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                 Irriducibili e disperati  
                Come si sa, lillegalismo, inteso 
                  come pratica militante che nasce da alcune estremizzazioni dellanarchismo, 
                  fa parte a pieno titolo della storia, passata e recente, del 
                  nostro movimento. Manifestazione concreta di irriducibile estraneità 
                  alla società esistente, non di rado vede i suoi sostenitori 
                  teorizzarne la necessità, come la sola risposta coerente 
                  con il rifiuto di ogni potere e autorità. Contrapponendosi 
                  a quello che comunemente definiamo anarchismo sociale, e trovando 
                  le proprie radici, o meglio, le proprie conclusioni, nellesaltazione 
                  di un individualismo attento esclusivamente alle specificità 
                  di chi lo afferma, lillegalismo perde però per 
                  strada, e non potrebbe essere diversamente, alcuni dei capisaldi 
                  fondamentali del pensiero anarchico, vale a dire la volontà 
                  di non creare nuovi autoritarismi e laspirazione alluguaglianza. 
                   
                  Meno male, dunque, che di un argomento tanto affascinante quanto 
                  delicato, quale fu lazione illegalista di una componente 
                  significativa dellanarchismo francese (e non solo francese) 
                  nei primi anni del ventesimo secolo, e in particolare della 
                  banda Bonnot, se ne è occupato Pino Cacucci, lunico 
                  narratore, a mio parere, davvero in grado di affrontarne la 
                  complessità, senza concedere nulla a una facile retorica, 
                  a una superficiale esaltazione e ad una altrettanto superficiale 
                  condanna. Buon conoscitore delle tematiche che affronta (e questa 
                  sua conoscenza nasce dalla sedimentata adesione al pensiero 
                  libertario) nel suo bellissimo In ogni caso nessun rimorso 
                  (Longanesi, 1994) Pino Cacucci, con sensibilità attenta 
                  a tutte le coordinate che animarono la dialettica e la pratica 
                  militante del movimento anarchico doltralpe, ricostruisce 
                  le drammatiche vicende che ebbero per protagonisti lanarchico 
                  lionese Jules Bonnot, audace rapinatore ed espropriatore, e 
                  gli altri personaggi di quel milieu libertario, profondamente 
                  individualista e sovversivo, che si affiancarono al primo in 
                  una sorta di lotta privata alla borghesia della Francia di inizio 
                  secolo.  
                  Generoso e folle sogno 
                Restando volutamente sospeso fra ricostruzione storica e invenzione 
                  letteraria, in questo romanzo Cacucci descrive lesistenza 
                  grama e disperata di un gruppo di anarchici che, fra il 1910 
                  e il 1911, trovarono in un illegalismo fatto di rapine ed espropri 
                  il mezzo per sbattere violentemente la propria rabbia in faccia 
                  a una società che li voleva, altrimenti, relegati ai 
                  suoi margini. Protagonista, nel romanzo e nella cronaca, è 
                  Jules Bonnot, il capo dei banditi in automobile, 
                  il personaggio che più degli altri rappresenta la drammaticità 
                  di una condizione che sembra non poter avere alternative meno 
                  radicali. E, infatti, i motivi che imprimeranno alla sua sorte 
                  il carattere di non ritorno, che lo condanneranno a trasformare 
                  la sensibilità in violenza, ci sono tutti: una 
                  infanzia povera di tutto fuorché di sofferenze, lo sfruttamento 
                  sistematico sui luoghi di lavoro, limpossibilità 
                  di far valere con le buone i propri diritti, i continui 
                  licenziamenti, le persecuzioni poliziesche, gli amori conclusi 
                  con donne incapaci di condividerne il furore, insomma, la preclusione, 
                  per lui anarchico, proletario, ribelle, a costruirsi unesistenza 
                  normale. E attorno a lui, figli dello stesso ambiente 
                  e delle stesse idee, un gruppo di anarchici, irriducibili e 
                  disperati, che butteranno la vita nel generoso e folle sogno 
                  di dare ad essa, con gli strumenti della violenza, un senso 
                  diverso da quello imposto dalla società. I loro nomi 
                  Garnier, Valet, Dieudonné, Callemin, Soudy, Albert Libertad, 
                  André Lorulot, operai, artigiani, sottoproletari gli 
                  uni, intellettuali, giornalisti, conferenzieri incendiari gli 
                  altri. Diversi, ma tutti incapaci di qualsiasi mediazione. E 
                  non solo rispetto alla loro coscienza ma, a volte, anche rispetto 
                  alla loro stessa intelligenza.  
                  Accanto a quanti vedevano nella violenza lunica risposta 
                  alla feroce violenza dello stato e della borghesia, troviamo 
                  però anche quegli anarchici che, negli stessi anni, tentarono 
                  di proporre ben altre ragioni e ben altri metodi nella comune 
                  lotta contro il potere e lo sfruttamento. Ovviamente, infatti, 
                  il movimento anarchico francese di quegli anni non era composto 
                  solo di camarades disposti a interpretare i personaggi delleterno 
                  gioco di guardie e ladri, ma comprendeva, nella sua complessità, 
                  altre straordinarie figure di militanti, consapevoli che la 
                  scelta dellillegalismo, a lungo andare, non avrebbe potuto 
                  portare ad altro che allautodistruzione. Ecco quindi che, 
                  accanto a Bonnot e ai suoi, troviamo le limpide figure di Victor 
                  Serge e Rirette Maitrejean, amici e compagni di molti dei componenti 
                  la banda, sempre umanamente solidali con loro, con le loro sofferenze 
                  e il loro tragico destino, ma lucidamente e drasticamente oppositori 
                  delle loro scelte suicide. E con efficacia Cacucci fa partecipe 
                  il lettore, anche quello meno avvertito, dellaspro scontro 
                  dialettico che contrapponeva chi non vedeva altra strada che 
                  quella con in mano una Browning, e chi, invece, continuava ostinatamente 
                  a pensare che lanarchia fosse possibile solo diffondendone, 
                  nella società, i principi di solidarietà e uguaglianza. 
                 
