| "Egli, che il sacro Ellesponto come uno 
                  schiavo in catene ha sperato di fermare nel suo corso, il Bosforo, 
                  corrente di un dio, e ha preteso di sconvolgere uno stretto, 
                  e imprigionandolo con ceppi battuti a martello ha costruito 
                  una immensa strada al suo immenso esercito; lui, un mortale, 
                  ha creduto nel suo malconsiglio di trionfare di tutti gli dei 
                  e di Poseidone"   Eschilo, I Persiani Costruire un ponte è un sacrilegio: ad affermare ciò 
                  non è l'ala più intransigente dell'ambientalismo, 
                  ma la storia stessa dell'uomo, e la profonda convinzione degli 
                  uomini, sotto tutte le latitudini e in tutti i tempi.Cerchiamo di spiegare. In epoche, come quella in cui viviamo, 
                  in cui si fa gran parlare del rispetto delle culture, delle 
                  tradizioni, delle religioni anche di piccoli e piccolissimi 
                  gruppi etnici, per la difesa delle quali si è disposti 
                  anche ad azioni estreme, sembra davvero un paradosso che ad 
                  essere completamente disattese siano proprio quelle istanze 
                  che emergono prepotenti dall'intera storia dell'uomo, e che 
                  riunificano le culture e le tradizioni, invece che dividerle, 
                  su alcuni temi comuni che sono radicati e immutati. I miti e 
                  le leggende dei popoli costituiscono un patrimonio irrinunciabile 
                  per intendere le relazioni dell'uomo con le cose del mondo, 
                  e a meno che non si sia disposti a credere che l'esclusiva dell'intelligenza 
                  e dell'avvedutezza sia stata elargita agli uomini nostri contemporanei, 
                  c'è da ritenere che il perdurare per millenni e fino 
                  ai giorni nostri di alcune forme inossidabili di elaborazione 
                  nella relazione con le cose, espressa dai miti e dalle leggende, 
                  significhino qualcosa e suggeriscano un'immagine della realtà 
                  non trascurabile. Naturalmente la lettura di queste immagini 
                  è affidata ad una sorta di intelligenza culturale che 
                  non ha bisogno dell'accademia per attivarsi, ma che forse può 
                  essere aiutata da una maggiore e più estesa conoscenza 
                  di circostanze che normalmente non si hanno a disposizione, 
                  ovvero da una sensibilità che pare essere caduta in prescrizione.
 Ma qui si è aperto usando un termine, sacrilegio, che, 
                  in tutta evidenza, appare quantomeno inusuale se usato in ambito 
                  politico-sociologico. Ebbene, abituati come siamo all'eresia, 
                  non sarà il caso di temere per quest'arditezza, ma sarà 
                  certamente il caso di spiegarne i termini. Si è usato 
                  il termine sacrilegio, e non nel senso generico ma proprio in 
                  quello canonico di profanazione del sacro, perché siamo 
                  convinti che di alcuni ambiti dell'esperienza umana si sia malamente 
                  appropriata la religione, la quale se da una parte ha operato 
                  al fine di mistificare i motivi primi dell'agire umano, dall'altra 
                  ha di fatto estromesso la laicità dal trattare ambiti 
                  che la religione stessa si è indebitamente riservata. 
