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                   antifascismo 
                  anarchico 
                 Dagli 
                  articoli pubblicati nelle pagine 5-12 di questo numero della 
                  rivista si può avere una idea di come gli anarchici abbiano 
                  inteso e condotto la lotta contro il fascismo, dal suo nascere 
                  alla sua caduta. Dalle vicende dei giovani anarchici Marini 
                  di Salerno (cf., sempre su questo numero, gli articoli di pag.3 
                  e 4) e Gaviglio di Vercelli, si può vedere che la combattività 
                  degli anarchici nei confronti delle carogne squadriste non è 
                  solo ricordo d'altri tempi. Il primo ha mandato un teppista 
                  di Almirante al cimitero, il secondo ne ha mandato un altro 
                  all'ospedale. 
                  Quello che è necessariamente mutato rispetto a cinquant'anni 
                  fa è l'importanza attribuita al fascismo e dunque alla 
                  lotta contro di esso. Allora, giustamente, gli anarchici si 
                  opposero al fascismo con tutte le loro forze e con tutto il 
                  loro coraggio, perché vedevano in esso il principale 
                  nemico tattico, perché avevano compreso la sua funzione 
                  controrivoluzionaria. L'avevano addirittura prevista, questa 
                  funzione. Malatesta, nel '20, esortando gli operai a non disarmare 
                  e a non lasciare le fabbriche occupate li ammoniva che avrebbero 
                  pagato molto cara la paura fatta alla borghesia. Il fascismo 
                  infatti negli anni '20 espresse in modo ferocemente efficiente 
                  la risposta impaurita dei padroni alla rivoluzione mancata del 
                  primo dopoguerra (mancata per il tradimento vergognoso di socialisti 
                  e della C.G.L.). La paura era stata grande e grande doveva essere 
                  il giro di vite restauratore dell'“ordine”: il fascismo 
                  appunto. 
                  Oggi la cosiddetta “svolta reazionaria” risponde 
                  ad una piccola paura dei padroni, all'exploit extraparlamentare 
                  degli studenti ed al risveglio extra-sindacale di alcuni settori 
                  operai ed infatti sono bastati un Andreotti ed un centro destra. 
                  Né è prevedibile un ulteriore spostamento a destra 
                  dell'asse politico; anzi, appena l'economia nazionale accennerà 
                  ad uscire decisamente dalla crisi, probabilmente si avrà 
                  di nuovo uno spostamento “a sinistra”. Il neofascismo 
                  non è e non può essere una prospettiva politica 
                  perseguita altro che da gruppi economici minori e circoscritti 
                  geograficamente. I padroni che contano (nell'industria privata 
                  ed in quella pubblica e mista) vedono i loro interessi validamente 
                  rappresentati dai cosiddetti partiti dell'arco costituzionale. 
                  Oggi dunque il fascismo in Italia non costituisce un reale pericolo, 
                  ma solo un fastidio. I mazzieri del M.S.I. ed i dinamitardi 
                  della destra ultrà svolgono un ruolo para-poliziesco 
                  ausiliario ed occasionale in funzione di provocazione e di terrorismo 
                  spicciolo. Essi sono strumenti non tanto di un rinascente fascismo 
                  quanto della pseudo democrazia dominante. Il M.S.I. - Destra 
                  Nazionale è dunque un falso obiettivo, attaccando il 
                  quale si disperdono forze preziose e si fa il gioco del sistema 
                  che per l'appunto ha interesse a deviare su falsi obiettivi 
                  le tensioni sociali e la combattività delle minoranze 
                  ribelli, che ha interesse a reinventare un “estremismo 
                  di destra” per contrapporlo all'“estremismo di sinistra” 
                  annullandoli algebricamente. 
                  Solo l'affannosa ricerca di temi pubblicitari demagogici può 
                  spiegare il “boom” della tematica anti-missina nella 
                  sinistra extraparlamentare che scimmiotta l'antifascismo parlamentare 
                  di maniera. Gli anarchici non cercano fasulle adesioni “di 
                  massa” sollecitate agitando fantasmi di sicura presa sentimentale 
                  (giustamente e fortunatamente i proletari italiani non hanno 
                  dimenticato l'odio per il fascismo). 
                  Nel trentennale della Resistenza gli anarchici si rifiutano 
                  di unirsi al coro delle trombe antifasciste che con il loro 
                  clamore retorico “democraticista” coprono le dissonanze 
                  dello sfruttamento e dell'oppressione reale di oggi. 
                  Allo stesso modo, per quanto riguarda i miserabili picchiatori 
                  e provocatori neofascisti, gli anarchici non hanno tempo ed 
                  energie da perdere per dare la caccia ai topi di fogna, purché 
                  però non li molestino direttamente. Altrimenti, Salerno 
                  e Vercelli insegnano.
                   
                   
                
                   
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                    |   Tornati chi dall'esilio, chi dal confine e dalla galera,  
                  gli anarchici parteciparono attivamente alla resistenza  partigiana 
                  armata contro i nazi-fascisti. Solo in alcune  località 
                  (Carrara, Milano, ecc.) furono costruite formazioni  dichiaratamente 
                  anarchiche, che oltre alla lotta armata  svolsero opera di propaganda 
                  rivoluzionaria  | 
                   
                 
                 
                  gli anarchici contro il fascismo 
                 
                  Nelle pagine che seguono sono ricordati alcuni episodi della 
                  resistenza opposta dagli anarchici al fascismo, con particolare 
                  riguardo alla lotta contro lo squadrismo delle camicie nere 
                  all'inizio degli anni '20 ed alla resistenza armata contro i 
                  nazifascisti (1943-45). Alcuni episodi, dicevamo: non pretendiamo 
                  infatti in queste poche pagine di fare la storia della resistenza 
                  anarchica al fascismo né di segnalarne tutte le fasi 
                  salienti. Tanto più che noi stessi della redazione ci 
                  troviamo costretti, per ragioni di spazio o per eccessiva frammentarietà, 
                  a non pubblicare tutte le testimonianze e le informazioni che 
                  ci sono giunte da compagni di molte regioni italiane. 
                  Vogliamo sottolineare inoltre che è difficile inquadrare 
                  questi episodi in uno schema storico preciso, per il semplice 
                  motivo che tale storia non è mai stata scritta. Siamo 
                  certi comunque che scavando accuratamente nel passato, ricercando 
                  documenti e pubblicazioni dell'epoca raccogliendo altre preziose 
                  testimonianze di chi allora visse e combatté contro il 
                  fascismo, sarebbe possibile riportare alla luce altri episodi 
                  di lotta, altre figure di compagni. Il nostro scopo è 
                  semplicemente quello di contribuire a rompere quel “muro 
                  del silenzio” che circonda la partecipazione degli anarchici 
                  a quella lotta antifascista che la falsa retorica della Repubblica 
                  Conciliare vorrebbe attribuire solo alle forze rappresentate 
                  in Parlamento. 
                   
                  Nel '20 gli anarchici in Italia erano una forza rivoluzionaria 
                  con cui si dovevano fare i conti, una forza con cui dovevano 
                  fare i conti padroni, governo e fascisti. Essi avevano un quotidiano, 
                  Umanità Nova, che tirava cinquantamila copie e 
                  numerosi periodici. L'U.S.I., il sindacato rivoluzionario influenzato 
                  dagli anarchici (segretario ne era l'anarchico Armando Borghi), 
                  contava centinaia di migliaia di iscritti. 
                  Dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, gli anarchici 
                  riconoscendo nel fascismo la “contro-rivoluzione preventiva” 
                  (come la definì bene Luigi Fabbri) con cui i padroni 
                  avrebbero cercato di impedire il ripetersi di una situazione 
                  pre-rivoluzionaria, gettarono tutte le loro energie nella mischia 
                  contro il giovane ma già robusto figlio bastardo del 
                  capitalismo. La volontà ed il coraggio degli anarchici 
                  non potevano però bastare di fronte allo squadrismo, 
                  potentemente dotato di mezzi e di armi e spalleggiato dagli 
                  organi repressivi dello stato. Tanto più che anarchici 
                  ed anarcosindacalisti erano presenti in modo determinante solo 
                  in alcune località ed in alcuni settori produttivi. Soltanto 
                  una analoga scelta di scontro frontale da parte del Partito 
                  Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro avrebbe 
                  potuto fermare il fascismo. 
                   
                  il 
                  disfattismo riformista 
                   
                  Purtroppo la politica disfattista, capitolarda del Partito e 
                  del sindacato riformisti, che già aveva ostacolato lo 
                  sviluppo rivoluzionario e dunque contribuito al fallimento dell'occupazione 
                  delle fabbriche, seminò confusione ed incertezza nel 
                  movimento operaio in un momento che già era per molti 
                  aspetti di riflusso delle lotte. E questo proprio di fronte 
                  al moltiplicarsi ed aggravarsi delle violenze fasciste, soprattutto 
                  dopo il '21. 
                  Ovunque in Italia le squadracce di Mussolini assaltavano le 
                  sedi politiche, le redazioni, i militanti più attivi, 
                  tutto quanto “puzzasse” di “sovversivo”. 
                  Lo stato liberale fu diretto complice sia delle attività 
                  criminali sia dell'intera strategia politica del fascismo nella 
                  comune lotta contro la combattività dei lavoratori. 
                  Pur essendo essi stessi vittime delle violenze squadriste, i 
                  socialisti si limitarono a denunciare le “illegalità” 
                  fasciste, senza dedicare tutte le loro energie alla lotta popolare 
                  rivoluzionaria contro il terrorismo padronale. Non solo, ma 
                  il PSI giunse al punto di stipulare con i fascisti un Patto 
                  di Pacificazione (agosto 1921) che contribuì a disarmare 
                  il movimento operaio sia psicologicamente sia materialmente, 
                  nel momento stesso in cui si intensificavano le violenze squadriste 
                  (che continuarono a crescere... in barba al patto!). 
                  Quello che ci interessa sottolineare è che, mentre i 
                  vertici politici sindacali invitavano alla “calma” 
                  e alla non violenza, furono gli stessi lavoratori, organizzatisi 
                  autonomamente, a dare alcune storiche lezioni ai fascisti. Le 
                  insurrezioni di Sarzana (luglio '21) e di Parma (agosto '22) 
                  sono due esempi della validità della linea politica sostenuta 
                  dagli anarchici, allora, sulla stampa e nelle lotte: contro 
                  il disfattismo delle burocrazie riformiste, gli anarchici sostenevano 
                  infatti l'urgente necessità di battere con la lotta il 
                  movimento fascista, stimolando la combattività dei lavoratori. 
                  Coerentemente con questo programma gli anarchici si batterono 
                  sino in fondo senza quei tentennamenti e quella ricerca di compromessi 
                  che caratterizzarono l'attività dei socialisti. Significativa 
                  al riguardo la differente posizione assunta da socialisti e 
                  comunisti da una parte ed anarchici dall'altra, di fronte al 
                  movimento degli Arditi del Popolo. 
                
                   
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                    |   1933 – un foglio del Bollettino delle ricerche  dei 
                  sovversivi: i primi due in alto sono  gli anarchici Bonora e 
                  Baldi. Quasi  presagendo il fenomeno fascista,  gli anarchici 
                  avevano invitato gli operai  a non mollare durante l'occupazione  
                  delle fabbriche (settembre 1920),  poiché la grande paura 
                  fatta passare  alle classi dominanti sarebbe stata  da loro duramente 
                  pagata.  La «controrivoluzione preventiva»  del fascismo 
                  confermò presto le previsioni  degli anarchici, sbaragliando 
                  in breve  tempo l'intero movimento operaio italiano  | 
                   
                 
                 gli 
                  arditi del popolo 
                   
                  Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi 
                  eterogenei, si sviluppò rapidamente assumendo caratteristiche 
                  marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato 
                  da un marcato decentramento autonomo delle organizzazioni locali. 
                  Gli Arditi del Popolo assunsero quindi colorazioni politiche 
                  talvolta differenti da un posto all'altro, ma sempre li accomunò 
                  la coscienza della necessità di organizzare il popolo 
                  per resistere violentemente alla violenza delle camicie nere. 
                  Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni degli 
                  Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o collettivamente; 
                  per restare ai due episodi già accennati basti pensare 
                  che in maggioranza anarchici furono i difensori di Sarzana e 
                  che a Parma, fra le famose barricate erette per resistere agli 
                  assalti delle squadracce di Balbo e Farinacci, ve n'era una 
                  tenuta dagli anarchici. 
                  Completamente diverso fu l'atteggiamento sia dei socialisti 
                  sia dei comunisti (questi ultimi costituitisi in partito nel 
                  gennaio 1921). Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti 
                  loro militanti agli Arditi del Popolo, entrambe le burocrazie 
                  partitiche presero le distanze e cercarono di sabotare lo sviluppo 
                  di quel movimento. Gli organi centrali del neonato P.C. d' I. 
                  giunsero al punto di imporre ai propri iscritti di evitare qualsiasi 
                  contatto con gli Arditi, contro i quali fu imbastita anche una 
                  campagna di stampa a base di falsità e di calunnie. Intervistato 
                  pochi mesi fa alla televisione il comunista Umberto Teraccini 
                  ha cercato ancora di giustificare quella scelta politica. E 
                  ancora oggi noi, come già cinquant'anni fa i nostri compagni, 
                  vediamo proprio in quella scelta un esempio tipico della volontà 
                  comunista di subordinare la lotta antifascista alla coincidenza 
                  con le proprie mire di egemonia sul movimento operaio. È 
                  evidente che questa dura critica alla politica dei vertici dei 
                  partiti di sinistra di fronte alle violenze fasciste non coinvolge 
                  i militanti di base, che - anche se su posizioni da noi molto 
                  differenti - dettero il loro contributo di lotta e di sangue 
                  alla lotta contro il fascismo. 
                  Il disfattismo social-riformista ed il settarismo comunista 
                  resero impossibile una opposizione armata generalizzata e perciò 
                  efficace al fascismo ed i singoli episodi di resistenza popolare 
                  non poterono unificarsi in una strategia vincente. 
                