                  
                  Affresco plurale 
                Anche questa volta, dunque, non si tratterà di un singolo 
                  ritratto in piedi, ma di un affresco plurale, che 
                  vuole raffigurare quasi tutti i protagonisti di questo affascinante 
                  romanzo. Perché un ritratto, evidentemente, è 
                  dedicato a Bonnot, e ritratti con lui sono Albert Libertad, 
                  Raymond-la-science, Garnier, Valet, Carouy, che hanno 
                  perso tutto ma lunica cosa che sono riusciti a non perdere 
                  è la dignità, ma... soprattutto ritratti 
                  in piedi sono Victor Serge e Rirette Maitrejean, che con 
                  una tenacia mai venuta meno, neppure durante la lunga e ingiusta 
                  carcerazione, con una lucidità e umanità che valse 
                  loro il rispetto anche dei più esaltati, contribuirono 
                  a far sì che, in un paese nel quale quaranta milioni 
                  di persone erano pronte, ormai, a identificare lanarchia 
                  con il crimine e lassassinio, lideale anarchico 
                  potesse continuare a essere, invece, il faro per ogni aspirazione 
                  di libertà ed uguaglianza. 
                  
                  Massimo Ortalli 
 
                  
                     
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                         Bibliografia 
                           
                        Victor 
                          Serge, Memorie di un rivoluzionario, Firenze, 
                          La Nuova Italia, 1956  
                        Paolo 
                          Valera, I clamorosi rossi dellautomobile grigia. 
                          Memorie di Giulio Bonnot, Milano, La  
                          Folla, 1921  
                        Gilbert 
                          Guilleminault e André Mahé, Lépopée 
                          de la Révolte, Paris, Denoel, 1963  
                        Bernard 
                          Thomas, La banda Bonnot, Milano, Forum Editoriale, 
                          1968  
                        Pino 
                          Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Milano, 
                          Longanesi, 1994  
                        Charles 
                          Bentin, La bande Bonnot, Geneve, Cremille, 1971 
                           
                        Maurice 
                          Boisson, Les attentats anarchistes sous la troisieme 
                          République, Paris, Editions de France, 1931 
                           
