| Metello Sono gli anni a cavallo fra ottocento e novecento. Firenze. 
                  Lespansione edilizia, il grande processo di urbanizzazione 
                  che, fra crisi e riprese, investe Firenze capitale; le maestranze 
                  dei cantieri, manovali, sottomuratori, muratori, inurbatisi 
                  per sfuggire alle miserie della campagna o da tempo cittadini, 
                  orgogliosi, ribelli, consapevoli della dignità del proprio 
                  lavoro, del lavoro. Questa è lambientazione del 
                  bellissimo Metello di Vasco Pratolini, al quale dedichiamo 
                  il nostro ritratto (V. Pratolini, Una storia italiana I. 
                  Metello, Vallecchi, 1955). Un ambiente sociale ricco di 
                  figure popolane e proletarie nel quale si incrociano, in continua 
                  simbiosi, anarchici e socialisti. Fieri della propria radicale 
                  diversità i primi, più propensi a irrobustire 
                  Camere del Lavoro e Società di mutuo soccorso i secondi. 
                  Un ambiente nel quale, comunque, i lavoratori fiorentini, uniti 
                  nel riconoscere e combattere il nemico nonostante le nascenti 
                  differenze tattiche e strategiche che portano anche a duri scontri 
                  verbali, mantengono intatto lo spirito ribelle e solidale del 
                  proletariato toscano. Vasco Pratolini, uno dei maggiori scrittori italiani del novecento, 
                  fra i padri del neorealismo e autore di altri notevoli lavori 
                  quali Cronache di poveri amanti (1947), Le ragazze 
                  di San Frediano (1949), Lo scialo (1960), riporta 
                  nei suoi romanzi la durezza e la vivacità della propria 
                  adolescenza, allorché per vivere e continuare a studiare 
                  si adattò a svolgere mille mestieri nei quartieri popolari 
                  del capoluogo toscano. Ed è la vita di questi quartieri 
                  e della loro gente, riportata in modo mai retorico ma attento 
                  a riprodurre la semplicità del quotidiano nella sua oggettiva 
                  complessità, che esce con limmediatezza di chi 
                  ne ha assaporato fino in fondo tutta la ricchezza. Una vita 
                  ricca di sensazioni e sentimenti, popolana e corale, nella quale 
                  lalienazione della solitudine è concetto sconosciuto, 
                  e la finestra che dà sulla strada o la porta della vineria 
                  sono i veri salotti nei quali si incrociano le esistenze.
 Protagonista è Metello Salani, orfano della madre morta 
                  di parto e del padre, anarchico e renaiolo dArno, annegato, 
                  lui ancora in fasce, durante il lavoro. Mandato a balia in campagna, 
                  rientra a Firenze a quindici anni accolto da Betto, antico collega 
                  anarchico del padre. Dopo la sua scomparsa, Metello trova lavoro 
                  nei cantieri dellingegnere Badolati, costruttore intelligente 
                  e leale, ma pur sempre padrone; e in questo ambiente, popolato 
                  di belle figure di anarchici e socialisti, viene acquisendo 
                  una solida coscienza di classe. Vicino al segretario socialista 
                  della Camera del Lavoro Del Buono, assiduo frequentatore delle 
                  assemblee operaie, attivo nelle lotte, dopo aver conosciuto 
                  carbonaia e carcere, vere scuole di vita, nel 1902 partecipa 
                  con un ruolo direttivo al grande sciopero dei muratori 
                  che, dopo 42 giorni di dura e sofferta lotta, riuscì 
                  a piegare le strenue resistenze padronali. Nella trama si inseriscono, 
                  integrandosi perfettamente con le vicende sociali, i rapporti 
                  sentimentali di Metello. Il primo, iniziatico, con 
                  la matura maestra Viola, poi con la giovane Ersilia figlia dellanarchico 
                  Quinto Pallesi, morto cadendo da unimpalcatura, e infine 
                  la breve e futile storia con la vicina di casa Ida, borghesuccia 
                  in divenire, che riuscirà temporaneamente a distrarlo 
                  dallimpegno nei momenti più duri della lotta. Labbandono 
                  di costei, metaforicamente, coincide con la definitiva assunzione 
                  di responsabilità che farà di Metello, non solo 
                  il compagno fedele delladorata Ersilia, ma anche, come 
                  si può intuire, il futuro dirigente operaio. Regolarmente 
                  destinato al carcere o ad altri inconvenienti, ma 
                  conscio di aver imboccato una via di emancipazione che non prevede 
                  ritorno, questo socialista imbottito di principi anarchici ha 
                  ormai piena percezione della propria maturità, quella 
                  che, al giudice che, durante lennesimo interrogatorio, 
                  si rammarica che non abbia studiato, gli permette di rispondere: 
                  Ho studiato sui ponti. Sapesse quanto ci si impara!
