L'etica 
                  in bilico (dalla padella della biologia alla brace della cultura) 
                   
                  1. 
                  Felice Accame è un abile provocatore e, sebbene da giovane 
                  mi sia stato insegnato che non si deve rispondere alle provocazioni, 
                  in questo caso ho deciso di accettare la sfida. La mia non è 
                  una replica o una confutazione degli argomenti 
                  di Accame (con cui sono sostanzialmente in sintonia): la 
                  mia è una nota a margine, un breve cenno a proposito 
                  di argomenti su cui vale la pena di ragionare un minuto e che 
                  in Diventare Umani – che è una sorta di 
                  tuttologia – non hanno trovato lo spazio che forse meritavano. 
                   
                  2. 
                  La selezione e la sopravvivenza delle specie dipendono, in buona 
                  sostanza, dal comportamento individuale e collettivo. Il comportamento 
                  altro non è che se non la risposta agli stimoli che provengono 
                  dall'ambiente, ambiente dal quale dipendiamo e dal quale ci 
                  si deve anche difendere. Il comportamento è guidato da 
                  riflessi spontanei e da risposte condizionate dall'esperienza. 
                  L'esperienza è composta da almeno tre componenti: uno 
                  stimolo; un comportamento in risposta allo stimolo; l'effetto 
                  conseguente al comportamento. È questa triade – 
                  che chiamiamo esperienza – che si radica nella memoria. 
                  Ripetute esperienze simili tra loro inducono comportamenti stereotipati: 
                  ciò avviene verosimilmente attraverso facilitazione di 
                  circuiti neurali indotta dalla reiterazione di triadi ripetitive. 
                  Fino a qui la cultura non entra in gioco. Fino a qui sono sufficienti 
                  dotazioni di base di tipo associativo messe a disposizione dei 
                  sistemi neurocognitivi di tutte le specie animali, nessuna esclusa. 
                  La cultura entra in gioco quando sono richiesti comportamenti 
                  complessi in risposta a stimoli complessi. 
                  Gli animali che vivono in branco (ad esempio lupi, scimmie, 
                  elefanti), ma anche quelli che convivono in uno spazio limitato 
                  (ad esempio, le galline che razzolano in un'aia), seguono regole 
                  precise, acquisite e memorizzate in virtù dell'apprendimento: 
                  l'esempio più classico è quello dell'esercizio 
                  delle relazioni gerarchiche. Gli individui di questi gruppi 
                  imparano a codificare comportamenti differenziati a seconda 
                  delle gerarchie. Senza volere “umanizzare” questi 
                  animali, possiamo semplificare dicendo che essi adottano schemi 
                  per i comportamenti che, in certe contingenze, possono essere 
                  adottati (buoni) e che, in altre contingenze, non possono essere 
                  adottati (cattivi). I gruppi che seguono queste tradizioni comportamentali 
                  (che sono l'anticamera della cultura) probabilmente sono premiati 
                  dai processi di selezione naturale e i loro sistemi cognitivi 
                  si sono conformemente evoluti. Un fatto analogo è accaduto 
                  anche per l'uomo i cui sistemi cognitivi, di norma, impediscono 
                  che si infrangano i tabù che sono stati individuati e 
                  trasmessi attraverso i meccanismi dell'apprendimento sociale. 
                  Per l'uomo la questione è però un po' più 
                  complicata che per le galline o i lupi. 
                   
                  3. 
                  Felice Accame afferma che è “destrorso” cercare 
                  di legittimare comportamenti autoritari e repressivi attraverso 
                  l'idea che “il male proviene dall'uomo”. Negli animali 
                  che vivono in branco, i comportamenti aggressivi nei confronti 
                  degli individui che violano le gerarchie sono la regola. Ma 
                  gli animali non conoscono le categorie del bene e del male e 
                  nemmeno quelle di destra o di sinistra. Quel che io trovo più 
                  che discutibile è legittimare comportamenti aggressivi 
                  e repressivi in virtù di presupposti filo-naturalistici 
                  in cui si assume che uomo e animali, avendo una natura simile 
                  e condividendo alcune facoltà cognitive, debbano anche 
                  condividere i modi di relazionarsi tra loro. Il fatto che uomini 
                  e animali condividano una filogenesi e una serie di facoltà 
                  cognitive non deve far dimenticare che l'uomo ha acquisito alcune 
                  facoltà, non presenti negli animali, che gli consentono 
                  di avvalersi di una cultura molto più articolata rispetto 
                  a quella degli animali e che questa cultura è un filtro 
                  necessario per la “scelta” dei comportamenti da 
                  adottare. Anch'io affermo che “il male proviene dall'uomo”: 
                  non per giustificare il male, ma perché è in virtù 
                  delle sue particolari facoltà cognitive che l'uomo è 
                  riuscito a concepire il male, ovvero ad attribuire un “valore” 
                  ai comportamenti, assegnandoli di volta in volte alle categorie 
                  contrapposte del “bene” o del “male”. 
                  Ecco qui introdotte le categorie del “bene” e del 
                  “male” e il tormentone della “libera scelta”. 
                   
                  4. 
                  I genitori e i nonni passano gran parte del loro tempo a insegnare 
                  a figli e nipoti, fin dai primi mesi di vita, che cosa si può 
                  fare, ma soprattutto che cosa non si può fare. “Non 
                  fare questo, non fare quello”; “questo non si fa”; 
                  “guai a te se lo rifai”; “non farlo mai più”. 
                  La categoria del male sembra del tutto prevalente su quella 
                  del bene. Solo quando si frequenta il catechismo, o durante 
                  insegnamento della religione nelle prime di classi della scuola 
                  elementare, si viene a sapere che esiste un bene contrapposto 
                  al male e che la conoscenza dell'uno e dell'altro non si addice 
                  a chiunque, o che il frutto di quella conoscenza (mela o fico 
                  che sia) è piuttosto indigesto. A partire dall'infanzia 
                  – con i “no” dei genitori e con il regime 
                  sanzionatorio delle religioni – impariamo, finalmente, 
                  che il bene e il male sono categorie rigide: di qua il bene, 
                  di là il male; un comportamento è buono, oppure 
                  è cattivo; una persona (bambino o adulto che sia) è 
                  buono oppure è cattivo. Sono categorie tagliate con l'accetta 
                  – tanto care a Platone come a Papa Ratzinger – quelle 
                  del bene e del male. Le neuroscienze, per nostra fortuna, non 
                  sono ancora riuscite a identificare circuiti specifici per i 
                  comportamenti buoni e per quelli cattivi. 
                   