                        Jean 
                          Maitron, Ravachol et les anarchistes, Paris, 
                          Gallimard, 1992  
                        Jean 
                          Maitron, Le mouvement anarchiste en France, Paris, 
                          Maspero, 1983  
                        Victor 
                          Meric, Les bandits tragiques, Paris, Simo Kra, 
                          1926  
                        André 
                          Nataf, La vie quotidienne des anarchistes en France 
                          1880-1910, Paris, Hachette, 1986  
                        André 
                          Salmon, Le terreur noire, Paris, Pauvert, 1959 
                           
                        Alain 
                          Sergent e Charles Harmel, Histoire de lanarchie, 
                          Paris, Portulan, 1949 
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                Città 
                  senza  
                  evasione possibile 
                   di Victor Serge 
                 
                Lanarchismo ci prendeva per intiero perché ci 
                  chiedeva tutto, ci offriva tutto: non cera un solo angolo 
                  della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava. 
                  Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali, 
                  socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare della propria 
                  vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere 
                  il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffè 
                  degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato 
                  in tendenze e sottotendenze, lanarchismo esigeva anzitutto 
                  laccordo tra gli atti e le parole (cosa che in verità 
                  esigono tutti gli idealismi, ma che tutti dimenticano, addormentandosi): 
                  per questa ragione andammo alla tendenza estrema (in quel momento), 
                  quella che mediante una dialettica rigorosa arrivava, a forza 
                  di rivoluzionarismo, a non aver più bisogno di rivoluzione. 
                  Eravamo un po spinti dal disgusto di un certo anarchismo 
                  accademico molto assennato, di cui Jean Grave era il pontefice 
                  ai Temps nouveaux. Lindividualismo era stato appunto allora 
                  affermato da Albert Libertad, che ammiravamo. Non si conosce 
                  il suo vero nome; non si sa nulla di lui prima della predicazione. 
                  Infermo alle due gambe, camminava appoggiandosi alle stampelle, 
                  di cui si serviva con vigore nelle baruffe, da quellattaccabrighe 
                  che era, portava su un torso possente una testa barbuta dalla 
                  fronte armoniosa. Povero, venuto vagabondo dal Mezzogiorno, 
                  cominciò la sua predicazione a Montmartre, nei circoli 
                  libertari e nelle code di poveri diavoli che aspettavano la 
                  distribuzione della minestra non lontano dai cantieri del Sacro 
                  Cuore. Violento e magnetico, divenne lanima di un movimento 
                  di un dinamismo così straordinario che non è ancora 
                  del tutto spento al giorno doggi. Amava la strada, la 
                  folla, il baccano, le idee, le donne: convisse due volte con 
                  due sorelle, le sorelle Mahé e le sorelle Morand; ebbe 
                  figli che rifiutò di iscrivere allo stato civile. «Lo 
                  stato civile? Non lo conosco. Il nome? Me ne infischio, si daranno 
                  quello che vorranno. La legge? Vada al diavolo.» Morì 
                  nel 1908, delle conseguenze di una baruffa, allospedale, 
                  non senza lasciare il suo corpo, «la mia carogna » 
                  diceva, ai preparatori anatomici, per la scienza. La sua dottrina, 
                  che divenne quasi la nostra, era questa: « Non aspettare 
                  la rivoluzione: quelli che promettono la rivoluzione sono buffoni 
