| La maschera di Mussolini 	Sicuramente i lettori di questa rivista già conoscono 
                  il copioso lavoro di Pier Carlo Masini, lo storico e saggista 
                  che ha contribuito in modo determinante alla conoscenza delle 
                  fonti dei movimenti libertari, ottenendo limportantissimo risultato 
                  di sottrarre alla speculazione di impronta marxista il monopolio 
                  degli studi sul primo socialismo italiano. Fondamentale, in 
                  questo senso, è la sua opera La Federazione Italiana 
                  dellAIT. Atti ufficiali (Milano 1964), così come 
                  determinanti per la piena rivalutazione del ruolo dellanarchismo 
                  nella nascita e nello sviluppo del più vasto movimento 
                  sociale del nostro paese sono i due volumi sulla storia dellanarchismo 
                  in Italia (Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, 
                  Milano 1969 e Storia degli anarchici italiani nellepoca 
                  degli attentati, Milano 1981). Né si può dimenticare, 
                  fra gli altri suoi titoli, la bellissima e partecipata biografia 
                  di Carlo Cafiero (Cafiero, Milano 1974), che restituisce 
                  allanarchico barlettano quello spessore e quella centralità 
                  nelle vicende della Prima Internazionale che la storiografia 
                  "ufficiale" ha sistematicamente sottovalutato.Ora, a pochi mesi dalla morte - avvenuta il 19 ottobre dellanno 
                  scorso - grazie allimpegno dei compagni della Biblioteca Franco 
                  Serantini di Pisa, un nuovo contributo di Pier Carlo Masini 
                  viene ad aggiungersi, postumo e benvenuto, ai tanti lavori prodotti 
                  nei lunghi anni della sua ricerca storica e militanza politica. 
                  Mussolini, la maschera del dittatore (Pisa 1999) è 
                  lopera alla quale Masini ha lavorato pressoché fino 
                  alla fine, nonostante il progredire della malattia e aiutato 
                  costantemente da Franco Bertolucci, riuscendo così a 
                  dare organicità e a portare a conclusione studi precedenti 
                  iniziati più di 25 anni fa.
 Come sempre, Masini accompagna alla serietà della 
                  ricerca una particolare piacevolezza della scrittura, che nasce 
                  da uno stile brillante e acuto, ricco di lampi di lucida ironia 
                  e di sincera umanità, di annotazioni pertinenti e di 
                  osservazioni profonde rese con semplicità e chiarezza; 
                  qualità non sempre riscontrabili nelle opere di carattere 
                  storico e per questo particolarmente apprezzabili in questo 
                  testo.
 Largomento trattato - il personaggio Mussolini duce del 
                  fascismo e capo del governo italiano durante il nefasto ventennio 
                  - vanta una storiografia sterminata, tanto che parrebbe legittimo 
                  chiedersi se sia possibile aggiungere contenuti originali o 
                  apportare nuovi elementi di lettura e di interpretazione; tanto 
                  più che lopera di Renzo De Felice è stata in 
                  qualche modo accolta dal mondo degli studi come il contributo 
                  definitivo in materia, tale da precludere la possibilità 
                  di eventuali indagini future. Eppure resta ancora la necessità 
                  di non dimenticare né sottovalutare quellautentico buco 
                  nero nella storia del nostro Novecento che fu il periodo fascista, 
                  come resta imprescindibile il bisogno di indagare le cause che 
                  ne resero possibile laffermazione, allo scopo di comprendere 
                  gli elementi di forza e di debolezza che crearono prima, e affossarono 
                  poi, il regime. Masini decide consapevolmente di accettare la 
                  sfida e, se anche a volte sembra non sottrarsi del tutto al 
                  pericolo di ribadire cose già dette, riesce comunque 
                  a proporre elementi di indagine non abbastanza esplorati e momenti 
                  di riflessione nuovi ed originali.
 È lo stesso Masini, del resto, che ci spiega significativamente 
                  e con parole illuminanti i motivi che lo hanno spinto a riprendere 
                  in mano questi studi mussoliniani: "Per oltrepassare Mussolini 
                  - egli scrive - occorre non ignorarlo ma conoscerne la personalità 
                  in tutte le sue pieghe". La ricerca parte quindi da presupposti 
                  fondati su convinzioni personali dellautore, ed è proprio 
                  questo - a mio parere - lelemento più importante e apprezzabile, 
                  nonché la vera chiave di volta del suo lavoro. Mi pare 
                  infatti che sia proprio in quel "oltrepassare" che 
                  si condensa il significato dellopera, che si esprime tutta 
                  la tensione etica, mai disgiunta del resto dalla competenza 
                  dello studioso. "Oltrepassare" non per rimuovere o 
                  dimenticare, ma anzi per lesatto contrario: per comprendere 
                  fino in fondo gli elementi costitutivi del fenomeno fascista 
                  in modo tale da evitare finalmente il pericolo di ricreare le 
                  premesse per nuovi culti della personalità e per la rinnovata 
                  identificazione di un intero popolo con un sistema di valori 
                  autoritario e aggressivo, quale fu quello alla base della fortuna 
                  mussoliniana.
