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                 Rileggo larticolo che 
                  avevo scritto sullImpasto allincirca tre anni e mezzo fa (A 
                  n. 235, aprile 1997) e mi stupisco in particolare di due riflessioni 
                  che forse non avrei immaginato preludessero così puntualmente 
                  agli sviluppi successivi. Scrivevo della Trilogia del balarino, 
                  operina in tre movimenti per parole, danza e canti, con cui 
                  lImpasto allora emergente stava conquistando una rapida attenzione 
                  nel panorama del giovane teatro italiano. Parlavo del paradosso 
                  che sembra regolarmente accompagnare ogni battesimo teatrale, 
                  in un sistema che, mentre benedice il nuovo nato di turno, teme 
                  di non poterne controllare, assorbire, armonizzare loriginalità. 
                  E nella vicenda del balarino, che nasce nella felix padania 
                  teatrale per perdere la propria innocenza in Bosnia, leggevo 
                  la metafora del nuovo e coglievo unindicazione, ossia la necessità 
                  di essere altrove e quindi di avviare una sperimentazione a 
                  tutto campo, sul piano artistico come su quello materiale, al 
                  di fuori delle consuetudini organizzative e produttive.  
                  Due anni dopo, la compagnia si definiva Comunità Teatrale 
                  Nomade e alla fine del 2000 raccoglieva unantologia del proprio 
                  repertorio nellalbum teatrale che significativamente 
                  intitolava Padania infelix. Una doppia frattura era ormai 
                  consumata: rispetto alla possibilità di un insediamento 
                  stanziale in un territorio, e rispetto alla generazione teatrale 
                  degli anni Novanta, che troppo sbrigativamente era stata definita 
                  al singolare e solo tatticamente si era data identità 
                  di gruppo, essendo piuttosto costituita da un insieme di prototipi 
                  (come giustamente sono stati definiti in un recente libro): 
                  dotati di spiccate originalità artistiche e refrattari 
                  a riconoscersi come parte di un movimento o di una tradizione. 
                   