                  come gli altri. Fa la tua rivoluzione tu stesso. Essere uomini 
                  liberi, vivere da compagni.» Evidentemente semplifico, 
                  ma era davvero duna bella semplicità. Comandamento 
                  assoluto: regna, «e crepi il vecchio mondo!» Da 
                  qui partirono naturalmente molte deviazioni; «vivere secondo 
                  la ragione e la scienza », conclusero alcuni, e il loro 
                  povero scientismo, che invocava spesso la biologia meccanicistica 
                  di Yves Le Dantec, li condusse a ogni sorta di cose ridicole 
                  come lalimentazione vegetariana senza sale e di sola frutta, 
                  e anche a fini tragiche. Si sarebbero visti dei giovani vegetariani 
                  impegnare lotte senza uscita contro la società intiera. 
                  Altri conclusero: «Dobbiamo essere al di fuori, per noi 
                  non cè posto che in margine alla società 
                  », senza pensare che la società non ha margine, 
                  che ci si è sempre dentro, anche in fondo alle galere, 
                  e che il loro «egoismo cosciente » faceva eco dal 
                  basso, tra i vinti, al più feroce individualismo borghese. 
                  Altri infine, tra cui mi trovavo anchio, tentarono di 
                  condurre di pari passo la trasformazione individuale e lazione 
                  rivoluzionaria, secondo il motto di Elisée Reclus: « 
                  Fino a che durerà liniquità sociale, resteremo 
                  in stato di rivoluzione permanente... » (Cito a memoria). 
                  Lindividualismo libertario ci dava presa sulla realtà 
                  più lancinante, su noi stessi. Sii te stesso. Però, 
                  esso si sviluppava in unaltra città-senza-evasione-possibile, 
                  Parigi, immensa giungla dove un individualismo primordiale, 
                  ben altrimenti pericoloso che il nostro, quello della più 
                  darviniana lotta per la vita, regolava tutti i rapporti. Partiti 
                  dalle servitù della povertà, ce le ritrovavamo 
                  dinanzi: essere se stessi sarebbe stato un prezioso comandamento 
                  e forse un alto adempimento, se però fosse stato possibile; 
                  e non comincia a divenire possibile che quando i bisogni più 
                  imperiosi delluomo, quelli che lo confondono con le bestie 
                  più che con i suoi simili, siano soddisfatti. Il nutrimento, 
                  un ricovero, i vestiti dovevamo conquistarli con una lotta accanita; 
                  e, dopo, lora per leggere e meditare. Il problema dei 
                  giovani senza un soldo che una irresistibile aspirazione sradicava, 
                  « strappava al collare », come noi dicevamo, si 
                  poneva in termini quasi insolubili: molti compagni dovevano 
                  presto scivolare in quella che si chiamò lillegalità, 
                  la vita non più in margine alla società, ma in 
                  margine al codice. « Non vogliamo essere né sfruttatori 
                  né sfruttati», essi affermavano, senza accorgersi 
                  che diventavano, pur restando luna e laltra cosa, 
                  uomini braccati. Quando si sentirono perduti, decisero di farsi 
                  uccidere, non accettando la prigione « La vita non val 
                  questa!», mi diceva uno di essi, che non usciva più 
                  senza la sua browning. «Sei pallottole per i cani da guardia, 
                  la settima per me. Sai, ho il cuore leggero...» È 
                  pesante, un cuore leggero. La dottrina della salvezza che è 
                  in noi metteva capo, nella giungla sociale, alla battaglia di 
                  Uno contro tutti. Una vera esplosione di disperazione maturava 
                  tra noi senza che lo sapessimo.  
                Tratto da: Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, 
                  Firenze, La Nuova Italia, 1956.  
                 
