| Le ultime lotte selvagge 
                  degli autoferrotranvieri, condotte con grande determinazione 
                  fuori e contro le regole del sistema di potere imperante, hanno 
                  riportato in auge le problematiche da sempre irrisolte delle 
                  lotte sindacali, imbavagliate da troppo tempo in un recinto 
                  conservatore che vuole ridurre qualsiasi struttura rappresentativa 
                  delle basi sociali a meri strumenti, garanti di perpetuazione 
                  del sistema stesso. La loro forza d’impatto è diventata 
                  immediatamente un’occasione irripetibile per riflettere 
                  a fondo sulle questioni sindacali. Considerando anche un’altra questione, senz’altro 
                  meno dirompente e soprattutto continuamente elusa, ma molto 
                  più importante per il senso profondo che contiene, penso 
                  che sia possibile discutere e riflettere con serenità 
                  del senso, della qualità e dei compiti inerenti la lotta 
                  sindacale. Fortunatamente, infatti, sembra decaduto in modo 
                  definitivo il luogo comune diffuso in ambito sinistrese che 
                  la classe operaia, in quanto tale, sia una classe rivoluzionaria, 
                  portatrice in sé, per le condizioni sociali ed economiche 
                  che è costretta a subire, di una tensione e di un messaggio 
                  forieri di emancipazione e di liberazione. Il che non vuol dire 
                  che non continuino ad esistere individui, impegnati sul fronte 
                  della “lotta di classe”, come insistono a definirla, 
                  che ancora la sostengono. Ma questa è un’altra 
                  storia. Sono infatti convinto che dovrà passare ancora 
                  diverso tempo prima che ci si liberi definitivamente di questa 
                  lettura ideologica sulla realtà, la quale, in quanto 
                  appunto mera rappresentazione ideologica, magari inconsciamente, 
                  tende ad essere sacralizzata da chi la sostiene, fino al punto 
                  da essere vissuta come una cartina di tornasole per giudicare 
                  aprioristicamente cosa si deve o non si deve fare.
  L’ermeneutica leninista
 Molto accreditato fino a qualche tempo fa, questo luogo comune 
                  aveva preso origine da una visione presa in prestito da un’interpretazione 
                  specifica della dottrina marxista, il cui principale esponente 
                  teorico si può far risalire a Lenin. L’ermeneutica 
                  leninista del dettato marxiano, in linea ortodossa con lo storicismo 
                  determinista di Marx, afferma che, siccome la storia è 
                  una determinazione data dalla lotta tra due classi contrapposte 
                  e inconciliabili, con l’avvento del capitalismo tutto 
                  ruota intorno allo scontro tra la classe borghese, detentrice 
                  del capitale e del potere su questo, e la classe operaia, strutturalmente 
                  espropriata della sua forza-lavoro e sfruttata dalla classe 
                  capitalista. Il vero rivoluzionario, cosciente di questa determinazione, 
                  agisce per far insorgere la classe operaia, fino a portarla 
                  all’abbattimento del potere borghese, con lo scopo di 
                  prendere a sua volta il potere, che sarà poi costretta 
                  a difendere attraverso l’instaurazione di una sua dittatura, 
                  la famosa dittatura del proletariato, unico vero interesse, 
                  ideologicamente riconosciuto ed ammesso, della classe operaia 
                  stessa. Sempre secondo dottrina, affinché si possa realizzare 
                  una simile strategia legata al decorso necessitante della storia, 
                  diventa indispensabile che il proletariato, in quanto classe, 
                  sia cosciente del proprio ruolo. Secondo Lenin, che nel Che 
                  fare?, uno dei suoi scritti più famosi, è 
                  estremamente chiaro, la classe da sola non ha questa coscienza 
                  né può averla, altrimenti non continuerebbe a 
                  permettere alla borghesia di opprimerla e di sfruttarla. Sorretto 
                  da questa certezza definisce allora quale sia il ruolo storico 
                  del partito rivoluzionario, ovviamente il suo quello bolscevico: 
                  il partito è il vero ed unico detentore della coscienza 
                  rivoluzionaria che invece manca alla classe. Quindi il partito 
                  ha il compito, sempre storico (quasi tutto nella convinzione 
                  dottrinale marx-leninista acquista una rilevanza storica), di 
                  trasmettere ai proletari quella coscienza che loro non riescono 
                  ad avere. Ne consegue che, al di là che lo vogliano o 
                  no, che ne siano coscienti o no, il partito deve guidarli e 
                  dirigerli, perché appunto lui e non loro sa cosa loro 
                  debbano e possano fare. Volendo essere ironici, viene spontaneo 
                  pensare che al posto del dogma di dio c’è il dogma 
                  di una determinata visione della storia, quindi una chiesa, 
                  i dirigenti di partito, che si autolegittimano quali unici interpreti 
                  della ortodossia rivoluzionaria.