                il confino 
                  e l'esilio 
                   
                  Gli anarchici che, in prima fila nella resistenza al fascismo, 
                  s'erano esposti generosamente senza calcoli personali o di partito, 
                  subirono più duramente degli altri antifascisti (in proporzione 
                  alle forze) le violenze squadriste prima e quelle legali poi. 
                  All'incendio delle sedi anarchiche e delle sezioni U.S.I., alle 
                  devastazioni di tipografie e redazioni, agli ammazzamenti, seguirono 
                  i sequestri, gli arresti, il confino.... Ai superstiti, perseguitati, 
                  disoccupati, provocati, spiati, non restava che la via dell'esilio. 
                  Si può dire che nel ventennio fascista ben pochi militanti 
                  anarchici (esclusi gli incarcerati ed i confinati) rimasero 
                  in Italia e quei pochi guardati a vista ed impossibilitati per 
                  lo più anche a svolgere attività clandestina. 
                  Continuano singoli episodi di ribellione a testimoniare, nonostante 
                  tutto, l'indomabilità dello spirito libertario. Bastano 
                  alcuni esempi. 
                  Il 21 ottobre 1928, l'anarchico Pasquale Bulzamini, a Viareggio, 
                  mentre rincasa, viene aggredito da un gruppo di fascisti e ferocemente 
                  bastonato. In un caffè, aveva poco prima deplorato la 
                  fucilazione dell'antifascista Della Maggiora. Muore tre giorni 
                  dopo, all'ospedale. 
                  Il 7 ottobre 1930, il compagno Giovanni Covolcoli spara contro 
                  il Podestà e il segretario del suo paese - Villasanta 
                  (Milano) - che lo hanno a lungo perseguitato fino a farlo internare 
                  nel manicomio. Riconosciuto sano di mente e rilasciato in libertà, 
                  ha voluto vendicarsi contro i suoi tenaci persecutori. 
                  Nell'aprile del 1931, a La Spezia, il giovane anarchico Doro 
                  Raspolini spara alcuni colpi di rivoltella contro l'industriale 
                  fascista De Biasi per vendicarsi contro uno dei maggiori responsabili 
                  dell'assassinio di suo padre, Dante, attivo anarchico, massacrato 
                  nel 1921 a Sarzana colpito da innumerevoli revolverate e da 
                  21 colpi di pugnale e quindi - legato ancor prima che morisse 
                  ad un'automobile - era stato così trascinato per diversi 
                  chilometri). Doro Raspolini muore nelle carceri di Sarzana in 
                  conseguenza delle sofferenze e torture inflittegli dai fascisti. 
                  Il 16 aprile 1931, i compagni Schicchi, Renda e Gramignano vengono 
                  condannati dal Tribunale Speciale, a Roma, rispettivamente ad 
                  anni 10, 8 e 6 di reclusione. Erano imputati di essere rientrati 
                  dall'estero per svolgere attività contro il fascismo. 
                   
                  la 
                  resistenza 
                   
                  Il '43 vede dunque gli anarchici della generazione pre-fascista 
                  sparsi tra esilio, confino e galere. Poche tracce sono rimaste 
                  dell'influenza anarchica ed anarco-sindacalista. I pochi militanti 
                  liberi dapprima e gli ex confinati poi riprendono con immutato 
                  vigore i loro posti di combattimento, chi nella lotta armata, 
                  chi nell'organizzazione della resistenza operaia, chi nella 
                  propaganda clandestina al nord e semi-clandestina al sud, nelle 
                  zone “liberate” (si fa per dire), dove gli alleati 
                  non concedono la libertà di stampa agli anarchici, preoccupati 
                  (giustamente dal loro punto di vista) che la lotta antitedesca 
                  ed antifascista potesse diventare rivoluzione sociale. 
                  Per quanto riguarda la partecipazione degli anarchici alla lotta 
                  armata partigiana, essa avvenne per lo più all'interno 
                  di formazioni politicamente miste. Solo in quelle poche località 
                  in cui la presenza di anarchici e simpatizzanti era nonostante 
                  tutto sufficientemente numerosa, i compagni organizzarono formazioni 
                  proprie, inquadrate però anch'esse, spesso a seconda 
                  della situazione locale, nelle divisioni Garibaldi (controllate 
                  dai comunisti), Matteotti (socialisti) e Giustizia 
                  e Libertà (espressione dei “liberal-socialisti” 
                  del Partito d'Azione). 
                  La mancata autonomia (che quasi sempre, dati i rapporti di forza, 
                  significò dipendenza) dalle formazioni partigiane partitiche 
                  fu dovuta non solo alla quasi generale esiguità numerica 
                  del superstite movimento anarchico, ma anche al fatto che gli 
                  alleati si rifiutavano (sempre giustamente, dal loro punto di 
                  vista) di rifornire di armi e munizioni le formazioni anarchiche. 
                  In questo contesto il valore e spesso l'estremo sacrificio di 
                  tanti anarchici furono sfruttati da altre forze politiche e 
                  poterono così servire ben poco alla radicalizzazione 
                  rivoluzionaria del movimento partigiano. Scarsa risultò 
                  in definitiva l'influenza politica anarchica nella Resistenza, 
                  che venne incanalata dai partigiani ufficiali (dai liberali 
                  ai comunisti) verso quella squallida restaurazione “democratica 
                  borghese” che è ancor oggi sotto i nostri occhi. 
				  
                 
                
                   
                    | 
 Gli 
                        attentati a Mussolini 
                       
                      
 La 
                        lotta al fascismo, come abbiamo visto, si risolveva molte 
                        volte in azioni individuali, azioni pagate con la vita. 
                        Ricordiamo qui brevemente i tre nostri eroici compagni: 
                        Gino Lucetti, Angelo Sbardellotto e Michele Schirru. Essi 
                        tentarono la via individuale per giustiziare quel maiale 
                        di Mussolini, ma sfortunatamente non ci riuscirono. 
                        Il primo tentativo (1926) non riuscì proprio 
                        per sfortuna (la bomba di Lucetti finì oltre la 
                        macchina del boia); Lucetti fu processato con i complici 
                        (anch'esse anarchici) Stefano Vatteroni e Leonardo Sorio: 
                        Lucetti fu condannato a trent'anni, gli altri a sette 
                        e sedici anni. Gli altri due tentativi purtroppo non ebbero 
                        nemmeno esecuzione pratica per l'arresto preventivo sia 
                        di Schirru (1931) che di Sbardellotto (1932). Questi ultimi 
                        due dopo un processo sommario furono entrambi fucilati. 
                        La sorte di Lucetti fu anch'essa tragica: liberato 
                        nel 1943, dopo la caduta del fascismo, morì sotto 
                        un bombardamento appena uscito dal carcere! 
                        Particolarmente significativo il “Testamento” 
                        di Michele Schirru, in cui l'anarchico sardo racconta 
                        la sua maturazione politica e spiega le ragioni di ordine 
                        morale e politico che l'hanno convinto della necessità 
                        di eliminare il “duce”. 
                        | 
                   
                 
                 
                   
                   
                  I cavalieri erranti 
                   
                  La 
                  diaspora dell'esilio non ferma la lotta antifascista 
                   
                  Primissimo pensiero degli anarchici nell'esilio fu la stampa 
                  per continuare anche dall'estero gli attacchi al regime fascista. 
                  Il I maggio del '23 esce a Parigi “La voce del profugo”, 
                  ed il 3 giugno il quindicinale “Il profugo”. 
                  Cominciarono intanto le provocazioni criminali dei fascisti: 
                  il 3 settembre a Parigi il giovane anarchico Mario Castagna 
                  viene aggredito da una banda di fascisti e nella colluttazione 
                  contro i suoi aggressori ne uccide uno. 
                  Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1924, il giovane anarchico Ernesto 
                  Bonomini uccide, in un ristorante di Parigi, con alcuni colpi 
                  di rivoltella, il gerarca fascista Nicola Bonservizi, segretario 
                  dei fasci all'estero, corrispondente del “Popolo d'Italia” 
                  e redattore del giornale fascista di Parigi “L'Italie 
                  Nouvelle”. Il nostro compagno dichiarerà di aver 
                  voluto protestare contro i delitti impuniti dei fascisti e dei 
                  loro complici. Verrà condannato a otto anni di galera. 
                  Un altro giornale vedrà la luce il Primo Maggio, sempre 
                  a Parigi, a cura di compagni italiani: “L'Iconoclasta”; 
                  inoltre sempre in quell'anno alcuni anarchici danno vita ad 
                  un giornale clandestino intitolato “Compagno, ascolta!” 
                  dove vengono date indicazioni per una lotta energica e spietata, 
                  nell'eventualità di una insurrezione in Italia. 
                  Dopo pochi giorni dal delitto Matteotti si costituisce a Parigi 
                  un comitato animato dagli anarchici e che darà vita in 
                  seguito ad un'altro giornale dal titolo “Campane a stormo”, 
                  la cui redazione verrà affidata al compagno Alberto Meschi. 
                  Per il delitto Matteotti gli anarchici italiani in Francia danno 
                  inizio anche ad una campagna nazionale generale che culmina 
                  nella distribuzione di migliaia e migliaia di volantini in cui 
                  vengono denunciati i crimini dei fasci (luglio 1924). 
                  Durante l'anno 1925 gli anarchici italiani continuano la loro 
                  attività antifascista, mentre prosegue la pubblicazione 
                  di giornali e riviste; basterà qui ricordare “La 
                  tempra” e “Il monito”. 
                  In questi anni le persecuzioni, le privazioni di ogni genere, 
                  le più vili angherie nei confronti degli anarchici continuano 
                  da parte di agenti fascisti in Francia. 
                  Comunque essi non si piegarono. Proprio in quei giorni (11 ottobre 
                  1927) Luigi Fabbri, insegnante, dopo essersi rifiutato di prestare 
                  giuramento al fascismo ed essere riuscito a rifugiarsi in Francia, 
                  pubblica a Parigi, con Berneri e Gobbi, il giornale “Lotta 
                  umana”. 
                  Continuano intanto le persecuzioni e gli arresti e le espulsioni. 
                  Nel marzo del 1928 a Parigi viene arrestato il compagno Pietro 
                  Bruzzi; altri due compagni Carlotti e Centrone (che morirà 
                  valorosamente in Spagna) vengono prima arrestati e dopo espulsi. 
                  La risposta il più delle volte è opera di coraggiosi 
                  militanti che agiscono sempre in via individuale. Il 22 agosto 
                  a Saint-Raphael (Francia) il console, noto fascista, marchese 
                  Di Mauro viene fatto segno di un attentato. Pochi mesi dopo, 
                  l'8 novembre, il giovane anarchico Angelo Bartolomei, con un 
                  colpo di rivoltella, uccide il prete fascista don Cesare Cavaradossi. 
                  Questi, vice Console, gli aveva proposto, per evitare l'espulsione 
                  dalla Francia, di tradire i compagni e di diventare suo confidente. 
                  Il Bartolomei riesce a fuggire da Nancy e a rifugiarsi in Belgio, 
                  dove però verrà arrestato nel gennaio del 1929. 
                  Anche in altri paesi gli anarchici italiani continuano a subire 
                  persecuzioni ed arresti per la loro attività antifascista. 
                  Nel luglio del 1928 in Belgio l'anarchico Gasperini ricorre 
                  allo sciopero della fame per ribellarsi all'estradizione chiesta 
                  dal governo italiano (aveva ferito assieme ad altri compagni, 
                  alcuni fascisti nel 1921). Il governo belga concederà 
                  invece l'estradizione del compagno Carlo Locati. 
                  L'espulsione è una sorte che colpirà moltissimi 
                  compagni. Infatti pochi mesi dopo, il 13 agosto, a Liegi, il 
                  compagno Gigi Damiani viene prima arrestato e poi espulso (Tunisia). 
                  A questa ondata di persecuzioni che vede gli anarchici italiani 
                  colpiti sempre in prima fila, il movimento cerca di rispondere 
                  come può. 
                  Ormai, però, diventa difficile anche la pura sopravvivenza, 
                  per le continue espulsioni che colpiscono chiunque faccia una 
                  energica attività antifascista: nel gennaio del '29 i 
                  compagni Gobbi, Berneri, Fabbri e Fedeli, in seguito alle forti 
                  pressioni del governo italiano, vengono arrestati a Parigi e 
                  condotti alla frontiera con il Belgio. È questo l'inizio 
                  della Odissea di Berneri e di tanti altri compagni. Arrestati 
                  in una parte ed espulsi, non resta che cambiar nome e attività, 
                  attraverso la Francia, il Belgio, il Lussemburgo, la Svizzera, 
                  sempre braccati e senza posa. 
                  Nel settembre del 1929 a Saarbrucken (Germania) il giovane anarchico 
                  Enrico Manzoli (Morano), aggredito da un gruppo di fascisti 
                  appartenenti ai “caschi di acciaio”, si difende 
                  e ne uccide uno. Altri anarchici, però, cadranno sotto 
                  i colpi dei fascisti: nel gennaio del 1930, a Nizza, è 
                  ucciso da un ex-carabiniere il compagno Vittorio Diana, a causa 
                  del suo intransigente atteggiamento in occasione delle manifestazioni 
                  fasciste per l'inaugurazione di un gagliardetto. Pochi mesi 
                  prima era morto in seguito ai patimenti e privazioni, presso 
                  Parigi il giovane anarchico Malaspina, braccato senza posa dalle 
                  polizie di vari paesi. Era stato imputato di aver lanciato una 
                  bomba contro la Casa del fascio di Juan-les-pins. Assolto per 
                  insufficienza di prove, era stato in prigione e più volte 
                  torturato. 
                  Il 1929 vede gli anarchici ancora in prima fila nella lotta 
                  al fascismo, anche se tale lotta è affidata, data la 
                  scarsità pressoché totale di mezzi, alla sola 
                  volontà e al solo coraggio. Nel giugno del 1929 i compagni 
                  raccolti attorno alla redazione della rivista “Lotta Anarchica”, 
                  fanno arrivare in Italia, clandestinamente, un giornale di piccolo 
                  formato e stampato su carta velina. 
                  Si tenta anche di passare all'azione: nell'agosto dello stesso 
                  anno l'anarchico Paolo Schicchi (compie in quell'anno 65 anni!) 
                  si imbarca dalla Francia e poi Tunisia per la Sicilia, dove 
                  vuole suscitare con il proprio esempio, un movimento di ribellione 
                  contro il fascismo; ma al suo arrivo a Palermo viene immediatamente 
                  arrestato assieme al compagno Gramignano. Vennero condannati 
                  rispettivamente a 10 e a 6 anni di galera. Il compagno Renda, 
                  anch'egli partecipante all'impresa venne condannato a 8 anni. 
                  Nel gennaio del 1921 a Parigi si tiene un convegno di anarchici 
                  per intensificare la lotta clandestina in Italia, lotta che 
                  porterà molti compagni ad essere arrestati e deportati 
                  al confino. Questo non impedì di continuare a spedire 
                  materiale in Italia portato da vari compagni. Gli anarchici 
                  comunque in quegli anni collaborarono anche con altre formazioni 
                  antifasciste, soprattutto con “Giustizia e Libertà”, 
                  senza interrompere la serie di continue azioni individuali. 
                  Anche in America gli anarchici svilupparono una forte attività 
                  antifascista. Già il 16 giugno del '23 il governo fascista 
                  premeva su quello americano per far chiudere il foglio anarchico 
                  “l'Adunata dei Refrattari”. La risposta degli anarchici 
                  non si fece attendere: il 24 novembre scoppia una bomba al consolato 
                  italiano mandandolo completamente in rovina. Tutto l'anno 1924 
                  segna una serie continua di manifestazioni antifasciste organizzate 
                  ed animate dagli anarchici. A Cuba, per esempio; gli anarchici 
                  organizzarono uno sciopero generale in occasione dell'arrivo 
                  di una nave italiana (27 settembre 1924). 
                  Non si contano le provocazioni fasciste di quegli anni, sebbene 
                  il più delle volte i fascisti ricevano delle lezioni 
                  durissime, come nel caso di una provocazione fascista ad un 
                  comizio anarchico (16 agosto 1925) a New York. Certo gli anarchici, 
                  sebbene pochi e sempre perseguitati e soprattutto senza nessun 
                  appoggio esterno, furono in quegli anni una spina non indifferente 
                  per il governo americano. Non passava giorno che alle provocazioni 
                  fasciste, appoggiate e protette certe volte, dalle autorità 
                  americane, gli anarchici non rispondessero per le rime. Il '26 
                  e '27 sono due anni infuocati per il movimento anarchico negli 
                  Stati Uniti. Infatti, in quegli anni, alla protesta contro il 
                  fascismo, si assomma la protesta contro la criminale persecuzione 
                  di Sacco e Vanzetti. 
                  È praticamente impossibile enumerare qui tutte le manifestazioni, 
                  gli attentati, e gli scontri sia contro le autorità americane 
                  che contro i fascisti. Sono gli anni in cui gli anarchici venivano 
                  presi molte volte a pistolettate sulla pubblica via, sia da 
                  poliziotti americani che da agenti fascisti. 
                  Anche negli anni seguenti, fino al '36, continuarono da parte 
                  degli anarchici manifestazioni e attività antifasciste 
                  che culminarono in arresti e deportazioni in Italia. Molti compagni, 
                  come Armando Borghi, vissero lunghi anni clandestinamente, a 
                  causa di tali persecuzioni. Altri, sfuggiti miracolosamente 
                  a tante peripezie, morirono poi valorosamente in Spagna, o fatti 
                  prigionieri, vennero poi deportati in Italia.
  