                     
                  
                Ammiravo 
                  i suoi paradossi 
                  di Paolo Valera 
                 
                Egli diceva che non era nato per essere fra i malcontenti, 
                  fra i miserabili, fra gli ubbidienti. Erano malattie per i bruti, 
                  per gli idioti. La storia era fatta di disubbidienze. Ascoltavo 
                  e ammiravo. Ammiravo i suoi paradossi, senza difendermi, senza 
                  impedire che le stramberie diventassero a poco a poco verità 
                  anche per me. In un mese la mia fantasia si accendeva con le 
                  faville della sua. Mi scaldavo al fuoco del suo cervello. Cerano 
                  momenti in cui mi sentivo illuminato della sua luce. Con il 
                  suo verbalismo alla rovescia le figure storiche assumevano altri 
                  colori, diventavano altre persone, circolavano con altri caratteri. 
                  Annegate nellinchiostro del disgusto o del disprezzo egli 
                  le alzava e le faceva rivivere nella prosa scarlatta della rivolta. 
                  Gli uomini più bistrattati dalle villanie dei contemporanei 
                  apparivano nella discussione uomini integri, con il loro cervello 
                  disambientato in lotta con gli uomini del suo tempo. Plasmati 
                  da lui, circolavano altezzosi, fieri, inconciliabili, come in 
                  una conflagrazione di idee. Se mi lasciavo impallidire dalle 
                  cataste dei cadaveri ammucchiati nelle pagine dei movimenti 
                  incomposti per le imprudenze o le impazienze dei personaggi 
                  o delle masse egli: mi svecchiava. Mi ripeteva che si doveva 
                  pensare alla rovescia. Il bianco doveva diventare nero e il 
                  nero bianco. Per la gente antica le perturbazioni, le violenze, 
                  le sollevazioni erano disperazioni umane. Per lui contenevano 
                  delle consolazioni, delle risurrezioni, delle giuste vendette, 
                  delle scene immortali.  
                   I tumulti  mi diceva  le insurrezioni, i 
                  complotti, le sedizioni, gli ammutinamenti, le eruzioni popolari 
                  contro le leggi antisociali sono manifestazioni sagge, da gente 
                  equilibrata. Non cè altro. Se si è fatta 
                  della strada è grazie a questi urti, a queste febbri, 
                  a queste convulsioni. Per gli sciocchi sono eccessi di follia, 
                  Per me sono movimenti utili, razionali, indispensabili nella 
                  società del mio e del tuo. Senza di esse saremmo ancora 
                  alla Vandea odiosa della gente che moriva o voleva morire per 
                  i diritti patrizi e bestiali del feudalesimo.  
                Tratto da: Paolo Valera, I clamorosi rossi dellautomobile 
                  grigia. Memorie di Giulio Bonnot, Milano, La Folla, 1921. 
                 
                  
                I porci 
                  stanno per pagare 
                  di Bernard Thomas 
                Nel primo incontro, si parlò di varie cose. Si videro 
                  di nuovo il giorno dopo, poi ancora il successivo. In meno di 
                  una settimana un piano di battaglia era già elaborato. 
                   