                  Nellintervista che proponiamo Alessandro Berti, drammaturgo, 
                  regista e attore che ha fondato lImpasto nel 1995 insieme alla 
                  coreografa, attrice e danzatrice Michela Lucenti, parla di questa 
                  svolta, che corrisponde a una geografia esplosa, in riferimento 
                  a un progetto che fa della compagnia unentità territorialmente 
                  mobile e artisticamente fluttuante, in grado di aggregare giovani 
                  attori attorno a spettacoli da riallestire in ogni piazza su 
                  base laboratoriale e in rapporto a una rete di relazioni di 
                  volta in volta attivate. Così sono nati i progetti dal 
                  1999 in poi (descritti nellintervista), in particolare Critica 
                  lirica, Trionfo anonimo e la stessa Agenda di 
                  Seattle: che prima di essere spettacoli sono stati laboratori 
                  estesi, dai contenuti formativi oltre che produttivi, allinterno 
                  dei quali le relazioni fra i partecipanti sono divenute terreno 
                  di sperimentazione non meno dei contenuti e dei linguaggi, e 
                  il viaggio ha rappresentato una modalità fondamentale 
                  di lavoro e non una contingenza. Il viaggio come luogo di incontri 
                  e come dimensione condivisa, da mettere in scena in qualche 
                  modo, come avviene nellAgenda di Seattle, dove il pubblico, 
                  prima che con lo spettacolo, entra in contatto con i banchetti 
                  delle associazioni di volontariato e intervento sociale che 
                  nei vari luoghi animano latrio-piazza del teatro: Emergency, 
                  Lila, Greenpeace, Amnesty International e le varie sigle dellassociazionismo 
                  civile e antagonista (a Milano, nel foyer del CRT, erano presenti 
                  anche le Edizioni A ed Elèuthera). E il viaggio come 
                  tratto dunione fra il nomadismo di esperienze teatrali che 
                  non si sono mai incontrate, in realtà, se non idealmente. 
                  Nellintervista Alessandro Berti parla dei numi personali 
                  che hanno illuminato la solitudine del loro viaggio, Julian 
                  Beck e Jerzy Grotowski, innanzitutto, scoperti in autonomia, 
                  rispettivamente da Alessandro e da Michela, avvicinati sui libri 
                  e quindi cercati attraverso gli incontri con Judith Malina e 
                  Hanon Reznikov, da una parte, Thomas Richards e il Workcenter 
                  di Pontedera, dallaltra.  
                  Anche lImpasto nasce (e forse solo qui è lecito riconoscere 
                  un apparentamento generazionale) dalla tabula rasa degli anni 
                  Novanta, che ha significato desiderio di riscrittura totale 
                  della scena e volontà di ripartire da sé, e quindi 
                  da un insieme di riferimenti personali non solo teatrali. La 
                  scrittura drammaturgica di Alessandro Berti e il linguaggio 
                  fisico e coreografico di Michela Lucenti prendono le mosse, 
                  in questo senso, da una condizione di azzeramento: azzeramento 
                  anche dei tabù che sembravano ormai appartenere al DNA 
                  della ricerca. E mi riferisco in particolare alla centralità 
                  del testo e della comunicazione.  
                  LAgenda di Seattle è uno spettacolo di forte 
                  ed esplicito contenuto politico, con elementi agitprop e vocazione 
                   in certi tratti  persino didascalica, eppure non nasce dal 
                  teatro politico né si inserisce in alcuna corrente di 
                  teatro civile. (Il Living Theatre lhanno scoperto tardivamente 
                  sui libri, come si diceva). Piuttosto, LAgenda di Seattle 
                  si spiega allinterno dellimpasto sperimentale del gruppo, 
                  basato su invenzioni testuali, vocali e coreografiche, miscelate, 
                  dal 1999 in poi, da unurgenza irrinunciabile di credibilità. 
                  Azioni e parole credibili, ossia autentiche e contemporanee, 
                  in primo luogo, come autentica è la necessità 
                  di lettura militante del presente e contemporanee sono le 
                  tematiche attraverso le quali il vertice di Seattle ha in qualche 
                  modo definito luniverso mitico contemporaneo.  
                  Se il teatro possa farsi carico direttamente di contenuti politici 
                  oppure debba alludervi per stilizzazioni e metafore (pena labdicazione 
                  dal proprio statuto artistico); se per mettere in scena le logiche 
                  del potere e gli strumenti della disobbedienza civile sia meglio 
                  farlo per bocca di Antigone, piuttosto che con esempi contemporanei 
                  (a rischio di cadere nella cronaca); se il teatro si debba porre 
                  lobiettivo di essere politico di per sé, come pratica 
                  sociale ed esperienza di relazione, e non già trattando 
                  contenuti direttamente politici (a rischio di perdere di autonomia 
                  artistica e sfociare nel didascalico)
 di tutta questa antica 
                  e mai risolta querelle fra opposte scuole di pensiero, 
                  lImpasto sembra non essersi preoccupato affatto, perché 
                  non è da tradizioni, correnti, riferimenti che ha preso 
                  le mosse, ma da se stesso, dalla propria storia e dalle proprie 
                  modalità teatrali, ivi compresa la vocazione radicalmente 
                  sperimentale sul piano delle invenzioni linguistiche.  
                  Il risultato è che lo spettacolo è al tempo stesso 
                  una rilettura dellAntigone e un lavoro di nuova drammaturgia, 
                  è agitprop ed è ricerca inedita sui confini del 
                  teatro. E, come spesso avviene in presenza dellautenticamente 
                  nuovo  in particolare quando ricerca e popolare uniscono 
                  le rispettive ragioni sul piano comunicativo  il pubblico ha 
                  risposto con calore, il teatro ha conquistato spettatori non 
                  usuali, molta critica ha storto il naso, le categorie sono saltate 
                  e quanti non hanno più saputo dove collocare laccadimento 
                  (fra teatro e politica, popolare e ricerca, arte e agitprop) 
                  hanno preferito censurarlo come esperimento non teatrale. 
                   
