| Raffaele 
                  Mantegazza non è un pedagogista come gli altri e per 
                  rendersene conto basta ascoltarlo parlare. Qui purtroppo si 
                  sente solo in parte la passione con cui affronta le questioni 
                  che gli stanno a cuore che, come si vedrà leggendo, possono 
                  interessare da vicino anche i lettori di A. Mantegazza insegna attualmente pedagogia interculturale all’Università 
                  di Milano Bicocca. Intorno a lui si è costituito un gruppo 
                  di lavoro denominato “pedagogia della resistenza” 
                  che fa interventi di formazione dentro e fuori dalla scuola 
                  (si può consultare il sito www.pedagogiadellaresistenza.org), 
                  cercando di analizzare i dispositivi pedagogici dal punto di 
                  vista del dominio sui soggetti e delle potenzialità emancipatorie 
                  in essi celate.
 Oltre al libro che espone la sua ultima riflessione pedagogica, 
                  appunto Pedagogia della resistenza (Città aperta 
                  edizioni, 2003), voglio ricordare almeno per la stessa casa 
                  editrice L’odore del fumo (2001) e Filosofia 
                  dell’educazione (Bruno Mondadori 1998).
 Come hai maturato l’idea di occuparti di pedagogia? 
                  Mi sembra che la tua formazione andasse originariamente in un’altra 
                  direzione...  Sì e no. Nel senso che è vero che io ho avuto 
                  una formazione filosofica, ma è anche vero che il problema 
                  della formazione del soggetto, sia in senso teorico sia nelle 
                  sue declinazioni pratiche, è sempre stato un fulcro dei 
                  miei interessi. Come si forma il soggetto? Quali sono le strategie 
                  che presiedono alla sua costituzione? Come avviene la sovrapposizione 
                  della categoria di soggetto a quella di individuo? Quali altre 
                  possibili identità vengono escluse dalla costituzione 
                  del soggetto occidentale? Queste sono domande che mi hanno sempre 
                  interessato, fin da studente. Il campo della filosofia dell’educazione, 
                  più che quello della pedagogia tout court, ha dato risposte 
                  decisive a queste domande; per questo più che di didattica 
                  mi interesso di filosofia dell’educazione intesa come 
                  scienza utopica che, a partire dall’indagine attorno al 
                  campo esperienziale specifico che mette in atto strategie di 
                  soggettivizzazione (l’educazione), e attorno alla teleologia 
                  specifica di tali strategie, studia, decifra e smaschera i dispositivi 
                  materiali e inconsci di una pratica di potere che permette la 
                  costituzione di una soggettività funzionale all’ordine 
                  sociale sussistente; e che a partire da tale smascheramento 
                  cerca di giungere alla definizione di una forma di soggettività 
                  aperta ed elastica, che preveda come sua propria dimensione 
                  strutturale ed esperienziale il confronto e il conflitto continuo 
                  tra le diverse forme di alterità.   Pervasività del pedagogico
 Come diceva il tuo maestro Riccardo Massa, “oggi 
                  il pedagogico è dappertutto”: non è ora 
                  che la pedagogia esca dai luoghi tradizionali della formazione? 
