|  Comizi d'amore 
                  2000  È il documentario che ho girato 
                  nel giugno di quest'anno, per ricordare i 25 anni della scomparsa 
                  di Pier Paolo Pasolini. Più che fare qualcosa su Pasolini, 
                  fare qualcosa da Pasolini. Cosa è rimasto oggi della sua opera? Per quanto mi riguarda 
                  credo che l'aspetto più interessante e moderno dell'eredità 
                  pasoliniana stia nel richiamo continuo alla necessità 
                  di sperimentazione, alla ricerca linguistica, al desiderio di 
                  chi si esprime creativamente per arrivare a nuovi orizzonti. 
                  Il senso di provocazione e la rottura con il conformismo sono 
                  strumenti moderni e efficaci per elaborare tutto questo.
 Comizi d'amore è un film inchiesta del 1963 sulla 
                  problematica sessuale in Italia, costruito con il metodo dell'intervista, 
                  alla quale si accompagna e spesso si sovrappone il commento 
                  polemico e riflessivo di Pasolini. Nasce in parte dalla suggestione 
                  "sperimentale" che Pasolini mutuò dal cinema-verità 
                  di Jean Rouch e Edgar Morin (1961).
 Il film si apre con la domanda "come nascono i bambini?" 
                  rivolta a un gruppo di ragazzetti del sud. Le loro risposte 
                  fantasiose e ingannevoli anticipano le convinzioni fasulle degli 
                  italiani (in una caserma, una balera, una spiaggia della Toscana, 
                  in treno, in campagna, in Sicilia, una piazza di Napoli), l'atteggiamento 
                  di chi si accontenta di un'ignoranza gratuita. Pasolini discute 
                  di volta in volta gli spezzoni dell'inchiesta con l'amico Alberto 
                  Moravia e con lo psicanalista Cesare Musatti.
 Quattro sono le sezioni dell'inchiesta:
 1 - Fritto misto all'Italiana: dove si parla dell'educazione 
                  dei figli, del gallismo, di sesso e di sentimenti e dove si 
                  imposta un contrasto forte tra il Nord, moderno e industriale 
                  ma ancora ingombro di rottami ideologici, e il Sud, vecchio 
                  ma intatto nei suoi pregiudizi.
 2 - Schifo o pietà: dove le domande riguardano l'anormalità 
                  sessuale, oggetto di scandalo o di disprezzo.
 3 - La vera Italia: con domande più pratiche sul divorzio 
                  e sulla libertà degli uomini e delle donne.
 4 - Dal basso e dal profondo: che riguarda la prostituzione.
 All'inizio e alla fine del film è inquadrata una scena 
                  di matrimonio, suggellata da un bacio.
 Tutto il film di Pasolini (provocatorio per la natura stessa 
                  della materia che affronta) cerca di dare una risposta ad alcune 
                  grandi questioni :
 1. La differenza tra i costumi sessuali del Nord e del Sud
 2. La problematica sessuale, osservata dal punto di vista maschile 
                  e femminile
 3. Il problema dell'omosessualità
 4. La prostituzione in Italia.
 A queste domande, a distanza di 37 anni, ho cercato di dare 
                  una nuova risposta, attraversando l'Italia, mantenendo la struttura 
                  generale di "Comizi d'amore", recuperando i principali 
                  temi che il film affrontava, le domande e possibilmente i luoghi 
                  dove le interviste erano state realizzate.
 Il mio film fissa i mille volti dell'Italia della gente comune, 
                  dalle città alle campagne, indagando, senza nessuna "pruderie", 
                  il loro pensiero sull'erotismo e sull'amore.
 Medesime sono le domande, medesimi i luoghi di questo viaggio 
                  che trova un senso nei volti rappresentativi della nostra penisola, 
                  nelle differenti culture, nei diversi modi di comportamento 
                  e di pensiero, in quell'Italia fatta di contadini e pescatori 
                  e in ogni caso, di gente che lavora. Ho cercato di contestualizzare 
                  la fatica e il sudore di questi volti, calandoli nei luoghi 
                  dove vivono e lavorano, con un'attenzione particolare per gli 
                  ambienti e per i colori che li circondano.
 Facce e luoghi interagiscono, raccontandoci un'Italia fatta 
                  di contraddizioni, di evidenti stridori, di luoghi comuni e 
                  di grande confusione.