                  Personalmente, ritengo che lo spettacolo porti alle estreme 
                  conseguenze le premesse fondanti dellImpasto: lautonomia e 
                  lapprofondimento delle diverse zone di ricerca (scrittura testuale, 
                  linguaggio fisico e coreografico, musica e vocalità) 
                  dove lattenzione ai temi della contemporaneità è 
                  del tutto risolta, in realtà, allinterno di questi stessi 
                  parametri. Colpa delle nostre orecchie e della nostra monca 
                  (o parcellizzata) sensibilità se gli argomenti che più 
                  ci interessano quotidianamente sono quelli che più ci 
                  urtano a teatro. Alla fine della prima parte dello spettacolo 
                  le tute bianche occupano la scena e chiedono che la vera vita 
                  subentri alla dimensione eroica, che il teatro trovi il coraggio 
                  di parlare della realtà. Il dialogo che tiene tutta la 
                  seconda parte non è affatto agitazione e propaganda 
                  improvvisata, ma è costruzione drammaturgica in senso 
                  proprio. Si tratta, semplicemente, di un lungo dialogo fra coetanei 
                  che, proprio in quanto sapiente dal punto di vista teatrale, 
                  sembra vero ossia improvvisato.  
                  I temi del dialogo appartengono a una ben precisa quotidianità: 
                  al confronto fra le giovani generazioni impegnate a raccapezzarsi 
                  su quello che dovrebbe essere il loro mondo. E i protagonisti 
                  tragici non sono i re e le regine, e neanche i personaggi della 
                  commedia borghese, e neppure quelli della letteratura contemporanea 
                  (minimalista o cannibale che sia): sono gli abitanti del Nord 
                  e del Sud del mondo, gli animali catturati con le tagliole e 
                  i delfini uccisi dalla pesca, i bovini affetti da encefalopatia 
                  spongiforme e i contadini che praticano lagricoltura di sussistenza, 
                  i possessori delle materie prime e i detentori dei brevetti
 
                  e infine, proiettati su uno schermo, gli scontri e i pestaggi 
                  in occasione dei raduni no global di Bologna e Napoli. La biografia 
                  dei personaggi si allarga allo sguardo sul mondo, protagonista 
                  di un dialogo che è scambio drammatico di informazioni, 
                  di dati, di rabbia, di desiderio di cambiamento.  
                  Il nuovo esperimento teatrale dellImpasto restringe lo sguardo 
                  a un quartiere (che è il titolo dello spettacolo) 
                  ma senza rinunciare al mondo. Ritorna ai personaggi, ma caricandoli 
                  dei segni di espressionistiche icone contemporanee. E continua 
                  ad inglobare percorsi laboratoriali ed esplorazioni urbane. 
                  La necessità di essere altrove si è fatta strappo 
                  rispetto alla coetanea terza ondata teatrale (in particolare 
                  sul piano della comunicazione) e frattura rispetto alle consuetudini 
                  teatrali (in relazione al nesso teatro-politica), ma laltrove 
                  dellImpasto è, in realtà, la contemporaneità 
                  del teatro che non rinuncia al presente del proprio gesto e 
                  allo scandalo del rapporto non mediato fra palcoscenico e comunità 
                  civile, o  per dirla con loro  fra compagnia teatrale e territori. 
                 
                  
                  Cristina Valenti  
                  
                 
                Lintervista  
                   
                Cè stata una virata decisiva, a un 
                  certo punto, nella vita dellImpasto. Mentre i gruppi della 
                  vostra generazione cercavano un radicamento più stabile 
                  nel territorio, e per molti si apriva il riconoscimento ministeriale, 
                  voi vi definivate nomadi e facevate della non stanzialità 
                  un contenuto importante della vostra ricerca artistica.  
                    
                  Il 1999 è stato un anno di terremoto, 
                  lanno in cui abbiamo iniziato i tentativi nomadi e una sperimentazione 
                  a tutto campo sul piano professionale. Alla fine del 98 eravamo 
                  andati via da Bologna con lidea di non avere più una 
                  sede fissa, di trasformarci in cantiere teatrale mobile, insediandoci 
                  di volta in volta nei luoghi dove dar vita ai nostri progetti. 
                  Da aprile a maggio lavorammo a Pontedera con un contratto che 
                  prevedeva una produzione finale a cura mia, di Michela e di 
                  Annalisa DAmato. In realtà trasformammo la nostra residenza 
                  produttiva in un cantiere teatrale che chiamammo Critica 
                  lirica, sottotitolo: 21 giornate di lavoro su teatro 
                  e felicità. Avevamo costruito una tenda tuareg sul 
                  fiume e lì lavoravamo, discutevamo. Ci eravamo portati 
                  molti libri sulla comunità: La comunità inoperosa 
                  di Jean-Luc Nancy, La comunità inconfessabile 
                  di Maurice Blanchot
 La mattina si faceva lavoro teorico, il 
                  pomeriggio Michela conduceva il lavoro fisico. Poi a un certo 
                  punto abbiamo cominciato a imbastire unazione teatrale a partire 
                  dalla struttura di una partita di calcio. Dalle azioni fisiche 
                  stilizzate al gioco vero, studiando il momento di passaggio. 
                  Cerano discussioni accese. I conflitti che si creavano allinterno 
                  del gruppo non erano mediati dalla finalità teatrale. 
                  La passione straripava oltre i confini del lavoro teatrale. 
                  Gli ultimi giorni invitammo persone dallesterno. Judith Malina 
                  venne a parlarci di teatro e comunità, Goffredo Fofi 
                  della stupidità, poi venne Thomas Richards, del Workcenter 
                  di Pontedera, a parlarci del suo lavoro con Grotowski. Sul piano 
                  del risultato scenico fu un fallimento. Alla fine il prodotto 
                  fu una partita di calcio (vera!) che giocammo coi nostri colleghi 
                  attori. Non credo che Roberto Bacci sia stato molto contento. 
                   