                  5. 
                  Le neuroscienze però si occupano, eccome, del bene e 
                  del male. Ci sono molte prove, sia di tipo psico-comportamentale 
                  che di tipo neuro-fisiologico, che dimostrano che facoltà 
                  prettamente umane (come la capacità di mettersi nei panni 
                  dell'altro e l'empatia) sono prerequisiti necessari per poter 
                  categorizzare un fatto o un comportamento nella categoria del 
                  bene o del male. Naturalmente ci sono alcune aree del cervello 
                  (per esempio il sistema limbico e le amigdale) dalla cui attività 
                  dipende l'elaborazione di queste facoltà. Da qui, la 
                  facile deduzione riduzionistica che “i cattivi” 
                  sono tali perché la loro biologia o la loro genetica 
                  è stata avara nel fornire loro queste facoltà. 
                  Citando me stesso, ricordo che per Francisco Ayala “il 
                  senso morale è determinato dalla biologia nella misura 
                  in cui biologia e genetica determinano lo sviluppo cognitivo 
                  e intellettivo della specie umana. Il senso morale è 
                  quindi determinato da una struttura cognitiva ma, per esprimersi 
                  in modo concreto, il senso morale necessita di codici morali 
                  strettamente correlati all'esperienza e al contesto”. 
                  Parole non molto diverse sono quelle di Paolo Legrenzi 
                  il quale afferma che: “l'analisi delle precondizioni biologiche 
                  dell'empatia non esaurisce il problema della bontà e 
                  della cattiveria. La questione riguarda lo scenario e la relazione 
                  di collaborazione o di competizione che si ha con l'altro”. 
                  L'idea di Platone che “'uomo buono è colui che 
                  ha la conoscenza del bene” mi sembra altrettanto riduttiva 
                  di quella di una “cattiva” neuroscienza quando afferma 
                  che l'uomo cattivo è quello con un sistema limbico difettoso. 
                   
                  6. 
                  I sistemi cognitivi datici in dotazione dalla natura ci consentono 
                  di elaborare codici di comportamento che, quando vengono messi 
                  in relazione a scopi o a risultati di utilità per il 
                  gruppo (più raramente per l'individuo), assumono il connotato 
                  di codice morale. L'applicazione di questi codici (che possono 
                  essere rigidi) va però adattata ai vincoli culturali, 
                  all'esperienza, alle contingenze del contesto (che possono essere 
                  piuttosto variabili). Si può convenire sulla necessità 
                  che i codici etici siano entità rigide, ma si deve anche 
                  convenire che la giustizia e l'ingiustizia, il bene e il male 
                  vanno valutati nello specifico contesto, un contesto che esperienza 
                  e cultura possono dilatare di molto: io credo che nel giudizio 
                  etico (checché ne pensino Platone e Ratzinger) il relativismo 
                  è d'obbligo. Il relativismo è d'obbligo perché, 
                  altrimenti, nessuna “scelta” potrebbe essere “responsabile”. 
                  Ci sono molti studi di neurofisiologia e di neuroimmagine che 
                  dimostrano che l'individuo diviene cosciente di una scelta dopo 
                  che il suo cervello ha effettuato quella scelta. La sincronizzazione 
                  di vaste aree cerebrali da cui dipenderebbe la coscienza impiega 
                  più tempo a realizzarsi che non l'effettuazione della 
                  scelta stessa. Ciò sembrerebbe ridurre i margini della 
                  “libera” scelta. Non è necessario mettere 
                  in dubbio i risultati di questi studi scientifici. È 
                  sufficiente pensare che, almeno per ogni scelta ragionata, sia 
                  necessario un doppio comando per mettere in atto un comportamento. 
                  Se il cervello elabora una scelta e poi ce la notifica, a noi 
                  tocca poi la responsabilità di convalidare o di invalidare 
                  quella scelta. La libertà, in fondo, dipende ancora da 
                  noi. 
                 Piero Borzini 
                  Milano 
                 Note 
                  Il mio Diventare Umani è edito da Aracne, Roma 
                  2013. La citazione di Francisco Ayala sul senso morale 
                  è a pag. 387 ed è ripresa dal suo articolo The 
                  difference of being human: Morality, in PNAS 2010; 107: 
                  9015-9022. La citazione di Paolo Legrenzi è tratta 
                  dal suo articolo L'empatia: il bene e il male, in MicroMega 
                  2014; 1: 122-135.  
   
                  Black block, G8, violenza, ecc./ Danni irreparabili 
                Caro Andrea Staid, 
                  leggendo il tuo intervento uscito nel numero di maggio sugli 
                  articoli di Toni Senta apparsi negli scorsi numeri di A-Rivista, 
                  mi sono sentito coinvolto nelle tue critiche ai “commenti” 
                  redazionali e soprattutto nella critica al comunicato “genovese” 
                  che anche io sottoscrissi e di cui contenuti ritengo di non 
                  dovermi pentire. Sono sempre più convinto, infatti, che 
                  le imprese dei Black block a Genova, tanto di quelli che pensavano 
                  di star facendo qualcosa di simile a una rivoluzione, quanto, 
                  e soprattutto, di quelli che erano lì per dare sfogo 
                  alle proprie frustrazioni, se non, così non fosse, per 
                  obbedire agli ordini di questure e ministeri, abbiano prodotto, 
                  oltre ai danni materiali, danni irreparabili (e irreparabili, 
                  col tempo si sono purtroppo dimostrati) ai movimenti di opposizione 
                  sociale e alla loro attività. 
                  Per non parlare della sorte dei compagni che si trovano a scontare 
                  anni di galera motivati, secondo la logica della “giustizia”, 
                  dalla radicalità dello scontro. Compagni che reputo incolpevoli 
                  delle accuse mosse loro ma che stanno pagando per altri che 
                  già sapevano che non avrebbero pagato nulla. E anche 
                  il movimento no global, non ha certo tratto grandi benefici 
                  dalle imprese di chi ha inteso ridurre i suoi contenuti e la 
                  sua potenziale ricchezza nel più banale e scontato “scontro 
                  diretto” con le vetrine della controparte. 
                  In una delle pagine più belle della sua Breve estate 
                  dell'anarchia Hans Magnus Enzesberger, nel descrivere il 
                  carattere e la natura dei vecchi, meravigliosi, combattenti 
                  anarchici spagnoli esiliati in Francia, scrive: «La violenza 
                  è loro familiare, il piacere della violenza è 
                  invece profondamente sospetto». 
                  Guardavo, giorni fa, un servizio sui recenti scontri madrileni, 
                  nei quali, a margine di una imponente manifestazione, alcune 
                  decine (ma il numero non conta) di manifestanti hanno deciso, 
                  tanto per cambiare, di dare l'assalto a qualche bancomat e vetrina. 
                  Quello che mi ha impressionato non è stata tanto l'accanimento 
                  con il quale un giovane cercava di rompere un vetro infrangibile, 
                  quanto, piuttosto, il codazzo di fotografi e cineoperatori che 
                  “circondavano” il giovanotto in questione, attenti 
                  a non perdere nemmeno un fotogramma dell'impresa: una performance 
                  teatrale con la sceneggiatura di prammatica se non un vero e 
                  proprio “rito” che un bravo antropologo come te 
                  non faticherebbe a descrivere. 
                  Tutto questo per dire cosa? Per dire che non si possono accostare 
                  l'impresa del Matese, l'arditismo e la Resistenza con certe 
                  manifestazioni piazzaiole di questi ultimi tempi. Opporre alle 
                  violenze del potere, quando indispensabile, una necessaria contro 
                  violenza, è un conto, che può piacere o dispiacere, 
                  ma che comunque potrebbe essere inevitabile, mettere al centro 
                  della propria azione la violenza come primo strumento 
                  dell'attacco al potere, è un altro. Come anarchici dobbiamo 
                  sempre porci il problema di far sì che il nostro agire 
                  non solo sia coerente con i fini che ci proponiamo, ma che sia 
                  anche in grado di far crescere nel corpo sociale una coscienza 
                  collettiva disposta alla libertà. 
                  Quando però certi fatti diventano, come dicevo, puro 
                  spettacolo, abitudini scontate e stancamente ripetitive, riconducibili 
                  a una dialettica che non può appartenerci, mi sembra 
                  indispensabile che come portatori di un progetto sociale veramente 
                  “altro”, si diventi quanto mai criticamente circospetti. 
                  Critica e circospezione che possono essere offuscate dal sottile 
                  fascino che una bella immagine di “attacco al sistema” 
                  può trasmetterci, ma che non devono mai mancare in chi 
                  è convinto, come sono sicuro che siamo entrambi, che 
                  il nostro mondo nuovo potrà nascere solo da un moto spontaneo, 
                  collettivo e condiviso, di rifiuto del potere. E, a mio parere, 
                  anche di uno dei suoi assunti più solidi: quello secondo 
                  il quale la categoria della violenza sia imprescindibile nella 
                  dinamica dei rapporti sociali. 
                  Un fraterno saluto 
                 Massimo Ortalli 
                  Imola 
                 