 Muovendo da queste premesse, lautore viene a mettere palesemente 
                  in secondo piano una chiave interpretativa del fascismo - del 
                  resto già ampiamente esplorata - che fa perno quasi esclusivamente 
                  sullo studio e sullanalisi dei fenomeni economici e politici 
                  che ne favorirono la fortuna. Ovviamente le ragioni materiali 
                  sono ben presenti nel pensiero e nellinterpretazione di Masini, 
                  né mancano considerazioni acute sul rapporto fra condizioni 
                  storiche e decisioni personali; ma nella riflessione dellautore 
                  è decisamente centrale limportanza prestata alla comprensione 
                  degli aspetti psicologici e caratteriali del personaggio Mussolini 
                  e di come questi suoi tratti comportamentali poterono imporsi 
                  allattenzione e allapprovazione del popolo italiano. Ecco 
                  quindi che, per "oltrepassare" Mussolini e rendere 
                  nuovamente efficace "il vaccino che, nolente, ha inoculato 
                  agli italiani, il rifiuto di credere, obbedire, combattere, 
                  la ripugnanza al militarismo e alla guerra", Masini privilegia 
                  decisamente questa prospettiva, spiegando così le cause 
                  della effettiva, innegabile identificazione che per lungo tempo 
                  le masse popolari dItalia provarono nei confronti del duce. 
                  Identificazione facilitata, del resto, dalla coincidenza temporale 
                  fra laffermazione di Mussolini nellItalia postbellica e il 
                  nascere di nuovi strumenti della comunicazione di massa, strumenti 
                  di cui il duce seppe impadronirsi con straordinario tempismo 
                  e innegabile abilità.
 Evidente e dichiarato è quindi il debito che Masini 
                  contrae col Mussolini grande attore di Camillo Berneri (Mussolini 
                  gran actor, Valencia 1934, trad. it. Mussolini, psicologia 
                  di un dittatore, Milano 1966), quello straordinario pamphlet 
                  che rivalutò, in negativo, la figura di Mussolini, mostrando 
                  per la prima volta quegli atteggiamenti istrioneschi e "nazionalpopolari" 
                  che tanta importanza ebbero per la sua affermazione. Scrive 
                  infatti Masini: "Ho ritenuto opportuno impostare in prima 
                  persona un discorso più ampio e complessivo su Mussolini, 
                  non riproducendo più il saggio di Berneri, ma integrando 
                  la sua ricerca, che si interrompe al 1932 circa, con elementi 
                  relativi al periodo posteriore [...]. Langolazione, psicologica, 
                  puntata sui tratti peculiari dellattore, è rimasta la 
                  stessa, integrata nel testo e in nota da quelle osservazioni 
                  di Berneri che meglio lumeggiano la sua originale intuizione".
 Partendo quindi da una tale prospettiva di analisi, lautore 
                  arriva progressivamente a dar corpo a una spiegazione del successo 
                  di Mussolini tanto geniale quanto apparentemente ovvia, vale 
                  a dire il concreto parallelismo tra i molti difetti e i rari 
                  pregi del duce e i molti difetti e i rari pregi di quel popolo 
                  italiano che, nella sua quasi totalità, trasversalmente 
                  a tutte le classi sociali, a lui così facilmente si piegò. 
                  Gli atteggiamenti più attorici, più smaccatamente 
                  enfatici nella loro grottesca prosopopea, furono proprio quelli 
                  che più fecero presa su masse fondamentalmente immature 
                  e sostanzialmente prive di una vera coscienza civica; furono 
                  il grimaldello per limporsi di una demagogia becera ma efficace 
                  che poggiò le proprie basi sullindiscussa capacità 
                  comunicativa di Mussolini, contro il quale non riuscì 
                  ad opporsi, con la necessaria efficacia, lintero movimento 
                  antifascista, forse spiazzato dalla novità che il mussolinismo, 
                  più che il fascismo, rappresentava. Quello a cui si assistette, 
                  infatti, fu il nascere di un fenomeno nuovo nel Novecento: laffermarsi 
                  di un culto della personalità di massa che non trovava 
                  allora precedenti nel panorama politico internazionale, e i 
                  cui meccanismi Masini, nella sua vena più caustica, spiega 
                  e stigmatizza con lucido sarcasmo.
 Rivolgendo la sua analisi alla nascita dei fenomeni di comunicazione 
                  di massa e ai meccanismi dellagire collettivo che si imposero 
                  nella giovinezza del secolo e che, in altri ambiti e in altre 
                  situazioni, avrebbero prodotto effetti altrettanto se non più 
                  sconvolgenti di quanto non fu sotto il fascismo, Masini fornisce 
                  dunque un ultimo strumento, morale e intellettuale, utile a 
                  chiunque voglia opporsi alle chimere della demagogia e al pericolo 
                  del totalitarismo. Uno strumento prezioso, che aiuta a comprendere 
                  la realtà, ad approfondire le nostre capacità 
                  di reazione, a mantenere alto il livello di guardia contro tutto 
                  ciò che minaccia il nostro bisogno di libertà.