 È particolarmente interessante osservare, in questa sede 
                  (e su questo verteranno anche i brani proposti al lettore), 
                  il modo in cui Pratolini descrive i tanti anarchici che si incontrano 
                  nel romanzo. Lautore, che certamente anarchico non era, 
                  doveva comunque aver ben respirato, nella gioventù trascorsa 
                  nei popolari quartieri fiorentini, lhumus libertario che 
                  li pervadeva. E difatti, pur essendo anni nei quali limmagine 
                  degli anarchici si rifaceva, con ossessiva ripetitività, 
                  ai denigratori stereotipi marxisti (di cui si dirà), 
                  i ritratti qui offerti, alcuni addirittura con toni lirici, 
                  spiccano per la loro adesione alla realtà storica. Caco, 
                  Betto, Quinto, Friani... figure di ribelli, refrattari alla 
                  disciplina e allautorità, eppure ricche di carisma 
                  e capaci di influenzare i loro compagni di lavoro socialisti. 
                  Figure in un certo senso isolate e, per lautore, forse 
                  anche espressione di un passato ormai superato dalle nuove forme 
                  organizzative del socialismo, ma che ancora e sempre più 
                  rappresentano la necessaria coscienza critica di un movimento 
                  sociale incamminato sulla strada dellautoritarismo burocratico. 
                  Ritratti, dunque, perfettamente inseriti nella cornice di quellambiente 
                  proletario.
 Forse è anche per questa genuina immagine proletaria 
                  di un anarchismo altrimenti disprezzato dalla ideologia marxista 
                  come cascame sottoproletario o piccolo borghese, che alluscita 
                  del libro una certa critica di osservanza sovietica stroncò 
                  questo piccolo gioiello della nostra letteratura, denunciandone 
                  una presunta e decadente incompiutezza. Del resto, basta osservare 
                  il modo in cui gli studiosi marxisti ricostruivano in quegli 
                  anni le vicende dellinternazionalismo anarchico a Firenze, 
                  per rendersi conto di come i binari della critica letteraria 
                  e della ricerca storica corressero parallelamente sullonda 
                  della più ottusa aderenza allortodossia terzointernazionalista. 
                  E le evidenti contraddizioni interpretative in cui cade lo storico 
                  paludato, che riporto in appendice a beneficio del lettore, 
                  rendono ancora più ammirevole il quadro dinsieme 
                  nel quale Pratolini ha voluto incastonare i suoi 
                  anarchici.
  Massimo Ortalli
     È 
                  la libertàdelle libertà
 di Vasco Pratolini
 
 Betto lo ospitò quella notte e finché poté. 
                  Era stato amico di suo padre, viveva solo, e gli piaceva il 
                  vino. La sera, ciò che gli restava, lo beveva. Allora, 
                  gli occhi celesti spiritati, usciva in strada e provocava chiunque 
                  si prestasse al suo scherno; se era la ronda che incontrava, 
                  lui digià ammonito, le si avventava contro. Sortiva di 
                  prigione ogni volta, deciso a ricominciare, ma sul serio. 