                  Il concetto di sacro non appartiene alla sfera religiosa ma 
                  a quella laica. È necessario riappropriarsi di un patrimonio 
                  di conoscenza che arbitrariamente è stato sottratto alla 
                  critica e al pensiero laico. Il concetto di sacro, e l'esperienza 
                  del sacro, è un patrimonio di straordinaria portata che 
                  ha a che fare con la relazione primaria dell'uomo nei confronti 
                  della natura. Questa relazione è sacra perché 
                  investita di tutte le valenze di rispetto e di alta valutazione 
                  che l'uomo da sempre ha attribuito alla natura, dalla quale 
                  dipendeva e dipende la sua sorte stessa. Queste condizioni hanno 
                  fatto sì che il rapporto uomo-natura fosse caratterizzato 
                  da una economia e da una prudenza che erano pari al rispetto 
                  che la natura destava nell'uomo. Rispetto tutt'altro che superstizioso 
                  (come poi avvenne quando di questo sentimento se ne impossessò 
                  la religione), ma al contrario suggerito dalla consapevolezza 
                  della profonda dipendenza che legava l'uomo e la natura ad una 
                  sorte comune. Quindi il sentimento del "sacro" (che 
                  non bisogna confondere con quello di "santo") era 
                  la naturale proiezione di questa condizione. Non dimentichiamo 
                  che possono esistere, ed esistono, cose "sacre" anche 
                  per il più granitico ateo senza che questo lo renda meno 
                  convinto. Ebbene, così forte è stato nel tempo 
                  il portato di questo sentire che ha permeato di sé non 
                  solo la vita ma anche la storia dell'uomo. Una storia che non 
                  è stata scritta dai vincitori, ma che è nata attimo 
                  per attimo all'interno delle maglie stesse della vita attraverso 
                  la produzione di racconti, leggende, miti che sono la storia 
                  non scritta ma non per questo meno vera dell'umanità.
 Esistono nel patrimonio dell'umanità alcune figure mitiche 
                  e leggendarie che accomunano le diverse tradizioni in un'unica 
                  immagine, che certo si sviluppa con toni diversi e con coloriture 
                  specifiche nelle singole circostanze, ma che contiene il portato 
                  di una stessa radice di osservazione e di elaborazione. Queste 
                  forme di unificazione dei temi mitici stanno ovviamente a significare 
                  che i temi trattati dalla mitopoietica sono in realtà 
                  radicati e persistenti nella esperienza dell'uomo, e che costituiscono 
                  il nucleo più importante del suo essere in relazione 
                  con le cose, nel tempo e nello spazio. L'elaborazione di un 
                  mito è in realtà l'espressione più alta 
                  di cultura collettiva nella forma della rappresentazione, e 
                  sottende messaggi fondamentali per intendere la storia stessa 
                  dell'uomo.
 Ebbene, un mito che corrisponde a tutte le caratteristiche finora 
                  descritte fa riferimento al sacrilegio costituito dalla costruzione 
                  dei ponti.
 La sacralità delle acque, tema assolutamente primario 
                  nello sviluppo dei miti di tutti i tempi, viene immediatamente 
                  sposato alla percezione del sacrilegio contenuto in un atto 
                  che violi, di questa sacralità, la condizione. Vengono 
                  ritenute "sacrileghe" in generale tutte le azioni 
                  che infrangano, anche moderatamente, l'intangibilità 
                  dell'acqua: perfino il "tuffo" è ritenuto oltraggioso, 
                  e qualunque forma che utilizzi l'acqua in modo arbitrario. Naturalmente 
                  il massimo di questo oltraggio è letto nella costruzione 
                  del ponte, che non solo "ferma il corso" delle acque, 
                  ma con il suo "balzo" ardisce superare un limite che 
                  la natura pose come invalicabile.
