo di approfittare della compagna 
                  di Enzo in cambio di un po’ di lavoro, il suo imperdonabile 
                  errore ignorare che Enzo ha trovato, nella coscienza dello sfruttamento 
                  e nella praticabilità della rivolta, la forza per farlo 
                  pentire definitivamente delle sue torbide abitudini. Inutili 
                  saranno gli appelli in nome di dio per sfuggire alla vendetta, 
                  perché «in nome di dio ci derubate e ci affamate... 
                  in nome di dio ci prendete tutto e ci negate ogni cosa... in 
                  nome di dio voi vorreste che ci rassegnassimo a tutte le vostre 
                  infamie! Ah... no davvero!».
 Il vercellese Concordia non poteva ambientare che nelle sue 
                  campagne lo sciopero dei risaiuoli. Sono i contadini 
                  stavolta che si stringono in lega, decisi a far valere i loro 
                  diritti contro Lorenzo, sindaco e proprietario terriero, tanto 
                  arrogante quando può ripararsi dietro la divisa del brigadiere 
                  quanto pavido allorché la folla dei risaiuoli cerca di 
                  stanarlo dalle sale del municipio. Particolarmente interessante 
                  la figura di Riccardo, giovane anarchico e medico dei poveri, 
                  che per aver tradito la propria classe spronando alla lotta 
                  la folla esasperata sarà il primo a soccombere davanti 
                  ai colpi della forza pubblica. Altrettanto significativa la 
                  figura del prete, laido adescatore di giovinette e avido seguace 
                  dei piaceri della carne, la cui volgarità si contrappone 
                  all’idealismo del dottore, lui sì vero Cristo pronto 
                  a sacrificarsi per la redenzione del lavoro. Sarà Tomaso, 
                  i cui genitori sono fra le vittime dell’eccidio, a bilanciare 
                  il corso della storia incendiando la casa e le proprietà 
                  del sindaco, ma dopo anch’egli morirà, suicidandosi 
                  per non finire i suoi giorni nelle patrie galere.
 Trame abbastanza semplici, essenziali come si può capire, 
                  direttamente finalizzate alla propaganda, ma non per questo 
                  prive di una qualità letteraria che traspare nella attenzione 
                  dedicata alle didascalie e che vuole essere non solo il legittimo 
                  momento di gratificazione per l’autore, ma, soprattutto, 
                  una dimostrazione di rispetto per il pubblico, «povero» 
                  certamente, ma proprio per questo con maggiore diritto di assistere 
                  ad uno spettacolo dignitoso e ben costruito. E dimostrazione 
                  di rispetto anche per i luoghi e le circostanze delle rappresentazioni, 
                  quando nelle sale delle filodrammatiche, dei circoli operai, 
                  delle case del popolo, delle povere sale da ballo affittate 
                  per pochi soldi o nei parchi delle periferie il popolo si ritrovava 
                  come comunità, organizzando le serate di sostegno a uno 
                  sciopero o a una vertenza, le feste campestri, le riffe per 
                  la propaganda, le pubbliche letture o i comizi, preceduti dalla 
                  farsa di prammatica e conclusi dal lavoro degli attori. Quei 
                  giovani proletari che trasmettevano un fiotto di emozioni, portando 
                  in scena la vita quotidiana, la loro e quella di chi li applaudiva.
 Operai, contadini pellagrosi, famiglie costrette a emigrare, 
                  minatori abbruttiti dalla fatica, sterratori, marinai, tutta 
                  gente sconosciuta condannata a una situazione di duro sfruttamento 
                  ma mai vinta e sempre in piedi, che nella sua capacità 
                  di interloquire, anche durante una recita, con chi gli indicava 
                  la strada della emancipazione trovava, ogni giorno che dio mandava 
                  in terra, la dignità di lottare e di non curvare la schiena.
  Massimo Ortalli
   Odissea perpetuadi Ausonio Zuliani
 La nostra vita errante di militi ed attori, È un’odissea perpetua di lotte e di dolori;
 È una battaglia audace tra l’infuriar degli odi,
 Nel mare tempestoso di mille inganni e frodi.
 Noi siamo i cavalieri d’un ideal d’amore
 Di cui, tra sogni audaci, trabocca il nostro cuore;
 Noi siam gli araldi impavidi d’un’utopia radiosa
 Che all’igneo orizzonte s’annunzia minacciosa...