  Massimo Ortalli
 
   Il "Santo" degli 
                  anarchici 	Forse non a tutti i compagni, specie ai più giovani, 
                  è noto il nome di Luigi Bertoni (1872-1947), il "Santo" 
                  come lo ebbe a chiamare qualcuno. Il suo nome, più che 
                  leggerlo, lo senti pronunciare qua e là nei discorsi 
                  tra compagni, in fugaci accenni, e sempre più raramente, 
                  nelle rimembranze di qualche vecchio. Io per esempio mi ricordo 
                  che da giovane volevo diventare come lui. A dire il vero, non 
                  avevo mai letto neppure una riga dei suoi scritti, ma il quadro 
                  della sua vita tracciatoci da Carlo Vanza, questo vecchio compagno 
                  di Biasca, era stato sufficiente per far sbocciare in me unammirazione 
                  totale. Per me, Bertoni era un mito. Sapevo poco, ma quel poco 
                  mi bastava. Tu pensa, uno che per quasi mezzo secolo pubblica 
                  un giornale, il Risveglio anarchico, che durante gli 
                  anni più bui rimarrà lunica voce anarchica in 
                  tuttEuropa. Uno che il giornale non solo lo scrive, ma lo compone 
                  anche con le sue mani (era operaio tipografo), la sera dopo 
                  il lavoro, e questo per oltre mille numeri in italiano e francese. 
                  Uno che trova il tempo di fare centinaia di comizi allanno 
                  in tutta la Svizzera e che riesce ancora a pubblicare numerose 
                  opere di Kropotkin, Reclus, Ferrer, Most, Guillaume, Malatesta, 
                  Luce Fabbri e molti altri. Uno che è stato tra gli organizzatori 
                  delle più radicali manifestazioni di lotta operaia in 
                  Svizzera. Sapevo che aveva sempre con sé una borsa piena 
                  di giornali e opuscoli da diffondere. E sapevo che più 
                  duna volta aveva pagato la sua coerenza con la galera. Certo, 
                  cerano in lui alcuni aspetti sconcertanti, come la sua completa 
                  dedizione all"ideale" fino al punto di scegliere 
                  lascetismo o meglio, per usare le parole di Amiguet, "il 
                  dono completo di se stesso" (tantè vero che alcuni 
                  anarchici lo chiamavano "larcivescovo dellanarchia"). 
                  Tuttavia, ciò non ne sminuiva affatto la grandezza agli 
                  occhi miei. Certo, allora lammirazione era più per luomo 
                  pratico, il "grande lottatore" che per il pensatore, 
                  di cui sapevo poco o nulla salvo che fosse anarchico. Per questo 
                  fatto ci sono anche delle ragioni oggettive: in realtà 
                  Bertoni, pur avendo scritto migliaia di pagine, non ha mai esposto 
                  le sue idee in modo coerente in un libro. Il suo pensiero lo 
                  confidava al giornale, spesso in articoli ispirati da fatti 
                  contingenti, e queste pagine si trovano solo ancora in rare 
                  collezioni di qualche archivio (con leccezione di qualche pagina 
                  ripubblicata nel 1989 nellantologia a cura di Gianpiero Bottinelli 
                  e Edy Zarro Lantimilitarismo libertario in Svizzera). 
                  Daltra parte, gli opuscoli che recano la sua firma (e che trattano 
                  argomenti come appunto lantimilitarismo, il sindacalismo o 
                  lantifascismo) mi erano per lo più sconosciuti. Tuttavia, 
                  quando mi capitò tra le mani il suo Abbasso lesercito!, 
                  decidemmo subito di ripubblicarlo come supplemento ad Azione 
                  diretta per lattualità delle sue considerazioni. 
                  Devo dire che in quel periodo era tutto un fiorire di "Comitati 
                  di caserma" ispirati dalla filosofia entrista dei gruppi 
                  marxisti. Ritrovare esposte con lucidità le nostre stesse 
                  convinzioni di totale resistenza al servizio militare e di rifiuto 
                  radicale dellistituzione esercito in uno scritto di Bertoni 
                  - allora ancora venerato da molti operai e "intoccabile" 
                  persino per le dirigenze sindacali - ci mise nelle mani, almeno 
                  così ci sembrava, una letale arma teorica. Ricordo che 
                  in quegli anni si ebbe anche una commemorazione a Bellinzona 
                  nel centenario della nascita (1972) con la partecipazione di 
                  Pier Carlo Masini in veste di conferenziere. Non conoscevo invece 
                  ancora il primo studio in assoluto sul Bertoni, realizzato nel 
                  1967 come tesi universitaria da Marianne Enckell ma non pubblicato. 
                  In effetti, nelle "storie dellanarchia" il Bertoni 
                  era (ed è tuttora) in gran parte ignorato. Ne parla però 
                  il Nettlau, che dedica parecchie pagine alla sua biografia. 
                  Con riferimento al dibattito sul sindacalismo rivoluzionario 
                  accesosi allinizio del secolo, il Nettlau cita un documento 
                  del Bertoni presentato alla Conferenza della federazione delle 
                  Unioni Operaie a Nyon nel 1908, sottolineando come tale rapporto 
                  "esprima la problematica dellattività sindacalista 
                  per un autentico anarchico con una chiarezza esemplare". 