                   
                  Era cosciente il senso di dissipare una possibilità 
                  produttiva per cercare qualcosa daltro?  
                    
                  Assolutamente sì. Volevamo sperimentare delle possibilità 
                  differenti sul piano artistico e sul piano personale. Il cambiamento 
                  delle relazioni personali fra gli attori, in primo luogo. Dopo 
                  Pontedera, abbiamo lavorato a Santarcangelo con Davide Iodice 
                  e un gruppo di 30 attori per Poema delle moltitudini. 
                  Poi è iniziato lo studio di Trionfo anonimo che 
                  è andato avanti per tutto il 99, con diverse tappe di 
                  lavoro in una geografia totalmente esplosa: Palermo, Buti, Rovereto, 
                  Cursi di Lecce, Arcidosso. In ogni tappa abbiamo presentato 
                  versioni differenti del lavoro, fino al debutto nel gennaio 
                  2000 (al CRT di Milano), con 6 attori sopravvissuti dei 50 
                  che avevano preso parte complessivamente al percorso. In questo 
                  senso si è trattato anche di un enorme lavoro formativo, 
                  che ha coinvolto un grande numero di giovani attori.  
                  Il cambiamento del mio modo di scrivere i testi, in relazione 
                  a questo, era stato totale. In Trionfo anonimo lavoravo 
                  sulle biografie reali degli attori. La storia era semplice: 
                  una ragazza di buona famiglia la cui vita viene rivoluzionata 
                  prima dallapparizione di una rockstar, poi dal matrimonio e 
                  alla fine dallinvasione di una comunità di giovani transfughi 
                  dalle rispettive vite, con cui decide di fuggire via. Dentro 
                  cera un po la storia di ognuno di noi: dal piccolo nucleo 
                  (della famiglia, della compagnia teatrale ristretta) al grande 
                  nucleo della comunità. Io avevo avuto ore di conversazione 
                  con ogni attore, dalle quali era nata la proposta di lavorare 
                  su alcuni episodi (che potevano riguardare il presente come 
                  linfanzia), e quindi avevo scritto la mia versione del testo, 
                  per ottenere alla fine 5 minuti di racconto personale di ciascun 
                  attore. Nel testo cera la mia trasfigurazione ritmica e poetica, 
                  ma il nucleo tematico era il loro.  
                  Anche per Michela si trattò di un cambiamento notevole. 
                  Lei era abituata a lavorare negli spettacoli con un attore per 
                  volta, costruendo le coreografie su ciascuno. Ora aveva un gruppo 
                  di dieci, venti persone (addirittura trenta a Santarcangelo), 
                  allora si trattava di trasferire le modalità tipiche 
                  del suo lavoro pedagogico nel lavoro coreografico corale. Un 
                  lavoro sullaffresco più che sul ritratto. Che poi è 
                  un lavoro sulla sostanza del movimento, su uno stato fisico 
                  che combatta il rischio di genericità contenuto nella 
                  dimensione allargata.  
                   
                  Ma qual era lobiettivo ultimo della vostra sperimentazione? 
                  Quale risultato vi proponevate attraverso questi cambiamenti, 
                  sul piano artistico e sul piano delle relazioni allinterno 
                  della compagnia?  
                    
                  Lobiettivo era la credibilità del racconto e dellazione. 
                  Questo dal punto di vista del linguaggio strettamente teatrale, 
                  in relazione al lavoro rispettivamente mio sui testi e di Michela 
                  sulle coreografie e i movimenti. Su un piano più generale, 
                  di senso, si trattava di partire dalle biografie personali per 
                  portare gli attori da unaltra parte, a condividere una prospettiva 
                  più generale. Luscita dal biografico stretto, dal personale. 
                  Che poi è il passaggio che da Skankrer porta allAgenda 
                  di Seattle. Lesplosione dalla compagnia ai territori.  
                   