 E come il navigante, sui flutti procellosi,
 Lottando tra l’insidie dei gorghi vorticosi,
 Fissa gli sguardi, ansioso, nel bieco fortunale
 Verso il chiarore incerto del provvido fanale,
 Così noi pur nell’ansia, del battagliar febbrile
 Contro lo sfruttamento e la violenza vile,
 La tremula pupilla lontan figgiamo ognora
 Ove dell’avvenire già spunta in ciel l’aurora.
 (breve pausa) Noi non cerchiam l’applauso del pubblico 
                  elegante,
 Che vive del sudore del popol dolorante,
 Né ci conturba punto la stupida insolenza,
 Del critico che vende... la penna e la coscienza...
 Noi combattiam con l’arte, di verità sovrana,
 La tragica epopea della giustizia umana,
 Stillando nelle vene dei fiacchi e degli imbelli,
 Le generose audacie dei forti e dei ribelli.
 E in questa latta immane di redenzion sociale
 Ci è sol conforto e guida la scienza e l’ideale,
 Ci è sol compenso e premio l’apostrofe brutale
 E la violenza cinica del codice penale...
 E mentre gli assassini del popolo affamato
 E gli svaligiatori delle banche di stato,
 Son fatti cavalieri con decreto speciale
 Per volontà suprema del vampiro regale,
 Noi, che vogliamo assurgere al sogno redentore
 Di libertà e giustizia, di fratellanza e amore,
 Siamo bersaglio all’odio dei birri e dei potenti
 E spesso imprigionati siccome malviventi.
 Così la legge impone, la legge dei signori,
 Contro il diritto sacro di noi lavoratori,
 Contro la voce libera della giustizia umana
 Che trionfar dovrebbe tra gli uomini sovrana.
 Ma contro questa legge iniqua, infame, odiosa,
 La tempesta sociale già rugge minacciosa
 E squassa, quale raffica del turbo aquilonare,
 La duplice tirannide del trono e dell’altare...
 È la fatal crociata di tutti i derelitti
 Per la final conquista di più giusti diritti,
 La gran tragedia umana degli odi invan repressi
 A furia di manette, a furia di processi...
 Ma noi combatteremo la gran battaglia ardita
 In nome della plebe oppressa ed asservita,
 Sinché, redenti i popoli a nuova civiltà,
 Unica legge al mondo sarà la Libertà!
   Vigilia d'importanti avvenimentidi Ausonio Zuliani
 ARTURO (entrando) – Buona sera, compagni. (evitando Gino, stringe la mano ad Armida e fa una carezza 
                  ad Anita).
 ARMlDA (lo prende per mano) – Buon Arturo ascoltami. 
                  Noi siamo forse alla vigilia d’importanti avvenimenti 
                  che richiedono fermezza e solidarietà. Di fronte alla 
                  brutalità dei nostri aguzzini noi dobbiamo unirci in 
                  un fascio concorde e deciso onde servire d’esempio alla 
                  folla irrequieta, che attende da noi la scintilla annunziatrice 
                  della prossima bufera. (comprendendo col gesto il pubblico) 
                  Per la causa di tutti e d’ognuno, per il bene dei nostri 
                  fratelli derelitti e schiavi, noi dobbiamo dare una prova della 
                  nostra serietà, della nostra volontà, della nostra 
                  forza. Che i piccoli rancori tacciano di fronte all’ira 
                  nemica. Tregua ai ripicchi, alle beghe personali. Nell’ora 
                  tragica e solenne sappiamo essere compagni e fratelli; un solo 
                  corpo ed una sola coscienza. (l’attira presso Gino, 
                  indi unendo le loro mani) Per la schiera innumere dei senza 
                  pane, per le vittime oscure della reazione che nelle carceri 
                  soffrono per la colpa sublime d’aver amati i deboli... 
                  dimenticate il passato e ritornate amici.
 Arturo e Gino si abbracciano
 (rombo prolungato di tuono)
 ANITA – Dunque, Arturo, che novità ci rechi?
 ARTURO – Vengo dalla sede del Gruppo Socialista e non 
                  ho potuto informarmi di ciò che avvenne nelle ultime 
                  ore.
 ANITA – Ma, insomma, i compagni non sapevano nulla?
 ARTURO – Alle quattro la situazione era, su per giù 
                  quella di stamane. Le vie e le piazze erano animatissime. S’è 
                  fatta una dimostrazione di simpatia davanti alla caserma degli 
                  alpini che si rifiutarono di obbedire ai comandi al canto dell’Internazionale.