                  
  
                    
                   
                  Coatti e baldi 
                   
                  Fieramente 
                  ribelli anche al confino 
                   
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Ustica, 1927: I confinati anarchici (in una foto scattata  
                  dal dirigente comunista Amadeo Bordiga, anch'egli confinato).  
                  Al confino gli anarchici (alcune centinaia) furono il secondo  
                  gruppo politico dopo i comunisti per numero, e furono gli  organizzatori 
                  di tutte le proteste contro i soprusi delle autorità  | 
                   
                 
                 
                  L'8 novembre 1926 fu pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” 
                  il decreto che istituiva il “Tribunale Speciale per la 
                  difesa dello Stato” e le “Commissioni provinciali 
                  per l'assegnazione al Confino di Polizia”. Ma fin da prima 
                  di quel decreto molti anarchici furono relegati su quelle isole 
                  sperdute nel Mediterraneo che già erano state utilizzate 
                  alla fine del secolo scorso per tenervi raccolti (ed isolati 
                  dal mondo esterno) i sovversivi. 
                  Al confino, gli anarchici costituirono sempre un gruppo compatto 
                  e battagliero, e seppero combattere la dittatura fascista anche 
                  in quelle dure condizioni. Basti pensare alle condanne al carcere 
                  subite da 152 confinati politici che nel 1933 organizzarono 
                  a Ponza le proteste contro i continui soprusi della direzione 
                  della Colonia; numerosi fra questi condannati gli anarchici 
                  (Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori, ecc.). L'anno successivo 
                  l'anarchico Messinese, confinato ad Ustica, prese a schiaffi 
                  il direttore della Colonia che voleva obbligarlo a fare il saluto 
                  romano. La ribellione contro simili soprusi si estese progressivamente 
                  ad altre isole, in particolare a Ventotene ed a Tremiti, portando 
                  a nuove condanne contro compagni nostri. 
                  Uniti da stretti vincoli di solidarietà, gli anarchici 
                  riuscirono a far giungere e circolare clandestinamente fra i 
                  compagni alcuni testi anarchici e sostennero nel contempo vivaci 
                  polemiche con gli altri confinati. Particolarmente tesi furono 
                  sempre i rapporti fra confinati comunisti ed anarchici poiché 
                  i primi, ligi alle direttive politiche provenienti dal Partito 
                  e da Mosca, fecero sempre di tutto per ostacolare l'attività 
                  politica dei libertari. Ad acutizzare questa polemica giunsero, 
                  a partire dal 1936, le notizie dal fronte spagnolo, che, seppur 
                  senza precisione, riferivano di scontri armati fra anarchici 
                  e stalinisti. 
                  Ribelli ad ogni autorità, gli anarchici tennero costantemente 
                  un comportamento fiero e deciso, e furono sempre ritenuti i 
                  più pericolosi e sediziosi dalle autorità del 
                  confino; questa pessima (e meritata) fama presso le alte gerarchie 
                  fasciste fu causa di nuove persecuzioni e condanne e spesso 
                  dell'allungamento della pena di confino senza neppure una parvenza 
                  di processo. Accadde così che alcuni compagni, pur condannati 
                  inizialmente a pochi anni, dovettero restare sulle isole fino 
                  al 1943, quando, con la caduta del fascismo in luglio, esse 
                  furono “smobilitate”. 
                  Significativa al riguardo la liquidazione del confino di Ventotene, 
                  dov'era stato concentrato un numero elevato di anarchici. Quando 
                  giunse la notizia della caduta del fascismo i primi ad esser 
                  liberati furono i militanti di “Giustizia e Libertà”, 
                  cattolici, repubblicani e testimoni di Geova; per cui in un 
                  primo tempo rimasero a Ventotene solo comunisti, socialisti 
                  ed anarchici. Quando però il maresciallo Badoglio chiamò 
                  al governo Roveda per i comunisti e Buozzi per i socialisti, 
                  questi pretesero ed ottennero la liberazione dei carcerati comunisti 
                  e socialisti, trascurando gli anarchici ed i nazionalisti sloveni. 
                  Si ruppe così quel vincolo di solidarietà che, 
                  al di là delle accese polemiche, aveva pur sempre legato 
                  le varie comunità politiche di confinati di fronte al 
                  comune nemico fascista. Nonostante alcuni militanti dei partiti 
                  di sinistra cercassero di rifiutarsi di partire per non lasciar 
                  soli gli anarchici, il grosso dei confinati se ne andò 
                  libero, noncurante di quelli che erano costretti a restare sull'isola. 
                  Gli anarchici, dopo una decina di giorni dalla partenza degli 
                  altri, furono trasportati, per nave e poi in treno, fino al 
                  campo di concentramento di Renicci d'Anghiari (Arezzo). Durante 
                  questo lungo viaggio di trasferimento molti compagni cercarono 
                  di fuggire, eludendo la stretta vigilanza di poliziotti e carabinieri, 
                  ma solo uno riuscì nel suo intento. Appena giunti nel 
                  campo gli anarchici ebbero a scontrarsi con le autorità 
                  e due compagni nostri furono immediatamente segregati in cella; 
                  questo diede l'avvio alle proteste ed alla continua agitazione 
                  degli anarchici (fra i quali ricordiamo Alfonso Failla) che 
                  giunsero a scontrarsi violentemente con le forze dell'ordine 
                  del campo. Successivamente, comunque, alcuni riuscirono a fuggire 
                  ed andarono a costituire le prime bande partigiane delle zone 
                  circostanti. Solo nel settembre le guardie se la squagliarono 
                  ed i compagni lasciarono il campo, appena prima che arrivassero 
                  i tedeschi. 
                 
                  P.F. 
                
				 
                    
                   
                  Nella rivoluzione spagnola 
                   
                  La notizia che in Spagna era scoppiata la rivolta popolare contro 
                  il “putsch” di Franco fu come lo scoppio di una 
                  bomba, negli ambienti dell'emigrazione antifascista italiana 
                  a Parigi. Gli esuli, da anni costretti a lottare sulla difensiva, 
                  videro subito che in terra di Spagna si osava finalmente dire 
                  chiaramente no al fascismo, e si impugnavano le armi per impedirne 
                  il trionfo. 
                
                   
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                    |   Spagna, 1936. Anarchici italiani della Colonna Ascaso  nel 
                  cimitero di Huesca, luogo di furibondi combattimenti  | 
                   
                 
                 
                  Mentre alcuni compagni partirono immediatamente per andare a 
                  combattere a Barcellona, molti altri si preparavano a partire 
                  e si riunivano frequentemente per decidere il da farsi. Ad un 
                  convegno appositamente indetto, di tutte le forze politiche 
                  antifasciste italiane a Parigi, sia Longo per i comunisti sia 
                  Buozzi per i socialisti dichiararono che i loro partiti erano 
                  disposti ad inviare aiuti sanitari e a dare un appoggio morale 
                  al popolo spagnolo, ma non erano d'accordo per un intervento 
                  armato. Il rappresentante dei repubblicani restò sulle 
                  generali, evitando qualsiasi impegno, per cui gli anarchici 
                  ed il “giellisti” (militanti del movimento “Giustizia 
                  e Libertà”) furono gli unici a sostenere la necessità 
                  di un'immediata partenza per la Spagna. E così fecero. 
                  Il 18 agosto 1936, infatti, meno di un mese dopo l'insurrezione 
                  popolare (19 luglio), partì per il fronte d'Aragona un 
                  primo scaglione di antifascisti italiani, arruolatisi volontariamente 
                  nella sezione italiana della colonna “Ascaso”, organizzata 
                  e formata da militanti anarchici della F.A.I. e anarcosindacalisti 
                  della C.N.T. La maggior parte di questi primi volontari italiani 
                  erano anarchici (un centinaio). 
                  Altri anarchici italiani, giunti in Spagna successivamente, 
                  si aggregarono alla colonna “Durruti” (C.N.T.-F.A.I.), 
                  alla colonna “Tierra y Libertad” (C.N.T.-F.A.I.), 
                  alla colonna “Ortiz” (C.N.T.-F.A.I.) e ad altre 
                  formazioni. Secondo una stima documentata dai registri di arruolamento 
                  della sezione italiana, depositati presso la C.N.T.-F.A.I., 
                  gli anarchici italiani combattenti in Spagna furono seicentocinquantatre. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Spagna, settembre 1936: anarchici italiani al fronte  | 
                   
                 
                 
                  Nei primissimi mesi dell'inizio della rivoluzione moltissimi 
                  compagni italiani furono trascinati da un entusiasmo rivoluzionario 
                  che li portò sempre in prima fila: è in questo 
                  periodo che morirono e rimasero feriti la maggior parte di essi. 
                  Molti compagni feriti ritornarono al fronte a combattere nuovamente. 
                  Questo, per esempio, è il caso del compagno Pio Turroni, 
                  che ferito una prima volta in ottobre ritornò dopo pochi 
                  mesi al fronte, dove rimase nuovamente ferito; rientrò 
                  quindi a Barcellona, dove fu commissario politico per gli italiani, 
                  nella caserma “Spartacus”. 
                  È impossibile qui ricordare anche solo i nomi di tutti, 
                  morti e superstiti. Tra i sopravvissuti ricordiamo in modo particolare, 
                  perché ancor oggi militanti attivi nel movimento anarchico, 
                  oltre a Turroni, Umberto Marzocchi ed Umberto Tommasini. 
                
                   
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                    |   Barcellona, luglio 1936: miliziano  della C.N.T., l'organizzazione  
                  anarco-sindacalista iberica,  nelle cui «colonne» 
                  combatterono  oltre seicento anarchici italiani  | 
                   
                 
                 
                  Gli anarchici italiani mantennero sempre una posizione coerente, 
                  soprattutto di fronte alla contro-rivoluzione comunista, come 
                  nelle giornate del maggio '37 a Barcellona. Non è un 
                  caso che gli stalinisti in quei giorni assassinassero gli anarchici 
                  italiani Camillo Berneri (che redigeva a Barcellona il periodico 
                  in lingua italiana “Guerra di classe”) e Francesco 
                  Barbieri. 
                  Anche di fronte al processo di militarizzazione la loro posizione 
                  intransigentemente rivoluzionaria fu espressa in modo pressoché 
                  unanime. Già il 10 ottobre prima, e il 13 novembre poi, 
                  stilarono rispettivamente due documenti in cui denunciavano 
                  il pericolo di involuzione controrivoluzionaria, se fosse passato, 
                  come poi passò, il processo di militarizzazione (documenti 
                  firmati, per la sezione italiana della colonna “Ascaso”, 
                  da Rabitti, Mioli, Buleghin, Petacchi, Puntoni, Serra, Segata). 
                  Anche se durante le tragiche giornate della controrivoluzione 
                  comunista essi si trovarono in disaccordo con la “dirigenza” 
                  della F.A.I. e della C.N.T. e nonostante avessero ormai compreso 
                  che le sorti della rivoluzione volgevano al peggio, essi continuarono 
                  a combattere e a morire. 
                  Sono circa sessanta gli anarchici italiani morti in Spagna e 
                  centocinquanta i feriti, di cui molti morirono più tardi 
                  a causa delle privazioni sopportate nei campi di concentramento 
                  in Francia. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  SARZANA 
                   