                  Trionfo anonimo è stato un momento di passaggio 
                  anche nel senso dellattraversamento di una crisi?  
                    
                  Decisamente sì. Trionfo anonimo ha segnato la 
                  rottura di un equilibrio. Cera un approfondimento troppo esasperato, 
                  troppo autonomo sia del lavoro di Michela sia mio, che corrispondeva 
                  a un accumulo eccezionale di lavoro e quindi alla necessità 
                  di ulteriori investimenti personali. Quellequilibrio delicato 
                  che teneva insieme il nostro lavoro si era come smarrito
  
                   
                  Vi eravate chiamati Impasto proprio in riferimento al sodalizio 
                  dei vostri diversi apporti artistici, e a questo punto era come 
                  se doveste ricomprendere la possibilità di quellamalgama? 
                   
                    
                  Non era un problema di identità rispetto ai contenuti 
                  dellImpasto originario. Si trattava di prendere coscienza di 
                  uno scenario nuovo che si spalancava. Lapprofondimento dei 
                  nostri percorsi, inoltre, aveva portato gli attori a schierarsi: 
                  chi voleva proseguire il lavoro con me e chi con Michela. La 
                  precisazione delle individualità si era approfondita 
                  fino alla messa in crisi del gruppo. Si era persa la dimensione 
                  di leggerezza dellimpasto. Tutto andava nel senso dello scavo, 
                  della profondità. Ora sappiamo che il 99 è stato 
                  più un laboratorio di idee che un percorso finalizzato 
                  a uno spettacolo. Quello che ci interessava era studiare i temi 
                  e le possibilità teatrali della comunità, del 
                  viaggio. Per me si è trattato di una svista interessante. 
                  E trovo che sia significativo che molte delle persone che hanno 
                  lavorato con noi in quei mesi abbiano poi trovato dei loro percorsi 
                  individuali.  
                   
                  Che importanza ha avuto per voi il confronto con altri viaggi 
                  teatrali?  
                    
                  E stato importante, non certo frustrante, scoprire che altri 
                  prima di noi avevano praticato il nomadismo teatrale, avevano 
                  posto al centro la dimensione del viaggio. Sembrerà strano, 
                  ma Julian Beck lho scoperto agli inizi del 99. Cè 
                  una certa solitudine nel viaggio. Così è capitato 
                  che ognuno di noi, nella fuga, si sia legato al proprio nume. 
                  Per me è stato Julian Beck, per Michela Jerzy Grotowski. 
                  Il fantasma di Julian Beck è stato per me importantissimo. 
                  In particolare le sue pagine del Theandric in cui parla 
                  del respiro. Questidea del teatro come polmone, apertura fra 
                  interno ed esterno, illuminazione
 Per Michela è stato 
                  particolarmente importante ritrovare Grotowski proprio a Pontedera, 
                  nella ricchezza del confronto diretto col Workcenter, e poi 
                  confrontarsi con il coraggio delle proprie motivazioni in una 
                  situazione di sradicamento.  
                 
                  
                 
                In che modo LAgenda di Seattle ha ereditato 
                  il cantiere del 99, nel senso della sperimentazione di gruppo, 
                  degli approfondimenti individuali, ma anche della crisi?  
                    
                  AllAgenda di Seattle abbiamo cominciato a pensare alla 
                  fine del 99. Dal lavoro precedente era nato un libro di domande. 
                  Allinizio del 2000 abbiamo avuto una gestione assembleare, 
                  con relative conseguenze di fratture e abbandoni. LAgenda 
                  ha rappresentato un nuovo equilibrio. Se ci pensi, lo spettacolo 
                  è costruito in tre parti, che in fondo corrispondono 
                  classicamente a tesi, antitesi, sintesi. Lo spettacolo mette 
                  in scena lanno precedente e il precario equilibrio raggiunto. 
                  La parte teatrale, la rilettura dellAntigone in versione 
                  Impasto, viene interrotta dalla realtà delle tute bianche 
                  che irrompono in scena. La vita che preme e che impone le sue 
                  ragioni al teatro (come realmente ci è capitato). E 
                  il momento di rottura, la necessità di infierire sul 
                  manufatto che si è creato, di spezzarlo. La ricerca di 
                  aria, di respiro. Poi, nella terza parte, la possibilità 
                  di armonizzazione: il tentativo di continuare a vivere nel campo 
                  di mais. Nella nuova versione approfondiremo proprio questa 
                  terza parte.  
                   