 GINO – Bravi, perdio; se si comincia così siamo 
                  a buon punto.
 ANITA – Lo dicevo io che gli alpini non impugnerebbero 
                  i fucili contro i loro fratelli!
 ARTURO – La propaganda d’Ermete comincia a dare 
                  i suoi frutti. (come scoraggiato, con breve pausa) 
                  Però non bisogna illudersi troppo... In paese corron 
                  le voci che stia per giungere un reggimento di fanteria...
 GINO (scattando) – Non dovevano scioperare i 
                  ferrovieri?
 ARTURO (con gesto significativo) – Avevano promesso, 
                  ma non se ne fece nulla. Certe abitudini non si perdono così 
                  presto!
 ARMIDA (dopo breve riflessione, a Gino) – Temo 
                  che la faccenda si faccia seria; se giungono i soldati siamo 
                  bell’e spacciati! I lavoratori non sono preparati ad una 
                  simile eventualità. Non possiedono né fucili né 
                  altri mezzi persuasivi da opporre al nemico!
 ARTURO (incoraggiandola) – Non bisogna però, 
                  disperare. Se lo sciopero generale perdurerà dovranno 
                  pur cedere lor signori! Siamo noi i produttori e se le nostre 
                  braccia riposano non sapranno che cosa mangiare.
 ARMIDA – Sono illusioni, caro mio! Con l’educazione 
                  che hanno ricevuta i lavoratori in questi ultimi trent’anni 
                  di propaganda legalitaria, sarebbero essi i primi a subire i 
                  tristi effetti d’uno sciopero generale. I ricchi troverebbero 
                  sempre il mezzo di procurarsi il necessario alla vita. Bisognerebbe 
                  che gli operai fossero risoluti a saccheggiare i magazzini, 
                  ma col rispetto che hanno per la proprietà difficile 
                  spingerveli.
 ARTURO – Apriranno bene gli occhi, una volta o l’altra!
 ANITA (dopo breve pausa) – Arturo, non ci hai 
                  ancora detto che cosa avete deciso nella vostra riunione.
 ARMIDA – A proposito, che pensano di fare i tuoi compagni?
 GINO (ironico) – Diavolo, non è difficile 
                  indovinarlo… Avranno certo votato… un ordine del 
                  giorno di protesta!
 ARTURO – No, caro Gino, i giovani socialisti han fatto 
                  tesoro della propaganda d’Ermete, dei sacrifici generosi 
                  di tanti martiri, della dolorosa esperienza di questi ultimi 
                  anni di battaglie; e si sono schierati, senza reticenze e senza 
                  ipocrisie al vostro fianco, pronti a qualunque evento per la 
                  difesa della libertà.
 Tratto da: Ausonio Zuliani, Tempeste Sociali, La Spezia 
                  1915.    Un mondo nuovodi Umberto Postiglione
 ENZO – Che vuoi che ti dica… Avrei tante cose da 
                  dirti che non so da dove cominciare. Ho visto un mondo nuovo… 
                  ecco tutto! LINA (ridendo) – Hi… hi… hi!… 
                  Come le dici grosse! Un mondo nuovo a poche miglia di qui… 
                  e in una settimana?…
 ENZO (con convinzione) – Si capisce… un 
                  mondo nuovo. Quegli amici che ho incontrati laggiù sai… 
                  mi hanno aperto gli occhi.
 LINA – E che forse, prima, li avevi chiusi?
 ENZO (vivamente) – Proprio così… 
                  Li avevo chiusi, come li hai tu e tanti altri lavoratori che 
                  seguitano a crepar di fatica e di fame biascicando avemarie 
                  e paternostri.
 LINA – Ma cosa ti gira per la testa, Enzo?… Che… 
                  t’hanno stregato, forse?
 ENZO – Già, già… stregato! Altro che 
                  stregato!… Ho visto in un’ora, quello che in tutta 
                  la mia vita non ho mai visto.
 LINA (incuriosita) – Ma si può sapere 
                  cosa hai visto?…
 ENZO – Ecco, cosa ho visto… L’altra sera a 
                  Black Dimond capitai a caso in una sala attrattovi dalla voce 
                  di una persona che parlava ad un gruppo di minatori. Mi par 
                  di udirla ancora adesso quella voce… E quelle parole mi 
                  sono scese giù nel fondo dell’animo… Ma vedi… 
                  non so ridirle, ché altrimenti le andrei ripetendo per 
                  tutto il mondo!