                  Cè scritto diceva in un opuscolo 
                  di Cafiero.... Sapeva parlare, aveva studiato; un suo 
                  fratello era funzionario al Genio Civile; suo padre, avvocato, 
                  era stato con Giuseppe Montanelli a Curtatone Quello che 
                  faccio quando bevo egli diceva è contro tutte 
                  le mie idee; ma non resisteva a lungo: si ubriacava e 
                  usciva a gridare per le strade: Ladri! Umberto boja! Metteremo le bombe a Pitti! A San 
                  Pietro, al Quirinale! La faremo noi la Comune! Viva Cafiero!.
 Lo raccoglievano, se non incontrava i poliziotti, lì 
                  tra le aiuole di Giardino Serristori, vicino casa, preda delle 
                  convulsioni: sempre lì andava, come una bestia che istintivamente 
                  cercasse la tana dove nascondersi e dove riparare.
 Non credere che tutti gli anarchici si comportino come 
                  mi comporto io diceva a Metello, quandera in sé. 
                  I veri anarchici non sono né come me né 
                  come tuo padre, buonuomo ma che mi assomigliava in queste cose, 
                  non lo imitare. Lanarchia è una grande idea. È 
                  la libertà delle libertà, non soltanto la libertà 
                  di bere. Non sono gli uomini come me che la possono insudiciare. 
                  Cè Cafiero, cè Kropotkin, cè 
                  stato Bakunin, cè stato Godwin, cè 
                  stato Stirner, questi due un po meno. Cè 
                  stato Proudhon, tieniti a mente questi nomi, li devi studiare. 
                  Cè stato, qui in San Niccolò, Remigio Benvenuti, 
                  faceva il calzolajo e stava accanto alla Porta. Io e tuo padre 
                  non gli si legava le scarpe.
 E mia madre? chiedeva Metello.
 Tua madre diceva Betto, gli si addolcivano gli occhi 
                  un istante, questo al ragazzo non sfuggiva, se fosse stata 
                  una donna di chiesa, lavrebbero messa sullaltare. 
                  Invece era atea, le piaceva la libertà, le piaceva la 
                  vita, qualunque fosse. Era una bella donna, alta, come stai 
                  venendo su te che per il resto sei il ritratto di tuo padre. 
                  E taceva. Una delle prime sere, gli aveva detto: Devi 
                  sapere che lei era anche la più forte, non tuo padre. 
                  Quando tu nascesti e lei morì, io ero in prigione. Ci 
                  rimasi un anno quella volta. E un altro ne feci a Lipari. Tornai 
                  che anche tuo padre non cera più da un pezzo. Te, 
                  non sapevo che esistevi.
 Della famiglia da cui proveniva, dei suoi genitori e di suo 
                  fratello ancora vivo, non parlava mai: si diceva che lavessero 
                  diseredato. E se Metello gli chiedeva: Perché lavori 
                  in piazza, dal momento che hai unistruzione?, Betto 
                  rispondeva: Lavoro in piazza perché è il 
                  più bel lavoro. Scarico, a giornata, quando mi piace, 
                  non ho padroni. E anche perché in piazza cè 
                  la sola gente con cui vado daccordo e con cui merita parlare.
   Erano dei poetidi Vasco Pratolini
 
 Già egli si accorgeva che gli anarchici diventavano 
                  sempre meno, dispersi o in galera che fossero, adesso era sopra 
                  i socialisti che si posavano gli occhi della Polizia. E più 
                  la sua mano. Erano unaltra pasta duomini, costoro, 
                  forse più ignoranti, meno generosi, se non a parole, 
                  avevano tutti una famiglia da mantenere, ma con le idee più 
                  chiare. Nondimeno, se nasceva una discussione, bastava un anarchico, 
                  sia pur lultimo e analfabeta, ma non erano quasi mai analfabeti 
                  anche se facevano un mestiere, per tener testa a un gruppo di 
                  socialisti. È vero o no gli dicevano a che più 
                  si combatte insieme e più savvicina il giorno in 
                  cui ci sarà un mondo senza classi, senza più sfruttati 
                  e senza più sfruttatori?.
 Poniamo di si lanarchico rispondeva.
 Come poniamo? Il numero fa o non fa la forza?.
 Il numero fa gregge. Collettive sono le pecore che hanno 
                  sempre bisogno di tre cose: del pastore, del cane e del bastone. 