                  Qual è questa problematica? " quella dispiegare 
                  da un lato la necessità della lotta operaia con mezzi 
                  sindacali e dallaltra illustrare linadeguatezza dei mezzi 
                  riformisti per raggiungere gli obiettivi auspicati. Sosteneva 
                  il Bertoni: "noi non siamo sindacalisti per amore dei sindacati 
                  attuali, ma perché cè una nuova potenza in formazione 
                  e si tratta di non lasciarla accaparrare dai furbi del funzionarismo 
                  sindacale operaia e dai capitalisti stessi (...). O riusciremo 
                  a orientare il sindacalismo verso la rivoluzione e lespropriazione 
                  o diventerà, nelle mani dei capitalisti , un potente 
                  mezzo per regolamentare il loro sfruttamento." Sulla questione 
                  specifica dei funzionari sindacali scoppierà successivamente 
                  una virulenta polemica tra James Guillaume da un lato e Bertoni, 
                  Kropotkin e Malatesta dallaltro. Daltra parte, ricorda ancora 
                  il Nettlau, lo stesso Kropotkin ebbe modo dassaporare lindipendenza 
                  di giudizio del Bertoni quando questultimo in occasione di 
                  un incontro a Locarno (nel 1913) gli fece capire inequivocabilmente 
                  di non condividere i suoi argomenti interventisti. Nella sua 
                  Storia del movimento anarchico in Svizzera dalle origini 
                  a oggi (1903), J. Langhard ricorda invece con dovizia di 
                  particolari la clamorosa crisi diplomatica tra Svizzera e Italia 
                  causata proprio da un articolo di Bertoni dedicato a Gaetano 
                  Bresci, "martire della libertà". Per altre 
                  notizie sul Bertoni vera da consultare, almeno fino alla ricerca 
                  di Marianne Enckell, solo il libretto Un uomo nella mischia: 
                  Luigi Bertoni, pubblicato a Bologna da Mammolo Zamboni nel 
                  1947 e ormai pressoché introvabile. Questopera è 
                  in realtà la traduzione di due opuscoletti pubblicati 
                  in Svizzera rispettivamente nel 1942 in occasione del 70° compleanno 
                  (a cura di Lucien Tronchet) e nel 1947 in occasione della morte 
                  del Bertoni. Fortunatamente, a partire dagli anni Ottanta, si 
                  è creato un certo interesse accademico anche per Bertoni 
                  e soprattutto per il Risveglio con gli studi di Jean 
                  Louis Amar, Giovanni Casagrande, Furio Biagini e Massimo Bottinelli. 
                  Mancava ancora però un lavoro compiuto di ricerca sulla 
                  vita e lopera di Luigi Bertoni che tenesse conto anche del 
                  contesto politico, economico e sociale e ne chiarisse le posizioni. 
                  Ora finalmente, grazie al lavoro meticoloso e appassionato di 
                  Gianpiero Bottinelli, questopera è disponibile. Lungo 
                  le oltre 200 pagine del volume un Bertoni, reso vivo dalle diverse 
                  testimonianze di amici e compagni che lo conobbero e raccolte 
                  personalmente dallautore, ci racconta la sua Anarchia. Innegabile 
                  pregio di questa biografia, che del resto è destinata 
                  a diventare un punto di riferimento obbligato per qualsiasi 
                  ulteriore studio in merito è infatti la scelta di lasciare 
                  spesso e volentieri la parola direttamente a Bertoni. Accanto 
                  a ciò, come opportunamente ricorda Marianne Enckell nella 
                  sua prefazione, il libro "presenta anche un quadro del 
                  quotidiano dei gruppi anarchici ginevrini, svizzeri e italiani 
                  (...) tanto che vi si legge mezzo secolo di storia sociale (con) 
                  la partecipazione degli anarchici agli avvenimenti che hanno 
                  segnato il mondo intero". Completo anche lapparato documentario, 
                  che oltre ad una serie di tavole fuori testo offre una vasta 
                  bibliografia, il catalogo delle "edizioni del Risveglio" 
                  dal 1900 al 1947 e un esaustivo elenco dei nomi. Io il libro 
                  di Bottinelli lho letto tutto dun fiato, rivivendo un po 
                  le mie emozioni giovanili, riscoprendo questa figura mitica 
                  che col passare degli anni avevo un po dimenticato (sai, oggi 
                  si fa un gran parlare di Hakim Bey) e mi sono chiesto: che cosa 
                  ci rimane di questo Bertoni? Ha ancora qualcosa da dirci o è 
                  destinato a rimanere quella mitica figura di agitatore e propagandista 
                  anarchico che avevo imparato a conoscere ed apprezzare dai vecchi 
                  compagni che lavevano frequentato? Nella voce dedicata a Bertoni 
                  nell"Enciclopedia dellAnarchia" si leggono interessanti 
                  considerazioni sulla valenza della figura del Bertoni allinterno 
                  del movimento libertario internazionale. "Il nome di Bertoni", 
                  dice lautore della voce nellEnciclopedia, "è in 
                  larga parte legato allopera della sua vita, i due giornali 
                  Le Réveil e Il Risveglio. Entrambi i giornali 
                  hanno dato un enorme impulso allo sviluppo di un movimento anarchico 
                  in Svizzera, influenzandone probabilmente anche lorientamento." 
