| L’apocalissee il cantico
 In fondo a una tonnellata di rabbia si trova la dolcezza dell’uomo. 
                  Quella miseria delle nostre vite, contro cui digrigna spesso 
                  i denti, gli aveva dapprima suscitato un’enorme tenerezza. 
                  La strada di questa confessione, oggi esplicita, ha dovuto far 
                  passare la sua poesia attraverso lo «stile dell’invettiva», 
                  la rivolta delle parole.
 Sentendosi steso sopra un vuoto esistenziale, spaventato dall’informe 
                  magma che prende la nostra esistenza come esseri sociali, Mauro 
                  Macario urla contro la volta pietrosa della caverna.
 Urla contro la cieca ironia di stelle già morte in cielo.
 Urla come si tende la mano agli uomini del futuro.
 Era un pettirosso (ovviamente da combattimento!) chiuso in gabbia, 
                  il poeta Mauro Macario, quando cercava la propria strada attraverso 
                  il ventennale lavoro di regista teatrale, cinematografico e 
                  televisivo, scartato, per troppa timidezza, da quasi subito 
                  il mestiere d’attore a cui lo aveva avviato il padre, 
                  l’immortale Erminio.
 Non trovava parole a un canto che gli rimaneva strozzato in 
                  gola… l’abbiamo già detto: l’uomo conosce 
                  quel grande assente della nostra epoca mediatica che è 
                  il pudore! E così lui, favorito dalla sorte per una strada 
                  già aperta da un genitore attor comico famosissimo, rifuggiva 
                  il pubblico, e non perché non avesse fiumi di parole 
                  da confidargli, ma perché queste parole non trovavano 
                  la strada giusta.
 Fu l’incontro con Léo Ferré a sancire la 
                  liberazione della sua poesia.
 Léo non era un genio geloso del suo status, né, 
                  peggio ancora, un guardiano del tempio della poesia, piuttosto 
                  un liberatore.
 Poche parole, ma dette al momento giusto, seppero aprire le 
                  chiuse dell’anima e far fluire la poesia di Macario, fino 
                  alla tipografia, fino ai teatri, fino alla strada…
 Iniziò dunque così un percorso svoltosi in tre 
                  libri esemplari:
 Le ali della Jena (1990), Omicidi naturali 
                  (1992), Cantico della resa mortale (1994).
 Le ali della Jena era un esordio di 
                  grandissima temerarietà: in un’epoca di frammenti, 
                  di minimalismi, di navigatori per il mare dei pensieri deboli, 
                  un artista esordisce già maturo con un poema eminentemente 
                  politico (nel senso più alto del termine). La prefazione 
                  a questo libro la firma Ferré, che, come dice con una 
                  punta di civetteria lo stesso Macario, «Non regalava niente 
                  a nessuno!».
 
 Leo Ferré  L’esordio però della Macario-lingua 
                  è già chiarissimo: una deflagrazione d’immagini 
                  si sporca a ogni tenzone col presente, si perde e si ritrova 
                  in ogni anfratto della cloaca planetaria, consapevole di puntare 
                  altissimo.  Fui deportato sul finire del secolo In un laboratorio di sintesi organica
 Per subire l’asportazione totale
 E il ritrapianto dell’intero apparato
 L’intervento durò anni e non riuscì.
 Dunque la jena alata, una volta sorvolato il globo comincia 
                  a riconoscersi animale, come il poeta, finalmente imbracciata 
                  l’arma che gli è più congeniale, quella 
                  della poesia, comincia a volgere un occhio rosso, violento microscopio 
                  insubordinato e indagatore, ai nemici di sempre, al capitale 
                  imperante, alla untuosa catechesi che alloppia gli spiriti, 
                  che vuole la pace dei sensi a discapito di quella delle mine 
                  antiuomo, e un occhio azzurro/nuvola ai compagni dispersi, ai 
                  viaggiatori alati, a quelli che, forse annoverati fra i perdenti, 
                  non sono ancora fra i perduti. Indiani. Anarchici. Artisti. 