                  Lindividuo è libero e arbitro di tutte le sue azioni.
 Parli come un capitalista.
 E vojaltri come dei preti.
 E venivano alle mani.
 E nel migliore dei casi; Con te non si può discutere. 
                  Voi anarchici siete dei Poeti.
 Erano dei Poeti, non gente come noi, che il cervello si avrà 
                  piccino, ma lo sappiamo adoperare. Sul lavoro, ad averli per 
                  amici, si sarebbero fatti in quattro per insegnarti il modo 
                  di calibrare un mattone e, come Betto, tolti la camicia per 
                  aiutarti in caso di bisogno. Presi uno a uno, erano dun 
                  altro mondo, dei Poeti, Metello si ripeteva: scacciavano 
                  una mosca anche quando sarebbe stato facile schiacciarla e nello 
                  stesso tempo non ci avrebbero pensato due volte, dandosi loccasione, 
                  di mettere una bomba e fare una carneficina; predicavano il 
                  furto, ed erano le persone più oneste che gli fosse mai 
                  capitato dincontrare. Sempre meno gli capitava di incontrarne.
   Se 
                  tu non fossilanarchico che sei
 di Vasco Pratolini
 Ma come si alzò lui, si alzò una voce dal gruppo 
                  dei muratori, distinta questa, appena un po arrochita, 
                  e precisa, che disse: Bravo Ingegnere! La dovrebbero fare 
                  Deputato, lei, con cotesta parlantina. Colui che aveva parlato, Quinto Pallesi, venne avanti qualche 
                  passo verso il tavolo:
 Ingegnere, non si è mica offeso?.
 Lavrei a sapere di che panni vesti! Se tu non fossi 
                  lanarchico che sei, a questora, con la tua capacità, 
                  invece di averti come muratore ti avrei come concorrente. E 
                  forse ti chiederei di far tutta una Ditta.
 Laveva preso a braccetto, erano adesso nel gruppo dei 
                  muratori, e in questa atmosfera creata dalla condiscendenza 
                  del padrone, le frasi aggressive, feroci, chessi si scambiarono, 
                  sembravano perdere la loro sanguinosità e acquistare 
                  il senso di una reciproca, amichevole presa in giro.
 La capacità diceva Pallesi io lho 
                  tutta nelle mani.
 E nella zucca no? Soltanto, la spendi male, anche se da 
                  un po di tempo ti sei calmato.
 Già, ma mentre a lei basta un discorsino per andare 
                  a letto tranquillo, io non so come dormirei, se fossi uno sfruttatore 
                  e un ladro pari suo.
 I muratori attorno ridevano, Metello rideva, Renzoni rideva, 
                  lo stesso Madii rideva, ma proprio per questo, le parole in 
                  apparenza svelenite, risuonavano nellintimo di ciascuno 
                  di quegli uomini cariche del loro più esatto significato.
 Sii buono, Pallesi. Se non esistesse la gente come me, 
                  morireste tutti di fame. Escluso te e qualche altra mosca bianca, 
                  il resto cosa siete, cosa sapete fare? Tolti dal vostro lavoro, 
                  avete bisogno del poppatojo, non vi sapete togliere un dito 
                  dal sedere.
 Dica culo, che lo sa dire. Quando durante il giorno lei 
                  sale sui ponti e le sembra che non si coli abbastanza sudore 
                  o che il freddo non ci abbia rotto le mani, perché non 
                  parla allora pulito?.
 O bella! Perché vi pago per sudare, e non voglio 
                  essere messo in mezzo.
 Eh, quanto vi durerà! esclamò Pallesi.
 Lo so che tu ci vorresti mettere tutti al muro, o meglio 
                  una bomba sotto i piedi. Ma bada, perfino a Capo del Governo 
                  cè un Generale! E del resto, un tempo, a Parigi, 
                  stavano per mettere te al muro.
 Ora Pallesi cambiò voce, disse: Questo è 
                  un tasto che non si deve toccare.