                
                   
                    Prosegue 
                        il dibattito su 
                        movimenti e potere 
                      Pubblichiamo 
                        qui di seguito il quarto e il quinto intervento nel dibattito 
                        sulle tematiche toccate nei quattro articoli di Antonio 
                        Senta (“potere e movimenti”) pubblicati sulla 
                        nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A” 383) 
                        e il febbraio 2014 (“A” 386). In precedenza 
                        erano intervenuti Andrea Papi e Andrea Aureli (“A” 
                        388) e Francesca 
                        Palazzi Arduini (“A” 389). Ricordiamo 
                        che gli interventi in questo dibattito, come sempre aperto 
                        a tutti, non possono superare le 6.000 battute (spazi 
                        compresi). 
                        | 
                   
                 
                
                     Dibattito 
                  Movimenti e potere/4 
                  e 5 
                   
                  Andrea Staid/Posizioni antipatiche e poco efficaci 
                   
                 In questi mesi grazie a Toni Senta nelle pagine di “A” 
                  rivista abbiamo letto e capito meglio quelle che sono state 
                  le rivolte, le manifestazioni e i nuovi movimenti che in giro 
                  per il globo hanno chi più chi meno scosso le sfere alte 
                  della società del dominio. 
                  L'analisi lucida e accurata di Toni Senta non si è soffermata 
                  solo su un paese ma ha cercato di analizzare e trovare i punti 
                  di contatto tra le varie rivolte che si sono susseguite negli 
                  ultimi anni. Tutto il mondo si è sollevato, dall'Europa 
                  al Magreb passando per l'Asia e il centro America quello però 
                  che ci allarma è che sembra che le cose rimangano sempre 
                  uguali o peggio, difatti in certi casi dopo le rivolte sembra 
                  che la situazione peggiori. 
                  Ma dobbiamo stare attenti a dare una lettura superficiale di 
                  questi moti perché molto spesso non prestiamo attenzione 
                  a quelle che sono le mutazioni culturali in atto in seno a queste 
                  ribellioni, ovvero quelle mutazioni silenziose ma profonde che 
                  si portano dietro i moti di rivolta. 
                  Detto questo devo ammettere che non ho molto da dire su gli 
                  articoli di Toni Senta perché condivido la sua analisi, 
                  invece quello su cui vorrei soffermarmi sono le note che compaiono 
                  ogni tanto sulla “nostra” rivista. 
                  Le trovo alquanto antipatiche e poco efficaci, nel senso che 
                  penso (e invito a farlo) che la redazione di A si debba esprimere 
                  più profondamente su tematiche come queste in modo da 
                  approfondire le critiche, non può e non basta scrivere 
                  brevemente “noi” non concordiamo con l'autore dell'articolo, 
                  le nostre posizioni sono da sempre contro la violenza... cosa 
                  significa? Devo dedurre che la rivista quindi è contro 
                  i moti del Matese, contro l'arditismo popolare, contro le azioni 
                  partigiane, contro le rivolte degli anni 70, contro la resistenza 
                  in Val Susa? 
                  Non penso, in più in questo caso, nota per me collaboratore 
                  della rivista dolente è che in uno degli articoli di 
                  Toni dove è apparsa questa posizione antiviolenza la 
                  redazione ha tirato in ballo nelle poche righe scritte in fondo 
                  all'articolo delle giornate centrali come quelle del luglio 
                  2001 e le ha liquidate dicendo eravamo contro 10 anni fa e lo 
                  siamo ancora oggi. Ma contro a cosa? Il fatto grave di questa 
                  posizione per me non è non condividere certe pratiche 
                  ma parlare sbrigativamente di questioni importanti e soprattutto 
                  di usare termini sbagliati. Credo che etichettare certe pratiche 
                  con il nome violenza, ovvero usare lo stesso vocabolario di 
                  chi ci governa quando in realtà, soprattutto per le giornate 
                  del 2001, si tratta di danneggiamenti a feticci. 
                  Altra nota dolente e soprattutto fastidiosa è che la 
                  redazione tira in ballo Genova dopo lungo silenzio non per parlare 
                  degli anarchici incarcerati con condanne dagli otto ai 12 anni 
                  per degli scontri di piazza, ma per puntare il dito contro dei 
                  fantomatici atti violenti. Per questo mi auguro una chiarificazione 
                  seria e profonda in queste pagine sulla posizione della redazione. 
                  Sono convinto che non c'è solo un modo di sviluppare 
                  la lotta libertaria e non credo che l'anarchismo sia universale 
                  ma, credo e sono convinto che la violenza sia quella contro 
                  le persone, contro gli animali uccisi tutti i giorni nei nostri 
                  piatti, quella dello stato che incarcera e reprime le lotte 
                  sociali, quella del lavoro salariato e non dei danneggiamenti 
                  a proprietà; condivisibili o meno, controproducenti o 
                  meno, ma non certo riconducibili a atti violenti.
                  Andrea Staid 
                 
                   
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                    |   Carlo Boffa, 2013, “Sulle spine” –  
                  elaborazione digitale  | 
                   
                 
 