                  Questo indirizzo era chiaramente associazionista e sindacalista, 
                  poiché, come affermava il Bertoni, "per spingerlo 
                  anchesso (il sindacato) sulla via rivoluzionaria, noi dobbiamo 
                  entrare tutti nei sindacati". Bertoni ci mise lanima per 
                  realizzare questo programma. Non per nulla era chiamato dai 
                  giornali borghesi "limpresario di scioperi" e condannato 
                  nel 1902 a 1 anno di prigione come responsabile dello sciopero 
                  generale di Ginevra. Tuttavia, per Bertoni i gruppi di affinità 
                  anarchici "piccole avanguardie audaci destinate nei momenti 
                  propizi allazione a spingere il popolo allinsurrezione col 
                  dare lesempio e col fornirne i mezzi" rimangono indispensabili. 
                  La sua inflessibile critica a ogni forma di autoritarismo lo 
                  spinge poi nel 1922 a convocare a Bienne un congresso anarchico 
                  internazionale (al quale partecipò anche Malatesta) per 
                  riaffermare (allindirizzo dei bolscevichi) che "ogni organizzazione 
                  di un potere sedicente provvisorio e rivoluzionario non può 
                  essere che un inganno" e che "il colpo di stato di 
                  Lenin non poteva significare che linizio della controrivoluzione". 
                  Ma, torno a domandare, che cosa ci rimane del Bertoni teorico 
                  o meglio che cosa mi è rimasto di questa mia ammirazione 
                  giovanile? Anche per me gli anni sono passati e faccio ormai 
                  parte della schiera dei vecchi anarchici. La lettura del libro 
                  di Bottinelli mi ha tuttavia fatto intuire quanto lievito danarchia 
                  rimane ancora sepolto inattivo in quelle decine di edizioni 
                  formato opuscolo del Risveglio pubblicati clandestinamente 
                  dal Bertoni tra il 1940 e il 1946 "da qualche parte in 
                  Svizzera", quando le autorità avevano messo fuorilegge 
                  comunisti e anarchici. In quegli opuscoli, forzatamente scritti 
                  in momenti meno concitati di propaganda sono certo che si possono 
                  ritrovare preziose riflessioni che ci restituiscono un Bertoni 
                  vivo e vegeto al nostro fianco, a combattere la guerra e chi 
                  se ne fa promotore, a combattere il capitale e chi lo sostiene, 
                  a combattere i governi e chi li puntella. Forse non si scopriranno 
                  pensieri particolarmente originali (anche se durante una delle 
                  presentazioni del libro la sua rigorosa difesa della libertà 
                  despressione ha puntualmente suscitato una polemica fra partigiani 
                  e oppositori della censura statale degli scritti razzisti o 
                  negazionisti dellolocausto), ma una cosa sì: una grande 
                  chiarezza. Bertoni voleva farsi capire da tutti, e soprattutto 
                  dalle operaie e dagli operai. E questa, oggi, è una grande 
                  lezione da imparare.   Peter Schrembs
 
   Scritto sul corpo 	Doris Palm e Bettina Pfefferle sono due giovani registe 
                  tedesche. Le loro opere prime, uscite nel 1998, sono già 
                  state presentate in più di un festival, e adesso circolano 
                  nei circuiti "off" di Berlino. I film si chiamano 
                  Narben 1 e Narben 2, cioè Cicatrici, 1 
                  e 2.Il primo, di Bettina Pfefferle e Doris Palm, è un 
                  cortometraggio di otto minuti, dove una donna (Palm, per la 
                  cronaca) "scopre le proprie cicatrici, e comincia un gioco 
                  con musica e colori". Bettina mi dice di aver impiegato 
                  otto anni per arrivare alla decisione di girare questi otto 
                  minuti. E mi fa pensare ad una poesia di Cardarelli:... "attese 
                  di anni/ non bastano/ per dar tempo/ di giungere/ a un minuto". 
                  Solo unassociazione. In realtà, a Pfefferle il tempo 
                  è bastato per arrivare a un risultato artisticamente 
                  convincente. Il corpo segnato dalle cicatrici viene celato/svelato 
                  grazie al movimento armonioso di un foulard che copre/scopre, 
                  senza effetti voyeuristici. Le cicatrici vengono dipinte, colorate, 
                  sino a diventare fantasiosi arabeschi: non erotismo, ma arte 
                  e gioco. E comunicazione. La voglia di dire che si può 
                  star bene nella propria pelle nonostante la deviazione dai normali 
                  canoni estetici. Chiedo a Doris di parlarmi di Narben 1: 
                  "Ci vuole molta fiducia nella persona che filma, per riuscire 
                  a esporsi senza problemi. Ed io e Bettina siamo amiche da anni. 