 
  Terrore 
                  sacrale
 Questa circostanza mitica è presente uniformemente, 
                  ma spiccatamente nella cultura euro-asiatica: in modo particolare 
                  presso le nostre culture è ben chiaro il senso del sacrilegio 
                  del ponte, se pensiamo che la costruzione di un ponte veniva 
                  accompagnata da sacrifici umani, solo successivamente sostituiti 
                  da quelli di animali. Ma il ponte necessitava di più 
                  di questo; la figura del pontifex, che nel tempo (e ancora oggi) 
                  designò la massima autorità religiosa presso i 
                  romani, nacque come custode del ponte, colui cioè che 
                  doveva vegliare sulla costruzione, operando continui rituali 
                  sacrificali che stemperassero la gravità della violazione, 
                  e che vigilasse sui comportamenti degli uomini in relazione 
                  al ponte. Il terrore sacrale (sacrilegale, in realtà) 
                  che suscitava la costruzione del ponte era dovuto all'esatta 
                  consapevolezza di violare con l'atto l'essere della natura, 
                  le sue regole e i suoi equilibri; e di fronte ad essa, sacra 
                  per eccellenza, l'oltraggio andava pulito con una complessa 
                  salvaguardia rituale, imponente e persistente.Ma il tema mitico fondava su tali, radicatissime basi, che anche 
                  in epoca cristiana, e fino ai nostri giorni, è perdurata 
                  la sua presenza. Esiste infatti in tutta la tradizione cristiana 
                  il persistere dell'immagine "dannata" del ponte: il 
                  ponte è inscindibilmente legato alla figura del diavolo, 
                  o di personaggi diabolici. La circostanza è facilmente 
                  verificabile fino nei nomi ("Ponte del Diavolo" è 
                  un toponimo assolutamente comune) ma molto di più nell'ambito 
                  della narrazione orale, della leggenda. In questi ambiti la 
                  costruzione del ponte è comunemente affidata ad un santo, 
                  che però per procedere ha bisogno dell'aiuto del diavolo, 
                  il quale, naturalmente, chiede in cambio un'anima (chiaro slittamento 
                  della pratica del sacrificio umano, e identica concezione). 
                  I machiavelli a cui ricorre il santo per ottenere il ponte e 
                  salvare l'anima sono non dissimili da quelli messi in atto in 
                  epoche più antiche per scongiurare ansie identiche.
 È insomma un'assoluta certezza quella che nel tempo e 
                  nello spazio ha guidato gli uomini a ritenere sacrilego il mettere 
                  mano alla costruzione di un ponte, una circostanza diffusa e 
                  condivisa. Ora c'è da chiedersi perché per l'uomo 
                  contemporaneo tutto quello che è stato valido per millenni 
                  debba perdere di valore così drasticamente e radicalmente 
                  nel giro di pochi decenni. È evidente che ciò 
                  che guidava i sentimenti e le elaborazioni degli uomini era 
                  una relazione imprescindibile con la natura, la quale non veniva 
                  percepita come oggetto dell'azione dell'uomo, ma come soggetto 
                  essa stessa, capace cioè di rispondere in una relazione 
                  di causa-effetto a quanto su di essa veniva operato. Non era 
                  e non è "superstizione" quella che guida la 
                  costruzione di un mito o di una leggenda che sul mito si fonda, 
                  ma è una consapevolezza di "economia dell'agire" 
                  relativamente alle scelte operate dall'uomo, in modo particolare 
                  relativamente alla natura. Il tentare di sottrarsi al destino 
                  dell'empio tramite sacrifici o rituali significa percepire esattamente 
                  che la natura è in grado di rispondere clamorosamente 
                  e fatalmente all'atto su di lei compiuto, e la ritualità 
                  serve, se non a scongiurare concretamente questa circostanza, 
                  a manifestare l'esatta consapevolezza di questa possibilità. 
                  Una consapevolezza che predispone, se non altro, a mettere in 
                  atto misure preservative che limitino il portato dell'azione, 
                  e quindi anche della reazione.
 Risulta quindi incomprensibile e fatalmente pericoloso che di 
                  questa consapevolezza si sia perduto l'uso, e non ci si interroghi 
                  più sulla portata delle nostre azioni relativamente al 
                  compierle sulla natura, dimenticando che questa è soggetto 
                  e non oggetto nel nostro agire e che dispone di ampie capacità 
                  di reazione.