                    
                  Federico Battistutta/Mille piani in movimento 
                  Nel corso di una conversazione Gilles Deleuze si pose la domanda 
                  sul perché le persone si ribellano e fanno rivoluzioni, 
                  se poi queste rivolte alla fine falliscono. Tutte le rivoluzioni 
                  falliscono (anche quando apparentemente vincono, come in Russia 
                  o da altre parti) – diceva Deleuze – ma ciò 
                  non impedisce il divenire-rivoluzionario da parte delle persone, 
                  sempre e in ogni epoca. Anche oggi. 
                  Vi ricordate Fukuyama e le sue tesi sulla filosofia della storia? 
                  Oggi è finalmente possibile delineare una vera e propria 
                  fine della storia, e questa è collocabile in un ben preciso 
                  contesto sociale, politico ed economico, ossia il sistema capitalistico, 
                  liberale e democratico e, in particolare, nella versione di 
                  essa concretizzatasi negli Stati Uniti. Vi ricordate Huntington 
                  e la sua teoria sullo scontro delle civiltà? Viviamo 
                  nel migliore dei mondi possibili – il mondo occidentale, 
                  lo stesso decantato da Fukuyama – ma bisogna coalizzarsi 
                  e proteggersi dalle minacce esterne che mirano a de-occidentalizzare 
                  il mondo. Sono trascorsi una manciata di lustri e la storia 
                  ha provveduto a sollevare il velo di maya che avvolgeva questi 
                  discorsi, per rivelare ciò che in effetti erano: mere 
                  ideologie, rivestimento della concreta realtà materiale 
                  con idee e principi astratti, mascherando e fornendo così 
                  surrettizie giustificazioni. 
                  Nonostante ne abbiano provate di ogni per convincerci, sappiamo 
                  bene, sulla nostra pelle, che non viviamo nel migliore dei mondi 
                  possibili e, in questi ultimi anni, la rinnovata lotta dei ricchi 
                  contro i poveri ha reso evidente, anche ai più ingenui, 
                  in quale mondo abitiamo. Altro che fine della storia! Altro 
                  che “stringersi a coorte” contro la de-occidentalizzazione 
                  del mondo! A ogni latitudine è tutto un fiorire di movimenti, 
                  di mobilitazioni, di iniziative, di lotte, come mostrano le 
                  pagine di Antonio Senta. Non c'è stata solo l'acampada 
                  spagnola o Occupy Wall Street. Non ci sono state solo le primavere 
                  arabe o Gezy Park a Istanbul. È un pullulare, uno sciamare 
                  di uomini e donne, di giovani e meno giovani, per le strade, 
                  nelle piazze, nelle città come nelle campagne, dal nord 
                  a sud, da est a ovest. È un nascere, spegnersi e riaccendersi 
                  di iniziative. Dai Sem Terra brasiliani agli operai cinesi delle 
                  zone economiche speciali, dagli esodati in Italia agli zapatisti 
                  del Chiapas, dai migranti che sbarcano sulle coste del primo 
                  mondo agli studenti europei privati di futuro, dai lavoratori 
                  precari della produzione immateriale ai nativi dell'Amazzonia 
                  o del Kalahari espropriati dalle loro terre. 
                  Dire tutto ciò è dire tutta la ricchezza, ma anche 
                  la frammentazione che attraversa le proteste e le proposte di 
                  questi tempi. Da qui dobbiamo partire. Seppure in forme e modalità 
                  differenti, siamo tutti poveri o impoveriti da questa aggressione 
                  scatenata dai ricchi. Ricchi e poveri: categorie sociologiche 
                  obsolete, si dirà; forse, ma dicono meglio di tante analisi 
                  sofisticate (per intenderci: in Italia il 46% della ricchezza 
                  è in mano al 10% delle persone). Ha perciò ragione 
                  Antonio a parlare dell'esistenza non di un piano unico, ma di 
                  mille piani (mille plateaux!) dei movimenti odierni. 
                  È vero, la realtà sociale è moltitudine, 
                  è irriducibile pluralità. Ma questi mille piani 
                  chiedono a voce alta, per essere efficaci e incisivi, processi 
                  di comunicazione e di articolazione solidali che funzionino 
                  da acceleratori e moltiplicatori. I tratti libertari e orizzontali 
                  che manifestano buona parte dei movimenti in corso costituiscono 
                  una promessa e una scommessa da leggere e raccogliere, proseguendo 
                  il cammino in tale direzione. 
                  Queste, in breve, mi paiono, al momento, le questioni cruciali 
                  all'ordine del giorno. Mentre non mi sembra così centrale 
                  la preoccupazione, avvertita da qualcuno sulle pagine di “A”, 
                  circa l'esercizio di pratiche violente, accadute sporadicamente 
                  durante alcuni scioperi o manifestazioni, in Italia o fuori. 
                  Francamente non mi sembra che stiano emergendo derive lottarmatiste 
                  o minacce del genere nei movimenti in corso. Certo l'uso della 
                  forza e della violenza è un tema che le rivolte di ogni 
                  tempo hanno dovuto affrontare (o meglio: come reagire a una 
                  società costitutivamente violenta nelle sue procedure 
                  di marginalizzazione e di esclusione), quindi neppure noi dovremo 
                  eludere il problema, imparando anche dagli errori di un passato 
                  prossimo. Ma, come si suol dire, ogni cosa a suo tempo: cerchiamo 