 Si erano tutti zittiti, e siccome passo passo erano arrivati 
                  dinnanzi alla macelleria e alla canova, a quella poca luce si 
                  potevano vedere i visi. Metello stava di fronte a Pallesi, e 
                  lo guardava: era come lo scoprisse soltanto allora, questo anarchico 
                  sui cinquantanni, di cui tutti avevano grande considerazione 
                  e con il quale, non appartenendo alla sua squadra, i suoi rapporti 
                  si erano limitati al saluto: bruno, dalle tempie brizzolate, 
                  ma forse era calcina, il viso segnato, il corpo esile, e uno 
                  sguardo di bontà e di fuoco insieme dentro gli occhi 
                  neri. Gli ricordò Betto, ma un Betto giovanile, saldo, 
                  non ottenebrato dal vino. E attese, guardandolo, un attimo: 
                  da quellimprovviso silenzio poteva nascere una rissa, 
                  una ben diversa discussione. Parlò Madii e disse:
 Sei stato tu, Pallesi, a incominciare e a mancar di rispetto 
                  allIngegnere.
 Sta zitto tu, talpa lo incenerì Pallesi. 
                  Lascia parlare il padrone.
 E subito, lIngegnere intervenne, disse: Ragazzi, 
                  è sabato, sapete che si fa? Vi offro da bere.
 Era una canova, poteva vendere vino soltanto a fiaschi, ma appunto 
                  dei fiaschi ne occorreva; e lo stesso si rimediarono cinque 
                  o sei bicchieri, sufficienti a fare il giro. LIngegnere 
                  offerse per primo a Renzoni, siccome era il più vecchio: 
                  Tieni il nappo gli disse; e queste parole bastarono 
                  a finir di disperdere la caligine. Poi, alzò il bicchiere 
                  verso Pallesi che ricambiò il suo gesto, si sorridevano, 
                  ancora cordiali, ironici, a loro modo sfidandosi e portandosi 
                  stima, uomini entrambi naturalmente più forti, e intelligenti 
                  e iniziati rispetto agli altri che li circondavano:
 Alla tua Comune, Pallesi.
 Al suo Generale, Ingegnere. Ma a chi fa la guerra? Al 
                  macinato?.
  
                    Era un comunardodi Vasco Pratolini
 
 Tirava un gran vento; le foglie sopravanzavano il corteo 
                    lungo i Viali. Cera la bandiera nera degli anarchici 
                    e cera, malgrado le lotte politiche li dividessero, 
                    il gagliardetto rosso dei socialisti e quello della Camera 
                    del Lavoro. Era un comunardo che si andava a seppellire, un 
                    muratore per il quale, sul lavoro e nella vita, tutti avevano 
                    sempre avuto e amicizia e considerazione. Ma quegli uomini 
                    pensavano più ad affrontare i soldati per via delle 
                    bandiere, si aspettavano di vederli sbucare di crocicchio 
                    in crocicchio, che non al morto, chiuso ormai nella sua bara 
                    in testa al corteo. Non era stato un gesto loro, non una provocazione 
                    di anarchici e socialisti, ma Quinto laveva chiesto, 
                    dopo chera precipitato dallimpalcatura e prima 
                    di spirare allOspedale. Portatemi via con le bandiere. Viva Cafiero!.
 Poi aveva voluto i due figlioli al capezzale: Ricordatevi 
                    che io, vostra madre, è come lavessi sposata.
 E lei, Ersilia: Lo so, babbo. Erano le tue idee. 
                    E sembrava una bambina che ripetesse una lezione, ma anche 
                    una donna? la quale tranquillizzava suo padre moribondo e 
                    mentalmente, forse, diceva una preghiera. Metello era vicino 
                    a quel letto, e la guardava.