 LINA (c. s.) – E che diceva, dunque, colui che 
                  parlava?
 ENZO – Che diceva?… Parole d’oro, Lina mia, 
                  parole d’oro! Quando entrai, parlava della vita dei minatori, 
                  della nostra fatica bestiale, dei pericoli a cui ci esponiamo… 
                  Sai come chiamava i minatori?… Talpe umane, li chiamava… 
                  Proprio così, perdio! Come le talpe siamo noi… 
                  Viviamo sottoterra ed una frana di roccia può da un momento 
                  all’altro seppellirci, senza l’ultimo bacio della 
                  mamma… della sposa… Talpe umane!… (breve 
                  pausa. Resta pensieroso, poi avvicinandosi a Lina e mettendole 
                  le mani al collo) E di voi parlò, Lina… delle 
                  nostre donne!… Ah, quando disse che molte donne affrante 
                  dai patimenti, minacciate dalla fame… son costrette a 
                  darsi al boss perché mantenga al lavoro il marito… 
                  (Lina singhiozza). – Lina, tu piangi?… 
                  Oh… piangevo anch’io a sentir quel giovane… 
                  Aveva le lagrime agli occhi anche lui. (Breve pausa). 
                  Sai Lina, fu tanta l’impressione che quelle parole mi 
                  lasciarono, che rimasi lì come incantato. Pensavo a te, 
                  Lina,… Ti vedevo, qui, sola… senza un soldo… 
                  spaurita. Immaginavo che qualcuno, approfittando della mia assenza, 
                  avesse potuto assalirti… ingannarti. Le tempie mi martellavano… 
                  Il sangue mi bruciava… Avrei voluto tornare subito qui… 
                  volare… e prendere per il collo il boss... quell’infame 
                  che m’ha costretto a separarmi da te, e... sgozzarlo come 
                  si sgozza un pollo…
   “Mi hai tolto il pane”di Umberto Postiglione
 ENZO (sprezzevole) – Enzo, sì… 
                  Non te l’aspettavi, eh? Lo avevi tirato bene il tranello. 
                  Ma ora nella rete ci sei tu, miserabile. E non ne uscirai liscio, 
                  credi a me. (Breve pausa). Tu mi hai tolto il pane... 
                  e poi volevi togliermi anche l’amore. Ho pur io ragione 
                  di toglierti la tua vitaccia incarognita? TONIO (spaventato e tutto umile) – Enzo... in 
                  nome di dio, perdonami!
 ENZO – In nome di dio?… In nome di dio ci derubate 
                  e ci affamate... in nome di dio ci uccidete come cani per le 
                  strade... in nome di dio ci massacrate nelle guerre... in nome 
                  di dio ci prendete tutto e ci negate ogni cosa… Ed è 
                  infine in nome di dio che voi vorreste che ci rassegnassimo 
                  a tutte le vostre infamie! Ah… no davvero!
 TONIO (c. s.) – Pietà di me, Enzo, perdonami!
 ENZO – Pietà?… Ed avesti tu pietà 
                  di questa donna che ti supplicava di lasciarla in pace?... Dovrei 
                  dunque aver pietà di te, io? Oh... no! Sarei un vile! 
                  Non ti bastava togliermi il pane, sei venuto a rubarmi anche 
                  l’amore e vorresti che io ti lasciassi impunito?... Tu, 
                  che ti sei appostato come un falco per afferrare la preda quando 
                  fosse sola!... (risovvenendosi) Ah, i falchi... laggiù 
                  nei vecchi paesi!... Ricordi, Lina?… Quando un contadino 
                  ammazzava un falco, lo inchiodava sulla porta di casa per dare 
                  esempio agli altri. (Cieco dall’ira) L’accetta, 
                  l’accetta!... (va in giro per la camera cercando l’accetta). 
                  Dov’è l’accetta ?... (la trova nell’angolo 
                  della porta, la impugna e dirigendosi minaccioso verso Tonio, 
                  atterrito, in atto di colpirlo) Voglio spiccargli la testa 
                  dal busto al miserabile ed inchiodarla sulla bocca della mina 
                  come s’inchiodano i falchi!
 Tratto da: Umberto Postiglione, Come i falchi, Philadelphia, 
                  1939.  