                  di non essere più realisti del re, lasciamo certe litanie 
                  ai politici di palazzo o agli editorialisti del “Corriere” 
                  e di “Repubblica”, usciamo all'aperto e collochiamoci 
                  insieme – uomini e donne, giovani e vecchi – nel 
                  cuore della vita che, a gran voce, chiede un più di vita. 
                 Federico Battistutta 
				   
                  Bella ciao/ A proposito di un progetto 
                 A 
                  proposito dell'articolo 
                  di Alessio Lega su Bella Ciao (“A” 388). Alessio 
                  mi cita tra coloro le cui esperienze confluirono nello spettacolo; 
                  la mia ricerca è cominciata invece poco dopo e devo dire 
                  che fu esattamente il contrario, perché proprio Bella 
                  Ciao fu una tra le motivazioni che mi spinsero a fare ricerca 
                  e ad avvicinarmi alle allora Edizioni del Gallo e ai Dischi 
                  del Sole. 
                  Di Bella Ciao avevo letto sui giornali recensioni e anche la 
                  storia delle contestazioni di Spoleto per cui quando lo spettacolo 
                  arrivò a Milano, andai da solo al teatro Odeon per vederlo. 
                  Ne rimasi affascinato e coinvolto tanto che alcuni giorni dopo 
                  riuscii a convincere la sezione del PCI di Bergamo a organizzare 
                  un pullman per i compagni che volevano vedere Bella Ciao a Milano. 
                  Così lo rividi per una seconda volta. 
                  Questo per quanto riguarda la mia storia personale. Ma le considerazioni 
                  che si possono fare su Bella Ciao sono tante, dalla bravura 
                  degli interpreti alla spettacolarizzazione delle canzoni popolari 
                  su una semplice scena disadorna in cui le canzoni stesse venivano 
                  valorizzate da una regia essenziale nella sua linearità. 
                  Bella Ciao è anche un miracolo di realizzazione su dei 
                  materiali piuttosto esigui perché fino ad allora le ricerche 
                  sul campo in Italia erano state abbastanza scarse: i dischi 
                  con Teresa Viarengo che Franco Coggiola scoprì nel 1964 
                  e quello delle Sorelle Bettinelli arrivarono alcuni anni dopo, 
                  e allora solo Roberto Leydi aveva un grosso fondo di materiale 
                  di ricerca. Gianni Bosio e Cesare Bermani avevano da poco tempo 
                  avviate delle campagne di ricerca e per il Sud dell'Italia non 
                  c'era molto a disposizione, anche se Ernesto de Martino, Diego 
                  Carpitella e altri avevano registrato sul campo e indagato sul 
                  mondo popolare delle regioni più povere dell'Italia. 
                  Alessio Lega rileva giustamente che il disco e il CD uscito 
                  successivamente, sono frutto di una registrazione in studio. 
                  Purtroppo anche il CD è identico al LP degli anni '60 
                  e ne ha la stessa durata, ma l'Istituto Ernesto de Martino non 
                  possiede la registrazione dello spettacolo, dal vivo, che però 
                  esiste. È una vecchia storia per cui mi batto da anni: 
                  che venga pubblicato un CD con una versione più completa 
                  dello spettacolo, visto che oggi un supporto di questo tipo 
                  può contenere anche più di un'ora di registrazione 
                  Ho perorato la stessa causa in favore del disco tratto dallo 
                  spettacolo “Ci ragiono e canto” al quale ho davvero 
                  dato un modesto contributo con le mie ricerche. Roberto Leydi, 
                  purtroppo scomparso nel 2003, aveva i nastri con la sua registrazione 
                  dell'intero Bella Ciao e mi aveva detto che non avrebbe avuto 
                  problemi a prestarli per una loro eventuale pubblicazione su 
                  CD. Aveva detto la stessa cosa a Ivan Della Mea, ma anche lui 
                  ci ha lasciato quattro anni fa, per cui rimangono solo il mio 
                  ricordo e la mia parola per testimoniare questa sua promessa. 
                  Ora i nastri di Bella Ciao sono a Bellinzona nel Fondo Roberto 
                  Leydi del Centro di Dialettologia e di Etnografia, e non ho 
                  idea se ci sia una disponibilità a concederli per un'operazione 
                  di questo tipo. Per “Ci ragiono e canto” invece 
                  manca solo la volontà, o meglio la disponibilità 
                  anche finanziaria, per fare questo lavoro di ricupero. Alessio 
                  Lega conclude il suo articolo augurandosi un riallestimento 
                  di Bella Ciao in una nuova versione. Io ricordo che uno dei 
                  momenti in cui si arrivò quasi alla realizzazione di 
                  quest'idea fu il centenario della CGIL; ci furono riunioni e 
                  convocazioni di cantanti vecchi e nuovi, ma il progetto non 
                  andò in porto. Non so se sia ancora possibile che questo 
                  accada in futuro, come Alessio auspica. Credo che invece almeno 
                  l'idea della riproposizione discografica dell'intero spettacolo 
                  sia più realizzabile. Mi rendo conto che in un periodo 
                  di crisi come questo fare un CD nuovo comporti dei rischi non 
                  indifferenti, ma sono sicuro che anche chi sia già in 
                  possesso del vecchio LP o del CD di questo spettacolo, sarebbe 
                  ben lieto di acquistarne un'edizione nuova e completa. 
                 Riccardo Schwamenthal 
                  Bergamo 
				   