                  E possibile individuare, al di sotto della frattura, anche 
                  il senso di una continuità, o del radicalizzarsi di una 
                  direzione che, in fondo, era già presente nella scrittura 
                  feroce e caustica dei vostri primi spettacoli padani?  
                    
                  Fino a Terra di burro i nostri spettacoli mettevano in 
                  scena delle voci isolate che lanciavano invettive anche aspre 
                  sul proprio territorio. Con LAgenda ci siamo mescolati 
                  al territorio. Noi siamo nati coi teatranti occupanti a Bologna, 
                  nel 1995/96. Recentemente abbiamo riconosciuto e ritrovato le 
                  istanze che ci muovevano quando abbiamo occupato i teatri. Abbiamo 
                  riconosciuto quel tentativo in una vastità di scenario. 
                  Individuare dentro di sé un bisogno e riportarlo allinterno 
                  di un tessuto di movimento, di spazio pubblico (come nellAgenda 
                  di Seattle) o di quartiere (come nellultimo spettacolo). 
                   
                   
                  Cosa cambierà nellAgenda di Seattle dopo Genova? 
                   
                    
                  Noi siamo stati a Genova il giovedì e il sabato. A posteriori 
                  (capaci tutti!), dico che bisognava annullare le varie azioni 
                  di disobbedienza civile del venerdì. Ci voleva veggenza 
                  e coraggio ma dopo il meraviglioso corteo dei migranti del giovedì 
                  sarebbe stato davvero importante continuare quel discorso, difendere 
                  in primo luogo i contenuti, il piano propositivo. Prima delle 
                  forme diverse di opposizione occorreva garantire la difesa dei 
                  contenuti. E chiaro che ora, in una situazione di diritti sospesi, 
                  si pongono al centro i temi legati allemergenza. Ma questo 
                  non deve significare che si abbandoni il discorso sui contenuti. 
                  E quello che vogliono! NellAgenda di Seattle alla fine 
                  cè il barbone che dice hanno lasciato un buco! E 
                  lì che bisogna agire, nelle intercapedini del sistema, 
                  nelle zone non controllate, creando nuove forme. I modi per 
                  teatralizzare il conflitto non sono importanti in sé, 
                  importanti sono i contenuti, i progetti: il boicottaggio, le 
                  banche etiche, le MAG, il commercio equo, la riduzione dei consumi. 
                  Vallo a spiegare a chi ha letto i resoconti di Genova sui giornali, 
                  dove le forme di contestazione hanno completamente oscurato 
                  i contenuti! A Genova dovevamo comprendere che quello spazio 
                  pubblico era finto, era una trappola. Dora in poi occorrerà 
                  inventare qualcosa di diverso. Daltra parte è evidente 
                  che se lo spazio pubblico non può essere altro che una 
                  trappola questo è un grave lutto, perché lalternativa 
                  alla piazza non può essere neppure una specie di vendita 
                  casa per casa delle pentole!  
                  Il nostro spettacolo assumerà in pieno il dopo Genova. 
                  Si parlerà di uno spettacolo che si chiamava Lagenda 
                  di Seattle. Una sorta di citazione della stagione del candore. 
                  Da intrusione teatrale nello spazio pubblico a lo spazio pubblico 
                  dopo Genova. Lurgenza attuale non è più tanto 
                  quella di informare, come facevamo nella seconda parte dello 
                  spettacolo (che sarà perciò asciugata), quanto 
                  di discernere, di lavorare a strumenti più sottili di 
                  comprensione.  
                   
                  Cosa unisce il vostro lavoro di persone di teatro al più 
                  vasto popolo di Seattle?  
                    