 Il mio film si sovrappone a quello di Pasolini anche se gli 
                  sguardi sono diversi. A distanza di quasi quarant'anni nulla 
                  è cambiato radicalmente. Forse addirittura, il conformismo 
                  e l'ignoranza sono aumentati.
 Comizi d'amore 2000 non ha e non vuole avere basi scientifiche. 
                  Non sono un sociologo, né un antropologo. Il mio interrogarmi 
                  sulla sessualità non cerca statistiche né fornisce 
                  grafici, ma cerca solo di guardare tra la gente per sondare 
                  e fedelmente riportare l'importanza del sesso nella nostra vita.
 Di risultati non ce ne sono. Certo il Sud Italia continua a 
                  riflettere un'immagine di colore e di forza refrattaria alla 
                  modernità ma autentica e sincera, anche nelle distorsioni. 
                  Il Nord, più evoluto e disinibito, non riesce a cancellare 
                  il dubbio di uno snobismo e di una superiorità per me 
                  insopportabili e di una qual certa falsità. La vera sorpresa 
                  è la coscienza femminile. A differenza degli uomini, 
                  nella maggioranza frustrati e imbevuti di un maschilismo vetusto 
                  ma dominante, la donna ne esce più matura, rispettosa, 
                  accogliente e comprensiva. Credo che la coscienza femminile 
                  sia la più autentica e più rivoluzionaria spinta 
                  sociale in questi anni dominati dal conformismo e dal qualunquismo.
   Bruno Bigoni 
  Ridere del 
                  potere   "Falsi da ridere" è il titolo di un mio libro, 
                  che è appena uscito per le edizioni Malatempora, la casa 
                  editrice autonoma diretta da quel vecchio/giovane ribelle "underground" 
                  che è Angelo Quattrocchi. Il libro, a parte una nota introduttiva storico/autobiografica/teorica 
                  ("Giornali falsi, ma non bugiardi"), è un'antologia 
                  di testi "falsi" apparsi - con varie firme - sia sui 
                  nostri giornali "veri" (Il Male, Frigidaire, 
                  Frìzzer, il Lunedì della Repubblica
) 
                  che sui "giornali falsi" da noi distribuiti in aperta 
                  sfida alla "Grande Comunicazione Imperiale".
 I falsi de La Repubblica, del Corriere, dell'Unità, 
                  de La Stampa, del Mattino, del Giornale di 
                  Sicilia ecc. per l'Italia, ma anche i falsi internazionali 
                  distribuiti clandestinamente nei paesi dell'Est, prima della 
                  caduta di quei regimi.
 Cronache "false" nelle quali tuttavia, proprio per 
                  la libertà e l'autonomia connesse al fatto (o alla scusa) 
                  di "raccontare il falso", abbiamo (io e altri) potuto 
                  svelare tanti aspetti, intrighi, movimenti e mutamenti di questi 
                  ultimi venti anni.
 Così mentre Andreotti presiedeva il consiglio dei ministri 
                  (nel '90) noi lo davamo per latitante, inseguito da un mandato 
                  di cattura per i delitti Pecorelli e Dalla Chiesa e per essere 
                  il referente politico nazionale della Mafia. E avevamo mandato 
                  Craxi ad Hammamet molto prima che fosse costretto ad andarci 
                  davvero
 Oppure quando Breznev e Suslov guidavano ancora con pugno di 
                  ferro l'impero sovietico la nostra Pravda (del 1980) 
                  descriveva la dissoluzione dell'impero sotto il titolo: "La 
                  Russia ha sconfitto i dèmoni. Né Unione, né 
                  Socialiste, né Sovietiche, solo Repubbliche".
 Citazioni di "profezie" che potrebbero continuare 
                  a lungo, ma è solo per dire che non si tratta affatto 
                  di "profezie" in senso stretto, bensì di una 
                  lotta contro le megabugie della Comunicazione Imperiale, che 
                  nascondeva ieri e nasconde oggi (in modi ancor più raffinati 
                  e perversi) la realtà dietro l'ideologia, il potere dietro 
                  l'umanitarismo, la guerra dietro la pace, la rapina dietro lo 
                  scambio "tra eguali".
 Dunque un'antologia satirica, scritta per ridere, ma ridere 
                  del potere, non al servizio del potere. Differenza sostanziale 
                  e assoluta tra la satira giullaresca, che imperversa e rincoglionisce, 
                  e la nostra satira, che è letteratura, guerriglia, interferenza 
                  sui circuiti della falsificazione ufficiale.