                
                   
                    “A” 
                        alla fine del mondo 
                      
                         
                            | 
                         
                         
                          |   Grazie al nostro lettore Davide Costantino che ci ha inviato  
                  questo scatto dalla Patagonia argentina  | 
                         
                       
                       | 
                   
                 
                 
   
                  Carrara/Quella “patrimoniale” imposta dai partigiani 
                Caro Paolo, 
                  in relazione al numero di aprile (“A” 388) relativo 
                  alla nostra 
                  presenza nella lotta di liberazione dal fascismo, ad essere 
                  precisi la Resistenza al fascismo iniziò quando Mussolini 
                  si installò al potere! Per quanto riguarda Carrara,  
                  la Formazione Lucetti fu a lui dedicata fino allo sganciamento 
                  dalla linea gotica avvenuto nel novembre 1943, causa la comunicazione 
                  degli alleati che avevano deciso di rimandare l'offensiva alla 
                  primavera successiva. 
                  Al rientro nel gennaio 1944, prese il nome della Schirrù. 
                  Il fatto rilevante da voi della rivista evidenziato, fu il prelievo 
                  forzoso ai cittadini benestanti, prelievo da Ugo iniziato e 
                  poi autorizzato dal CLN locale, del quale due anarchici facevano 
                  parte. Venne raccolta una somma di otto milioni di lire (grande 
                  somma per quel tempo), che fu utilizzata per provvedere ai bisogni 
                  dell'ospedale, del ricovero per anziani e per le necessità 
                  materiali di tutte le brigate in campo. 
                  Si trattò di una vera e propria “patrimoniale”, 
                  di cui oggi si parla tanto, ma restò l'unica, credo, 
                  nella storia di questa repubblica fondata sul mercato, sul profitto 
                  e sullo sfruttamento. 
                  A onor del vero, il governo del CLN nazionale, presieduto da 
                  Parri, restituì le somme versate dai sottoscrittori, 
                  ma nessuno a Carrara accettò il rimborso. 
                  Quelle somme furono quindi ripartite tra le organizzazioni partigiane, 
                  e con la sua parte, Ugo fondò la Cooperativa di consumo 
                  del Partigiano. Custodisco ancora l'elenco dei soci che aderirono 
                  alla iniziativa. Anche questo ad onor del vero di questa gente. 
                  Ti mando queste memorie trasmessemi da mio padre, perché 
                  i giovani sappiano e gli anziani ricordino. 
                  Un abbraccio dal sempre vostro
                  Alfredo Mazzucchelli 
                  Carrara 
   
                  Per un riavvicinamento tra anarchici e radicali 
                Nel mio contributo 
                  al dibattito sul noto libro di Nico Berti (Libertà 
                  senza rivoluzione) ho auspicato un riavvicinamento e l'instaurazione 
                  di un rapporto politico tra movimento anarchico e area radicale, 
                  per quanto l'uno e l'altro siano in profonda crisi, di identità 
                  e di consenso, anzi proprio per questo, dato che la comunicazione 
                  tra anarchici e radicali potrebbe portare, spero, a un rilancio 
                  di entrambe le aree. 
                  So bene che sono passati più di quarant'anni da quando 
                  radicali e anarchici procedevano a braccetto nelle marce antimilitariste, 
                  e che gli anarchici non hanno perdonato a Pannella l'appoggio 
                  dato a Berlusconi nel 1994 (in cambio di sette deputati) e il 
                  voltafaccia (forse solo apparente) sulla questione degli interventi 
                  militari nelle due guerre del Golfo, a tacere della politica 
                  “ultraliberista” dei radicali anni '90. 
                  La situazione è però mutata. Nell'attuale contesto, 
                  abbiamo un'area radicale ridotta al lumicino nelle competizioni 
                  elettorali (gli ultimi sondaggi la davano allo 0,6%), tanto 
                  da suggerire a molti la non presentazione alle elezioni, ma 
                  comunque impegnata in varie battaglie, che non possono lasciare 
                  indifferenti gli anarchici, trattandosi di battaglie francamente 
                  libertarie, condotte, oltre che dal leader, da associazioni 
                  satellite, come “Nessuno Tocchi Caino” o “Luca 
                  Coscioni”. 
                  Si pensi dunque alle battaglie anticarcerarie e per l'amnistia, 
                  all'abolizione della pena di morte in tutto il mondo e dell'ergastolo, 
                  alla legalizzazione (io preferirei dire liberalizzazione) di 
                  alcune o di tutte le droghe in nome dell'“antiproibizionsmo 
                  su tutto” (altro slogan radicale, che, preso alla lettera, 
                  significa stato di pura anarchia), alla libertà di ricerca 
                  scientifica e contro la vergognosa legge 40, in gran parte smantellata 
                  in forza delle azioni giudiziarie promosse in prima linea dall'associazione 
                  “Coscioni”, si pensi ancora alle questioni del “fine 
                  vita”, eutanasia, testamento biologico, etc. 
                  Le battaglie sono quindi buone, anzi ottime, ma errata è 
                  la teoria: i radicali infatti conducono da alcuni anni codeste 
                  e altre battaglie in nome del rispetto del cosiddetto “Stato 
                  di diritto”, ma a ben vedere nella pratica contraddicono 
                  questo assunto retorico (si noti che Pannella, nel 1973, nella 
                  bella prefazione al libro di Andrea Valcarenghi, oggi Majid, 
                  “Underground a Pugno Chiuso”, parlava esplicitamente 
                  di deperimento del potere). 
                  Quando Pannella chiede l'amnistia, o Rita Bernardini regala 
                  rami di canapa indiana, essi lo fanno invocando lo “Stato 
                  di diritto”. Ora a parte che anche il fascismo, per imporre 
                  la propria dittatura, seguì almeno all'inizio percorsi 
                  giuridici formalmente ineccepibili (i noti decreti del '25 e 
                  del '26), e che persino la guerra è soggetta a un “diritto 
                  bellico” (Balladore-Pallieri), ciò che più 
                  conta, per quanto qui interessa, è che nessuna norma, 
                  nemmeno a livello di dichiarazione dei diritti dell'ONU (che 
                  Pannella giustamente considera “diritto positivo storicamente 
                  acquisito”, e non positivizzazione di un presunto diritto 
                  “naturale”, come riteneva Bobbio), prevede l'inderogabilità 
                  dell'amnistia o l'erba libera. E lo stesso vale per le battaglie 
                  storiche, divorzio, aborto e obiezione di coscienza, che non 
                  avevano alcun appiglio giuridico superiore, ma erano manifestazione 
                  del volontarismo di chi si batteva. Gli atti di disobbedienza 
                  civile vengono effettuati in realtà solo apparentemente 
                  in nome dello Stato di diritto, dato che nessuna norma di rango 
                  superiore o supremo (se non molto indirettamente eventuali norme, 
                  interne ed internazionali, che tutelano, in modo indeterminato, 
                  il “diritto dell'uomo”) impone queste battaglie, 
                  se non innovando radicalmente il diritto, ma in nome di che? 
                  Io direi della libertà dell'individuo, che è 
                  concetto filosofico e/o morale. 
                  E qui entra in campo il movimento anarchico con tutto il suo 
                  carico teorico libertario che è incredibilmente vasto: 
                  è inutile fare nomi perché li conoscete meglio 
                  di me: i classici Godwin, Stirner, Proudhon, Bakunin, Kropotkin, 
                  Malatesta, Tolstoj, gli americani Thoreau, Tucker, Warren, Spooner 
                  e molti altri, tra cui Camillo Berneri che non disdegnava rapporti 
                  con l'area “radicale” di allora, il liberalismo 
                  rivoluzionario di Gobetti e il socialismo liberale di Rosselli. 
                  Ai quali aggiungerei Paul Goodman, apprezzato anche da un anarco-capitalista, 
                  diciamo così, per certi versi di “sinistra”, 
                  come David Friedman. 
                  E allora io immagino uno scambio tra anarchici e radicali, i 
                  primi ci mettono ed elaborano la dottrina della libertà, 
                  i secondi individuano le battaglie di second best da 
                  proporre agli anarchici (i quali a loro volta possono individuarne 
                  altre), almeno a quelli che accettano l'indicazione di Nico 
                  Berti di non trascurare la dimensione politica liberal-democratica, 
                  pur consapevoli, come diceva Isaiah Berlin, che il liberalismo 
                  non è altro che un anarchismo annacquato. E con la precisazione 
                  che, secondo me, teoricamente e storicamente, il radicalismo 
                  è la linea immaginaria che conduce dal liberalismo all'anarchismo 
                  all'infinito. 
                 Fabio Massimo Nicosia 
                  Milano 
   