                   Mi viene quasi da rispondere provocatoriamente che è 
                  ora che ci torni; per poi ri-uscirne, ovviamente. Nel senso 
                  che mi sembra che questa pervasività del pedagogico sia 
                  quanto di più pernicioso esista oggi per colui o colei 
                  che si occupa di formazione. Se il pedagogico è ovunque, 
                  se tutto è educazione, da un lato si perde la specificità 
                  professionale del “fare formazione” – e questo 
                  potrebbe anche essere positivo, per carità. Ma dall’altro 
                  si smarrisce quella distanza essenziale tra formazione e società, 
                  tra formazione e vita, che rende(va) la formazione qualcosa 
                  di alternativo e di diverso rispetto a una semplice ed automatica 
                  riproduzione dell’assetto sociale sussistente. Se la formazione 
                  (o l’educazione, termini che mi ostino ad usare come sinonimi 
                  tanto poco sono appassionato al dibattito sulla loro diversa 
                  origine semantica) costituisce un suo ambito specifico, allora 
                  è forse possibile che essa sia sottratta, sia pure d’un 
                  soffio, al cerchio magico dell’esistente. Educare significa 
                  allora rendere possibile una determinata esperienza, una esperienza 
                  che non è possibile altrove, non si dà automaticamente 
                  nel campo della materialità esistenziale. Sono caratteristiche 
                  di questa esperienza l’insistenza sulle dimensioni qualitative 
                  ed affettive dell’esperire, dimenticate da ogni positivismo 
                  radicale e da ogni funzionalismo scientista; la sottolineatura 
                  dell’irreversibilità dell’azione umana e 
                  della sua effettualità, ovvero della possibilità 
                  di modificare gli oggetti e le loro attribuzioni di senso introducendo 
                  così nel campo del reale qualcosa di nuovo e di non più 
                  eliminabile; l’idea di incontro tra soggettività 
                  che si costituiscono solamente all’interno del campo di 
                  esperienza di cui stiamo parlando e che a loro volta lo legittimano 
                  riconoscendolo e validandolo: a questo proposito ci sembra che 
                  sia molto utile rileggere il concetto deweyano di transazione, 
                  che a nostro parere sottolinea come l’educazione sia un 
                  mondo che, pur affondando le sue radici nella materialità, 
                  in sé non esisterebbe se non fosse posto in essere dall’accordo, 
                  in ultima analisi arbitrario, tra i soggetti che lo creano. 
                  Dunque ben venga l’analisi del pedagogico disperso nella 
                  società, purché si riconosca al pedagogico una 
                  specificità e una relativa autonomia e le analisi di 
                  tale dispersione vadano ad evidenziare i dispositivi pedagogici 
                  presenti proprio laddove non ce li si aspetterebbe.  Veniamo al centro della tua riflessione teorica più 
                  recente, da una parte la pars destruens della pedagogia 
                  dell’annientamento che ha delineato nel tuo libro L’odore 
                  del fumo e dall’altra la pars construens, 
                  il progetto della pedagogia della resistenza: come nasce, quali 
                  sono i punti di riferimento teorici?  Sicuramente alle spalle della pedagogia della resistenza c’è 
                  lo straordinario lavoro di smascheramento operato dagli autori 
                  della cosiddetta scuola di Francoforte la cui eredità 
                  era evidente fin dal titolo, per la verità un po’ 
                  presuntuoso, del mio primo libro: Teoria critica della formazione. 
                  L’idea era e rimane quella di applicare le categorie della 
                  teoria critica della società, formulate soprattutto da 
                  Horkheimer e Adorno, alla scienza dell’educazione per 
                  smascherare i dispositivi della formazione del soggetto integrato 
                  e controllabile. Sì Foucault, dunque, ma soprattutto 
                  Adorno; sì pensiero francese ma soprattutto pensiero 
                  filosofico hard tedesco; sì strutturalismo (con 
                  juicio) ma soprattutto marxismo occidentale. L’interesse 
                  per la teologia, soprattutto per la teologia ebraica e per la 
                  teologia della liberazione, è venuto dopo ed è 
                  venuto proprio tramite Adorno e Benjamin: volevo capire che 
                  cosa potesse dire a un laico come me la teologia come pensiero 
                  dell’Oltre, di ciò che sta oltre il qui ed ora, 
                  di ciò che trascende la nostra condizione di sfruttati 
                  e sfruttatori, la nostra miseria quotidiana. È stata 
                  una scossa salutare scoprire che la teologia poteva non essere 
                  semplicemente uno strumento di giustificazione per l’oppressione 
                  e per lo sfruttamento ma anche e soprattutto uno strumento di 
                  denuncia e di smascheramento, in particolare rispetto alle ideologie 
                  che giustificano lo status quo e che appiattiscono programmaticamente 
                  il loro punto di vista sulla non superabilità dell’esistente; 
                  di qui è venuto l’interesse per Bloch, di qui la 
                  passione sempre crescente per le teologie non cristiane (islamica, 
                  buddista, ecc.), di qui l’afflato utopico che spero si 
                  respiri nelle pagine di Pedagogia della resistenza. 