                  Raymond descriveva lobiettivo da raggiungere in termini 
                  entusiasmanti. Bonnot, imperturbabile, riconduceva la conversazione 
                  a dettagli concreti, indispensabili e persino difficili da comprendere 
                  per quegli intellettuali vegetariani. Lo faceva con modestia, 
                  con pazienza, senza alzare la voce, senza mai offendere, dando 
                  loro limpressione di scoprire le idee da soli, a poco 
                  a poco. Le grandi linee di questa audace strategia, non priva 
                  di somiglianze con quella che venticinque anni dopo seguirà 
                  il Kuomintang per la guerriglia urbana a Shanghai, possono essere 
                  descritte in questo modo. Obiettivo: vincere la formidabile 
                  organizzazione sociale. Sorprendere. Stupire. Strategia: quella 
                  della vespa contro lelefante. La puntura in un posto sensibile. 
                  Il colpo di mano rapido; lazione-lampo che semina il terrore 
                  per il dolore imprevisto che provoca; poi, approfittando del 
                  panico, una ritirata rapida come lattacco. Strumenti: 
                  larsenale inventato dalla scienza. Automobili veloci, 
                  armi dal tiro rapido. Arnesi da scasso perfezionati. Tattica: 
                  in periodo di preparazione, nascondersi in luoghi diversi, sotto 
                  falsi nomi, da non confidarsi neppure reciprocamente per ulteriore 
                  prudenza; appuntamenti in luoghi continuamente diversi. Uccidere 
                  soltanto in caso di necessità. Ma, beninteso, ogni resistenza 
                  da parte del nemico sarebbe stata considerata come una ribellione 
                  e avrebbe giustificato, per legittima difesa, limpiego 
                  di armi da fuoco. Organizzazione della banda: nessun capo, coerentemente 
                  ai principi. Unassociazione di liberi individui. Ma comunque, 
                  un ruolo per ciascuno, in funzione della propria personalità. 
                  Un commissario politico, Raymond. Un consigliere militare, Bonnot. 
                  Come luogotenenti: Garnier, per la sua vivacità, laudacia, 
                  lagilità. Carouy, per la sua solidità, il 
                  sangue freddo esemplare; Monnier, detto Simentoff, egualmente 
                  coraggioso, eccellente nel raccogliere le informazioni, valido 
                  soprattutto per il sud della Francia. In seguito, in secondo 
                  piano, Metge, il cuoco, esecutore notevole, ma con la tendenza 
                  a perdere le staffe. Dieudonné, forse, se accetterà. 
                  Valet sarebbe stato un ottimo elemento, se la «riappropriazione 
                  individuale» lo avesse interessato, cosa non corrispondente 
                  alla realtà. Soudy è senza dubbio utilizzabile: 
                  quel povero ragazzo non ha più niente da perdere. Lorulot 
                  in nessun caso: un parolaio confusionario. Kilbatchiche, neanche 
                  parlarne.  
                  (
).  
                  Aveva in balia della sua volontà un gruppo di giovani, 
                  nati in famiglie povere come la sua, e che, come era successo 
                  a lui, lingiustizia mostruosa delle condizioni sociali 
                  aveva reso ribelli. Poiché essi erano più sensibili, 
                  più onesti, più logici e più coraggiosi 
                  del gregge, erano scivolati senza rendersene conto dalla parte 
                  dei ladri di professione. Che bel materiale caldo e corrosivo 
                  da utilizzare per vendicarsi della Società, per vendicare 
                  Judith! Con loro si poteva andare fino in fondo.  
                  Bonnot vedeva giusto. A forza di scioperi finiti nel sangue, 
                  a forza di scandali finanziari, un pugno di ragazzi era sorto 
                  dalla massa dalla schiena curva per le bastonate. Lincomprensione 
                  che li aveva circondati, limpossibilità di vedere 
                  le loro rivendicazioni soddisfatte, qualche buon libro che nessuno 
                  aveva insegnato loro a leggere, limpulsività della 
                  giovinezza, la corruzione allalto della scala sociale, 
                  il sudiciume in basso, li avevano resi pazzi furiosi.  
                  Fornendo armi e un metodo a questi ragazzi paranoici per un 
                  insieme di circostanze troppo complicate per la loro testa, 
                  Bonnot ne farà degli assassini. Essi non si illudono 
                  più sulla possibilità di una rivoluzione mondiale, 
                  in quella fine del 1911. Non ci pensano più. Vedono rosso. 
                  Sono furiosi. Non si rendono conto che limpeccabile strategia 
                  che hanno messo in piedi è al servizio di una ideologia 
                  demente: il trionfo di un io alienato.  
                  Bonnot se ne frega. Possono dire e pensare ciò che vogliono. 
                  I porci stanno per pagare.  
                Tratto da: Bernard Thomas, La banda Bonnot, Milano, 
                  Forum Editoriale, 1968.  
                  