                  UNA 
                  RISPOSTA ESEMPLARE ALLE SQUADRE FASCISTE 
                   
                   
                  La presenza di un forte e combattivo movimento operaio, ed 
                  in particolare di molti gruppi anarchici ed anarco-sindacalisti, 
                  fece sì che lo squadrismo fascista assumesse un carattere 
                  violentemente provocatorio ed omicida nell'intera provincia 
                  di La Spezia, così come nel Carrarino. 
                  Il padronato ed i fascisti non potevano sopportare che continuasse 
                  la tradizione di ribellione dei lavoratori, che nella occupazione 
                  delle fabbriche avevano decisamente mostrato il proprio carattere 
                  rivoluzionario; per questo motivo, fin dagli inizi del 1921, 
                  poche settimane cioè dopo il tradimento dei riformisti 
                  e la grave sconfitta dell'occupazione delle fabbriche, i fascisti 
                  tentarono di spadroneggiare, minacciando e colpendo i militanti 
                  rivoluzionari. 
                  Basti ricordare, per esempio, l'assalto fascista alla Camera 
                  del Lavoro di La Spezia (27 febbraio '21), l'uccisione del compagno 
                  Olivieri (28 febbraio), gli incidenti provocati ai suoi funerali 
                  (11 marzo), l'inaugurazione provocatoria del gagliardetto dei 
                  fasci spezzini (11 aprile) e la devastazione da parte dei fascisti 
                  delle due Camere del Lavoro, aderenti rispettivamente alla C.G.L. 
                  ed all'U.S.I. (12 maggio). Ma furono soprattutto le grandi spedizioni 
                  punitive a caratterizzare (qui come altrove) la violenza delle 
                  camicie nere, ed a provocare la decisa rabbiosa risposta popolare; 
                  era ormai abitudine per i fascisti “concentrarsi” 
                  in un centro abitato, assaltarvi le sedi antifasciste, uccidere 
                  gli oppositori più irriducibili, per poi ripartire certi 
                  dell'impunità da parte dello Stato “liberale”. 
                  Il capo riconosciuto di queste squadracce nello spezzino era 
                  Renato Ricci, ex-legionario fiumano e futuro onorevole: fra 
                  le altre imprese, fu lui a guidare personalmente una spedizione 
                  punitiva contro i centri di Pontremoli e di Sarzana (12 giugno). 
                  La reazione popolare antifascista fu allora così decisa 
                  che gli squadristi furono costretti a ripiegare, e le autorità 
                  non poterono fare a meno di arrestare il Ricci e di rinchiuderlo 
                  nelle carceri di Sarzana. 
                  Privati momentaneamente del loro ducetto locale, i fascisti 
                  decisero di cercare di liberarlo, e soprattutto di dare una 
                  storica lezione alla popolazione di Sarzana, scelta come simbolo 
                  della lotta dei “sovversivi” contro la reazione 
                  padronale e fascista. Sarzana, infatti, trovandosi a metà 
                  strada fra La Spezia e Carrara, era un centro particolarmente 
                  importante nelle lotte anarco-sindacaliste e nella propaganda 
                  anarchica, ed inoltre aveva tradizionalmente una giunta comunale 
                  “rossa”, tutte cose queste che la rendevano giustamente 
                  odiata dall'avversario di classe. Gli squadristi, dunque, guidati 
                  da Amerigo Dumini (uno dei più noti criminali fascisti, 
                  futuro correo nell'assassinio del deputato socialista Matteotti), 
                  calarono da molte province della Toscana nelle zone circostanti 
                  Sarzana, preparandosi ad attaccarla in forze. Quando furono 
                  informati che nel paese di Arcola (La Spezia) un loro camerata, 
                  tal Procuranti, era stato ucciso, subito iniziarono la spedizione 
                  punitiva, compiendo violenze ancor prima di entrare in Sarzana: 
                  fra gli altri, fu ucciso un contadino a Santo Stefano Magra 
                  (La Spezia). Giunti a Sarzana, i fascisti si concentrarono alla 
                  stazione ferroviaria per inquadrarsi bene e per sferrare l'attacco; 
                  fu allora che accolsero sparando 7 carabinieri e 4 soldati, 
                  che, comandati dal capitano Jurgens, li volevano consigliare 
                  a desistere dai loro propositi “nel loro stesso interesse”. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Partenza di una squadraccia fascista per una spedizione  punitiva. 
                  La lezione data ai fascisti a Sarzana nel luglio  1921 dalla 
                  popolazione, se generalizzata, avrebbe potuto  fermare il fascismo. 
                  Ma per generalizzare l'esempio  era necessario che il P.S.I., 
                  il P.C.d'I. e la C.G.L.  gettassero nella lotta armata tutto 
                  il loro peso  | 
                   
                 
                 
                  Dopo il breve scontro a fuoco con le forze dell'ordine, i 
                  fascisti si trovarono a dover affrontare l'assalto armato da 
                  parte degli Arditi del Popolo che, organizzati dall'anarchico 
                  Ugo Boccardi detto “Ramella”, dettero per primi 
                  il benvenuto ai fascisti. Ma non furono i soli, poiché 
                  sopraggiunsero presto gli arsenalotti, cioè quei lavoratori 
                  che ogni mattina prendevano il treno da Sarzana a La Spezia 
                  per recarsi a lavorare là all'arsenale. Quel treno quotidiano, 
                  infatti, quella mattina non era partito, nell'attesa del previsto 
                  attacco squadrista; l'intera popolazione partecipò alla 
                  sollevazione contro le camicie nere, che subito ebbero dei morti 
                  e furono costrette a cercar scampo nelle campagne circostanti. 
                  Ma anche qui non trovarono sorte migliore, chè anzi i 
                  contadini (anch'essi perlopiù anarchici, e comunque decisamente 
                  antifascisti) collaborarono con gli Arditi del Popolo alla cattura 
                  degli aggressori, molti dei quali furono uccisi. Si parlò 
                  allora di circa venti fascisti uccisi, e così afferma 
                  anche la storiografia ufficiale, ma da testimonianze pervenuteci 
                  da compagni che erano attivamente presenti risulta che furono 
                  molti di più. 
                  Ad ogni modo resta la realtà della grande vittoria 
                  popolare di Sarzana, che, con la collaborazione degli Arditi 
                  del Popolo prontamente giunti dai centri circostanti, segnò 
                  un duro colpo alla violenta protervia fascista. Basti pensare 
                  che la rabbia per la disfatta subita in Lunigiana portò 
                  i fascisti a vendicarsi contro i “sovversivi” anche 
                  lontano da quei posti, nel vano tentativo di dimenticare la 
                  lezione di Sarzana. La via indicata quel 21 luglio dal popolo 
                  sarzanese, e confermata dalle altre violente resistenze popolari 
                  allo squadrismo fascista (Parma, Civitavecchia, ecc.), era quella 
                  giusta per battere sul nascere la reazione padronale. 
                  Pochi giorni dopo, però, firmando il Patto di Conciliazione 
                  con i fascisti su scala nazionale, i socialisti contribuiranno 
                  a disarmare il popolo, lasciandolo inerme vittima dello squadrismo 
                  fascista. La stessa responsabilità toccherà ai 
                  comunisti, da pochi mesi costituitisi in partito, che preferiranno 
                  ritirare i propri militanti dagli Arditi del Popolo pur di non 
                  collaborare con gli anarchici. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  IMOLA 
                   
                  Violenze 
                  fasciste e forte resistenza popolare 
                  Gli anarchici in prima fila 
                   
                  Il 1920 segna la riorganizzazione definitiva degli anarchici 
                  imolesi che danno vita a due folti gruppi: il gruppo giovanile 
                  anarchico e l'U.S.I. 
                  In tutto i giovani che si impegnavano attivamente erano una 
                  ottantina: organizzavano dibattiti, conferenze, comizi e cercavano 
                  di realizzare una stretta unità con i giovani socialisti. 
                  L'attività sindacale era diretta soprattutto verso quelle 
                  categorie come i muratori, gli infermieri, gli imbianchini, 
                  i barbieri, i metallurgici ed i camerieri che non erano seguiti 
                  dalla c.d.l. (aderente alla CGL) impegnata com'era nell'agitazione 
                  agraria e quindi nell'organizzazione delle categorie agricole. 
                  La preparazione rivoluzionaria degli anarchici cresceva ogni 
                  giorno, per cui non si trovarono sprovvisti di fronte al fascismo. 
                  Infatti il 28 ottobre 1920 Dino Grandi, allora giovane avvocato 
                  di Nordano (comune vicino a Imola), poi uno dei più grandi 
                  gerarchi fascisti, subisce un attentato: gli vengono sparati 
                  contro quattro colpi di rivoltella che, (purtroppo) non lo colpiscono. 
                  Si attribuisce il fatto agli anarchici e i socialisti declinano 
                  le loro responsabilità. In effetti gli autori dell'attentato 
                  risultano essere veramente anarchici che, nel momento in cui 
                  il fascismo nascente si appoggia a giovani studenti infiammati 
                  di patriottismo e di spirito reazionario e di odio verso il 
                  socialismo, hanno intuito in Grandi un possibile futuro nemico. 
                  Il 1920 si conclude con il tentativo, da parte dei fascisti 
                  di crearsi le premesse per poter penetrare in Imola, ma fino 
                  al giugno del 1921 i fascisti a Imola non hanno voce in capitolo. 
                  Gli anarchici partecipano, con i giovani socialisti, che poi 
                  passeranno in massa al P.C. d'I., alla formazione delle “guardie 
                  rosse” a cui è affidato il compito di difendere 
                  Imola dalle squadracce provenienti da Bologna. I fascisti infatti 
                  avevano già “assoggettato” Castel S. Pietro 
                  e si servivano di questo comune come base per le incursioni 
                  nei paesi vicini e soprattutto per distruggere il mito di “Imola 
                  rossa” e della combattività degli imolesi, dovuta 
                  alla cinquantennale propaganda anarchica e socialista e al grande 
                  prestigio che aveva avuto Andrea Costa. I fascisti bolognesi 
                  fanno vari tentativi fin dal novembre, sempre sconsigliati però 
                  dalla autorità locale e dagli stessi capi socialisti 
                  perché l'eccezionale livello di mobilitazione del popolo 
                  avrebbe provocato una “carneficina”. Ma il 14 dicembre 
                  una colonna di fascisti in camion tenta di venire a Imola. Il 
                  servizio di informazione scatta immediatamente e tutta la popolazione 
                  armata, chiamata dal campanone comunale che suona a stormo, 
                  scende in piazza. Le cinque squadre di “guardie rosse” 
                  si dispongono nei punti strategici della città e gli 
                  anarchici collocano due mitragliatrici all'ingresso di Imola, 
                  sulla Via Emilia, in modo da prendere i fascisti in un fuoco 
                  incrociato. Anche questa volta i fascisti non vengono, pare 
                  che Romeo Galli, socialista, telefonasse al Sindaco di Ozzano 
                  per pregarlo di dissuaderli. Ma i fascisti avevano intuito quale 
                  era il mezzo più efficace per entrare a Imola: lasciare 
                  che una snervante attesa fiaccasse la difesa degli imolesi. 
                  Così, con l'appoggio dei popolari, fanno le loro prime 
                  apparizioni fino a lanciare un attacco in grande stile. Il 10 
                  aprile, durante una processione organizzata dal Partito Popolare, 
                  arrivano i fascisti provenienti da Castel S. Pietro: l'esercito 
                  e i carabinieri occupano il centro per difendere dal popolo 
                  gli squadristi. Il 28 maggio i fascisti danno l'assalto al Circolo 
                  ritrovo socialista, naturalmente di sera. Un gruppo di essi, 
                  nascosto nell'ombra dei giardini pubblici, si prepara ad attaccare 
                  con pugnali, bombe a mano e rivoltelle. Mentre parte di essi 
                  entrano nel circolo, altri, fuori, sparano all'impazzata per 
                  impedire alla gente di accorrere. 
                  Il bilancio dell'assalto è di sette feriti e la distruzione 
                  di parte delle suppellettili, registri ecc., poste nei locali 
                  in cui aveva sede anche la redazione del settimanale socialista 
                  “La lotta” e la sezione socialista. 
                  La reazione comincia a prendere piede apertamente anche ad Imola, 
                  i capi socialisti fuggono a S. Marino e torneranno solo a settembre, 
                  a bufera momentaneamente passata. 
                  Così la reazione armata fascista colpisce le avanguardie 
                  mentre la massa è disorientata e impaurita. 
                  Il 26 giugno i fascisti con Dino Grandi, Gino Baroncini ecc. 
                  inaugurano il gagliardetto di combattimento sotto gli occhi 
                  soddisfatti della gretta borghesia locale. 
                  I fascisti locali, figure squallide, in alcuni casi addirittura 
                  malati di mente, trovano appoggio negli agrari che li esaltano, 
                  li ubriacano con soldi e vino, e lo stretto collegamento col 
                  gruppo già forte del fascismo bolognese li fa sentire 
                  improvvisamente padroni della piazza quando in 100 contro 1, 
                  protetti dalla polizia, si scagliano contro le avanguardie rivoluzionarie. 
                  I primi ad essere colpiti sono gli anarchici, poi i socialisti 
                  ed infine la reazione si abbatte su tutto il proletariato. 
                  Il 10 luglio vi sono i fatti della Birreria Passetti in cui, 
                  fallito il tentativo di alcuni fascisti di uccidere l'anarchico 
                  Primo Bassi (1892-1972), si costruisce una montatura per accusarlo 
                  della morte del rag. Gardi, estraneo ai fatti e rimasto ucciso 
                  nella sparatoria. 
                  Racconta Primo Bassi: “Il 10 luglio 1921 una squadra di 
                  fascisti Imolesi iniziava le prime azioni di violenza indiscriminata. 
                  Alle ore 10 di sera, incontrato un muratore - tal Campori - 
                  lo colpirono con randellate al capo sino a che, sanguinante, 
                  potè rifugiarsi nella birreria Passetti, in quel momento 
                  affollata di clienti. Fu allora che notai un giovincello che, 
                  battendomi un giunco sulla spalla, mi invitava ad uscire. Accondiscesi, 
                  ma dopo pochi passi nell'ampio cortile fui circondato dalla 
                  squadra che pretese perquisirmi e quando, palpate le tasche, 
                  furono persuasi fossi inerme, iniziarono la bastonatura. Con 
                  una spinta mi aprii il passo verso l'uscita e, guadagnando l'uscita 
                  sotto le percosse, fui raggiunto da una randellata allo zigomo 
                  sinistro che per poco non mi abbattè al suolo. Voltandomi 
                  di scatto fu allora - solo allora - che l'istinto di conservazione 
                  prevalse in me. Il fascista Casella mi era quasi addosso con 
                  l'arma in pugno ed io - già estratta la pistola dalla 
                  cintura dei pantaloni - gli sparai contro colpendolo ad una 
                  gamba. Sparai ancora in aria un colpo e mentre attorno era tutto 
                  una sparatoria fuggii per via Aldovrandi per consegnarmi ai 
                  carabinieri sopraggiunti, ferito da una pallottola di rimbalzo. 
                  Accompagnato in caserma prima ed all'ospedale poi, fui tempestato 
                  di pugni sino a che un infermiere, il socialista Maiolani, non 
                  intervenne a redarguirli. Intanto all'interno della birreria 
                  un cittadino - voluto poi fascista - era stato colpito dal basso 
                  all'alto da un colpo di rivoltella, decedendo. I fascisti si 
                  impadronirono di quel morto ed iniziarono una violenta reazione 
                  contro uomini e cose”. 
                  La stessa sera numerose squadre di fascisti percorrono le vie 
                  della città, sparando all'impazzata con lo scopo di impaurire. 
                  Poi assalgono la sede dell'Unione Sindacale, distruggendo sistematicamente 
                  tutto ciò che trovano: devastano gli uffici delle leghe, 
                  la redazione del giornale anarchico Sorgiamo, il circolo 
                  ritrovo, la ricca biblioteca. Tutto ciò che non si può 
                  dare alle fiamme nel piazzale sottostante è reso completamente 
                  inservibile. Il lunedì continua per le vie di Imola la 
                  caccia al sovversivo. 
                  Viene arrestato il maestro anarchico Ciro Beltrami per aver 
                  sparato all'ex repubblicano Mansueto Cantoni, diventato segretario 
                  del fascio locale. Viene picchiato selvaggiamente coi calci 
                  di moschetto alla schiena, tanto da morire nel 1941 a Bruxelles 
                  in seguito alla tubercolosi, provocata dalle botte fasciste. 
                  Anche il responsabile de “Il Momento”, giornale 
                  della Federazione Prov. Comunista Bolognese e organo della c.d.l. 
                  di Imola, Romeo Romei viene aggredito e, ferito gravemente al 
                  petto con un colpo di rivoltella, lasciato per terra moribondo; 
                  Ugo Masrati, bracciante agricolo anarchico, mentre è 
                  tranquillamente addetto in un'aia come paglierino ai lavori 
                  di trebbiatura, viene assassinato dai fascisti. 
                  Alla tipografia Galeati, pena l'incendio, si impedisce di stampare 
                  il periodico anarchico Sorgiamo. Si vieta alle edicole 
                  di vendere giornali “sovversivi”, come Umanità 
                  Nova e Ordine Nuovo. Ma il movimento anarchico non 
                  è ancora definitivamente abbattuto, bisogna quindi ancora 
                  colpirlo, ancora assassinare. 
                  La sera del 21 luglio '21, cinque fascisti si recano in un'osteria 
                  alle “Case Gallettino” con lo scopo ben preciso 
                  di colpire un altro anarchico che si era sempre distinto per 
                  il suo coraggio, Vincenzo Zanelli, detto Banega, muratore, anarchico. 
                  Arrestato per i moti del caro-vita del luglio 1919, era stato 
                  di nuovo arrestato nel 1921 senza una imputazione precisa e 
                  rilasciato dopo 20 giorni. Da allora non era più stato 
                  lasciato in pace dai fascisti. Raggiunto con altri due anarchici 
                  - Farina e Tarozzi - dai fascisti, viene colpito ma, mentre 
                  gli altri due anarchici disarmati fuggono, egli a terra si difende 
                  e uccide il suo aggressore, il fascista Nanni, di professione 
                  ladro. Ormai quasi tutti gli anarchici imolesi più in 
                  vista sono eliminati. 
                  L'uccisione del giovane fascista Andrea Tabanelli serve da pretesto 
                  per manovre contro gli anarchici: caduta la prima accusa contro 
                  l'anarchico Diego Guadagnini, viene accusato il cugino Enrico 
                  Guadagnini e i fascisti fanno altre rappresaglie: compiono un 
                  altro assalto alla sede dell'U.S.I. e ammazzano a randellate 
                  in testa Raffaele Virgulti, mutilato di guerra anarchico. 
                  Il movimento è così decimato: messi in condizioni 
                  di non nuocere i compagni migliori come Diego Guadagnini e Primo 
                  Bassi (condannato a 20 anni nonostante che la perizia balistica 
                  avesse dimostrato che il proiettile che uccise Gardi non apparteneva 
                  all'arma di Bassi), uccisi tanti dei migliori come Leo Branconcini, 
                  Vincenzo Zanelli, Raffaele Virgulti, carcerati o confinati tantissimi 
                  altri come Tarozzi, Baroncini, Farina, Errani, i fratelli Tinti, 
                  Tonini ecc. il movimento anarchico imolese darà il suo 
                  contributo alla lotta di liberazione in Italia nel 44-45 e, 
                  precedentemente, in Spagna nel 1936. 
                   