 Fannulloni accaparratori di Tomaso Concordia
 DOTTORE – Povere vittime di un sistema barbaro, d’una 
                  società ingiusta e sragionevole! Voi siete dei veri martiri, 
                  i martiri del lavoro! (verso il pubblico) E si osa 
                  dire che viviamo in piena civiltà, nel secolo del progresso 
                  e delle più miracolose scoperte… Povera civiltà! 
                  Inutili o vane scoperte! (avanzandosi verso il pubblico, 
                  con forza) Possiamo chiamarci civili, noi che permettiamo 
                  che la grande maggioranza degli uomini soffra ogni sorta di 
                  miseria e muoia di fame, dopo essersi logorata la salute lavorando 
                  come bestie mentre un pugno di fannulloni, perché accaparratori 
                  del prodotto dei primi, gozzovigliano senza tregua nei banchetti 
                  e nei festini, e muoiono sovente... d’indigestione? (dopo 
                  un istante di pausa) A che valgono tutte le miracolose 
                  scoperte dei nostri signori scienziati? A profitto di chi si 
                  realizza il progresso dell’industria, dell’agricoltura, 
                  del commercio, delle scienze, ecc. ecc.? Il frutto di tutte 
                  le ricerche scientifiche non è forse a totale vantaggio 
                  di chi tutto possiede; ed i miserabili, i diseredati, i dannati 
                  al lavoro irredento non sono ancora oppressi dal giogo religioso 
                  capitalista ed autoritario? Fra gli splendori di tutte le grandi 
                  scoperte, fra il lusso, l’abbondanza, l’arte raffinata, 
                  la letteratura utile e educativa e tutto ciò che costituisce 
                  la ricchezza sociale, ma proprietà di un’infima 
                  minoranza di uomini rinchiusi in un gretto conservatorismo, 
                  non vediamo dibattersi milioni, diecine di milioni, centinaia 
                  di milioni, la quasi totalità degli uomini in una terribile 
                  cerchia della moderna schiavitù, uguale a quella dei 
                  popoli barbari, ma forse ben più crudele di quella? (con 
                  forza) Sì! è una vergognosa farsa quella 
                  rappresentata dai signori scienziati, finché una società 
                  ingiusta come la nostra, non permetterà che tutti gli 
                  uomini godano i frutti del lavoro, dell’arte e del sapere 
                  umano!… (con largo gesto, indicando se ed il pubblico) 
                  Ma se vogliamo essere sinceri, perdio! bisognerà, ben 
                  gridar forte: noi siamo tutti dei malati di mente o delle perfette 
                  canaglie; perché, se fossimo ragionevoli, non dovremmo 
                  permettere che tanti milioni e miliardi e tante energie materiali 
                  ed intellettuali siano sprecate per l’opera incivile dell’oppressione, 
                  dello sfruttamento e della distruzione umana, costringendo i 
                  produttori della ricchezza sociale a vegetare nell’ignoranza, 
                  nella superstizione, nell’… – e perché 
                  non dirlo? – nello stato bestiale! L’intelligenza, 
                  il sapere, il coraggio, il valore e… e tutto quanto costituisce 
                  la parte migliore dell’umanità, oggi, nella società 
                  irragionevole, vengono adoperate per creare, inventare, scoprire 
                  cose se non inutili, certamente non urgentissime, quali: le 
                  scoperte chimiche, i dirigibili, l’aviazione, le scoperte 
                  dei poli, ecc. ecc., mentre quasi nessuno studia e lavora per 
                  scoprire il mezzo di affratellare gli uomini, mediante la messa 
                  a disposizione di tutti i viventi di: pane, casa, libri, ecc. 