                Non chiedevo 
                  granché  
                  di Pino Cacucci 
                «Ribellione», mormorò Jules adagiandosi 
                  sulla branda.  
                  Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire 
                  un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté, 
                  avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori, 
                  sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva 
                  Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner 
                  lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner « lintelletto 
                  più fertile della sua epoca »... Jules sorrise, 
                  scuotendo la testa, e le labbra gli si piegarono in una smorfia 
                  amara: lintelletto più fertile, certo, che però 
                  era morto in miseria e solitudine, ignorato dai borghesi, disprezzato 
                  e ridicolizzato dai socialisti, abbandonato alla fame che aveva 
                  accompagnato buona parte della sua esistenza... A che era servito 
                  tanto intelletto, se poi nulla era riuscito a cambiare? La società, 
                  lo stato, il mondo intero erano disposti a riconoscergli la 
                  qualifica di filosofo, adesso che Stirner era un mucchietto 
                  di ossa dimenticate in qualche cimitero del paese più 
                  socialista di ogni altro. Già, i socialdemocratici tedeschi, 
                  pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu 
                  distratto dallidea che in quella lurida soffitta ci fossero 
                  le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno 
                  da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio 
                  delle cimici. Riprese il filo dei suoi pensieri. Dunque, i socialdemocratici 
                  erano quel fior di rivoluzionari che, una volta entrati in parlamento, 
                  avevano detto chiaro e tondo: « Loperaio tedesco 
                  è ormai un cittadino rappresentato al Reichstag, e da 
                  adesso ha dei doveri verso la Germania che vanno anteposti a 
                  quelli verso la propria classe»... Jules sospirò 
                  e subito fu preso da un attacco di tosse. Quella maledetta polvere. 
                  Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della 
                  socialdemocrazia, quando lunico scopo era costruire cannoni 
                  per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare 
                  i muscoli ai vicini europei... E quel vecchio rimbambito di 
                  Engels, ricordò Jules, si era persino rimangiato il Manifesto 
                  Comunista, dichiarando che i socialdemocratici tedeschi dovevano 
                  approvare le spese militari, per difendersi da un attacco della 
                  Russia zarista... La solita storia. In quanto alla Russia, poi... 
                  Jules gettò uno sguardo ai vecchi giornali accatastati, 
                  ai fogli anarchici sparsi un po dappertutto nellangusto 
                  spazio della soffitta. Due anni prima, cera stato lammutinamento 
                  dellincrociatore Potëmkin. Una bella cosa, senza 
                  dubbio. Magari li avesse avuti lui, i cannoni a lunga gittata 
                  da puntare su Lione... Be, Lione era un po troppo 
                  distante dal mare. Forse, avrebbe cannoneggiato la Costa Azzurra, 
                  giusto per dare una ripulita... Stavolta si mise a ridere, fermandosi 
                  però in tempo, prima che i bronchi tornassero a tormentarlo. 
                  Lincrociatore Potëmkin, gli ufficiali e i soldati 
                  insorti... Ma che accidente di rivoluzione sarebbe mai stata, 
                  se a cominciarla erano i militari? Conosceva bene il mondo chiuso 
                  e miope dei militari: qualsiasi idea avessero, qualunque fosse 
                  il motivo che li spingeva ad ammutinarsi, si sarebbero portati 
                  dietro le tare tipiche della mentalità da caserma. No, 
                  non cera speranza. Non nella rivoluzione, almeno. La ribellione 
                  era unaltra cosa. Certo, Stirner non aveva mutato nulla. 
                  Ma, neppure ci era riuscito quel calzolaio parigino, anarchico 
                  pure lui, tale Léon Léauthier, che era entrato 
                  in un lussuoso ristorante dellavenue de lOpéra 
                  e aveva piantato il suo trincetto nella pancia del primo simbolo 
                  che gli era capitato a tiro, cioè la faccia da carogna 
                  più carogna che aveva visto: casualmente, apparteneva 
                  al signor Georgewitch, ministro della Serbia. Roba da incidente 
                  internazionale. E a che cosa era servito? Il calzolaio, addio. 
                  Il ministro, sostituito da unaltra carogna suo pari. «Se 
                  avessi avuto della dinamite, avrei fatto di meglio», era 
                  stata la dichiarazione del calzolaio, prima che lo portassero 
                  via e cominciassero a massacrarlo di botte. Sì, come 
                  no, la dinamite...  
                  Lultimo barlume si spense, e la candela spirò. 
                  Jules accese un fiammifero, in cerca delle sigarette. Ne era 
                  rimasta una. La prima boccata lo fece tossire, ma già 
                  alla seconda avvertì una piacevole sensazione di stordimento 
                  nei polmoni.  
                  (
).  
                  Jouin laveva lasciato sfogare. E a quel punto riprese 
                  con voce sommessa:  
                  «La conosco troppo bene, per chiederle una cosa simile. 
                  Io volevo soltanto metterla in guardia. Tentare di spiegarle 
                  che lillegalismo porterà tutti alla rovina, anche 
                  quelli come lei che non lo condividono, o addirittura lo avversano. 
                  E che personaggi come Platano possono raccontare in giro di 
                  essere anarchici, ma sono soltanto delinquenti. Come ormai lo 
                  sono Raymond Callemin e Edouard Carouy, per la giustizia. Non 
                  si possono svaligiare case e uffici postali e pretendere di 
                  sbandierare ideali di amore e fratellanza...  
                  