                   
                   
                   
                   
                  BIOGRAFIE IMOLESI 
                   
                  Le vicende degli anarchici Imolesi dal '20 al '45 sembrano 
                  ricalcate su un unico modello: lotta contro il fascismo in Italia, 
                  esilio, rivoluzione spagnola, Francia, deportazione in Italia, 
                  confino e, dopo l'8 settembre, Resistenza partigiana. 
                  Pur in un piccolo centro come Imola gli anarchici che, con 
                  variazioni, passarono attraverso questa “trafila” 
                  sono tanti che non possiamo riportarne le biografie intere. 
                  Basti quella d'uno di loro per esemplificarle tutte. 
                  Vindice Rabitti, nato nel 1902, impiegato. “Ardito 
                  del Popolo”, partecipò a vari conflitti contro 
                  gli squadristi. Subì processi, condanne (ad 1 anno e 
                  3 mesi il 25-7-1922; ad 11 mesi nel luglio del 1923) e carcere. 
                  Fu ferito dai fascisti in seguito ad un attentato. Espatriò 
                  in Francia nel 1923. Rientrò in Italia nella primavera 
                  del 1924. Partecipò a nuovi scontri con i fascisti e 
                  riparò successivamente in Francia. Fu arrestato per presunto 
                  attentato alla Società delle Nazioni. Nel 1932 raggiunse 
                  l'Algeria ove continuò l'attività antifascista. 
                  Arruolatosi per la Spagna il 23-7-1936, fu tra gli organizzatori 
                  della colonna italiana “Ascaso” della quale divenne 
                  delegato politico. Combattè sui fronti di Monte Pelato, 
                  di Huesca, di Almudevar e, poi, nel Carrascal di Huesca nell'aprile 
                  1937. Ritornò in Francia, nell'aprile 1938, ove continuò 
                  l'attività antifascista. Fu arrestato a Bardonecchia 
                  nel marzo 1940. Successivamente venne rinchiuso al confino di 
                  Ventotene per due anni. Partecipò alla lotta di liberazione 
                  nell'Imolese e in Romagna. 
                  Simili, come s'è detto, le vicende di molti altri 
                  compagni imolesi: Carlo Alvisi, muratore; Gino Balestri, muratore; 
                  Giuseppe Tinti, muratore; Gelindo Zanasi, muratore; Gaetano 
                  Trigari, fabbro (arrestato per attività partigiana nel 
                  settembre del '43 venne deportato dapprima a Dachau e poi a 
                  Mathausen); Eutilio Vignoli, commesso; Natalino Matteucci, muratore; 
                  Umberto Panzacchi, pavimentatore (morto nel '41 a Parigi, a 
                  seguito di malattia contratta durante la guerra in Spagna); 
                  Armando Malaguti, barbiere; Ugo Guadagnini, muratore; Bruno 
                  Gualandi, edile (caduto sul fronte di Huesca nell'ottobre '36); 
                  Luigi Grimaldi, bracciante; Lorenzo Giusti, ferroviere; Francesco 
                  Gasperini, operaio; Mario Girotti, operaio (ferito e reso “inabile” 
                  nella battaglia di Monte Pelato); Attilio Balzamini, ferroviere 
                  (ferito a Monte Pelato e morto all'ospedale di Barcellona nel 
                  giugno del '38); Raffaele Catti, operaio (ferito a Huesca); 
                  Cesare Forni, artigiano; Ferruccio Tantini, muratore; Tosca 
                  Tantini (sorella di Ferruccio, partecipò ai combattimenti 
                  di Huesca e Almudevar). 
                 
                  Centro «Malatesta» 
                 
                    
                   
                  PISA 
                   
                  Come tutte le province circostanti, quella di Pisa fu particolarmente 
                  presa di mira dai fascisti, che ben ne conoscevano le tradizioni 
                  di lotte operaie e contadine. Gli anarchici erano numerosi sia 
                  in città sia in quasi tutti i centri piccoli e grandi 
                  del circondario; a Pisa si stampava “L'Avvenire Anarchico”, 
                  che era conosciuto e diffuso in molte regioni italiane, ed inoltre 
                  vi era una attiva Camera del Lavoro sindacalista (cioè, 
                  aderente all'Unione Sindacale). 
                  I fascisti locali, pur divisi da gravi contrasti interni, 
                  svolsero, qui come altrove, la medesima opera di provocazione 
                  e di eliminazione fisica dei “sovversivi”, finanziati 
                  e guidati da alcuni noti capitalisti della zona. 
                  Fra gli atti criminali delle squadracce pisane basti ricordare 
                  la scorreria compiuta nella zona di Cascina (Pisa) il 22 luglio 
                  1921, all'indomani cioè della disfatta subita dai loro 
                  camerati a Sarzana: per solidarietà con Amerigo Dumini 
                  e gli altri squadristi messi in rotta dalla popolazione della 
                  Lunigiana, infatti, pretendevano che tutte le famiglie esponessero 
                  la bandiera a lutto. 
                  Di ritorno dalla loro scorreria, le squadre fasciste si fermarono 
                  nella trattoria dell'anarchico Luigi Benvenuti, provocarono 
                  i presenti ed infine li aggredirono; nella furibonda lotta che 
                  ne seguì perirono sia i due capi degli squadristi, sia 
                  il compagno Benvenuti. Impressionati dalla reazione dei presenti 
                  i fascisti se ne andarono e tornarono la notte dello stesso 
                  giorno a bordo di un camion loro fornito - come al solito - 
                  dai carabinieri. Dopo aver fra gli altri assassinato il figlio 
                  di un antifascista, trafiggendolo con quattro pugnalate e scagliandolo 
                  poi in un torrente, si diressero verso la casa del Benvenuti, 
                  che devastarono ed incendiarono, costringendo i due giovanissimi 
                  figli (orfani) del compagno Benvenuti a gettarsi dalla finestra. 
                  Grande eco ebbe anche l'assassinio dell'anarchico Comasco 
                  Comaschi, maestro d'arte e capo-officina ebanista della Scuola 
                  d'Arte di Cascina (Pisa), il cui pensiero politico risentiva 
                  parimenti dell'insegnamento umanitario di Leone Tolstoi e della 
                  propaganda anarchica di Pietro Gori. I fascisti non gli potevano 
                  perdonare la sua difesa degli allievi di un corso della Scuola 
                  d'Arte, che loro volevano aderissero forzatamente al loro partito. 
                  La morte, decretata dalle camicie nere locali, arrivò 
                  al Comaschi sotto forma di quattro pallottole che lo colpirono 
                  alle spalle nei pressi del Canale Emissario. Gli assassini furono 
                  identificati ed arrestati, ma vennero naturalmente assolti dalla 
                  magistratura con la formula significativa del “non luogo 
                  a procedere”. 
                  Ricordiamo infine l'assassinio dell'anarchico Ugo Rindi, 
                  tipografo e segretario della sezione pisana della Federazione 
                  Italiana del Libro: prelevato a casa sua la notte dell'8 aprile 
                  1924 da alcuni fascisti travestiti da poliziotti, fu assassinato 
                  a pugnalate appena fuori casa, ed il suo corpo orrendamente 
                  mutilato. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  Reggio Emilia 
                   
                  La presenza anarchica nella lotta antifascista a Reggio Emilia 
                  fu costituita essenzialmente dall'azione di alcuni singoli compagni; 
                  ciò è comprensibile se si considera l'assoluta 
                  prevalenza del socialismo riformista, che aveva in Camillo Prampolini 
                  un leader nazionale, oltre che locale. 
                  Fin dal primo anteguerra gli anarchici, seppur poco numerosi, 
                  fecero sentire la loro voce antimilitarista, anche se solo durante 
                  il “biennio rosso” (1919-20) si costituì 
                  il primo gruppo specificamente libertario, il gruppo “Spartaco”, 
                  cui aderirono intellettuali di diversa estrazione (fra cui Camillo 
                  Berneri e l'avvocato Nobili) e molti militanti operai (fra cui 
                  Torquato Gobbi, Fortunato Sartori ed alcuni dipendenti delle 
                  Officine Reggiane): la loro presenza sia con attività 
                  propagandistica sia in campo anarco-sindacalista fu molto efficace 
                  e attirò su di loro le pesanti attenzioni del nascente 
                  squadrismo fascista, che si reggeva soprattutto grazie ai finanziamenti 
                  dei grossi agrari della provincia reggiana. 
                  Per rendere il clima instaurato dalle camicie nere in città, 
                  riportiamo dal quotidiano liberal-fascista Il giornale di 
                  Reggio del 25-3-21 la seguente cronaca cittadina: “L'incidente 
                  più grave di ieri (24 marzo, giorno successivo all'attentato 
                  del Diana a Milano) fu provocato da un noto anarchico locale, 
                  certo Torquato Gobbi, faccendiere assai attivo.... Questo Gobbi, 
                  dunque, ieri mentre già si era diffuso il raccapriccio 
                  per l'infame orrenda carneficina del Teatro Diana, a Milano, 
                  si aggirava ostentatamente intorno ai nuclei di fascisti che 
                  nel centro si venivano riunendo, commentando l'avvenimento. 
                  Ad un certo momento, interpellato da un fascista sulle ragioni 
                  del suo aggirarsi, rispose evasivamente e quindi, invitato ad 
                  andarsene, rispose, quasi con dileggio e per canzonatura, che 
                  non poteva allontanarsi rapidamente perché aveva male 
                  ai piedi. Il suo contegno aumentò l'irritazione del fascista, 
                  che aggiunse “E allora, se vuol star qui, gridi Viva l'Italia!”. 
                  L'anarchico, che evidentemente era in vena di attaccar brighe, 
                  o in cerca di facile martirio, rispose allora gridando “Viva 
                  l'Anarchia!”. Com'era da immaginarsi fu picchiato abbastanza 
                  energicamente... e ne avrà per alcuni giorni”. 
                  A Cavriago (Reggio E.) in occasione del I maggio 1921 ebbero 
                  luogo violenti scontri fra socialisti ed anarchici da una parte 
                  e fascisti dall'altra: il bilancio fu di due anarchici morti 
                  (Primo Francescotti e Andrea Barrilli) ed alcuni feriti. Anche 
                  in quell'occasione i fascisti erano calati dalle zone circostanti, 
                  e pare che a pretesto dell'aggressione fascista fosse addotto 
                  il motivo che un compagno portava un nastro rosso-nero all'occhiello. 
                  Un altro importante episodio di persecuzione contro gli anarchici 
                  ebbe luogo nel febbraio del 1923, allorché venne inventato 
                  un “complotto sovversivo”, procedendo quindi a numerosi 
                  arresti, sia fra i comunisti sia fra gli anarchici (tra i quali 
                  Gobbi e Nobili). Anche questo colpo contribuì a spingere 
                  molti compagni sulle vie dell'esilio. 
                  Alcuni anarchici reggiani parteciparono alla rivoluzione spagnola 
                  combattendo sul fronte antifascista, e fra loro ricordiamo innanzitutto 
                  Camillo Berneri (vedi A 16 - “Un intellettuale anarchico”), 
                  e poi Mario Corghi, Lebo Piagnoli ed Emilio Zambonini. 
                  Quest'ultimo, dopo l'8 settembre 1943, tornò nel reggiano, 
                  dove fu tra i promotori delle bande partigiane della zona appenninica 
                  di Villa Minozzo. Catturato insieme al gruppo di don Pasquino 
                  Borghi, Zambonini venne fucilato al poligono di tiro di Reggio 
                  il 29 gennaio 1944; prima di morire lanciò un grido: 
                  “Viva l'Anarchia!”. 
                 