   Vincenzo Sparagna (direttore di Frigidaire)
 
 Delitto a 
                  Torino    Il risvolto di copertina inizia laconico: "un racconto 
                  ricerca su un fatto di cronaca accaduto nella Torino del 1930, 
                  che allora fece grande scalpore e che entrò e restò 
                  per molto tempo nella memoria collettiva sotto forma di narrazioni 
                  orali e di canzoni popolari."In copertina: "Corso Oporto n° 51" e una foto 
                  piccola di donna (chi?).
 Il volto, di profilo a tre quarti, l'acconciatura dei capelli, 
                  gli orecchini, la collana e quel che appare dell'abito, oltre 
                  a un bianco e nero sapiente - vagamente sul seppia che impreziosisce 
                  -, collocano il quadratino fotografico più o meno nel 
                  trentennio del secolo, l'epoca in cui si colloca il fatto di 
                  cronaca che Guido Ceronetti racconta e restituisce, costruendo 
                  con infinita pazienza e tanta cura un collage di notizie, testimonianze, 
                  racconti giudiziari e voci sparse, con letterine e quasi lettere 
                  recuperate chissà come e dove, e che sembrano a momenti 
                  non più lettere ma fantasmi di un'Italia la cui provincialità 
                  si rivela tanto scopertamente da apparire come suscitata da 
                  un vecchio film di quelli che la sera tardi nel periodo estivo 
                  la nostra televisione ci propina.
 La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, 
                  edizione Einaudi, Lit. 14.000, è un libro che non ha 
                  nulla di morboso, e oltre ad accompagnarci lentamente al cuore 
                  della vicenda, è scrupolosamente vagliato e attento a 
                  zone d'ombra in cui si addentra senza nessuna pretesa di definitive 
                  certezze. Le ombre che si allungarono su questa storia nella 
                  Torino del 1930 non sono tutte e sempre leggibili, se non da 
                  una riga all'altra, tra una riga e l'altra di quei verbali compilati 
                  dalla polizia fascista  polizia politica  chiamata 
                  per un caso che di politico nulla aveva, trattandosi dell'uccisione 
                  di una donna da parte della sua migliore amica, uccisione il 
                  cui movente oscillava pericolosamente tra delitto passionale 
                  e omicidio per furto.
 Ecco quindi nell'affacciarsi della prima ipotesi la necessità 
                  che gli uomini fidati del regime mettessero subito ordine nella 
                  faccenda, riportando il tutto nello spazio sicuro del detto 
                  e non detto, del passar sotto silenzio quanto è più 
                  che sussurrato in una città emotivamente scossa, non 
                  dal delitto in sé, ma da quanto lascia intravedere.
 In Corso Oporto al n° 51, in un appartamento elegantemente 
                  borghese, nell'agosto del '30 è rinvenuto il corpo senza 
                  vita di Vittoria Nicolotti, uccisa dall'amica amante Rosa Vercesi, 
                  che a seguito di questo sarà condannata all'ergastolo 
                  e solo dopo trent'anni verrà graziata "dopo essersi 
                  ravveduta".
 Rosa Vercesi negherà la passionalità del delitto 
                  (mi si perdoni il termine, ma le cronache dell'epoca e lo stesso 
                  linguaggio dell'imputata e degli avvocati girano intorno ai 
                  fatti con frasi tipo: "congresso contro natura").
 Guido Ceronetti suggerisce in base a indizi solidi (ignorati 
                  allora per comodo) che la Vercesi preferì l'ergastolo 
                  certo e l'accusa di essere anche una ladra, pur di sottrarsi 
                  alla vergogna di essere esibita pubblicamente come bisessuale 
                  e amante di una donna libera, indipendente economicamente, viaggiatrice 
                  in quella Parigi culla di cultura e di scandali, dove altre 
                  donne libere si consentivano relazioni e amori tutt'altro che 
                  nascosti con l'altra come me. La verità appare 
                  evidente, molte canzoni e narrazioni si sbizzarriscono, ma alla 
                  finzione si sommano le tante ombre che spostano il centro dell'accaduto 
                  e sembrano favorire il silenzio. Storie nella storia che la 
                  avviluppano, lasciandola lontano ma non tanto che la trama ne 
                  sia alterata.
 Pagina dopo pagina veniamo a sapere che di Vittoria non ci sono 
                  fotografie, nessun ritratto di nessun tipo, e di Rosa solo una 
                  foto scattata al momento del suo arresto e tanto impietosa che 
                  Ceronetti non la inserisce. Nel cimitero maggiore di Torino 
                  c'è una "lapidina" (dove qualcuno ha portato 
                  un fiore) con il nome di Vittoria Nicolotti e le date 1898-1930). 
