|  Un ermetico chiaro per questo 
                  tempo oscuro
 Note in margine al libro di De Regibus su Francesco De Gregori. È uscito da qualche mese un libro importante, una ricca 
                  biografia di Francesco De Gregori, molto ben documentata nella 
                  proposizione e nell’analisi delle fonti e innovativa nell’esposizione. 
                  L’ha scritta uno dei migliori giornalisti musicali italiani, 
                  Enrico De Regibus, ed è un libro di inusitato valore 
                  critico nell’editoria di genere italiana, quasi totalmente 
                  dominata dalle agiografie pubblicitarie.
 Il volume si pone l’ingrato compito di rintracciare, seguendo 
                  l’intero percorso artistico del cantautore romano, le 
                  contemporanea Storia italiana. Capitolo per capitolo si svolgono, 
                  come uno specchio nello specchio, le vicende del belpaese e 
                  quelle dell’ottimo Francesco, e, quasi sempre, è 
                  lasciata al solo lettore, con una grande sapienza di scrittura 
                  che non sconfina mai nella forzatura, la sintesi fra le due 
                  cose.
 Ovviamente l’autore non tace le proprie opinioni, anzi 
                  battute taglienti e giudizi critici, anche molto severi, costellano 
                  ogni passaggio, ma, fatta salva la passione (lo dico nel senso 
                  più alto del termine) per il cantautore e l’amarezza 
                  per gli anni di passione (detta in tutt’altro senso) dell’Italia, 
                  il libro si presenta come un’opera di insolita onestà 
                  intellettuale. De Regibus è riuscito nell’alchimistico 
                  disegno di tenere in perfetto equilibrio, sul filo di quasi 
                  duecentocinquanta pagine, Storia D’Italia dal dopoguerra 
                  a oggi, vita artistica e opinioni del signor De Gregori Francesco 
                  e proprio personale giudizio critico sull’una e sull’altro. 
                  Non è affatto poco…anzi si può dire che, 
                  dopo questa pubblicazione, esista oggi in Italia uno strumento 
                  critico come non ne esistono altri per la quasi totalità 
                  dei cantautori italiani.
 Per quel che mi riguarda, la lettura di questo volume è 
                  servita da stimolo per ripensare tutte le mie opinioni in merito 
                  a questo grande artista. Nella mia infinita immodestia provo 
                  ad infliggervene alcune.
 Ho avuto uno storia difficile con Francesco De Gregori.
 Quando cominciai a interessarmi di cantautori, lui era senza 
                  dubbio, saldamente e da anni, un punto di riferimento, una stella 
                  polare. Lo era soprattutto dal punto di vista della costruzione 
                  di un linguaggio personalissimo e riconoscibile, il suo linguaggio, 
                  quello che, con un’enorme dose di sciatteria critica e 
                  malafede, era stato impropriamente definito, sin dalle origini, 
                  ermetico.
 Apriamo una parentesi. Come tutti le lingue poetiche anche quella 
                  elaborata da De Gregori è uno strumento fatto di un connubio 
                  di significato e musicalità, di termini tratti dal dire 
                  comune e da parole di un proprio lessico familiare, 
                  perfettamente chiare all’apparenza, ma in realtà 
                  cabalistiche porte aperte verso il di dentro; un linguaggio 
                  poetico è sempre la mappa di un tesoro, con segnali disseminati 
                  e ricorrenti (pensate, appunto nel nostro caso, quante volte 
                  nelle canzoni di De Gregori ricorra la parola “fantasia”); 
                  il tesoro però non è mai la mappa in sé, 
                  il tesoro è per definizione altrove, l’arte 
                  può dare delle indicazioni, ma il tesoro non è 
                  né dell’artista né del pubblico: il tesoro 
                  è di tutti. Fine della parentesi.