                    
                
                   
                    |   La strage di Torino 
                      Il 
                        18 dicembre 1922 Torino fu teatro di tremende violenze 
                        fasciste, che ancor oggi sono ricordate come “la 
                        strage di Torino”. Molti operai furono aggrediti 
                        nelle loro case, bastonati di fronte ai loro familiari, 
                        altri furono caricati sui camion e crivellati di colpi 
                        in riva al Po, nei prati della Barriera di Nizza, sulle 
                        strade della collina. 
                        Fra gli undici “sovversivi” trucidati dalle 
                        camicie nere ricordiamo l'anarchico Pietro Ferrero, che 
                        era stato due anni prima uno dei promotori e degli organizzatori 
                        dell'occupazione delle fabbriche a Torino nella sua qualità 
                        di segretario della FIOM torinese. Colpito selvaggiamente 
                        dagli squadristi fascisti, Ferrero fu legato per i piedi 
                        ad un camion e trascinato a lungo per i viali di Torino; 
                        il suo corpo ormai irriconoscibile fu abbandonato in un 
                        viale non molto distante dalla Camera del Lavoro. 
                        Miglior fortuna ebbe l'anarchico Probo Mari, attivista 
                        dell'U.S.I. torinese, portato in riva al Po dai fascisti 
                        che gli legarono le mani dietro alla schiena e lo gettarono 
                        nel fiume. Mari riuscì però a raggiungere 
                        la riva ed a farsi ricoverare in ospedale. 
                      | 
                   
                 
                 
                   
                   
                    
                   
                  BRESCIA 
                   
                  A Brescia, città industriale con forte sezione U.S.I. 
                  (ricordiamo che gli operai della fabbrica di fiammiferi - ora 
                  non c'è più - erano iscritti quasi tutti all'U.S.I. 
                  ed avevano costantemente una funzione pilota per le maestranze 
                  degli altri stabilimenti) e folto gruppo di “Arditi del 
                  Popolo”, il fascismo trovò pane per i suoi denti. 
                  Se fu dura la lotta ancor più dura fu la vendetta fascista 
                  e numerosi anarchici subirono persecuzioni, galera, confino, 
                  esilio. Fra essi ricordiamo Ettore Benometti, Angelo Alberti, 
                  Mario Conti (assassinato dai fascisti), Leandro Sorio (che scontò 
                  16 anni di galera per complicità nel fallito attentato 
                  a Mussolini di Lucetti), Ernesto Bonomini (che a Parigi uccise 
                  nel '24 il gerarca fascista Bonservizi). 
                  Alla resistenza alcuni anarchici parteciparono nelle brigate 
                  G.L. e Garibaldi, altri individualmente. Ricordiamo Bortolo 
                  Ballarini di Bienno, la cui casetta di montagna a quota 2000, 
                  due volte bruciata dai nazifascisti, fu usata come base da una 
                  brigata mista G.L.-Garibaldi, ed Ettore Benometti, la cui bottega 
                  di calzolaio era centro di ritrovo clandestino bresciano e di 
                  collegamento e smistamento di partigiani, nonostante la stretta 
                  sorveglianza e le varie perquisizioni domiciliari cui era sottoposto. 
                 
                  I.G. 
				   
                 
                 
                
                   
                    |    Angelo 
                        Damonti.  
                        Nato a Brescia nel 1886, A. D. entrò giovanissimo 
                        nelle file del movimento anarchico milanese.  Nel 1920 
                        era a fianco di Errico Malatesta e della redazione del 
                        quotidiano Umanità Nova. Da allora fino al 1926 
                        assunse insieme ai compagni Meniconi e Mantovani l'incarico 
                        del Comitato Pro Vittime Politiche; durante quel periodo 
                        fu continuamente in viaggio per l'Italia a contattare 
                        i compagni detenuti, a cercare i migliori avvocati, a 
                        raccogliere fondi, a litigare con direttori carcerari 
                        e con poliziotti per far pervenire gli aiuti ai compagni 
                        detenuti. Per questa sua infaticabile attività 
                        subì numerosissimi fermi ed arresti da parte della 
                        polizia e persecuzioni da parte dei fascisti.  
                        Costretto ad emigrare in Francia continuò l'attività 
                        politica con gli altri compagni italiani esiliati a Parigi, 
                        finché, espulso dalla Francia, riparò in 
                        Belgio (1934).  
                        Rientrato in Francia poco prima dell'inizio dell'ultima 
                        guerra, entrò nei ranghi dei “Franchi tiratori 
                        partigiani francesi” contro gli invasori nazisti; 
                        divenne uomo di fiducia del sindacato generale delle industrie 
                        elettriche (aderente alla C.G.T. clandestina), che effettuava 
                        lavori lungo la linea ferroviaria.  Con questa copertura 
                        potè continuare la sua attività antifascista, 
                        nascondendo in un treno speciale, destinato alla manutenzione, 
                        tutti quei lavoratori che si rifiutavano di essere convogliati 
                        in Germania ed indirizzandoli invece verso le formazioni 
                        partigiane.  Per i suoi meriti ed il suo valore fu nominato 
                        generale del Maquis francese.  
                       | 
                   
                 
                 
                   
                   
                   
                    
                   
                  Castel Bolognese 
                   
                  Fin dai primi mesi del 1921 la Romagna fu utilizzata dalle camicie 
                  nere come base di partenza per imprese squadriste nelle zone 
                  circostanti; ma per lungo tempo non potè essere una base 
                  sicura per i fascisti, che ebbero da fare i conti con la tradizione 
                  di lotta che caratterizzava le popolazioni romagnole fin dai 
                  tempi della Prima Internazionale. Repubblicani, socialisti ed 
                  anarchici costituivano tre grandi forze popolari che, seppur 
                  divise da polemiche estremamente vivaci, contribuivano a tener 
                  desto lo scontro sociale. 
                  A Castelbolognese furono soprattutto i giovani anarchici del 
                  gruppo locale a rispondere alle provocazioni fasciste, portate 
                  sia da camerati provenienti da altre città (soprattutto 
                  Bologna) sia dai pochi fascistelli locali. Quando, per esempio, 
                  gli anarchici attaccarono sulla via Emilia due grandi bandiere 
                  rosso-nere con la scritta “Viva la Comune”, subito 
                  i fascisti locali informarono quelli bolognesi che arrivarono 
                  nel pomeriggio vestiti con le solite camicie nere, teschio sul 
                  petto e pugnali ai fianchi. Ma non fu loro possibile strappare 
                  le bandiere perché il coraggio dei giovani compagni li 
                  costrinse ad una precipitosa fuga via da Castelbolognese; purtroppo, 
                  comunque, quel 18 marzo del '21 fu l'ultimo in cui fu possibile 
                  festeggiare l'anniversario della Comune. 
                  Ma non fu certo l'ultimo episodio di lotta antifascista, chè 
                  anzi per conquistare Castelbolognese le camicie nere dovettero 
                  di fatto attendere che i compagni più attivi fossero 
                  messi nella condizione di non poter più svolgere alcuna 
                  forma di attività politica. 
                  Nei mesi successivi si intensificarono le provocazioni fasciste, 
                  che venivano compiute di preferenza durante la notte; vennero 
                  bastonati molti notori nazifascisti, e la violenta furia delle 
                  camicie nere non risparmiò neppure un fattore agricolo 
                  fascista, che salutò i camerati picchiatori, ma fu ugualmente 
                  da loro pestato perché aveva dimenticato a casa tessera 
                  e distintivo, e si ritrovò con un braccio rotto. 
                  Se furono soprattutto i giovani anarchici (Nello Garavini, Antonio 
                  Patuelli e tanti altri) a combattere attivamente contro i fascisti, 
                  non bisogna dimenticare il contributo dato dai compagni più 
                  anziani, alcuni dei quali ricordavano bene i tempi da loro vissuti 
                  della Prima Internazionale. Il più anziano degli anarchici 
                  di Castelbolognese era allora Raffaele Cavallazzi: subì 
                  più di cento arresti! Sempre in prima fila nelle lotte 
                  contro la polizia, veniva da questa perseguitato ed arrestato 
                  con qualsiasi pretesto, tanto che l'urlo del delegato di P.S. 
                  “Arrestate Cavallazzi!” era diventato proverbiale; 
                  dopo qualche giorno, comunque, doveva essere rilasciato e riprendeva 
                  così il suo posto di lotta continuando la diffusione 
                  della stampa anarchica. In occasione del 18 marzo, del I maggio 
                  e di altre ricorrenze di avvenimenti rivoluzionari esponeva 
                  alla finestra due bandiere a brandelli, rosso-nere: sosteneva 
                  che erano ancora più gloriose, perché gli strappi 
                  erano dovuti a ferite di guerra. Quando i fascisti gli ebbero 
                  tagliato per spregio un pezzo di barba, Cavallazzi ebbe cura 
                  di lasciare sempre “dissestata” la barba, in modo 
                  da poter ripetere mostrandola: “Tutti devono vedere e 
                  sapere come quei manigoldi dei fascisti maltrattano i vecchi”. 
                  Per questo suo atteggiamento ribelle, ereditato dai genitori 
                  anch'essi anarchici (i familiari si chiamavano Ribelle, Arnaldo 
                  e Anarchina), Cavallazzi era odiato e scansato dai reazionari 
                  e dai bigotti del paese, ma nemmeno le persecuzioni poliziesche 
                  lo poterono piegare, tanto che ancor oggi lo ricordiamo come 
                  il simbolo della resistenza opposta dagli anarchici di Castelbolognese 
                  alle violenze fasciste. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  Piombino 
                   
                  Anarchici 
                  ed anarcosindacalisti vendono cara la pelle 
                   
                  Nei primi mesi del 1921, quando già in tutta la Toscana 
                  si è scatenata l'offensiva fascista, Piombino non conosce 
                  ancora la violenza squadrista e ancora per più di un 
                  anno resisterà al cerchio nero che la stringe. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   L'Ideal Bar, o «Barrino», ritrovo dei fascisti 
                  piombinesi  | 
                   
                 
                 
                  A differenza di altri luoghi, a Piombino il fascismo nasce all'ombra 
                  delle ciminiere con il denaro dei “dirigenti” dell'ILVA 
                  e della Magona, le due fabbriche siderurgiche più importanti 
                  della città, occupate nel '20 dagli operai armati. Questi 
                  due colossi industriali non forniscono solo i finanziamenti, 
                  ma anche i gregari per le azioni teppistiche trasformando in 
                  squadracce nere le guardie dei due stabilimenti, gente abituata 
                  da sempre all'odio antioperaio. Tuttavia questi primi fenomeni 
                  dell'ondata fascista non trovano lo spazio per ingrandirsi e 
                  attecchire perché circoscritti da una classe lavoratrice 
                  estremamente combattiva e rivoluzionaria, fortemente influenzata 
                  sia dagli anarchici, sia dagli anarco-sindacalisti della locale 
                  Camera del Lavoro federata all'U.S.I. 
                  Per avere un'idea di questa influenza basta guardare i risultati 
                  delle elezioni politiche del '19, con 3483 schede bianche contro 
                  1487 voti socialisti, su un totale di 6098 votanti ed alla composizione 
                  delle Commissioni Interne dell'ILVA e della Magona con 15 delegati 
                  anarco-sindacalisti dell'U.S.I. contro i cinque delegati socialisti 
                  e comunisti della FIOM. 
                  È così che alla fatidica “marcia su Roma” 
                  dell'ottobre del '22, il fascismo Piombinese non arriva nemmeno 
                  a cento teppisti. Prima del '22 i fascisti locali non osano 
                  tenere i loro raduni nella città; anzi ogni volta che 
                  lo squadrismo pisano, senese o fiorentino compiva qualche “impresa” 
                  essi dovevano subire l'ira degli anarchici e degli Arditi del 
                  Popolo. 
                  Il lento affermarsi del fascismo a Piombino in certa misura 
                  è da attribuirsi anche all'azione sprovveduta della CGL 
                  e del Partito Socialista che, assieme agli esponenti dei vari 
                  partiti, degli industriali e dei fasci di combattimento, forma 
                  un Comitato Cittadino per pacificare la città e risolvere 
                  la crisi dell'industria siderurgica che minacciava di chiudere, 
                  licenziando tutte le maestranze. 
                  Questo riconoscimento ufficiale delle forze socialiste verso 
                  il nascente fascismo è l'equivalente locale della stessa 
                  politica che a livello nazionale porterà al Patto di 
                  Pacificazione fra fascisti e socialisti. Sarà proprio 
                  il Comitato Cittadino che, purgato dagli elementi socialisti, 
                  prenderà in mano l'amministrazione di Piombino dopo la 
                  conquista della città. 
                  Ovviamente a questo Comitato Cittadino sia gli anarchici che 
                  la Camera del Lavoro federata all'U.S.I. rifiutano di partecipare, 
                  ribadendo che non è possibile (...) sia con i fasci di 
                  combattimento, ma che anzi è dovere rivoluzionario scendere 
                  nelle piazze e combattere per soffocare la violenza fascista. 
                  Furono infatti proprio gli anarchici e gli anarco-sindacalisti 
                  i maggiori sostenitori e attivisti degli Arditi del Popolo. 
                  Per iniziativa del deputato socialista Giuseppe Mingrino si 
                  era costituito a Piombino il 144° battaglione degli Arditi 
                  del Popolo, cui aderivano gli anarchici e l'ala comunista del 
                  Partito Socialista, che dopo poco esce dal partito per formare 
                  il Partito Comunista. Presto però i comunisti usciranno 
                  da queste formazioni operaie di difesa ed anzi una circolare 
                  dell'esecutivo del P.C. diffida tutti i militanti dall'entrare 
                  negli Arditi o anche solo di avere contatti con loro. Dopo questa 
                  defezione, gli Arditi del Popolo a Piombino saranno costituiti 
                  quasi esclusivamente da elementi anarchici e anarco-sindacalisti 
                  e saranno loro a sostenere le lotte dure e spesso sanguinose 
                  che impediranno fino alla metà del '22 ai fascisti di 
                  entrare a Piombino. 
                  L'attentato al socialista Mingrino, il 19 luglio 1921, fa scattare 
                  per la prima volta gli Arditi. Essi attaccano il “covo” 
                  dei fascisti piombinesi, ma lo trovano deserto, quindi casa 
                  per casa e nei luoghi di lavoro catturano i fascisti e costringono 
                  un loro capo, il direttore del Cantiere navale, a firmare un 
                  atto di sottomissione. 
                  Le Guardie Regie corse in aiuto dei fascisti vengono sopraffatte 
                  e disarmate. 
                  Solo dopo alcuni giorni la reazione degli Arditi termina e le 
                  forze dell'ordine riescono a riprendere il controllo della città. 
                  Intanto il 2 agosto socialisti e fascisti firmano a Roma il 
                  Patto di Pacificazione. Gli Arditi affiggono a Piombino un manifesto: 
                  “Non vi può essere nessuna possibilità di 
                  pace, in questo momento, tra il proletariato piombinese e i 
                  suoi sfruttatori... gli Arditi del Popolo resteranno vigili 
                  ed armati contro gli sgherri neri”. 
                  Il 3 settembre l'anarchico Giuseppe Morelli sorpreso ad affiggere 
                  manifesti contro il Patto di Pacificazione reagisce con la pistola 
                  alle guardie regie ed ai fascisti, rimanendo ucciso nel conflitto. 
                  Durante la notte, prevedendo la reazione degli anarchici, la 
                  Polizia irrompe nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro (durante 
                  i turni notturni) arrestando oltre 200 compagni. Privati gli 
                  Arditi e gli anarchici dei loro militanti politici e sindacali 
                  più attivi, i fascisti capirono che quello era il momento 
                  per sferrare il loro attacco. Prima incendiarono la sezione 
                  socialista, poi la Camera Confederale e la tipografia “la 
                  Fiamma”, e quindi si diressero verso la Camera del Lavoro 
                  sindacale, ma si scontrarono con una pattuglia di giovani anarchici, 
                  fra cui: Landi, Lunghi, Venturini, Marchionneschi, Panzavolta, 
                  Franci, Messena e Lucarelli. Giungevano nel frattempo gruppi 
                  di operai e la polizia fu costretta ad arrestare i fascisti 
                  per salvarli dalla sana ira popolare. 
                  Racconta Armando Borghi “Una conferenza la tenni a Piombino, 
                  presente il deputato comunista Misiano. I fascisti lo avevano 
                  scacciato dal Parlamento, minacciandolo di morte, e lui si era 
                  rifugiato sotto la protezione degli anarchici, nella cittadina 
                  toscana, tenuta ancora dai nostri alla fine del 1921”. 
                  I fascisti tentarono la conquista di Piombino il 25 aprile del 
                  '22, ma giunti alla periferia della città, trovarono 
                  gli anarchici e gli Arditi che rapidamente misero in fuga le 
                  camicie nere. 
                  Frattanto, dopo la riapertura degli stabilimenti siderurgici, 
                  manovrando abilmente con le assunzioni discriminate per rendere 
                  più debole la compattezza operaia (Piombino anche allora 
                  era una città-fabbrica) le direzioni aziendali preparavano 
                  il colpo definitivo, essendosi anche assicurata la totale collaborazione 
                  del Comitato Cittadino. 
                  Un'altra vittima fu il giovane anarchico Landi Landino (21 maggio 
                  1922), che i fascisti tenevano presente come il principale artefice 
                  delle loro “ritirate”. 
                  Il 12 giugno (dopo un incidente appositamente creato dove rimaneva 
                  ucciso uno studente fascista e per i funerali del quale giunsero 
                  in città i fascisti di tutta la zona) gli squadristi 
                  e le guardie regie inviate da Pisa a “ristabilire l'ordine” 
                  si impadronivano della città. 
                  Dapprima occupano il Comune e la Pretura, poi i fascisti assaltano 
                  e distruggono le sedi del Partito Socialista e della CGL per 
                  tutta la notte e tutto il giorno dopo, con centinaia di assalti, 
                  le squadracce tentano la conquista della Camera Sindacale dell'U.S.I. 
                  e della tipografia del giornale anarchico “Il martello”, 
                  sempre respinti. Solo dopo un giorno e mezzo di combattimento, 
                  fascisti e guardie legge riescono a piegare anche gli anarchici. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   La Camera del Lavoro di Piombino, nel 1911.  In Piombino, 
                  città operaia con forte presenza anarchica  ed anarco-sindacalista, 
                  le squadracce fasciste non si  avventurarono fino all'autunno 
                  del '21 e solo nel giugno del  '22 «espugnarono» 
                  la Camera del Lavoro (aderente all'U.S.I)  dopo un giorno e mezzo 
                  di combattimenti  | 
                   