 Con questa chiarezza ideologica, sempre nel Che fare?, 
                  Lenin allora definisce quale debba essere il rapporto organizzativo 
                  tra il partito e la classe. Siccome il partito è l’unico 
                  che ha le idee chiare su ciò che vuole, ma siccome al 
                  contempo per realizzare il suo progetto rivoluzionario ha bisogno 
                  che le masse operaie lo seguano, ha necessità di esercitare 
                  il proprio potere decisionale su di esse. Così identifica 
                  nel sindacato l’organizzazione di massa indispensabile 
                  per guidarle. Ma perché tutto ciò avvenga, il 
                  sindacato dev’essere una struttura dipendente dal volere 
                  del partito, cioè guidato dai professionisti della politica 
                  partitica. Due sono allora i livelli organizzativi, l’organizzazione 
                  specifica, cioè il partito, e l’organizzazione 
                  di massa, cioè il sindacato, ma con un’unica dirigenza. 
                  E la definizione che ne dà è che il sindacato 
                  dev’essere la cinghia di trasmissione tra il 
                  partito e le masse, strumento dunque di manovra politica, non 
                  di autodeterminazione.
  Fallimento del bolscevismo
 E così fu fatto. Il sindacato, che da tempo era comunque 
                  già luogo di intromissione delle varie forze politiche 
                  di ispirazione socialista e repubblicana per dominarlo, con 
                  l’intromissione della grande determinazione di questa 
                  teorizzata pratica strumentalizzatrice diventò fino in 
                  fondo, purtroppo, una cinghia di trasmissione tra le masse operaie 
                  e le dirigenze partitiche. Ne conseguì che oltre il cosiddetto 
                  sindacato di classe, tradizionalmente legato alla sinistra storica, 
                  si formarono anche sindacati espressione di forze politiche 
                  estranee, o addirittura ostili, alla strategia della lotta di 
                  classe. Nel suo lungo e travagliato cammino il movimento operaio, 
                  che, preso coscienza di sé, per difendersi dallo strapotere 
                  padronale e per esercitare la propria solidarietà, in 
                  origine aveva cominciato ad organizzarsi autonomamente, con 
                  le leghe, i fasci, le cooperative, in modo da non trovarsi alla 
                  mercé dei suoi sfruttatori e da poter imporre i propri 
                  diritti, con la sindacalizzazione ideologizzata gestita dalle 
                  dirigenze partitiche smise di essere lo strumento di se stesso, 
                  diventando invece uno strumento privilegiato di lobbies politiche. 