 Il linguaggio/strumento di De Gregori, come tutti gli strumenti, 
                  si prestò ad infinite strumentalizzazioni (lo dice appunto 
                  la parola!) da parte degli epigoni, che egli ha avuto in numero 
                  decisamente impressionante fra la fine degli anni 70 e tutti 
                  gli ’80 (oggi siamo, e da un bel po’, nell’epoca 
                  della derivazione incrociata da Conte/Waits… se non addirittura 
                  dei loro figli dei figli). Le colpe dei padri non ricadono sulla 
                  prole, può darsi, ma spesso avviene il contrario… 
                  sicché io quindicenne storcevo il naso davanti a tutti 
                  i degregoriani e, di converso, un po’ anche davanti a 
                  De Gregori stesso… la bellezza struggente di molti suoi 
                  pezzi (Santa Lucia, Titanic, Bufalo Bill, ecc…) ovviamente 
                  mi toccava nel profondo da sempre, ma non lo confessavo nemmeno 
                  a me stesso, e anzi mi andavo ripetendo che l’incomprensibilità 
                  di alcune metafore serviva solo da paravento alla vuotezza sostanziale…mi 
                  sarei reso conto che tutto questo erano vecchie storie, banalità 
                  e puttanate, ma lo pensavo e lo confesso!
 Furono proprio le riserve espresse da molti amici sui dischi 
                  più recenti, diciamo dopo “Scacchi e tarocchi”, 
                  a convincere il mio spirito bastiancontrario al riesame di questo 
                  personalissimo caso. La scoperta fu luminosa: De Gregori parlava 
                  chiarissimo, tagliente come un bisturi nella carne della malafede 
                  sociale. Finita l’epoca dell’impegno iper-esteriorizzato, 
                  da cui lui si era ben guardato, ecco che, nella decadenza generale 
                  delle coscienze, il cantautore diceva fuori dai denti di “sangue 
                  su sangue” nelle scatole nere di Ustica, di vecchie uova 
                  di serpente appena dischiuse, del suo stare dalla parte di “chi 
                  ruba nei supermercati” piuttosto che da quella di “chi 
                  li ha costruiti…rubando”, di ragazze slave “venute 
                  allo sprofondo”, fino ai recenti impagabili versi che 
                  aprono il disco “Amore nel pomeriggio”: “La 
                  musica etnica/la contaminazione/l’ultimo rifugio dei vigliacchi 
                  la comunicazione”. Pochi hanno oggi il coraggio di prendersela 
                  così frontalmente, non solo con i responsabili dello 
                  sfascio presente, ma anche con le pessime idee guida di questo 
                  tempo miserabile.
 La personale rielaborazione della protest-song che De Gregori 
                  propone nei suoi dischi più recenti sortisce in effetti 
                  uno dei pochi casi in cui una canzone concepita con espliciti 
                  intenti di critica sociale (se non di lotta) riesca ad essere 
                  sottilmente inquietante piuttosto che consolatoria, a seminare 
                  dubbi e indignazione piuttosto che ad accarezzare con certezze 
                  date per scontate un pubblico già acquisito ai propri 
                  ideali.
 Per meglio servire questi testi aspri, De Gregori ha fatto subire 
                  nel frattempo alla sua musica un’evoluzione che tira decisamente 
                  al Rock, senza però rinunciare del tutto a quell’interessante 
                  e giocoso alternarsi di accordi che nei suoi primi dischi riusciva 
                  a costituire un mondo sonoro orecchiabile e inatteso al tempo; 
                  la strumentazione dei suoi arrangiamenti, come dei suoi concerti, 
                  si è fatta via, via più elettrica, forse ad evitare 
                  che l’abuso del proprio talento melodico, che dalla “donna 
                  cannone” alla bellissima “valigia dell’attore”, 
                  è indiscutibile, renda sdolcinato il suo repertorio.
 Salutari frustate, insomma, quelle che è si propone di 
                  somministrare questo “cantautore che piace alle ragazzine”.
 Due parole la merita anche la gestione del proprio personaggio 
                  pubblico che a me pare particolarmente degna di stima: De Gregori 
                  è quanto in Italia, fra i cantautori storici, più 
                  si avvicini al mito della Rock-star, con stuoli di fans che 
                  lo fanno oggetto di un culto personale; con grande coerenza 
                  però egli non si presta a nessuna piaggeria, né 
                  gioca il facile gioco dell’antidivo, e persegue la carriera 
                  di un grande professionista dei palchi, continuamente in concerto, 
                  ovviamente fra alti e bassi, e proprio per questo eternamente 
                  esposto alla critica come all’apprezzamento di chi lo 
                  va ad ascoltare, senza mai però dover leccare il culo 
                  a nessuno, e per nessuno intendo esplicitamente giornalisti, 
                  pubblico e potentati televisivi.