                 
                
                  Il fascismo era passato anche a Piombino ed i compagni più 
                  in vista trovarono scampo nell'espatrio; altri dovettero subire 
                  persecuzioni e angherie durante tutto il regime fascista. 
                  Prendiamo ad esempio le vicende di due compagni: Egidio Fossi 
                  e Adriano Vanni. 
                  Egidio Fossi, condannato nel '20 dalle Assise di Pisa a 12 anni 
                  e 6 mesi, 2 anni dei quali trascorsi in segregazione a Portolongone, 
                  gli altri in varie galere. Venne liberato per amnistia nel mese 
                  di ottobre 1925, fu poi perseguitato ripetutamente, ammonito 
                  e minacciato dai fascisti, finché espatriò clandestinamente 
                  in Francia. Anche all'estero non sfuggì alla persecuzione 
                  e cominciò così la vita randagia del fuoriuscito, 
                  braccato anche dalla polizia francese. Alla notizia che in Spagna 
                  il popolo era insorto contro il tentativo nazi-fascista, non 
                  mise tempo in mezzo e raggiunse nell'agosto 1936 la colonna 
                  italiana Francisco Ascaso, partecipando a tutte le azioni sul 
                  fronte Aragonese di Huesca, rimanendo a combattere in Spagna 
                  fino al marzo del 1939; fu poi internato nel campo di concentramento 
                  di Gurs e mandato nelle compagnie di lavoro. Nel 1940 fu fatto 
                  prigioniero dai tedeschi, venne quindi tradotto in Italia e 
                  assegnato al confino di Ventotene per 5 anni. Fu liberato nel 
                  settembre 1943; potè rientrare a Piombino nel 1945, dove 
                  riprese il suo posto nelle file anarchiche e come operaio all'Italsider. 
                  Adriano Vanni, condannato insieme a Egidio Fossi e scarcerato 
                  nello stesso periodo fu subito bastonato a sangue dai fascisti; 
                  dovette riparare all'estero, ma anche qui ebbe vita difficile. 
                  Rientrato in Italia dopo qualche anno, cominciarono di nuovo 
                  le persecuzioni del regime e le bastonature dei delinquenti 
                  in camicia nera. Partecipò attivamente alla sommossa 
                  della popolazione contro i nazi-fascisti del 10 settembre 1943. 
                  La lotta partigiana lo vide fra i più validi animatori 
                  della resistenza e assieme ad altri libertari operò in 
                  formazioni che agivano nelle zone all'interno della Maremma; 
                  fece parte anche del nucleo periferico del CLN. A liberazione 
                  avvenuta, nonostante si ritrovasse faccia a faccia con molti 
                  dei suoi aguzzini del ventennio, ebbe la forza morale della 
                  non vendetta. 
                  Altri compagni dovettero prendere la via del fuoriuscitismo 
                  da Piombino, come Franci Dario, Bacconi, (dirigente della U.S.I.), 
                  Agnarelli Smeraldo, e altri ancora. A Torino si trasferirono 
                  compagni come Guerrieri Settimo, Baroni Ilio (caduto nelle formazioni 
                  GAP), Bellini e Cafiero. I compagni che riuscirono a rimanere 
                  a Piombino non rimasero immuni da ammonizioni e minacce e, quando 
                  venivano personalità del regime, erano prelevati dalle 
                  loro abitazioni e tenuti in carcere per 3 o 4 giorni. 
                 
                  F. A. Piombinese 
                 
                   
                   
                   
                   
                
                   
                    |    L'anarchico 
                        Emilio Marzani, di San Benedetto.  
                        Fece parte alla 
                        fine della prima guerra mondiale del gruppo “I Nichilisti”, 
                        che operava nel mantovano. Fra le azioni di questo gruppo 
                        ricordiamo l'assalto del deposito militare effettuato 
                        alla fine del '19, con la partecipazione della popolazione 
                        di San Benedetto.  Nel 1920 fu accusato dell'omicidio di 
                        due fascisti e nel '21 del ferimento di due carabinieri. 
                        Costretto alla clandestinità, fu scoperto dai carabinieri, 
                        che presero d'assalto il suo rifugio e che lo ferirono 
                        mentre nuovamente riusciva a scappare. Rifugiatosi in 
                        Spagna e poi in Francia ebbe modo di conoscere le galere 
                        straniere.  Nel 1942 fu arrestato dai tedeschi e destinato 
                        a morire in un lager: lo salvarono... i fascisti nostrani 
                        che ne ottennero l'estradizione e lo confinarono nell'isola 
                        di Ventotene. Tornato nel mantovano dopo l'8 settembre 
                        1943, non partecipò alla lotta armata della resistenza 
                        perché, dice, convinto che inutile era ormai lottare 
                        contro i nazifascisti già sbaragliati dagli eserciti 
                        alleati. 
  | 
                   
                 
                 
                   
                   
                   
                  Trieste ed Istria 
                   
                  Ecco un quadro non completo, anche se documentato, del contributo 
                  degli anarchici giuliani all'opposizione al fascismo. 
                  Nel '19 i fascisti triestini avevano l'abitudine di radunarsi 
                  al Caffè degli Specchi. Erano circa una trentina e reclutavano 
                  i loro componenti più attivi nelle spedizioni punitive 
                  fra il sottoproletariato, offrendo come remunerazione denaro 
                  e cocaina. 
                  L'elemento trainante di questa banda di camicie nere era Giunta 
                  che, dopo il suo fallimento come avvocato a Firenze, si era 
                  installato a Trieste dove aveva assunto la carica di segretario 
                  del fascio. Da questo primo gradino poi continuò la sua 
                  brillante carriera di gerarca (ed è morto pochi anni 
                  fa, di morte naturale!). 
                  Sotto il suo incitamento nel 1920 venne bruciato l'Hotel Balkan 
                  (Narodni Dom) sede delle organizzazioni slovene. Seguirono poi 
                  l'incendio de “Il Lavoratore”, organo dei comunisti 
                  locali, e quello della Camera del Lavoro. 
                  In quest'ultima occasione il proletariato triestino rispose 
                  con l'incendio del cantiere San Marco, la più grande 
                  industria della città, al quale partecipò anche 
                  la compagna anarchica Maria Simonetti. Assieme ad altri quindici 
                  operai, subì un processo che si concluse con l'assoluzione 
                  di tutti e fu un ottimo contributo alla propaganda antifascista. 
                  L'attività del Gruppo Anarchico Germinal era ripresa 
                  a Trieste subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Essa 
                  si concretizzava soprattutto in due settori. Uno era la propaganda 
                  (attraverso conferenze, dibattiti e per mezzo del giornale “Germinal”) 
                  e l'altro l'anarcosindacalismo. I compagni, essendo tutti lavoratori, 
                  partecipavano alle assemblee delle leghe, dove venivano discussi 
                  i più importanti problemi sindacali. Spesso in tali occasioni 
                  essi avevano una funzione determinante, godevano dell'appoggio 
                  di molti simpatizzanti e spingevano alla radicalizzazione delle 
                  lotte attraverso l'uso dello sciopero generale. 
                  Ben presto però, accanto a queste due attività 
                  se ne affiancò un'altra, cioè l'azione diretta 
                  contro gli squadristi e l'insorgere del fascismo. 
                  Una delle prime conseguenze fu l'ordine della polizia di sgomberare 
                  dalla loro sede per motivi di ordine pubblico, avendo questa 
                  più volte attirato l'attenzione delle squadre, con terrore 
                  degli inquilini. 
                  Ma se la chiusura del circolo limitò l'attività 
                  culturale, la propaganda e l'agitazione continuavano sul luogo 
                  di lavoro. Il compagno Volpin apparteneva al Consiglio Direttivo 
                  dei fornai, Cartafina a quello dei poligrafici, Frausin di Muggia 
                  e Radich di Monfalcone a quello dei metallurgici, Umberto Tommasini 
                  a quello dei metallurgici edili. 
                  I compagni, sfrattati, dovettero perciò limitare i loro 
                  incontri e si trovarono al Caffè “Union”, 
                  una cooperativa socialista. Ben presto il ritrovo venne individuato. 
                  I fascisti nell'agosto del 1922 tentarono di eliminarli in blocco 
                  tirando due bombe nel caffè. Ma le bombe non esplosero. 
                  Intervenne la polizia che chiuse il locale per rappresaglia 
                  per la durata di un mese. Ormai la vita per gli oppositori del 
                  fascismo fu resa impossibile. Gli anarchici, in particolare, 
                  vennero braccati ovunque. 
                  Una situazione non migliore c'era anche a Monfalcone dove gli 
                  anarchici erano attivissimi soprattutto nel cantiere. Nel marzo 
                  1919 il compagno Frausin fu aggredito dai fascisti. Creduto 
                  morto lo abbandonarono in terra; ricoverato all'ospedale di 
                  Monfalcone, i fascisti, accortisi dell'errore, tentarono di 
                  raprirlo per completare l'opera omicida, ma non vi riuscirono 
                  e il compagno fu trasferito a Trieste per sicurezza. 
                