                  Luigi Galleani anarchico 
                 Ho letto con interesse e attenzione l'articolo 
                  di Nicosia, sulla figura e il pensiero di Luigi Galleani 
                  sotto il titolo “Comunista libertario”. 
                  Cercherò di replicare esprimendo il mio modesto pensiero 
                  e punto di vista in proposito, nel modo più chiaro possibile, 
                  senza presunzioni di verità, invogliando così 
                  un prossima possibile apertura di dibattito e di scambio d'opinione 
                  fra compagni e non, su questa nostra importante figura dell'anarchismo 
                  purtroppo accantonata per troppi anni, oltre ad altre figure 
                  altresì poco dibattute come per il Ciancabilla, il Damiani 
                  ecc. anche se negli ultimi periodi si nota una riscoperta,speriamo 
                  continuativa, a tal tema. 
                  Veniamo all'articolo, Nicosia fa ruotare la quasi totalita' 
                  del suo scritto, sulla questione economica di organizzazione 
                  sociale a venire prospettata dal Galleani, ponendosi dei dubbi, 
                  obiezioni, e interrogativi, nonostante un po' di complicità 
                  di fondo. 
                  Nicosia ci descrive un Galleani rivoluzionario, ma allo stesso 
                  tempo riformista, dibattuto tra il comunista e il liberale, 
                  tra rivolta e gradualismo. 
                  Ora più o meno per ordine vedrò di esporre ciò 
                  che penso e che so. 
                  Galleani come molti sapranno, e fra questi anche Nicosia, vedeva 
                  ed auspicava dopo la rivoluzione del cambiamento radicale, la 
                  miglior via, nel comunismo libertario o anarco-comunismo, come 
                  riorganizzazione di vita sociale,ovvero la proprietà 
                  comune dei mezzi di produzione e di scambio, dove ogniuno contribuirà 
                  secondo le proprie forze e prenderà secondo i suoi bisogni. 
                  Pensiero questo comune a Malatesta, Kropotkin, Cafiero Reclus 
                  e cosi via... 
                  Dal collettivismo precedente i più passarono poi su posizioni 
                  comunistiche, perché si ritenne a buon ragione aggiungo, 
                  che un tale sistema sociale rispondesse meglio ai bisogni dei 
                  più deboli, comunisti antiautoritari beninteso, il solo 
                  comunismo accettabile perché libero, gran parte degli 
                  anarchici non solo in Italia, furono i primi a definirsi tali, 
                  Malatesta dopo la rivoluzione russa con i comunisti marxisti 
                  al potere, ironicamente disse, “per chiamarci noi ancora 
                  comunisti, bisogna avere del bel coraggio”. 
                  Continuando nicosia pone dei dubbi verso il comunismo del galleani 
                  dipingendolo come liberale e individualista. 
                  Ora, la funzionalità di una comunità libera dovrà 
                  pur essere sperimentata provata, dagli individui stessi che 
                  la compongono, e se ne daranno la forma più fattibile 
                  e desiderabile, tramite il libero comune accordo, in una nuova 
                  società dove l'imposizione autoritaria il monopolio e 
                  lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non sia che un triste lontano 
                  ricordo. 
                  Anche lo stesso Merlino così affermava: “Sulle 
                  rovine del monopolio fonderemo un sistema di economia razionale 
                  di comunanza dei beni nelle libere associazioni dei lavoratori”. 
                  Poi che la società sia autogestita, in modo comunistico, 
                  collettivistico, mutualistico, federalistico, in parte anche 
                  individualistico o un mix di questi chi lo puo affermare con 
                  certezza? 
                  Per le figure sopra citate il sistema più auspicato era 
                  il comunismo, per Proudhon era il mutualismo, per Bakunin il 
                  collettivismo per il Tucker l'individualismo e il libero scambio, 
                  Berneri era federalista e mi fermo. 
                  Ma tutti loro, anteponevano prima di questo l'azione diretta, 
                  la propaganda l'azione tutta rivolta verso il compito più 
                  arduo e necessario nel cambiamento rivoluzionario generale. 
                  Senza dimenticarne il dopo, su tal tema vediamo l'importante 
                  studio di Kropotkin, uno fra i tanti, che Nicosia giustamente 
                  afferma l'influenza sul Galleani, ma non solo. 
                  Più avanti il Nicosia si chiede se vi sia un legame logico 
                  tra la sua concezione rivoluzionaria e le sue idee sociali,concludendo 
                  il tutto negativamente, (a nostro avviso?) così è 
                  riportato. 
                  Così oltre all'attesa galleanista del mezzo secolo, perché 
                  il comunismo libertario (la presa nel mucchio) fosse di attualità, 
                  nonostante tutto, però notiamo la preveggenza sua, addirittura 
                  anticipando i tempi,per quel che poi si verificò, nelle 
                  comuni machnoviste in Ukraina, 1918-19 e nella Rivoluzione Spagnola 
                  del 36, dove l'anarco-comunismo divenne realtà, seppur 
                  per breve tempo, per le cause che ben sappiamo. 
                  Galleani non era affatto un attendista, anzi l'opposto contrario, 
                  la sua vita lo dimostra... 
                  Le condizioni lavorative di allora erano talmente dure e pesanti, 
                  ed era anche comprensibile un certo benevolo squardo verso il 
                  supporto scientifico e tecnologico, che nel tempo avrebbe potuto 
                  alleviare le fatiche di molti, e in parte questo si è 
                  verificato, anche se in modo spesso discutibile. 
                  Perché penso che solo quando la scienza sarà veramente 
                  libera ed autonoma dai poteri forti, solo allora si otterranno 
                  i maggiori benefici per il benessere comune, non solo per quanto 
                  riguarda la produttività. 
                  Personalmente, sarei più propenso a scommettere per un 
                  massiccio ritorno alla terra, più che per l'industria 
                  visto le prospettive attuali, per far sì che la presa 
                  nel mucchio sia più efficace anche coll'apporto scientifico 
                  perché no. 
                  Tutte queste aggettivazioni su galleani mi paiono forzate e 
                  con deboli fondamenta, ma per non essere cattivo, salvo seppur 
                  in modo poco sufficente, la gradualità: mi spiego; nel 
                  corso di libera sperimentazione sociale per il Malatesta c'era 
                  la possibilità di gradualità dei tempi e modi 
                  che gli individui si daranno per raggiungere determinati obiettivi 
                  liberamente voluti, e qui penso che anche il Galleani non fosse 
                  contrario, in un costante movimento verso condizioni di vita 
                  sempre più migliori. 
                  Comunque, sempre orientati verso modelli di associazione rispettosi 
                  della libertà dell'individuo, che troverà nella 
                  libertà altrui la massima elevazione in comunità 
                  dove nessuno impone e nessuno obbedisce, questa libertà 
                  di tutti è l'individualismo anarchico, anche del Galleani, 
                  in totale disaccordo però coll'individualismo nel campo 
                  economico. 
                  È indubbio, che ci sarà anche bisogno per la migliore 
                  riuscita dell'apporto di convizioni personali e di una certa 
                  cultura, che l'esperienza di vita dovrebbe apportare anche con 
                  i nuovi sistemi di insegnamento (scuole Libertarie-Razionaliste). 
                  Galleani sosteneva chiaramente, “che l'anarchismo non 
                  vuol essere l'estrema tule della perfezione ma una tappa soltanto, 
                  più progredita e più umana su per l'erta dell'eterno 
                  divenire, l'anarchismo così vigoroso fervido e operante 
                  isopprimibile sarà”. Da qui l'auspicio che si ritorni 
                  o si inizi lo studio e la lettura dei suoi scritti, perché 
                  solo in essi si può capirne l'uomo e il suo pensiero, 
                  contenente ancor oggi freschezza e magari lo stimolo per qualche 
                  buon editore. 
                  Nonostante il materiale sia non di facile reperibilità 
                  (purtroppo), non è però impossibile... Per cui 
                  buona ricerca... 
                  Galleani è stato un lottatore coerente e infaticabile 
                  durante tutta la sua vita completamente dedicata all'ideale 
                  dell'emancipazine sociale, poco propenso a delineare società 
                  a venire ma lottando nel presente, gli venne dato dell'antiorganizzatore, 
                  che tuttora persiste, lui che era tutto propenso verso l'associazione 
                  libera degli individui e la loro organizzazione, ma decisamente 
                  contrario a quella di stampo politico,semi-partitico,con statuti 
                  e regole programmatiche, dove spesso la libera iniziativa rischia 
                  di spegnersi, e di conseguenza la volontà inividuale 
                  (altro tema importante). 
                  Portò sempre la sua vicinanza e la propria voce, agli 
                  sfruttati, nelle agitazioni operaie prima in Italia, poi negli 
                  Stati Uniti d'America, polemista formidabile sia nei contraddittori 
                  a voce che su carta, ci ha lasciato migliaia di scritti, sulla 
                  questione operaia e il sindacalismo, la polemica antiparlamentare 
                  coi socialisti legalitari (medagliettati), sull'antimilitarismo, 
                  sull'anticapitalismo, dopo l'espulsione americana ritornato 
                  in Italia, rifinì al confino per la sua opposizione al 
                  fascismo. 
                  Non nascose la sua vicinanza solidale a diversi compagni che 
                  praticavano, l'azione diretta, e la propaganda col fatto, egli 
                  vedeva questo fenomeno come un evento naturale che paragonava 
                  al fulmine od a meteore,ed anche qui ci ha lasciato innumerevoli 
                  racconti su compagni e resoconti processuali, come le memorie 
                  di Clement Duval e Faccia a faccia col nemico. 
                  Termino con una citazione di Ugo Fedeli: “la vita di Galleani 
                  rimane uno specchio nel quale molti giovani e non più 
                  dovrebbero specchiarsi, le sue idee un pungolo per meglio approfondire 
                  lo studio dei problemi sociali per ricercare le forme e i mezzi 
                  migliori e più atti a formare gli uomini che dovrebbero 
                  vivere nella vita da lui pensata e propagandata, libera e feconda 
                  di lavoro”. 
                 Vittorio Lorengo 
                  Brescia 
                 P.S. Riporto qui gli ultimi, libri in ordine di tempo, ancora 
                  accessibili d'acquisto. 
                   