                  E la medicina, a che cosa serve? Ad arricchire coloro che di 
                  questa ne han fatto un commercio! Altro che medicine dobbiamo 
                  somministrare agli uomini! Bisogna metterli in condizioni economiche 
                  tali da poter combattere il male. Si diano agli uomini cibi sani ed abbondanti, abitazioni comode, 
                  gaie, inondate di luce e accarezzate dai benefici raggi del 
                  sole, un’istruzione razionale ed un’educazione sociale; 
                  e allora i nove decimi dei mali travaglianti quasi interamente 
                  l’umanità, scompariranno, essendone scomparse le 
                  cause che li produssero... Ma così non si fa... perciò 
                  posso gridare forte: che una società che non studia i 
                  mezzi necessari per rendere felice tutti i suoi membri, la si 
                  può paragonare ad un’associazione di delinquenti, 
                  una cloaca di malviventi, od un circo di pazzi! Mentre la loro 
                  società permette che la tubercolosi, la pellagra, la 
                  malaria, l’anemia, il rachitismo e tantissimi altri mali 
                  mietano milioni e milioni di uomini, privi dei mezzi più 
                  elementari di difesa: cibi ed igiene; mentre i dirigenti trovano 
                  normale, giusto e logico che milioni di diseredati siano falciati 
                  dalla morte imperante nelle miniere, nelle zolfatare, nelle 
                  tetre officine, nelle malsane risaie ed in ogni luogo dove si 
                  lavora come bestie, la gente cosiddetta per bene, i signori 
                  del cosiddetto ordine, gl’imbecilli chiamano malfattori 
                  i generosi pionieri di un’Era nuova, i combattenti disinteressati 
                  pel bene sociale, gli apostoli della rigenerazione umana, i 
                  martiri che sanno lottare e morire per l’avvento di una 
                  società di liberi, di uguali e di amore vero! (osservando 
                  melanconicamente la camera) Ecco l’abitazione del 
                  povero ed avvilito risaiuolo! Confrontatela alle regge, al Vaticano, 
                  ai sontuosi palazzi dei ricchi: e poi negate, negate sfacciatamente 
                  che la questione sociale è una invenzione di menti esaltate, 
                  di gente squilibrata... (Facendo alcuni passi colle braccia 
                  incrociate, cupo) Quanta squallidezza !... Qui è 
                  necessario soccorrere questi infelici… (ponendo qualche 
                  moneta sul tavolino) Queste, buona Giovanna, serviranno 
                  per comperare ciò che sarà più urgente... 
                  Non rifiutate, ve ne prego... Mi addolora di non poter far di 
                  più pel momento...
   “Colle gambe nude” di Tomaso Concordia
 LORENZO – Dunque, parroco, ora andiamo a visitare i miei 
                  campi, le risaie e il lavoro della trebbiatura sull’aia… 
                  Vedrai a che bello spettacolo ti farò assistere!… 
                  E le belle mondine?... Le vedrai, Le vedrai! Son circa duecento, 
                  quasi tutte giovanette... ve ne sono di quelle che sembrano 
                  ancora bambine, che madonnine!... Oh! le vedrai colle gambe 
                  nude, curve, nella risaia... che po’ po’ di gambe!... 
                  Andiamo, vieni! DON CRISTOFORO, ridendo beatamente – Non c’è 
                  male! non c’è male! Dopo aver ben mangiato e ben 
                  bevuto, una buona passeggiatina all’aria libera dei campi, 
                  sotto i folti alberi, ad osservare le belle risaiuole intente 
                  a mondare il riso, non farà mica poi male!… (ridendo 
                  sempre più). Ma bravo! ma bravo, caro Lorenzo! si 
                  vede che sei un uomo giudizioso, tu! Ma si! andiamo a vedere 
                  i tuoi uomini… pardon!… le tue belle e graziose 
                  donne. (Con largo gesto). Oh! il lavoro!... solo esso 
                  rende felice chi lo compie! (Con una certa serietà). 
                  V’è al mondo uomo più contento del lavoratore… 
                  onesto, s’intende? Per lui la vita trascorre lieta e tranquilla.
 LORENZO, un po’ grave – Eh! Caro mio… 
                  una volta era così! ma oggi!… oggi con tutti i 
                  partiti avanzati e con tutte le mene pazzesche dei rivoluzionari, 
                  i contadini del Vercellese – che un tempo erano così 
                  docili, così pazienti, così presto contenti di 
                  quel poco che lor si offriva in cambio del lavoro – ora 
                  non son più quelli... sono in continue agitazioni, odiano 
                  il padrone e dicono apertamente che non saranno mai contenti 
                  fin che non li avranno espropriati!… Dacché è 
                  venuto quell’anarchico Zavattero a parlare sulla pubblica 
                  piazza contro i detentori della ricchezza ed in favore della 
                  messa in comune delle terre, a profitto dei produttori, i nostri 
                  contadini si son montato il capo!… parlano sul serio di 
                  fare l’uguaglianza...
 DON CRISTOFORO, con fine malizia – Dimentichi, 
                  però, che il prete esiste non per nulla… Difatti, 
                  non puoi negare che, col nostro confessionale dal pulpito, noi 
                  lavoriamo abbastanza bene per impedire che i lavoratori ascoltino 
                  questi arrabbiati rivoluzionari, e si accordino e si associno... 