                  Per me si trattava di vedere se queste cicatrici, considerate 
                  repellenti dalla nostra società, possono essere mostrate 
                  in una maniera tale da sembrare addirittura belle. In altre 
                  parole: è possibile, in un film, toglier via lorrore 
                  dalle cicatrici?" Bettina interviene: "Io personalmente 
                  non ho cicatrici rimarchevoli. Sono arrivata al tema tramite 
                  Doris. Con lei ho accarezzato per anni il progetto di esprimere, 
                  tramite immagini, i sentimenti e le emozioni che ruotano intorno 
                  a questi segni sul corpo. Doris è venuta a Berlino con 
                  una videocamera; io me ne sono procurata una seconda. Ci siamo 
                  chiuse per tre giorni nellappartamento di unamica che era 
                  via, e abbiamo prima discusso su quello che volevamo fare, e 
                  poi "girato". Non avevamo un soggetto e una sceneggiatura, 
                  ma sapevamo più o meno cosa doveva "accadere" 
                  davanti alla telecamera. Il tutto è stato visto un po 
                  come un esperimento". Un esperimento riuscito, direi.
 Come riuscito è anche il secondo video, Narben 
                  2, di Doris Palm, durata sessanta minuti, con Ebba Ache, 
                  Judith Wilhelm, Edda Palm e Doris Palm. Quattro donne raccontano 
                  il loro vissuto rispetto alle cicatrici. Dice Doris: "Ho 
                  proceduto secondo uno schema di intervista. Ognuna doveva raccontare 
                  come si è procurata le cicatrici (prima tornata), quali 
                  sono state le esperienze, positive e negative, in proposito 
                  (seconda tornata), e infine parlare dei processi sociali, 
                  o diciamo meglio del contesto sociale in cui è cresciuta 
                  (terza tornata). Le donne intervistate sono due mie amiche e 
                  mia madre; anchio racconto la mia storia. Fare il film è 
                  stato un confrontarci di nuovo con il tema, è stato un 
                  chiederci in che misura avvenimenti e cicatrici ci abbiano segnate. 
                  Nel film si vede chiaramente che noi stesse non troviamo brutte 
                  le cicatrici e ci conviviamo bene. Quello che crea problemi 
                  sono le reazioni della gente, quegli sguardi che fanno nascere 
                  una certa insicurezza, quelle domande prive di tatto. Ognuna 
                  di noi, prima o poi, è arrivata al punto di domandarsi 
                  se non dovesse limitare la propria libertà, cioè 
                  se non dovesse incominciare a vestirsi in modo diverso (più 
                  "coprente"), o smettere di andare in piscina o alla 
                  sauna". Nessuna di loro, però, lha fatto. Ognuna 
                  ha deciso di continuare a presentarsi agli altri con questi 
                  episodi scritti sul corpo, ed ha, nel contempo, iniziato una 
                  riflessione sul "bello" e sui parametri per definirlo. 
                  Nel film, la madre di Doris, Edda, racconta: "Mi ricordo 
                  di aver chiesto a mia figlia se dovevo cucirle dei vestiti con 
                  le maniche lunghe, ma lei ha rifiutato. Sono stata daccordo. 
                  Anchio non ho problemi di visibilità. Non volevo, 
                  con la mia domanda, suggerirle che doveva nascondere la sua 
                  pelle, volevo solo capire come viveva lei la cosa. Io credo 
                  che il problema sia sociale. Tutto deve essere perfetto e levigato. 
                  Pensiamo ai giocattoli, alle bambole: se hanno un difetto, vanno 
                  a finire quasi sempre nella spazzatura". Doris esprime 
                  il suo parere: "La problematica è collegata al fatto 
                  che la bellezza nella nostra società rappresenta un preciso 
                  ideale, e soprattutto la bellezza delle donne. Ci viene detto 
                  che la bellezza è importantissima, che dobbiamo far di 
                  tutto per essere belle. La mia amica racconta ad esempio nel 
                  film che tutti le consigliavano di far sparire le cicatrici 
                  con unoperazione di chirurgia estetica, così poi avrebbe 
                  potuto trovare un uomo ed essere felice. Come ho già 
                  detto, sono i commenti esterni che ci hanno, a tratti, rese 
                  insicure, tanto più che allepoca dellincidente eravamo 
                  delle bambine o delle ragazzine. E da piccola i giudizi degli 
                  altri ti fanno più male". Domando a Doris se, nel 
                  girare Narben 2, abbia voluto in qualche modo aiutare 
                  le donne che hanno problemi di cicatrici Doris risponde: "Il 
                  film non è soltanto un confrontarsi con la nostra storia 
                  e i nostri conflitti, in una sorta di rielaborazione terapeutica 
                  (naturalmente, questo aspetto cè), ma vuol essere anche 
                  un invito rivolto ad altre donne, perché esternino finalmente 
                  ciò che sentono rispetto alle proprie ferite. In questo 
                  senso, il film è politico e non intimistico. Una volta 
                  si sarebbe detto che ha un messaggio". E sarebbe? "Trasmettere 
                  alle donne che è importante dire lindicibile, parlare 
                  di cicatrici e rivelare i propri sentimenti al riguardo: come 
                  si vorrebbe essere trattate dagli altri, che aspettative e desideri 
                  si hanno. Può essere liberatorio rivelare la propria 
                  vulnerabilità. Ricordo che da bambina mi sentivo a volte 
                  un mostro, ma adesso non voglio che questo mi succeda più. 
                  Voglio sentirmi accettata, non isolata e rifiutata. Cè 
                  sicuramente un altro modo di interagire di fronte a una cicatrice. 