                  Dopo il fallimento della strategia bolscevica, che è 
                  stato a tutti evidente con la caduta del muro di Berlino nel 
                  1989, di fatto la cinghia di trasmissione ha smesso di avere 
                  senso. Le dirigenze partitiche che ne dovevano usufruire quasi 
                  ovunque si sono spaccate e frazionate, cancellando così 
                  l’esistenza dei partiti portatori della coscienza di classe, 
                  mentre le strutture sindacali, che esistevano per realizzare 
                  quella strategia, si sono trovate orfane delle organizzazioni 
                  specifiche per le quali avrebbero dovuto svolgere il compito 
                  “storico” di cinghia di trasmissione. Se le scelte 
                  umane fossero coerenti, logica avrebbe voluto che si sarebbero 
                  dovute sciogliere, magari tentando di mettere in piedi autentiche 
                  organizzazioni operaie. Ma le poltrone hanno sempre avuto un 
                  fascino sinistro. Così, pur essendo decaduto il motivo 
                  della loro esistenza, gli apparati sono rimasti in piedi, in 
                  alcuni casi più forti di prima, e, non più dediti 
                  alla rivoluzione di classe, hanno ora tutto il tempo per dedicarsi 
                  ad imbrigliare le grosse fette del movimento operaio di cui 
                  continuano ad essere i dirigenti, per rafforzare il proprio 
                  potere e la propria influenza di lobbies. Prima lo imbrigliavano 
                  all’interno dei loro assiomi ideologici, ora lo imbrigliano 
                  per portare avanti i propri interessi di apparato e la propria 
                  politica di influenza all’interno del sistema di potere 
                  vigente.
 Bisogna tener presente che quando si parla di lotta di classe 
                  non ci si riferisce, come qualcuno ingenuamente potrebbe intendere 
                  ed altri furbescamente far intendere, alla lotta che legittimamente 
                  conducono una o più categorie socioeconomiche per il 
                  trionfo delle proprie sacrosante istanze, ma alla visione ideologica 
                  di stampo marxista-leninista cui sopra accennavo. La lotta di 
                  classe è la lotta che s’inserisce nella dinamica 
                  dialettica dell’inconciliabilità strutturale tra 
                  borghesia e proletariato, secondo cui quest’ultimo, cioè 
                  la classe operaia, è considerato la classe per eccellenza, 
                  ritenuta in sé rivoluzionaria. Tutto il resto della società 
                  vi è visto in second’ordine, parte di una dinamica 
                  funzionale solo a far trionfare la classe di riferimento, che 
                  ovviamente, secondo dottrina, viene necessariamente diretta 
                  dalla dirigenza partitica che deve prendere il potere. Non si 
                  tratta perciò di una lotta per la rivoluzione sociale, 
                  per la conquista dell’emancipazione di tutta la società, 
                  come per esempio sostengono in particolare gli anarchici, ma 
                  di una rivoluzione classista, per la presa del potere da parte 
                  di una struttura dirigente partitica in nome di un’unica 
                  classe sociale, considerata privilegiata nella dinamica storica 
                  rispetto a qualsiasi altra categoria socioeconomica.
 Gli anarchici sono convinti che la lotta per l’emancipazione 
                  non può essere legata ad una visione che privilegia una 
                  classe in particolare, considerata destinata, attraverso i suoi 
                  dirigenti, ad imporre la sua supremazia al resto della società. 
                  Al contrario sostengono che la lotta per l’emancipazione 
                  investe l’intera società, comprendente tutte le 
                  sue categorie socioeconomiche ed i suoi componenti, e mirano 
                  ad eliminare le strutture che mantengono i privilegi, il dominio, 
                  le ingiustizie e lo sfruttamento, al fine di realizzare il massimo 
                  possibile di uguaglianza e di libertà. Quella a cui aspirano, 
                  per cui agiscono e pensano gli anarchici è una rivoluzione 
                  sociale, non classista, perché non si riconoscono nella 
                  determinazione dialettica della lotta di classe, considerata 
                  idealista, mentre sono convinti che ogni trasformazione radicale 
                  potrà avvenire solo se gli esseri umani lo vorranno, 
                  non certamente perché inscritta in presunte leggi storiche. 
                  Così agiscono non per far trionfare una classe in particolare 
                  su tutte le altre, ma per il superamento della logica classista 
                  in nome della solidarietà sociale e del superamento delle 
                  divisioni di classe.