                  Capirai, caro Lorenzo, noi conosciamo molto i loro difetti e, 
                  soprattutto, la debolezza delle donne... È nostro dovere, 
                  di buoni ministri di Dio, di coltivare questi gentili esseri 
                  deboli! Così facendo riusciamo ad ottenere questo: la 
                  donna reagisce con tutti i mezzi, non esclusa l’astuzia, 
                  contro le idee abominevoli del marito, contro lo spirito ribelle 
                  del fratello, contro il malcontento ognor crescente dell’amante... 
                  Lascia fare ai preti, Lorenzo mio! e non dimenticare il giusto 
                  proverbio popolare: «Il prete, colla paura dell’inferno, 
                  ed il carabiniere, colle manette, mantengono i poveri nella 
                  quiete». (ridendo a crepapancia) Ah! Ah!... Si 
                  vede che non sei ancor abbastanza furbo, tu!... Se ti spaventi 
                  del chiasso che fanno i socialisti e gli anarchici – poiché 
                  per ora, altro non è che fuoco di paglia – ti dimostri 
                  poco intelligente e meno chiaroveggente...
   “Son perduto” di Tomaso Concordia
 BRIGADIERE, bussando alla porta – Non mi son 
                  sbagliato, è qui… Aprite! TOMASO, di soprassalto – Eccoli!… Son perduto!
 BRIGADIERE – Tomaso, aprite!
 TOMASO, energico – Aprire? No! La pecora non 
                  va da sola nella bocca del lupo.
 BRIGADIERE, arrogante – In nome della legge, 
                  aprite!
 TOMASO, sarcastico e energico – Sempre in nome 
                  della legge!... La legge... Ma voi lo sapete che la vostra legge 
                  e iniqua e barbara!… È la vostra legge che condanna 
                  alla miseria milioni di lavoratori!... È la vostra legge, 
                  che voi sciagurati difendete, che spinge alla disperazione milioni 
                  e milioni di affamati, in mezzo all’abbondanza ed il lusso 
                  (con forza). In nome della legge! Ah, iene in sembianze 
                  umane!… La legge che voi difendete col fucile e le manette, 
                  è criminale, perché è fatta apposta per 
                  proteggere i potenti; mentre calpesta ed uccide i deboli! (Esclama). 
                  Mio padre e mia madre furono assassinate perché esistono 
                  le leggi infami in difesa dei ricchi e dei potenti… Ed 
                  è in nome di queste inique leggi che ora si vorrebbe 
                  arrestare, per far morir lentamente in una galera qualunque, 
                  l’uomo che ragiona, che ha palpiti generosi, che sogna 
                  un avvenire di pace e di giustizia, e combatte per la redenzione 
                  dei proletari... La vostra legge, dopo avere assassinati i genitori, 
                  vuol sopprimere l’orfano, il ribelle, il giustiziere. 
                  Vili!
 BRIGADIERE,  furioso – In nome della legge, aprite, 
                  o abbatteremo la porta!
 TOMASO, commosso – Genitori miei, perdonatemi 
                  (Rivolto al Brigadiere, con forza). La vostra legge 
                  non vi farà raccogliere che un cadavere! (Estrae 
                  la rivoltella e si spara un colpo nella testa. Cade al suolo 
                  gridando:) Viva la rivoluzione socia...
 La porta viene abbattuta, Brigadiere e carabinieri entrano 
                  colla rivoltella in pugno.
 CARABINIERI, vedendo il cadavere – È morto!
 BRIGADIERE, indifferente – Meglio così!
 PIETRO, di fuori – Cos’è successo! 
                  Cos’è successo!
 Entra e vedendo il cadavere si getta in ginocchio, lo abbraccia 
                  e lo bacia ripetutamente sulla fronte. Poscia, rialzandosi lentamente, 
                  si copre il viso colle mani e fra i singhiozzi, esclama:
 Hanno ucciso anche il figlio!
 BRIGADIERE – No. Il miserabile s’è fatta 
                  giustizia lui stesso. (Sogghignando). Tanto di guadagnato 
                  pel comune e pel governo!
 PIETRO, grave, commosso, ma con energia – Ma 
                  la sua dolorosa storia registrerà un’altra vittima 
                  di questa barbara società!
 Tratto da: Tomaso Concordia, Lo sciopero dei risaiuoli, 
                  Genova, 1920.  
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