 La guardava camminare davanti a sé pochi passi, nel 
                    corteo, quando, come ci si aspettava, risuonò uno squillo 
                    di tromba e sopraggiunse il plotone dei soldati. Volarono 
                    chepì e saltarono diversi gemelli dai solini, fu sparata 
                    in aria una scarica di fucileria. Il carro funebre era scomparso, 
                    siccome la pariglia aveva preso la mano al cocchiere; lindomani 
                    si seppe che il carro aveva urtato di fianco un omnibus a 
                    cavalli e la bara era rimasta scoperchiata al vento, nel mezzo 
                    del Viale. Dal tafferuglio, le sole a uscirne intatte, erano 
                    state le bandiere che gli alfieri, protetti dai compagni alla 
                    prima ondata, avevano messo in salvo sventolandole di lontano. 
                    Metello e qualcun altro dovettero trascorrere la notte in 
                    guardina. Il Delegato a cui erano stati consegnati, e 
                    che non era un boja, mosche bianche ma ce nera, 
                    ce nè sempre state, preferì non guardar 
                    negli schedarj. Li rilasciò allalba, in tempo 
                    perché chi aveva da lavorare non perdesse la giornata.
   Leghe, sindacatigiornali e deputati
 di Vasco Pratolini
 Monterivecchi era ancora lì uguale, e li aspettava. 
                    Forse qualche faggio si era seccato, o lavevano tagliato, 
                    altri ne erano cresciuti, lerba dei prati non era più 
                    la stessa, ma uguale, e così i sassi, gli arbusti, 
                    i papaveri ai bordi della carreggiata, e il frinire delle 
                    cicale, come in una domenica di tanti anni prima, quando ci 
                    si davano appuntamento Betto e Caco, Quinto Pallesi e il padre 
                    di Miranda e Fioravanti il tornitore, le loro donne e amiche, 
                    cosa cera di cambiato? Sulle colline che circondano 
                    la città, negli stessi prati e boschi dove venti e 
                    trentanni prima anarchici e internazionalisti si riunivano 
                    a gruppi, con chitarre vino e soprassata, fingendo innocenti 
                    gite domenicali per distrarre locchio della Polizia 
                    che ovunque li seguiva, convenivano ora i muratori per discutere 
                    dei loro problemi. Allora erano anarchici e operaisti della Prima Internazionale, 
                    adesso erano socialisti e della Seconda Internazionale, e 
                    la diversità non consisteva nella differenza di un 
                    numero e di una parola, bensì nel fatto che non erano 
                    più dei gruppetti, ma delle Leghe. Dapprima le avevano 
                    chiamate: di resistenza. Lega di resistenza fra 
                    cappellai in paglia, fra maniscalchi, fra sellaj e carrozzieri, 
                    fra marmisti e scalpellini, cuochi e camerieri, stuccatori 
                    e formatori; fra sarti, fra infermieri, fra doratori, fra 
                    corniciaj, fra operaj dei molini a vapore e a forza idraulica, 
                    fra trombaj e fontanieri; e fra cocchieri di fitto, e venditori 
                    di giornali, e operaj addetti alla vuotatura inodora 
                    perfino. Erano un esercito, duecentottanta soltanto i vuotatori, 
                    ed erano organizzati. Loro e le loro donne. La Lega delle 
                    sigaraje, dopo quella dei muratori e manovali, era la più 
                    numerosa. E dietro e avanti a loro, invece di avere dei Circoli, 
                    delle Società Operaje, delle Mutuo Soccorso, li guidasse 
                    De Ambris o Turati, avevano ora anche un partito, e Deputati 
                    in Parlamento, e giornali che uscivano tutti i giorni, puntuali 
                    come La Nazione.
 Cera che proprio adesso, che agli effetti della legalità, 
                    dellordine pubblico e della sicurezza dello Stato, erano 
                    molto meno pericolosi, la Polizia sembrava temerli di più. 
                    Gli era stato concesso di riaprire la Camera del Lavoro, e 
                    subito le loro associazioni, da Leghe di resistenza erano 
                    diventate Leghe di miglioramento. Cosa intendessero, lo dicevano 
                    le parole. Cresciuti di numero, via via che si aprivano le 
                    nuove fabbriche: i meccanici, i vetraj, i fonditori, i ceramisti, 
                    questi muratori: si accresceva la loro organizzazione. Certe 
                    categorie, come i metallurgici, i chimici, i parrucchieri 
                    avevano creato delle Federazioni; e i ferrovieri, loro, un 
                    Sindacato. Così riuniti, per arti e per mestieri, da 
                    se stessi schedatisi, sembrava più facile poterli sorvegliare. 