                  Faccia a faccia col nemico, Galzerano Editore 
                  Memorie autobiografiche di Clement Duval, Ediz. Kaos 
                  Luigi Galleani, Alcuni articoli da cronaca sovversiva, 
                  Archivio Fam. Berneri-Chessa 
                  Ugo Fedeli - Luigi Galleani Quarant'anni di lotte rivoluzionarie, 
                  Edizioni Centolibri 
                  In ordine sparso, Edizioni Gratis. 
   
                  NoMuos/Un viaggio indimenticabile 
                 A maggio di due anni fa sono entrata a far parte del comitato 
                  di base NoMuos di Ragusa, ed è iniziato quello che io 
                  voglio paragonare a un viaggio. 
                  Non di quelli delle agenzie con un programma pianificato e privo 
                  di stress o brutte sorprese ma più simile a quello di 
                  un gruppo di naufraghi che si trovano di fronte a una situazione 
                  nuova dove imparano a conoscersi, a fidarsi e a poter contare 
                  l'uno sull'altro. 
                  Un viaggio dove al posto delle insidie della natura si ritrovano 
                  ad affrontare lo sfacelo delle istituzioni, la finta democrazia, 
                  la falsità dei politici, la freddezza e la brutalità 
                  delle forze dell'ordine e l'atteggiamento di passività 
                  o di derisione della gente che si trovano davanti. In questo 
                  percorso provano momenti di entusiasmo, euforia, allegria alternati 
                  a momenti di amarezza, senso di sconfitta, paura e delusione. 
                  Nonostante ciò il gruppo continua ad andare avanti sul 
                  sentiero che reputa sia quello giusto, con orgoglio e determinazione 
                  va verso la meta convinto che ciò potrà cambiare 
                  il presente, migliorare il futuro e riscattare le brutture del 
                  passato. 
                  Questa è la sintesi di ciò che per me è 
                  l'esperienza da attivista NoMuos, difficile ma appassionante, 
                  di arricchimento storico-culturale, politico, sociale ma anche 
                  di crescita interiore. 
                  Comunque andrà a finire e ovunque ci ritroveremo nell'ultima 
                  tappa resterà la convinzione che si sia trattato di un 
                  viaggio fondamentale e indimenticabile. 
                 Clara Cutraro 
                  Ragusa 
				  
                   
                  Ragusa/Disegni e parole 
                
                   
                    Venerdì 
                        11 aprile scorso, a Ragusa, presso la Bottega dei Popoli, 
                        si è ricordato il secondo compleanno del Comitato 
                        di base NoMuos del capoluogo siciliano. Tra le numerose 
                        testimonianze che hanno arricchito l'incontro, pubblichiamo 
                        qui accanto quella di Clara Cutraro. E la accompagnamo, 
                        in queste due pagine con alcuni disegni presi dal quaderno 
                        di appunti di un'altra giovane partecipante al movimento, 
                        Francesca Dimanuele. 
                        
                        
                        
                       | 
                   
                 
				 
                   
                  Bella Ciao, gli anarchici e la Resistenza 
                Buongiorno, riporto con copia-incolla parte di un articolo 
                  del “Fatto Quotidiano”: 
                   
                  Prima il divieto di cantare Bella Ciao durante la cerimonia 
                  commemorativa per il 25 aprile “per motivi di ordine pubblico”, 
                  poi la retromarcia. E' stata la giornata difficile del prefetto 
                  di Pordenone Pierfrancesco Galante che dopo ore di polemiche 
                  ha diffuso un'ultima nota che precisa che “a chiarimento 
                  delle argomentazioni emerse in sede di comitato provinciale 
                  per l'ordine e la sicurezza pubblica si precisa che non vi sono 
                  motivi ostativi all'esecuzione della canzone Bella ciao”. 
                  In realtà inizialmente proprio il Cosp aveva preso la 
                  decisione per motivi di ordine pubblico legati alla possibile 
                  presenza in piazza di gruppi anarchici che, dal 2006 in poi, 
                  avevano dato vita ad azioni di disturbo delle manifestazioni 
                  ufficiali, prendendo di mira in particolare esponenti dell'amministrazione 
                  provinciale. La famosa canzone della Resistenza sarà, 
                  quindi, eseguita dalla Banda unicamente durante il corteo cittadino. 
                   
                  Vengo al dunque; a parte la cazzata di proibire una canzone 
                  (per ordine pubblico) durante una manifestazione, la cosa che 
                  mi ha maggiormente colpito è stata la giustificazione, 
                  cioè il fatto che a dare vita ad azioni di disturbo siano 
                  dei gruppi anarchici. 
                  A parte la canzone, non ho mai saputo che gli anarchici fossero 
                  contrari alla resistenza. Potete darmi delucidazioni in merito? 
                 Angelo Manzoni 
                 Gli anarchici non sono e non possono essere contro la Resistenza, 
                  visto che vi hanno partecipato fin dall'inizio. Come abbiamo 
                  contribuito a ricordare sul penultimo numero di “A” 
                  (388 - aprile 2014) pubblicando un lungo dossier 
                  proprio su “gli anarchici contro il fascismo”.  
				   
                    
                
                   
                    Dormono 
                      Dormono 
                        tra una veglia e l'altra. 
                         
                        Dormono poco 
                        perché vegliare è necessario al vivere 
                        ed incerto è il passo 
                        di quelli che s'aspettano la resa. 
                         
                        Dormono 
                        ma il corpo percepisce 
                        la vibrazione sorda 
                        della paura e della tracotanza. 
                         
                        Dormono 
                        sognando braccia tenere   
                        e non spari e comandi 
                        ed un sorriso modifica la bocca 
                        quasi fossero ancora 
                        bambini da svezzare. 
                         
                        Dormono 
                        sulla terra prima che sia sottratta 
                        e li unisce il respiro della vita 
                        fin che vita sarà... 
                         
                        Non li ho invitati – non li conoscevo – 
                        ma sono qua seduti alla mia tavola. 
                         
                        A volte scoppia un riso 
                        che pare una granata 
                        ed è senso fraterno in vita e in morte. 
                         
                        Vengono dal novecento, 
                        dalle scalze utopie, 
                        dalle scelte pagate fino in fondo. 
                         
                        Bevono grappa e fumano 
                        tabacco amaro e scuro – ombre soltanto 
                        a ricordare ai vivi 
                        il senso dell'umana appartenenza. 
                       
                        Gianni Milano 
                        Torino  | 
                   
                 
                
                       
                
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Massimiliano Paccagnella 
                            (Torino) 100,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri 
                            Ponente) 13,40; Albino Trucano (Borgiallo – 
                            To) 10,00; Davide Schifano (Caltanissetta) 50,00; 
                            Domenico Bevacqua (Leinì – To) 50,00; 
                            Davide Foschi (Gambettola – Fc) 10,00; Gelateria 
                            Popolare (Torino) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Umberto Marzocchi e Alfonso Failla, 500,00; Giancarlo 
                            Nocini (San Giovanni Valdarno – Ar) 10,00; Roberto 
                            Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Paolo Guaitani 
                            (San Giuliano Milanese – Mi) 10,00; Edo Bodio 
                            (Condino – Tn) 10,00.; Daniele Romagnoli (Sant'Olcese 
                            – Ge) 4,00; Natale Musarra (Piano Tavola – 
                            Ct) 40,00; Amalia Cinzia Cislaghi (Robecco sul Naviglio 
                            – Mi) 40,00; Andrea Zen, 20,00; Daniele Romagnoli 
                            (Genova) 6,00; Davide Turcato (Vancouver – Canada) 
                            100,00; Diego Giachetti (Torino) 40,00; Società 
                            dei Libertari (Ragusa) 220,00; Francesco Pavia (Torino) 
                            10,00; Diego Razzitti (Angolo Terme – Bs) 15,00; 
                            Unicobas (Roma) 50,00; Gianfranco Manfredi (Gordona 
                            – So) 100,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00; 
                            Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia – Bt) 10,00; 
                            Laura Villa (sc Helmond – Olanda) 20,00; Salvatore 
                            Circolo (Marino – Ro) 10,00. Totale € 
                            1.498,40. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Margherita 
                            e Giulio Canziani (Castano Primo – Va); Alberto 
                            Carassale (La Spezia); Beppe Chierici (Todi – 
                            Pg); Enzo Boeri (Vignate – Mi) 200,00 Donata 
                            Martegani (Milano); Enrico Maltini (Milano); Franco 
                            Vite (Monticello Amiata – Gr); Enrico Camenzind 
                            (Pontassieve – Fi); Daniele Andreoli (Pisa); 
                            Fabio Zanavella (Verona); Sergio Santoni (Monte San 
                            Vito – An); Maurizio Frongia (Busachi – 
                            Or); Enrico Calandri (Roma); Lorenzo Brivio (Besana 
                            Brianza – Mb); Gruppo CAOS - Centro A Ordine 
                            Sparso (Genova). Totale € 1.600,00. 
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