  Parte integrante del sistema
 Oggi ci troviamo dunque sia con un sindacalismo del tutto monco, 
                  perché apparentemente forte, almeno da un punto di vista 
                  quantitativo, ma allo stesso tempo erede di una strategia rivoluzionaria 
                  che è stato costretto a rinnegare, sia con un movimento 
                  operaio in balia degli eventi e dei pescecani strumentalizzatori, 
                  perché da una parte ha perso la funzione storica che 
                  era stato indotto a credere di avere e dall’altra continua 
                  ad essere espropriato della propria autonomia. Gli apparati 
                  delle dirigenze sindacali, forti del potere di controllo acquisito, 
                  conducono ormai da tempo una politica fondata sulla concertazione 
                  e sull’accordo con i rappresentanti del sistema di potere 
                  dominante, funzionale esclusivamente alla conservazione del 
                  proprio ruolo. In questo senso sono a tutti gli effetti parte 
                  integrante, ormai divenuta componente essenziale, del sistema 
                  stesso. È per questo che nei confronti delle masse operaie 
                  da loro dirette non possono che svolgere sostanzialmente funzioni 
                  di contenimento e d’imbrigliamento. Appare evidente che una tale situazione non poteva né 
                  può proseguire nella tranquillità, dal momento 
                  che le dirigenze sindacali tradizionali sono vissute sempre 
                  meno come rappresentanti legittime dei lavoratori, sempre di 
                  più come megastrutture a sé stanti, cui affidarsi 
                  perché mostrano un grande potere di protezione. Al contempo 
                  le loro scelte e la loro politica danno continuamente la sensazione 
                  di confermare lo status di insoddisfazione generale che sempre 
                  di più avviluppa tutti noi dipendenti e sfruttati, quindi 
                  di svolgere un ruolo di sostanziale conservazione dello stato 
                  di cose presente, che piace sempre meno alla gran massa di chi 
                  non conta ed è costretto a fare i conti mese per mese. 
                  Non rappresentano più il sol dell’avvenire e nello 
                  stesso tempo non offrono nessun altro sogno capace di farci 
                  desiderare l’emancipazione. Appaiono soltanto strumenti 
                  di mantenimento dello stato attuale, con qualche debole possibilità 
                  di miglioramento, ancora ritenuti dalla gran parte dei lavoratori 
                  come un argine efficace ad un sempre incombente peggioramento. 
                  Troppo poco per organizzazioni che dovrebbero far trionfare 
                  le istanze degli sfruttati e dei sottomessi.
 Non potevano non sorgere strumenti sindacali alternativi e contrapposti 
                  a simili gerontocrazie, per cui da qualche decennio lentamente 
                  si sono formati diversi organismi autonomi, che passano sotto 
                  il nome di sindacalismo di base e che ultimamente hanno cominciato 
                  a far sentire la loro voce ed a mostrare la loro combattività 
                  e la loro forza. Rappresentano il bisogno di autonomia compresso 
                  che finalmente ha cominciato a trovare la via e le forme per 
                  esprimersi. E le recenti lotte improvvise degli autoferrotranvieri 
                  sono state una vera piccola deflagrazione, capace di dare un 
                  primo significativo scossone destabilizzante all’immobilismo 
                  contrattativo e concertativo dei tre dinosauri imbalsamati CGIL, 
                  CISL e UIL. Sono stati un vivido esempio rivitalizzante, che 
                  hanno spinto a riflettere, se non tutti, un gran parte dei lavoratori 
                  su che cosa si possa fare per uscire dall’impasse e dal 
                  soffocante senso d’impotenza che come una morsa ci attanaglia 
                  tutti da troppi anni. Sono stati un inizio, una goccia di piombo 
                  che, perforando con brusca vitalità la superficie melmosa 
                  dello stagno conservativo, ha cominciato a produrre la dilatazione 
                  a piccole onde in progressione sempre più ampia di cerchi 
                  concentrici combattivi e vogliosi di esistere.
 Ma attenzione! Se è vero che il buon giorno si vede dal 
                  mattino, non è però affatto vero che qualsiasi 
                  cosa poi si farà durante il giorno del buon mattino sarà 
                  comunque sempre buona e fulgida come aveva fatto sperare. Tutto 
                  poi dipende da ciò che effettivamente verrà fatto. 