                 Omicidi Naturali, pur riportando 
                  la forma a un flusso più controllato e meno magmatico, 
                  è solo in apparenza una raccolta di poesie: la jena ancora 
                  strappa dal suo taccuino fogli visionari, e li manda per il 
                  mondo come gli aquiloni del signor Dick, il volo s’è 
                  fatto più radente, non più dunque il panorama 
                  completo, la foto del satellite, ma topografie interrotte per 
                  la mappa dell’eldorado.  Ripudio la mia appartenenza Alla tua sottospecie
 Io so che vivi nel buio
 Con le mani nei viscere
 A macellare l’innocenza
 Con l’assenso tranquillo
 Di chi getta un’occhiata
 Da finestre sordomute.
 La sfida alla società non cessa dunque d’essere 
                  pronunciata forte e chiara «chante, persiste e signe» 
                  avrebbe detto Jacques Brel. Cantico della resa mortale è, 
                  fra questi, il libro cui sono più affezionato, forse 
                  perché è il primo che ho letto, avendo avuto modo 
                  d’averlo sotto gli occhi (e non ricordo nemmeno il dove) 
                  ben prima di conoscerne l’autore, forse perché 
                  due lunghe liriche ivi comprese stanno ai posti più alti 
                  della mia personalissima Macario-parade: Salmo 152 
                  e la collina del belvedere.
 Approfondimento e continuazione del precedente, muove a più 
                  impellenti richiami, a più insondabili abissi. Qui tutti 
                  i temi esposti in precedenza si trovano ingigantiti, la sfida 
                  s’è fatta più aspra ancora. Il grande liberatore 
                  Ferré, la cui morte ispira il salmo che citavamo poc’anzi, 
                  non essendo più, ha lasciato dietro di se un grande compito. 
                  Macario se l’assume fra la lirica che apre la raccolta 
                  e quella che la chiude; entrambe autorappresentazioni della 
                  propria morte, la prima offre la descrizione di un’intima 
                  resistenza umana che chiama la propria compagna alla difesa 
                  di quelle spoglie che ripudiate vive da «un potere che 
                  non sa amare i corpi» (mi pare lo dicesse Julian Beck 
                  in una sua famosa poesia) vanno difese poi, dopo la fine, quando 
                  la «lugubre processione di impiegati mistici» le 
                  vorrebbe arruolare nei «garages pubblici dei morti», 
                  la seconda fa da richiamo e squillo di battaglia, sirena d’allarme 
                  per il mondo intero, corno suonato sull’orlo di una Roncisvalle 
                  definitiva dal poeta, nel timore d’essere infine solo 
                  e di dissolversi nel silenzio tutt’attorno.
 Oggi quei tre libri, da troppo tempo introvabili sono finalmente 
                  ristampati dal benemerito editore friulano Campanotto (editore, 
                  fra gli altri, di un grandissimo talento della lirica italiana 
                  contemporanea: Anna Lamberti-Bocconi) e riuniti in un unico 
                  volume a degli inediti che ne permettono un apprezzamento completo.
 Scopriamo così che l’asperrima, esaltante visionarietà 
                  del primo libro, ha trovato col tempo un uomo che non ha più 
                  paura di dichiararsi teneramente innamorato degli artisti che 
                  lo hanno via, via appassionato: Fabrizio De André, Charles 
                  Bukowski, Lance Hensons, per non parlare ovviamente del continuo 
                  lungo dialogo che il poeta, in maniera più o meno esplicita, 
                  intrattiene coi suoi numi tutelari Ferré e Rimbaud.
 Le profonde convinzioni libertarie restano, come la carta bianca 
                  su cui si scrive, la premessa a tutte le opere del poeta e, 
                  dette o non dette esplicitamente, sono ineludibili…
 Non si potrà mai affrontare Macario con il bisturi di 
                  penninchiostro dei tenutari del bordello Accademico, che in 
                  mancanza di poeti da uccidere si danno da stra-fare a imbalsamare 
                  quelli già morti. Macario invece vuole la passione, la 
                  compartecipazione dei suoi gusti e disgusti. Chi lo affronta 
                  sappia che dovrà fare i debiti conti con la lancia della 
                  sua metafora in resta, scagliata com’è all’assalto 
                  di mulini a vento… perché in un’epoca senz’aria 
                  bisognerà pur difendere dalle pale dei mulini gli alisei, 
                  bisognerà pur invocare una bora salvifica che spalanchi 
                  le finestre delle biblioteche, scolastiche e parlamentari, e 
                  faccia entrare finalmente un po’ d’aria.
  Alessio Lega
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