                  Credo che la cosa più straordinaria del movimento attuale 
                  siano le ricadute nella vita delle persone e nei territori. 
                  Dopo essere state prosciugate di motivazioni, le vite quotidiane 
                  e le professioni possono ricongiungersi a contenuti più 
                  generali. Questo è interessante anche per me che sono 
                  un attore professionista e che ho fatto la scuola dello Stabile 
                  di Genova. Sono un militante e sono un professionista. Non mi 
                  sento a disagio allinterno del movimento no global, al quale 
                  posso contribuire col contenuto del mio lavoro, in termini professionali. 
                  Le figure dei militanti a tempo pieno, destinati poi a riciclarsi 
                  nei ruoli di potere della politica o dellimpresa appartengono 
                  a unaltra epoca, devono appartenere a unaltra epoca.  
                  Per questo nel nostro spettacolo cambierà soprattutto 
                  la seconda parte. Sarà più reale, meno teatralizzata, 
                  sarà una riflessione sulle responsabilità di una 
                  cittadinanza attiva. Occorre alternare ai momenti pubblici tutta 
                  unattività più nascosta e sotterranea, che corrisponde 
                  alle possibilità più concrete di ricaduta dei 
                  contenuti antiglobal. Questa può essere la vera rivoluzione; 
                  una risposta attiva alle contraddizioni della globalizzazione 
                  può essere la moltiplicazione dei social forum.  
                   
                  Il vostro prossimo spettacolo si intitola Il quartiere. 
                   
                    
                  Sì, col Quartiere ripartiamo dal microcosmo che 
                  in qualche modo mima e ripropone gli stessi problemi. Oggi tutti 
                  hanno computer e TV, tutti siamo globalizzati. I quartieri sono 
                  quartieri mondo, luoghi crogiuolo delle contraddizioni contemporanee. 
                  Nel nostro spettacolo ci sono 13 personaggi fra i 30 e i 40 
                  anni. Un giudice, un poliziotto, un imprenditore, un militante 
                  di estrema destra, una prostituta, due operai, un sacerdote
 
                  persone molto integrate, molto persuase. Quello che emerge è 
                  lestrema violenza di relazioni basate sul potere. E un lavoro 
                  sul potere e sulluso che se ne fa. Il poliziotto usa il potere 
                  per avere un rapporto sessuale con la prostituta, il giudice 
                  per decidere quali inchieste mandare avanti e quali insabbiare, 
                  limprenditore per tenere sottomessi gli operai (una egiziana 
                  e un italiano)
 Le relazioni sono sempre mediate da una struttura 
                  di ruoli molto forte. Succedono cose atroci, anche di una violenza 
                  inaudita, ma la superficie è pur sempre rappresentata 
                  dalla messa di quartiere la domenica, dal karaoke il sabato 
                  sera
 Cè unItalietta che non si accorge delle periferie 
                  che ha, e che si è risvegliata incredula di fronte alle 
                  bande teppistiche metropolitane che si sono rese visibili anche 
                  a Genova. Preparando lAgenda di Seattle, ci siamo accorti 
                  del baratro che separava il piano di persuasione dei manifesti 
                  elettorali e il piano degli incontri che facevamo nelle città. 
                  Due mondi completamente diversi. Lidea è stata quella 
                  di fare uno spettacolo su quel mondo, su chi non ci sta capendo 
                  niente, sui nostri concittadini sordi e ciechi, che non si sono 
                  accorti che Berlusconi ha fatto una campagna elettorale stile 
                  48, inscenando uno scontro politico da dopoguerra, ha fatto 
                  un teatro su questa persuasione, come se solo lui rappresentasse 
                  un sistema di valori, una visione del mondo, cui le persone 
                  hanno creduto
 e intanto eleggevano Bill Gates: un imprenditore 
                  che controlla i nostri consumi! Ci sono due mondi che non comunicano. 
                  E che per chi ci comanda è importante che non comunichino 
                  mai. Il quartiere nasce da un lavoro coi ragazzini dei 
                  quartieri. Molto giovani. La scelta deriva da un partito preso: 
                  che loro dovranno essere meglio di noi. Cè una drammaturgia 
                  fissa, atroce, disillusa, anche un po volgare, spocchiosa, 
                  televisiva, presuntuosa. Poi cè il lavoro coi ragazzi 
                  che è di speranza. Il movimento ha increspato le acque 
                  rispetto alla pace sociale. I ragazzini rappresentano la forza 
                  che erediterà il conflitto dopo di noi. Le scene dello 
                  spettacolo si svolgono tutte in interni asfittici: il palazzo 
                  di giustizia, la chiesa, il discobar
 I ragazzini portano dentro 
                  le strade, lo spazio pubblico riconquistato, senza manganelli 
                  né lacrimogeni.  
                  
                  Cristina Valenti 
                  
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