 Badateci, oggi tutti i concerti vengono presentati come l’evento 
                  per antonomasia…lui, che fu uno dei protagonisti del primo 
                  evento musicale italiano (la tournèe, in coppia 
                  con Lucio Dalla, “Banana Republic”) oggi tira dritto 
                  e continua a proporsi come un onesto lavoratore dello spettacolo.
 La voglia di documentare questo lungo correre su e giù 
                  per i palchi, con la pubblicazione di molti dischi dal vivo, 
                  ha però ancora una volta attirato aspre critiche al nostro: 
                  secondo i suoi detrattori il suo sarebbe un comodo modo di essere 
                  eternamente presente sul mercato, anche nei periodi di crisi 
                  d’ispirazione. Per quanto mi riguarda trovo invece interessante 
                  questo continuo ritornare sulle proprie opere, questa concentrica 
                  rielaborazione interpretativa, che denota la filiazione da Dylan, 
                  nel senso della profonda comprensione della radice popolare 
                  che sta alla base del miglior rock, e che vuole che la musica 
                  non esista come opera definita una volta per tutte, ma piuttosto 
                  come materia viva in continuo movimento; in questo senso anzi 
                  è De Gregori stesso a confessarci che tali operazioni 
                  sono come fotografie di un soggetto eternamente in fuga, documenti 
                  che possono tentare di riprodurre la vita, senza essere vita 
                  essi stessi e proprio perciò necessitano di una continua 
                  messa a fuoco.
 Quello che emerge dal libro di De Regibus (“Quello che 
                  non so, lo so cantare”, ed. Giunti, € 12,50) è 
                  insomma questo stesso De Gregori di cui stiamo parlando: un 
                  artista complesso, con una traiettoria di non facile identificazione 
                  e che trovò sin da subito nobili detrattori, si pensi 
                  solo al famoso articolo di Giaime Pintor che stroncava senza 
                  appello proprio il disco dell’esplosione del fenomeno 
                  De Gregori “Rimmel”.
 Un artista fra i più rivoluzionari sul piano linguistico, 
                  capace di influenzare, già nei primi anni di carriera, 
                  non solo gli epigoni ma finanche i suoi stessi “maestri”: 
                  come non ricordare che persino Fabrizio De André lo coinvolse 
                  nella scrittura a quattro mani di un intero disco, il volume 
                  VIII, che, pur non essendo uno dei suoi più belli, resta 
                  cruciale nell’evoluzione della scrittura deandreiana?
 Un artista caparbiamente impegnato a rendere note le proprie 
                  idee senza usarle, ma anche senza farsi usare in loro nome.
 Un artista infine degno di analisi attente come appunto quella 
                  che propone questo libro, che sarà gradito da tutti gli 
                  ammiratori del cantautore, ma che, proprio perché non 
                  lesina spunti critici – fin eccessivi – nei confronti 
                  della sua opera (ad esempio io non condivido la tiepidità 
                  di giudizio sullo stupendo disco “Terra di nessuno”, 
                  e in particolare sulla canzone “Pane e castagne” 
                  che a me pare un vero capolavoro), è assai godibile da 
                  chiunque ne sia anche solo interessato, e, perché no, 
                  anche da chi, pur ammirandone qualche canzone, provi una viva 
                  antipatia per lui e le sue idee…
 Idee che, come abbiamo detto, De Gregori non nasconde, e che 
                  sono anche molto distanti da quelle della maggior parte dei 
                  lettori di questo giornale (nonché dalle mie), ma che 
                  non gli impedirono di dare nel 1975 al Teatro Uomo di Milano 
                  un famoso concerto di sostegno proprio alla “Rivista anarchica”, 
                  dividendo il palco con la nostra cara compagna Paola Nicolazzi.
 E anche queste cose gli anarchici non le dimenticano.
  Alessio Lega alessio.lega@fastwebnet.it
  Milano, 
                  10 ottobre 1975. Il poster di convocazione del concerto di Francesco 
                  De Gregori in sostegno di "A"
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