                    Al contrario. Rissosi ormai solo negli atteggiamenti, nelle 
                    pose, e sempre disarmati, non gli si potevano attribuire idee 
                    allOrsini. Dandosi loccasione, incrociavano le 
                    braccia e restavano a guardare. La grande retata del 98 
                    sembrava li avesse trasformati; non uno dei reduci dal domicilio 
                    coatto aveva mancato ai suoi doveri di sorvegliato speciale, 
                    e a tutti, lamnistia concessa per lincoronazione 
                    di Vittorio Terzo aveva lavato la fedina.
   Il 12 dicembredi Vasco Pratolini
 
 Era il 12 dicembre del 1902, lindomani li avrebbero 
                    liberati, da unora allaltra, senza preavviso, 
                    per evitare che alluscita del Carcere, si organizzassero 
                    delle manifestazioni. Diciannove quanti erano, quattro o sei 
                    per volta, si abbracciarono e si strinsero le mani. Domattina ci si ritrova sui Cantieri.
 Ci sarà lavoro?.
 Ce lo daranno?.
 Speriamo.
 Da Badolati, forse, di sicuro.
 E da Madii, da Tajuti?.
 Si tratterà di vedere.
 Buonanotte, figlioli.
 Anche questa è passata, buonanotte disse 
                    Corsiero. Poteva andar peggio.
 Buonanotte.
 A domani.
 Bona.
 Erano le cinque di sera, i lampioni erano già accesi, 
                    la nebbia sembrava fasciare la città nel giro delle 
                    colline e arrestarsi allaltezza dei Viali; sopra le 
                    vie e le piazze, il Carcere, le case, il cielo era pulito 
                    e compatto, con tutte le stelle e tre quarti di luna. Giannotto, 
                    uscito coi primi, dette una voce a Ersilia, passando da via 
                    dellUlivo, poco lontano dalle Murate, e sulla strada 
                    per raggiungere i Lungarni e San Frediano.
 Quando Metello varcò il portone, lei stava sul marciapiede 
                    dirimpetto, col bambino in braccio e i capelli belli pettinati, 
                    uno scialle rosa sulle spalle, il ventre di sette mesi che 
                    la sformava e nondimeno la illeggiadriva, in qualche modo. 
                    Egli baciò Libero sulla guancia, baciò lei; 
                    le tolse il bambino e lei lo prese a braccetto. Percorsero 
                    in silenzio tutta via Ghibellina, ed entrarono nel Caffè 
                    del Canto alle Rondini. Lei prese un corretto, lui una grappa; 
                    lei cavò di tasca un savojardo e lo mise in mano al 
                    bambino. Senza volere, erano venuti a trovarsi di fronte al 
                    grande specchio incorniciato doro di una reclame, e 
                    si sorrisero.
 La Sacra Famiglia egli disse.
 Su ella disse. Non bestemmiare.
 Ma dora in avanti.
 Dora in avanti cosa?.
 Brani tratti da: Vasco Pratolini, Una storia italiana 
                    I. Metello, Vallecchi, Firenze, 1955.     Il socialismoanarchico
 di Elio Conti
 La diffusione del socialismo anarchico in Italia fu una conseguenza 
                    dellarretratezza dellambiente economico-sociale 
                    e dellimmaturità politica delle masse lavoratrici 
                    della penisola. In quegli anni; leconomia delle regioni 
                    dellItalia centrale e meridionale, dove lanarchismo 
                    trovò la sua culla si trovava in una fase di passaggio 
                    da rapporti di produzione di tipo artigianesco e mezzadrile 
                    allindustria capitalistica; non esisteva un proletariato 
                    come classe omogenea e con caratteristiche ben determinate; 
                    il popolo minuto era composto o da artigiani indipendenti, 
                    bottegai, piccoli imprenditori (piccola borghesia), o da garzoni-artigiani, 
                    lavoranti a domicilio, operai alla ventura (sottoproletariato). 