                  Il filo conduttore di tutto il mio lavoro è stato doppio, 
                  lo vedo solamente ora: c’è sempre stata da un lato 
                  la denuncia del dominio in tutte le sue forme, il tentativo 
                  di andare a braccare il potere laddove non ci si aspettava di 
                  vederlo e soprattutto laddove la maschera della bontà 
                  lo copriva e lo rendeva invisibile (e dove meglio che nell’educazione, 
                  campo privilegiato di applicazione di quello che De André 
                  significava con le parole “non ci sono poteri buoni”. 
                  Ma dall’altro lato c’è sempre stato l’afflato 
                  utopico che non poteva credere che tutto fosse finito, che non 
                  ci fosse via d’uscita, che il potere o il dominio avessero 
                  progettato e realizzato la perfetta ragnatela inattaccabile 
                  che a volte sembra trasparire da certe opere di Foucault. Insomma, 
                  lo studio della società completamente amministrata mi 
                  faceva sperare che quel “completamente” fosse in 
                  realtà un artificio retorico (se no, perché studiarla?) 
                  e che vi fosse la possibilità di una via d’uscita. 
                  Ora che sto lavorando a un libro sulla pedagogia della morte 
                  (in uscita ad ottobre 2004) vedo che anche qui si incrociano 
                  le due linee della denuncia di ciò che è diventato 
                  il morire nella società tardocapitalistica e della resistenza 
                  a tutto ciò in nome di un morire più umano. Come 
                  vedi, ancora una volta, smascheramento e utopia.  
  Educazione forma di potere
 Quali sono le condizioni e le strategie di un’educazione 
                  libertaria, per come tu la concepisci?  L’educazione è una forma di potere. E teoricamente, 
                  affermare che l’educazione ha a che fare con il potere 
                  o che essa stessa si costituisce come una pratica di potere 
                  non dovrebbe sconvolgere più di tanto chi sia abituato 
                  a riflettere su problematiche pedagogiche. Eppure la dimensione 
                  del potere sembra essere la più rimossa da parte degli 
                  educatori; essi sembrano sempre sottintendere una loro non-partecipazione 
                  nei confronti di un potere che si situa sempre “altrove”: 
                  nelle mani di Presidi, Provveditori, Ministri, nelle pieghe 
                  della burocrazia, sulle scrivanie di coloro che vergano i programmi 
                  di studio. Questa sorta di repulsione ad affrontare la questione 
                  del “mio” potere, del potere che è in me 
                  e che è “me”, del potere che transita attraverso 
                  le mie pratiche quotidiane, del potere dell’educazione 
                  in quanto tale rende conto, probabilmente, della radicalità 
                  della questione stessa che proprio dal versante educativo può 
                  essere letta e studiata in modo critico e demistificatorio. 
                  Questo è a mio parere il presupposto di ogni educazione 
                  libertaria: porre al centro delle sue teorie e delle sue pratiche 
                  la questione del potere e dello smascheramento del potere. Anche 
                  e soprattutto del potere dell’educatore. Leggere nelle 
                  pratiche educative delle pratiche di potere e, ancor più 
                  radicalmente, studiare la presenza e la costituzione di un potere 
                  che sia essenzialmente educativo, le cui strutture siano per 
                  essenza omologhe a quelle dell’educazione, significa contribuire 
                  allo smascheramento della cosiddetta “bontà” 
                  originaria dell’educazione. Occorre allora smascherare 
                  i tratti di un potere eminentemente educativo, che è 
                  forse tipico della società del cosiddetto “dopo 
                  Auschwitz” (perché proprio ad Auschwitz ha sostenuto 
                  il suo “battesimo del fuoco”). Saremo di fronte 
                  allora a un potere che non risiede sempre in un Altrove, un 
                  potere che forse non si “prende” o si “aliena” 
                  o si “trasmette” ma si esercita, non solo da parte 
                  dei soggetti ma anche attraverso i soggetti medesimi; un potere 
                  di assoggettamento che proprio in quanto prevede 
                  il soggetto come telos della sua applicazione 
                  (e non semplicemente come sostrato su cui applicarsi o dato 
                  naturale da pervertire e condizionare) diventa anima segreta 
                  delle pratiche educative; di tutte, ovviamente, anche di quelle 
                  che si vogliono come resistenziali nei confronti delle attuali 
                  configurazioni del dominio.   Filippo Trasatti
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