                O forse non è daccordo con me, lei che dedica 
                  ogni giorno della sua vita a unutopia che sta sprofondando 
                  nel fango? »  
                  Le mani di Victor, posando la tazza del caffè, tradirono 
                  il nervosismo.  
                  « I delinquenti servono a mantenere i poliziotti. Senza 
                  i delinquenti, nessuno vi pagherebbe uno stipendio », 
                  sibilò con le labbra bianche per la tensione.  
                  « Lei tende a semplificare troppo le cose, signor Kibalcic. 
                  »  
                  « Commissario Jouin, il vero motivo per cui non trovo 
                  pace, in questa mia vita, è che non riesco mai a vedere 
                  le cose semplicemente. Magari potessi accontentarmi di certe 
                  facili parole dordine, di ragionamenti elementari... Tutto 
                  è così maledettamente complesso, da aggiungere 
                  costantemente dubbi ai dubbi. Cè una sola cosa 
                  semplice, in questa realtà che ci hanno costretto a vivere: 
                  lei e io siamo nemici naturali. »  
                  Il volto di Jouin riassunse quellespressione dolente che 
                  aveva allinizio del colloquio.  
                  « È libero di non credermi, ma io non mi sento 
                  suo nemico. »  
                  « Il mestiere che si è scelto la obbliga a esserlo, 
                  commissario. »  
                  (
).  
                  Jouin assunse unespressione rassegnata. Guardò 
                  Rirette, che era rimasta in piedi, appoggiata al ripiano di 
                  marmo del lavandino, e distolse quasi subito gli occhi da quelli 
                  di lei. Aveva letto una sfumatura di pietà che si mescolava 
                  al disprezzo manifestato fino a quel momento. E non riuscì 
                  a sopportarlo. Preferì rivolgersi a Victor, che aspettava 
                  la sua risposta.  
                  «Perché... perché non esiste una società 
                  che possa fare a meno dei poliziotti. Anche dopo una rivoluzione, 
                  la prima cosa da fare è riorganizzare la polizia. Lei 
                  questo lo sa, signor Kibalcic. È la sua intelligenza 
                  che le impedisce di essere del tutto utopista.»  
                  «Ma è la mia sensibilità che mi farà 
                  vivere sempre e comunque contro una società che ha bisogno 
                  dei poliziotti per conservare il potere. Anche a dispetto dellintelligenza, 
                  commissario. A dispetto di tutto e di tutti. Se il mio destino 
                  è di restare eternamente un eretico... tanto peggio. 
                  Vorrà dire che morirò senza rimpianti, con tutti 
                  i miei dubbi, ma con una sola certezza: di non essere mai stato 
                  complice dellorrore, del sopruso, degli oppressori dogni 
                  sorta, qualunque sia il colore e lideologia che li anima.» 
                   
                  (
).  
                  
                 
                Jules se ne stava seduto sul pavimento in fondo alla stanza. 
                  Si era messo a scrivere su un foglio a quadretti, con là 
                  matita che aveva trovato nel cassetto del tavolo.  
                  Non chiedevo granché. Camminavo con lei al chiaro di 
                  luna nel cimitero di Lione, illudendomi che non vi fosse bisogno 
                  daltro per vivere...  
                  Una pioggia di colpi staccò pezzi di intonaco e schegge 
                  di legno. Jules chinò il capo e attese pazientemente 
                  che si sfogassero. Tornato il silenzio, riprese a scrivere. 
                   
                  Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, 
                  senza esser capace neppure di sognarla. Lavevo trovata, 
                  e scoperto che cosa fosse. La felicità che mi era stata 
                  sempre negata...  
                  Uno squillo di tromba annunciò lennesima bordata 
                  di proiettili. Jules imprecò, mentre una nube di calcinacci 
                  e polvere ricopriva il foglio a quadretti. Appena cessarono 
                  gli spari, afferrò le due Browning e andò a scaricarle 
                  fuori della finestra.  
                  Gli assedianti risposero, e passarono altri 17 minuti dinferno. 
                  Alla fine, Jules, nel suo angolo, scrisse le ultime righe.  
                  Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Non me 
                  lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio 
                  per voi, peggio per tutti... Dovrei rimpiangere ciò che 
                  ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma 
                  in ogni caso nessun rimorso.  
                Tratto da: Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, 
                  Milano, Longanesi, 1994.  
                  
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