 È ben vero che quanto si è detto a proposito del 
                  sacrilegio non ha mai impedito agli uomini di compierne. Ma 
                  lo iato fondamentale che differenzia il nostro agire da quello 
                  dei nostri antecedenti risiede nella "fatale necessità": 
                  essi agivano in contrasto con la natura solo se era "fatalmente" 
                  necessario, vale a dire che, pur percependo di compiere "sacrilegio", 
                  a questo si esponevano solo se fatalmente costretti a farlo, 
                  solo se qualunque altro mezzo per operare non potesse raggiungere 
                  lo stesso risultato vitale per la collettività. Non c'è 
                  dubbio, per esempio, che per i romani costruire un ponte non 
                  fosse tecnicamente un problema arduo, eppure per centinaia di 
                  anni è esistito un solo ponte sul Tevere, e per altre 
                  centinaia non più di due, e questo anche quando la Roma 
                  imperiale contava un numero di abitanti e un'estensione non 
                  molto inferiore all'attuale. Oggi Roma getta sul Tevere 13 ponti, 
                  e non è per questo migliore di quella d'allora. E certamente 
                  Eschilo ritiene micidiale costruire un ponte sul Bosforo per 
                  farne passerella di un esercito invasore.
 
  Aspettando Caronte
 E dunque, quale è oggi la fatale necessità che 
                  consiglierebbe l'estremo atto di violare lo stretto di Messina 
                  con un balzo di migliaia di metri? Cos'è che s'impone 
                  così drasticamente come irrinunciabile, tanto da far 
                  passare come trascurabile il consiglio di innumerevoli generazioni 
                  di uomini riguardo alla costruzione di ponti, tanto da omettere 
                  la considerazione che così facendo si altera la natura 
                  di un'intera etnia, quella siciliana, che vive connaturata con 
                  l'essere "isola", e che di questa natura è 
                  permeata da millenni, che identifica se stessa nel mare che 
                  la circonda e nella terra che la sostiene, che vede nell'inviolabilità 
                  degli accessi una salvaguardia e un riconoscimento del proprio 
                  "essere isola"? Cos'è che s'impone come "fatale 
                  necessità" tale da far dimenticare che la Sicilia, 
                  per essere grande, non ha avuto bisogno di ancorarsi ad uno 
                  scoglio?La risposta che all'osservatore appare più immediata 
                  sembra essere legata al tempo, e sintetizzabile in un "fare 
                  prima" che è il tormento e l'ossessione della nostra 
                  epoca. Ma fare prima non significa fare meglio, anzi, normalmente 
                  è vero il contrario. Con i soldi e le energie che si 
                  impiegherebbero per costruire questo impudico balzo, si potrebbero 
                  traghettare per decenni in barche d'oro uomini e cose, ma certo 
                  ci si metterebbe circa un'ora di più.
 Viene poi da pensare al turismo "usa e getta", quello 
                  che "ha fretta". È forse per loro che stiamo 
                  rischiando "l'empietà" collettiva e i rischi 
                  che ne conducono? Possibile che un turismo capace di cercare 
                  nell'universo mondo l'isoletta incontaminata, sulla quale fatalmente 
                  dovrà essere traghettato, non sia in grado di aspettare 
                  con pazienza il Caronte che lo conduca nella terra del mirto 
                  e degli aranci? E foss'anche, interessa davvero alimentare questo 
                  insano procedere a fagocitare in fretta un'immagine che "altri" 
                  hanno raccontato, perché cosa sarebbe della Sicilia, 
                  se sacrifichiamo Cariddi, se non la proiezione di un'immagine 
                  antica e ormai persa?
 Non possiamo non sapere che Messina poggia su tre colonne marine, 
                  così come suggerisce la leggenda diffusa in Sicilia e 
                  che ha origini nel mito; due di queste colonne sarebbero piuttosto 
                  malmesse ma una ancora integra, e su questa si confidava. Bisognerà 
                  andarci piano
  Zelinda Carloni
 Per tutte le indicazioni relative al tema del 
                  sacrilegio del ponte siamo debitori ad Anita Seppilli e al suo 
                  prezioso volume "Sacralità dell'acqua e sacrilegio 
                  dei ponti", Sellerio, Palermo 1990. A.P.-Z.C. |