                  Ed io voglio sentirmi bella, qualunque sia il mio aspetto fisico". 
                  Il suo accenno a uninterazione (non solo a una "reazione") 
                  suscita il mio interesse; la spingo a farmi un esempio. "Una 
                  volta una donna mi ha detto che trovava belle le mie cicatrici. 
                  Le ricordavano lintreccio dei cristalli di ghiaccio. Da allora 
                  vedo i miei "disegni di carne" con i suoi occhi, e 
                  li trovo belli anchio". Il commento di quella donna andava 
                  al di là della semplice accettazione, si avventurava 
                  sul terreno dellammirazione, mettendo in gioco una variabile 
                  nuova. E il nostro sguardo sulle persone e sulle cose cambia 
                  il rapporto con loro. Per questo CREARE UNA NUOVA ESTETICA SIGNIFICA 
                  CREARE UNA NUOVA ETICA. Quando, per es., si smetterà 
                  di dire che "un uomo con i capelli grigi è affascinante, 
                  una donna con lo stesso attributo è brutta", avremo 
                  fatto un passo avanti nella comprensione dei cicli naturali 
                  e, forse, nel campo della pari opportunità, tanto per 
                  citare unespressione oggi di moda.
  Lilla Consoni
   Sullopposizione tra la diarrea 
                  e il cancro 	Le edizioni Elèuthera hanno da poco pubblicato 
                  Il pianeta unico, processi di globalizzazione, unantologia 
                  di Salvo Vaccaro con saggi di 6 autori - tra i quali Rodrigo 
                  Andrea Rivas. Pubblichiamo qui un suo scritto non compreso nella 
                  citata antologia. Con quali parametri definire leconomia-mondo nella quale si 
                  è inserito il processo di globalizzazione? Semplicemente 
                  come quella del libero mercato susseguente alla vittoria indiscussa 
                  del capitalismo? O come una sorta di transizione verso lavvenire, 
                  contraddistinta anche dalle sacche di resistenza opposte da 
                  qualche sindacato o dai cocciuti partigiani delle rigidità 
                  salariali tipiche da uno Stato del secolo XIX? O come quella 
                  della vittoria annunciata e certa delle forze del bene che, 
                  tuttavia, non possono dispiegare tutta la loro potenzialità 
                  perché sono costrette a mantenere alta la guardia per 
                  affrontare sia i nemici di cui prima nonché le forze 
                  del male sopravvissute, dittatori, popoli, o culture che siano?Nellultima edizione annuale, 1997, del Rapporto sullo 
                  sviluppo umano pubblicato dal UNDP (lorganismo ONU che 
                  analizza le problematiche legate allo sviluppo), vengono identificati 
                  una serie di successi tuttaltro che insignificanti. Si parla 
                  infatti dellaumento del tasso di scolarità tra le ragazze, 
                  della diminuzione dellanalfabetismo tra gli adulti, dellaumento 
                  generalizzato sia delle aspettative di vita che delle spese 
                  destinate al consumo o della disponibilità complessiva 
                  di acqua potabile, ecc.
 Si parla anche però, del fatto che gli 800 milioni 
                  di persone che vivono nei paesi ricchi (circa il 16% dellumanità), 
                  si dividono l86% dei consumi privati totali, si pappano il 
                  45% della carne e del pesce, il 58% dellenergia, l84% della 
                  carta, l87% dei veicoli, il 74% delle linee telefoniche, l83% 
                  del reddito mondiale, il 90% dei risparmi, il 95% dei prestiti 
                  bancari commerciali, il 98,2% dei soldi destinati alla ricerca/sviluppo, 
                  ecc. E pure questo rapporto conferma che mai peggioramento fu 
                  così veloce perché, se "nel 1960, il reddito 
                  medio della popolazione che viveva nei paesi ricchi era 30 volte 
                  superiore al reddito delle persone che abitavano nei paesi più 
                  poveri... nel 1995 era superiore di 82 volte". E forse 
                  per evitare che i grandi numeri non ci permettano intravedere 
                  il bosco, ci informa pure che la fortuna dei 3 uomini più 
                  ricchi del mondo supera il PIL accumulato dei 48 paesi più 
                  poveri, che quella dei 15 uomini più ricchi pareggia 
                  il PIL di tutta lAfrica al sud del Sahara, che quella dei 32 
                  uomini più ricchi supera il PIL dellAsia del Sud, che 
                  quella degli 84 uomini più ricchi supera il PIL della 
                  Cina.... Ci dice sommessamente che con "soli" 40 miliardi 
                  di dollari, e cioè con la fortuna personale di Bill Gates 
                  oppure il 4% delle fortune dei 225 uomini più ricchi, 
                  si potrebbero soddisfare le necessità essenziali di tutta 
                  la popolazione del terzo mondo (cibo, acqua potabile, infrastrutture 
                  sanitarie, educazione, salute, ginecologia, ostetricia), cosa 
                  che riveste una certa urgenza giacché - racconta sempre 
                  il rapporto del UNDP - da quelle parti oltre 1000 milioni di 
                  persone non mangiano a sufficienza; 2700 milioni non dispongono 
                  delle strutture sanitarie di base; 1500 milioni non hanno accesso 
                  allacqua potabile; 1100 milioni non dispongono di una casa; 
                  un quinto dei bambini non completa la scuola dellobbligo e 
                  oltre 2000 milioni di persone soffrono di anemia.