                  Se i nuovi organismi emergenti ed insorgenti della rinnovata 
                  autonomia operaia si faranno prendere la mano, c’è 
                  il rischio serio di ripiombare in breve nello stagno conservativo, 
                  accompagnato dal pericolo di rimanerci ancora più oppressi 
                  di prima dal soffocante senso d’impotenza. Saranno inevitabilmente 
                  fottuti, per esempio, se verranno presi dalla voglia e dalla 
                  foga di diventare i sindacati sostitutivi di quelli esistenti 
                  nel comando delle masse, attivando una spietata concorrenza 
                  alla ricerca di adesioni per dimostrare la propria forza e la 
                  propria potente capacità di nuovi dirigenti, pensandosi 
                  più rappresentativi di quelli tradizionali e più 
                  vicini alle istanze ed ai bisogni della base. Se ciò 
                  avvenisse si costringerebbero a diventare semplicemente altre 
                  nuove sigle poco significanti, semoventi nel magma sempre più 
                  inquinato di un sindacalismo inconcludente dal punto di vista 
                  di un vero ed efficace cambiamento delle condizioni e della 
                  coscienza generalizzate.
  Restituire una vera autonomia
 Ciò che dovrebbero volere e riuscire a fare è 
                  innanzitutto un’unificazione ecologica, un’unità 
                  cioè rispettosa e fiera delle diversità che la 
                  comprendono, avulsa da qualsiasi forma di uniformità 
                  ideologica, dove le differenze d’impostazione siano considerate 
                  e vissute come reale ricchezza capace di dare impulso al pensiero 
                  ed alla volontà collettiva e solidale dell’azione. 
                  Dovrebbero trovarsi uniti in intenti comuni, da perseguire e 
                  tentare di realizzare proprio usufruendo della molteplicità 
                  di idee e di visioni che li caratterizza. Uniti nell’intento 
                  principe di restituire concretamente e realmente al movimento 
                  dei lavoratori una vera autonomia, dove non dovrebbe trovare 
                  spazio la volontà di dirigerlo, come invece fino ad ora 
                  è stato fatto. Dovrebbero inoltre abbandonare ogni residuo, anche involontario, 
                  della vecchia e superata logica classista che mira a prendere 
                  il potere, per riappropriarsi di metodi autogestionari, che 
                  cioè rifiutino di essere diretti dall’alto da qualsiasi 
                  burocrazia o struttura dirigente. L’azione sindacale dovrebbe 
                  essere concepita come un’azione volta a rafforzare la 
                  solidarietà, la difesa e l’imposizione dei diritti 
                  operai, gestita direttamente in prima persona dagli operai stessi. 
                  Attraverso un metodo organizzativo libertario, cioè orizzontale 
                  e rispettoso delle differenze di qualsiasi tipo, che mira ad 
                  instaurare pratiche di uguaglianza e di reciproco riconoscimento 
                  delle diversità, dovrebbe servire al contempo ad esercitarsi, 
                  secondo una logica della molteplicità delle sperimentazioni, 
                  per rendere operante in vari modi possibili l’alternativa 
                  di vivere ed organizzare una concreta società liberata 
                  e liberante, che finalmente riesca ad emanciparci da tutte le 
                  forme di sfruttamento e di sottomissione.
 In definitiva si dovrebbe puntare a far si che il movimento 
                  operaio torni ad autogestirsi, rifiutando le politiche conservative 
                  degli apparati sindacali imperanti e dei partiti. A sua volta 
                  il sindacalismo di base, espressione di rivolta anticonservativa 
                  sorta spontaneamente negli ultimi anni, consapevole di questo 
                  senso finalistico di lotta al sistema di cose presente, dovrebbe 
                  diventare un unico movimento, che si ponga gli obbiettivi di 
                  restituire scelte e azione sindacale al movimento operaio e 
                  di far decidere i lavoratori direttamente senza intromissione 
                  di mediatori di professione, proprio per agire ai fini dell’altra 
                  società possibile, dove a decidere insieme dei nostri 
                  destini dovremmo essere noi e non loro.
  Andrea Papi
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