                  Accanto anche la tomba della madre.
 Nel Manuale di medicina legale dei Professori Carrara, 
                  Romanese, Canuto, Tovo, del '38, un'anonima foto di ragazza 
                  morta con la didascalia: "tentativo di soffocamento e strozzamento 
                  - omicidio ..." eccetera. Su quel manuale generazioni di 
                  studenti hanno studiato e la ragazza morta, che nessuno sapeva 
                  più identificare, era Vittoria Nicolotti. A Torino invece 
                  era ben conosciuta e ben voluta. Il suo negozio di abbigliamento 
                  per bambini "La Falena" era in voga e lì si 
                  servivano le buone famiglie torinesi. Rosa Vercesi invece trattava 
                  vari affari, grazie a un carisma notevole, e pure dopo molti 
                  illeciti trovava credito proprio perché personaggio inconsueto 
                  e con un'aura di sicurezza che piaceva. Veniva da una famiglia 
                  povera e non andava per il sottile quando si trattava di soldi 
                  e proprio per questioni di affari incontrerà e frequenterà 
                  Vittoria. Il caso porterà queste due vite fino al punto 
                  di collisione e lascerà che per cinquant'anni due destini 
                  rimangano avviluppati e appannati fino allo sprazzo di luce 
                  che pare essere suscitato per chiudere definitivamente la loro 
                  storia; i ricordi sono l'ostinata materia che non si dissolve 
                  se non li si mette alla luce e la luce non viene né a 
                  salvare né a condannare ma a permettere che l'irriconosciuto 
                  non sovrasti e possa quindi essere memoria. Quando alla fine 
                  della sua vita, Rosa, ormai impazzita, esce e vaga nelle campagne 
                  evocando il nome della sorella più giovane e da lei molto 
                  amata, l'altro nome mai più pronunciato in trent'anni, 
                  sembra posseduta da forze che non sono che il rimosso della 
                  sua psiche che satura di oblio sovrappone corpi e luoghi, nomi 
                  e volti, senza più conoscerli.
  Nadia Agustoni
   Al tamburo della"rivoluzione 
                  nera" Pubblicato per la prima volta nel 1977, "As serious as 
                  your life" di Valerie Wilmer, è da pochi mesi di 
                  nuovo in circolazione grazie a Serpent's Tail Press. (Non so 
                  di una edizione italiana, per questa inglese: www.serpentstail.com). 
                  Valerie Wilmer è oggi una nota giornalista musicale nonché 
                  fotografa di origine inglese, ma agli albori degli anni '60, 
                  spedita dal Melody Maker a New York, era una giovane innamorata 
                  della black music. Finì per trovarsi al centro di una 
                  intera generazione di jazzisti, passati alla storia come i fautori 
                  del "free jazz". Diventa amica di Albert Ayler, Cecil 
                  Taylor, Ornette Coleman, Sun Ra e mille altri, in un crocevia, 
                  mai ripetuto se non in parte dal fenomeno Rap, di lotta politica, 
                  coscienza sociale e fierezza culturale di cui il Free Jazz è 
                  stato interprete centrale.
 Nel 1970 Albert Ayler, forse il più lucido (e ludico) 
                  esponente con i suoi riferimenti incrociati alla musica bandistica, 
                  al rythm'n'blues, al gospel, viene ripescato cadavere nell'East 
                  River. Val Wilwer si mette a scrivere e nel 1977 esce questo 
                  "As serious as your life", tra quella manciata di 
                  libri sul, attorno, dentro al Jazz che merita avere (citerei 
                  "Blues People" di Le Roi Jones, "Free Jazz/Black 
                  Power" di Carles-Comolli, "The Jazz Life" di 
                  Nat Hentoff).
 Il libro cita, nell'introduzione, Henry David Thoreau: "Se 
                  un uomo non tiene il passo coi suoi compagni, è forse 
                  perché è all'ascolto di un tamburo differente. 
                  Lasciatelo marciare al ritmo che sente, qualunque sia o quantunque 
                  distante".
 Al tamburo della "rivoluzione nera" questi musicisti 
                  hanno dato tutta la loro arte, sofferenza e orgoglio. Il libro 
                  di Val Wilmer ne dà una testimonianza ancora oggi fortissima.
  Stefano Giaccone
 
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