 Certo, il rapporto del UNDP non stabilisce un rapporto meccanico 
                  tra la situazione delle poche centinaia di "paperon de 
                  Paperoni" e quella degli oltre 1300 milioni di persone 
                  che vivono con meno di un dollaro al giorno o quella dei 3000 
                  milioni che lo fanno con meno di due dollari al giorno. Daltronde, 
                  come non capirli: sono pur sempre una pubblicazione ufficiale 
                  dellONU!
 Non credo necessario né proporvi altre cifre dinsieme 
                  né, tantomeno, commentare quelle appena citate. Si traducono 
                  in conseguenze, in fatti, che non solo si legano alla lampante 
                  diversità dei redditi disponibili, quindi alle condizioni 
                  materiali di vita, ma che si rapportino anche ai diritti e ai 
                  bisogni, diritti la cui valenza è tuttaltro che universale, 
                  bisogni che la globalizzazione delle comunicazioni tende a universalizzare. 
                  Il che aggiunge il danno alla beffa. O viceversa.
 Cerco di spiegarmi meglio ricorrendo a un fatto della cronaca 
                  odierna: al di là dei suoi meriti o demeriti scientifici, 
                  tema sul quale non sono in grado di dare unopinione sensata, 
                  osservo infatti che si assiste in tutta Italia a manifestazioni 
                  e dibattiti sul diritto a disporre gratis della cura contro 
                  il cancro creata dal Professore Luigi Di Bella. Contro il cancro, 
                  e cioè contro quella malattia regolarmente definita come 
                  la più diffusa e mortale dei nostri tempi. Verifico anche 
                  che, nellAfrica, nel 1997, la spesa sanitaria pro capite, annua, 
                  è stata uguale a 5 dollari, e cioè a 9000 lire 
                  circa. Concludo quindi, mi sembra scontato, che se nellItalia 
                  di oggi si può ragionevolmente pensare che pagare meno 
                  ticket sanitari, curarsi liberamente coi soldi pubblici, disporre 
                  gratuitamente dei farmaci e delle cure per il cancro o per lAIDS... 
                  costituisce un diritto a tutti gli effetti, nellAfrica - non 
                  solo - ciò non è neppure un miraggio.
 Facciamo ricorso ancora una volta al rapporto UNDP citato: 
                  guardando le tabelle notiamo che la Gran Bretagna si trova al 
                  15° posto nelle classifiche dello sviluppo umano e lEtiopia 
                  al 170° (i paesi analizzati sono 175). Le stesse tabelle ci 
                  dicono che nella Gran Bretagna, malgrado si osservi unaccentuata 
                  regressione, tutti gli abitanti hanno accesso al servizio sanitario 
                  e allacqua potabile, non esiste lanalfabetismo tra gli adulti, 
                  i bambini che muoiono prima di raggiungere un anno di età 
                  sono 5000 e tutti i ragazzi frequentano la scuola elementare. 
                  E che in Etiopia il 54% della popolazione non ha nessuna forma 
                  di accesso al servizio sanitario, il 75% non dispone di acqua 
                  potabile, il 64,5% degli adulti è analfabeta mentre il 
                  tasso di analfabetismo tra i ragazzi non viene nemmeno osservato, 
                  e che oltre 600.000 bambini muoiono senza avere raggiunto il 
                  primo anno di età. Quindi, pur se possiamo ragionevolmente 
                  supporre che anche in Etiopia qualcuno muore di cancro, risulta 
                  assai difficile immaginarsi le strade di Addis Abeba occupate 
                  da una folla di malati che esigono. E, pur se nemmeno in questo 
                  caso si osservano proteste di strada, risulta assai più 
                  ragionevole presupporre che gli etiopici siano molto più 
                  preoccupati della diarrea, principale causa di mortalità, 
                  nel loro paese e nel mondo.
 E poiché discorsi analoghi potrebbero essere imbastiti 
                  sul diritto allinfanzia e al gioco, alla sessualità 
                  e alla cultura, alla casa, alla lingua e ai trasporti, ecc., 
                  mi sembra gioco forza concludere, senza togliere nulla, qui 
                  ed ora, al fatto che il diritto a curarsi liberamente e con 
                  lassistenza finanziaria dello stato possa rappresentare o rappresenti 
                  un atto di civiltà. Il fatto è che sono proprio 
                  il qui e lora a definire i cosiddetti diritti umani. E quindi, 
                  la loro conclamata universalità rappresenta tuttal più 
                  unaspirazione.
 Tutto ciò non equivale a dire ciò che "Nord" 
                  o "Sud" rappresentino concetti univoci. Che sarebbe 
                  come dire che ognuno dei presenti è tale e quale un nipotino 
                  del "avvocato", oppure che esistono davvero "il 
                  sistema Italia", "il sistema Europa", "il 
                  sistema Nord" o "il sistema Sud", o che siamo 
                  tutti, senza differenze apprezzabili, sulla stessa barca.
  Rodrigo Andrea Rivas
 
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