                    Il socialismo anarchico era appunto il prodotto di questo 
                    primitivismo di classe, era lespressione della protesta 
                    e dello stato di fermentazione di larghi strati di sottoproletariato 
                    ridotti alla fame ed alla disperazione dal progressivo esaurimento 
                    delle tradizionali fonti di lavoro e dal ritmo lento e faticoso 
                    con cui procedeva la nascente organizzazione capitalistica. 
                    Il proletariato dellindustria moderna rimase estraneo 
                    allesperienza anarchica. Nelle poche grandi fabbriche 
                    che esistevano allora in Firenze e dintorni, come la fabbrica 
                    Ginori di Doccia, la fonderia del Pignone, lofficina 
                    Galileo, le officine ferroviarie e i lanifici pratesi, il 
                    movimento internazionalista, dopo lepisodio del Fascio 
                    Operaio, non riuscì a far breccia.
 Da una diligente statistica da me compiuta sui documenti della 
                    polizia per gli anni 187478, risulta che fra i più 
                    influenti internazionalisti fiorentini vi erano: 1 scritturale, 
                    18 fabbri-meccanici, 13 falegnami o mobilieri, 24 calzolai, 
                    6 tipografi, 9 parrucchieri, 6 muratori o manovali, 8 verniciatori 
                    o imbianchini, 3 tornitori, 3 tappezzieri, 2 mosaicisti, 3 
                    sarti, 3 sigaraie, 2 ebanisti, 5 garzoni-macellai, 3 garzoni-fornai, 
                    3 scalpellini, 4 marmisti, 2 camerieri, 7 spazzini, 2 trippai, 
                    4 facchini, 4 cenciaioli, 7 conciapelli, 9 braccianti, 7 venditori 
                    ambulanti, ecc. Va inoltre notato che la maggior parte dei 
                    calzolai, sarti, fabbri, ecc. non erano artigiani indipendenti, 
                    ma lavoranti-calzolai, lavoranti-sarti, 
                    lavoranti-fabbri, ecc., cioè garzoni-artigiani 
                    o operai impiegati in quelle piccole imprese che erano il 
                    prodotto della graduale trasformazione del medio e grande 
                    artigianato nellindustria manifatturiera. Non diversa 
                    è la composizione sociale del movimento anarchico nei 
                    decenni seguenti, dove troviamo operai disoccupati o senza 
                    mestiere fisso (operai alla ventura dicono i rapporti 
                    di polizia), fabbri, calzolai, barbieri, fornai, intagliatori, 
                    verniciatori, falegnami, tappezzieri, venditori ambulanti 
                    ecc. Furono gli strati economicamente e culturalmente meno 
                    evoluti del popolo quelli che accettarono con entusiasmo le 
                    teorie del socialismo anarchico, quellinsieme 
                    degli straccioni e della canaglia  secondo le parole 
                    del Manifesto di Marx ed Engels  che rappresenta il 
                    prodotto della putrefazione passiva degli strati infimi della 
                    società esistente.
 (
). Le classi lavoratrici della penisola non erano ancora 
                    mature per dare origine ad un disciplinato e moderno movimento 
                    di massa. Lesperienza internazionalista non fu tuttavia 
                    infeconda. Il socialismo anarchico poté penetrare nelle 
                    classi più umili, conferendo una forma ed una direzione 
                    agli impulsi più elementari delle plebi; elevò 
                    il senso di disagio a coscienza di classe e diffuse laspirazione 
                    ad una palingenesi sociale. In questo senso rappresentò 
                    un fattore positivo, benché lanarchismo, come 
                    il socialismo utopistico, il populismo e tutte 
                    le altre forme di socialismo estranee allesperienza 
                    della grande industria ed esprimenti la protesta dei vecchi 
                    ceti lavoratori contro lavanzata delle moderne forze 
                    produttive, costituisse in sostanza una forma di reazione.
 Tratto da: Elio Conti, Le origini del socialismo a Firenze 
                    (1860-1880), Rinascita, 1950.   
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