                   
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                       Spagna 1936. Anarchici italiani sul fronte di Huesca;  al 
                  centro Umerto Tommasini di Firenze. Quasi tutti gli  anarchici 
                  triestini e giuliani in esilio  si ritrovarono in Spagna a combattere  
                  nelle file della formazione italiana della colonna  Ascaso (C.N.T.-F.A.I.); 
                  due di loro morirono in  combattimento, un terzo in ospedale 
                  a causa  di una malattia contratta al fronte  | 
                   
                 
                 
                  A Muggia, comune di Trieste, una squadra fascista nel 1920 tentò 
                  di invadere la casa del compagno Koenig, ma fu respinta a colpi 
                  di fucile da caccia. 
                  Sempre nel 1920, i fascisti tentarono in gran numero di invadere 
                  la Casa del Popolo di Trieste. Il compagno Pietro Cociancig, 
                  assieme ad altri, prese parte alla difesa e gli assalitori dovettero 
                  fuggire anche questa volta. Cociancich di Monfalcone si occupava 
                  tra l'altro di racimolare armi per la difesa, armi che poi venivano 
                  smistate in vari nascondigli in tutta la città. In tal 
                  modo si aveva in ogni occasione dei piccoli arsenali vicini 
                  che permettevano di agire con estrema rapidità. 
                  Nel luglio 1921 ad esempio tre anarchici, un comunista e un 
                  repubblicano gettarono alcune bombe su una squadra di fascisti 
                  di ritorno da una spedizione punitiva nel quartiere popolare 
                  di San Giacomo. Ventotto fascisti feriti. Nessuno venne riconosciuto 
                  né fermato. Queste però erano iniziative individuali 
                  e, come gruppo, i compagni si dedicavano a rendere più 
                  dura l'opposizione di massa durante gli scioperi generali. Essi 
                  si ribellavano contro i crumiri e contro i commercianti che, 
                  nonostante la proclamazione della agitazione, continuavano a 
                  tenere aperto. 
                  Nonostante l'opposizione armata e di massa, il fascismo riuscì 
                  ben presto a controllare Trieste. L'ultima azione organizzata 
                  fu quella dello sciopero di agosto, che però non riuscì: 
                  i negozi rimasero aperti, ci furono sporadici episodi di lotta 
                  ma nulla di decisivo. Da allora non ci furono più né 
                  cortei né proteste perché la gente aveva ormai 
                  timore di affrontare il fascismo in campo aperto. 
                  Nelle fabbriche si reagì più a lungo per mezzo 
                  di scioperi interni, che pur avendo carattere economico erano 
                  a sfondo antifascista. 
                  Gli ultimi scioperi a Trieste, prima della promulgazione delle 
                  leggi eccezionali, vennero effettuati nella Fabbrica Macchine 
                  Sant'Andrea nel marzo 1926. Nella fabbrica esisteva un'efficiente 
                  Commissione Interna il cui segretario era l'anarchico Mario 
                  Del Bel che venne, per la sua attività, sospeso dal lavoro. 
                  Gli operai fecero tre giorni di sciopero di protesta e il Del 
                  Bel fu riammesso al lavoro. 
                  Si può dire che gli anarchici giuliani reagirono con 
                  tutte le loro forze al fascismo. Dopo i comunisti, ebbero il 
                  maggior numero di incarcerati, confinati, esiliati, e se si 
                  fanno le dovute proporzioni numeriche furono i più colpiti. 
                  Non mancavano nemmeno azioni di affermazione di principio, come 
                  affissioni di manifesti in occasione del I Maggio ed esposizione 
                  di bandiere per la ricorrenza della rivoluzione russa. 
                  Nel 1926, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma, 
                  venne attuato un ulteriore fermo di polizia, per motivi di pubblica 
                  sicurezza. Vennero arrestati dodici fra socialisti, comunisti 
                  e repubblicani e tre anarchici (Umberto Tommasini, Cartafina 
                  e Negri). Nel frattempo, in seguito all'attentato di Zamboni 
                  a Mussolini, entrarono in vigore le leggi eccezionali e Gunsher 
                  e Umberto Tommasini furono tra i primi anarchici confinati. 
                  Venne inflitta l'ammonizione a Rodolfo Defilippi, Giovanni Riboli, 
                  Nina Montanari, Mery Pahor, Lucia Minor. Per sopravvivere, ad 
                  essi e ad altri anarchici non restava che la via dell'esilio. 
                  L'esilio non significò abbandono della lotta; anzi uno 
                  dei motivi per cui i compagni lasciarono l'Italia fu proprio 
                  l'impossibilità, per gli anarchici notori, di continuare 
                  la battaglia contro il fascismo in “patria”. 
                  Ad esempio, l'anarchico giuliano Cociancich lanciò una 
                  bomba ad Anbagne (Marsiglia) contro la cosiddetta Casa degli 
                  Italiani, noto covo di fascisti e di spioni. Arrestato, fu condannato 
                  a cinque anni; uscito di galera andò in Spagna a combattere 
                  il fascismo. Tornato a Bruxelles, fu arrestato ed estradato 
                  in Italia. Morì nel '44, nel carcere di Castelfranco 
                  Emilia, durante un bombardamento aereo. 
                  La maggior parte degli anarchici triestini e giuliani esuli 
                  partecipò alla rivoluzione spagnola, nella formazione 
                  italiana della colonna Ascaso (C.N.T.-F.A.I.). Vi presero parte: 
                  Luigi Krizaj di Pola, caduto ad Almudevar nel dicembre del 1936; 
                  Giuseppe Pesel di Rovigno, caduto a Carascal (Huesca), nell'aprile 
                  1937; Rodolfo Gunsher di Trieste, morto nel maggio 1938 all'ospedale 
                  di Barcellona a seguito di una malattia contratta al fronte; 
                  Egidio Bernardini di Trieste, ferito a Carascal nell'aprile 
                  1937; ed inoltre Nicola Turcinovich di Rovigno e Umberto Tommasini, 
                  Antonio Mesghez, Guglielmo Scheffer, Lina Simonetti Alpinolo 
                  Bucciarelli e Lucia Minor di Trieste. 
                  Molti compagni, sparsi per l'Europa dopo la guerra di Spagna, 
                  vennero estradati in Italia e si ritrovarono al confino. Nel 
                  '43 si ritrovarono a Ventotene Tommasini, Bucciarelli, la Minor, 
                  Turcinovich e Giovanni Bidoli; inoltre si trovarono alle Tremiti 
                  Gabriella Zetko e Ludovico Blokar. 
                  A Trieste c'era frattanto stata un'altra vittima del fascismo, 
                  il compagno Vittorio Puffich. Nel '38 i rilevatori dell'ACEGAT 
                  addetti all'acqua erano in agitazione, Puffich venne individuato 
                  come promotore e licenziato. Impossibilitato a trovare altro 
                  lavoro e a mantenere la moglie e le due figlie malate, si tolse 
                  la vita. 
                  C'erano però nella Venezia Giulia i primi sintomi di 
                  ripresa. Non si crearono formazioni partigiane anarchiche indipendenti, 
                  ma dei compagni liberati dal confino nel 1943, alcuni rimpatriati 
                  e quelli che erano rimasti a Trieste, collaborarono alle formazioni 
                  comuniste. Il compagno Bidoli teneva il collegamento con le 
                  stesse. Nel 1944 venne arrestato e portato in Germania nei campi 
                  di concentramento e non tornò più. Dai lager tedeschi 
                  non tornò più nemmeno il compagno Carlo Benussi. 
                  Il compagno Defilippi, che era grafico, procurava timbri per 
                  compilare documenti. Le case di molti altri erano punti di riferimento 
                  per la raccolta di viveri, indumenti e armi, e di rifugio per 
                  partigiani in pericolo. 
                  Il compagno Turcinovich, lasciato il confino alla caduta del 
                  fascismo, rientrò a Rovigno, suo paese natale e partecipò 
                  con le formazioni partigiane slovene alla cacciata dei tedeschi. 
                  In seguito ad un feroce rastrellamento dovette fuggire a Genova, 
                  dove collaborò a gruppi di combattimento locali. Finita 
                  la guerra rientrò a Rovigno e lì venne riconosciuto 
                  dagli Jugoslavi quale militante antifascista attivo, ma ben 
                  presto entrò in dissidio con i bolscevichi. Un amico 
                  d'infanzia, che faceva parte della guardia popolare, lo avvertì 
                  che era in pericolo e lo consigliò di andarsene. Turcinovich 
                  perciò, suo malgrado, ritornò nella città 
                  ligure. 
                  Nel maggio '45 a Trieste cominciarono a ritornare gli ultimi 
                  confinati, mentre era ancora in atto l'occupazione slava. Tornarono 
                  Tommasini, torna Bruch dal confino in Calabria e si ricostituisce 
                  il Gruppo Germinal. Il primo lavoro fu di chiarificazione 
                  e si parlò soprattutto della Spagna. Molti compagni, 
                  che fino a quel momento avevano collaborato coi comunisti, abbandonarono 
                  tale collegamento e furono attivi solo nel gruppo. Con l'occupazione 
                  americana riprese il lavoro di propaganda con l'uscita quindicinale 
                  del “Germinal”, con conferenze nelle varie località 
                  confinanti, ma soprattutto con l'attività sul luogo di 
                  produzione. Nei sindacati unici, Volpin riprese il suo lavoro 
                  fra i panettieri, Cartafina nei cantieri e Umberto Tommasini, 
                  come metallurgico, ottenne 1100 voti per presentarsi come delegato 
                  al Congresso sindacale europeo, che si tenne a Trieste nel 1947. 
                 
                  CLARA 
                
                   
                    
                   
                  RAVENNA 
                   
                  Tutti gli anarchici di Ravenna furono in ogni momento in 
                  prima fila nella lotta contro il fascismo. 
                  Durante la resistenza vi furono numerosi anarchici nella 
                  28a Brigata Garibaldi. Fra i più attivi ricordiamo: 
                  Bartolazzi Primo, membro del CLN Prov., Merli Ulisse del 
                  C. di Liberazione, Bosi Digione, Melandri Giovanni coi figli, 
                  Francia, Minghelli, Gatta, Minardi, Zauli, Stinchi, Guberti, 
                  Rambaldi, Galvani. 
                  Ricordiamo in modo particolare, a mò d'esempio, nella 
                  storia dell'antifascismo anarchico ravennate, Bartolini, Orselli, 
                  Spadoni, Rossi. 
                  Guglielmo Bartolini, fin dalla prima giovinezza attivo militante 
                  anarchico, condannato a morte per sabotaggio durante la guerra 
                  '15-'18 (la pena commutata in ergastolo), uscì dal carcere 
                  dopo l'8 settembre 1943; ritornato a Ravenna, partecipò 
                  alla Resistenza e fu tra i più attivi. Catturato durante 
                  un rastrellamento in montagna dai nazi-fascisti, di nuovo condannato 
                  a morte, riuscì con uno stratagemma e con l'aiuto di 
                  compagni, ad evadere e continuò la sua attività 
                  di partigiano fino alla Liberazione. 
                  Pasquale Orselli, il più giovane dei compagni del 
                  ravennate, di famiglia anarchica, fin dalla più tenera 
                  età conobbe le angherie fasciste. Durante la liberazione 
                  le case degli Orselli furono rifugio dei G.A.P. che operavano 
                  nella zona. Pasquale Orselli si distinse in varie azioni di 
                  combattimento e fu al comando della prima pattuglia partigiana 
                  che entrò in Ravenna. 
                  Angelo Spadoni, generoso, forte come un toro, era un operaio 
                  agricolo, privo di cultura ma intelligentissimo. Stimato da 
                  tutti per la sua generosità ed intelligenza, fu arrestato 
                  diverse volte durante il fosco ventennio e scontò 3 anni 
                  di prigione a Volterra per aver picchiato dei fascisti che volevano 
                  dare dell'olio di ricino a dei vecchi operai. 
                  Ludovico Rossi, uno dei primi antifascisti di Ravenna (comunista) 
                  dovette, con la moglie ed un figlio in tenera età, emigrare 
                  in Francia, dove divenne e si mantenne anarchico fino alla morte. 
                  Volontario fra i primi in Spagna, assieme alla moglie ed al 
                  figlio e malgrado una deformazione fisica, fu un invalido e 
                  stimato combattente. Dopo la sconfitta si rifugiò in 
                  Francia, dove fu messo in campo di concentramento; tuttavia 
                  evase, si ricongiunse con la famiglia, e con documenti falsi 
                  rimase in Francia fino alla liberazione. 
                 
                  P.O. 
                 
                   
                    
                   
                  La Carnia 
                   
                  In Carnia, fin dal primo sorgere del fascismo negli anni 1920-22, 
                  ci fu resistenza da parte di tutti i movimenti politici di sinistra 
                  contro le squadre d'azione. 
                  Il comune più combattivo fu quello di Prato Carnico e 
                  a lungo i fascisti non osarono penetrare all'interno della Val 
                  Pesarina. Quando ad esempio cercarono di bruciare la Casa del 
                  Popolo (sede di tutte le associazioni, partiti popolari e del 
                  Gruppo Anarchico) si scontrarono con l'opposizione armata di 
                  tutti gli antifascisti, in prima linea i compagni anarchici, 
                  tanto che alla fine dovettero rinunciare, constatando che la 
                  loro spedizione “costava” troppo. A causa dell'accanita 
                  lotta antifascista il comune di Prato Carnico fu denominato 
                  dalla questura di Udine il “Comune Rosso”. 
                  Nel luglio 1933 morì a Parigi un anarchico. La sua compagna 
                  lo fece portare al suo paese natio, cioè a Pesaris, frazione 
                  di Prato Carnico. Quando arrivò la salma i compagni anarchici 
                  e antifascisti organizzarono un corteo funebre con la fanfare 
                  in testa. La mesta cerimonia, svolta in forma civile, ebbe il 
                  grande concorso di tutto il popolo e assunse il carattere di 
                  dimostrazione antifascista. Il giorno dopo gli sgherri procedettero 
                  all'arresto di tre anarchici e di due comunisti che, tradotti 
                  alle carceri di Udine, furono poi processati. Gli anarchici 
                  vennero condannati a cinque anni di confino; un comunista venne 
                  condannato anche lui a cinque anni e l'altro ad un anno da scontarsi 
                  tutti all'isola di Ponza. Degli anarchici, Guido Cimador, avendo 
                  la cittadinanza statunitense, sotto la pressione delle autorità 
                  americane fu rilasciato dopo due mesi. Italo Cristofali e Luigi 
                  D'Agaro invece scontarono tutta la pena. Anzi il compagno D'Agaro 
                  poco dopo fu raggiunto al confino dalla moglie e da due figli 
                  in tenera età, uno dei quali morì a Ponza. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Prato Carnico: la Casa del Popolo. Costruita da anarchici  
                  e socialisti all'inizio del secolo, fu difesa da ripetuti assalti  
                  fascisti; alla fine gli squadristi dovettero rinunciare  alla 
                  conquista del piccolo ma combattivo «comune rosso»  | 
                   
                 
                 
                  Allo scoppio della seconda guerra mondiale, ben pochi compagni 
                  erano rimasti in Carnia, a causa della forte emigrazione, soprattutto 
                  verso le due Americhe, e dell'opera di vent'anni di dittatura 
                  fascista. Ciononostante, alla caduta del fascismo, il 25 luglio 
                  1943, i pochi rimasti si organizzarono per la lotta armata contro 
                  il nazifascismo. 
                  Sin dall'8 settembre si costituirono dei piccoli reparti locali 
                  e si diede ospitalità ai soldati della Divisione Julia 
                  che, per evitare la deportazione in Germania e per sottrarsi 
                  al reclutamento, salivano le montagne armati. I molti anarchici 
                  di Pradumblis approfittarono del momento di disorganizzazione 
                  generale per recuperare le armi delle caserme, dislocate nelle 
                  zone alpine, e per nasconderle. Guidava le operazioni l'operaio 
                  anarchico Cristofali Italo (detto Aso). 
                  Subito dopo l'8 settembre 1943 i partigiani dell'Alta Carnia 
                  si misero in contatto con gli antifascisti friulani per i primi 
                  rifornimenti di armi automatiche e per tutti i problemi logistici. 
                  In seguito a questi primi collegamenti dell'inverno '43-'44, 
                  ai primi di aprile si poté dare l'assalto ad una e poi 
                  a tutte le stazioni e caserme dei Carabinieri e della Guardia 
                  di Finanza dell'Alta Carnia e delle zone limitrofe dell'Alto 
                  Cadore. Lo scopo era di rifornire di armi, divise, materiale 
                  radiotelegrafico tutti compagni che man mano aderivano al fronte 
                  di Liberazione armata che lentamente si andava estendendo in 
                  tutta la regione. 
                  Gli anarchici ed i simpatizzanti, non potendo formare bande 
                  autonome, dato l'esiguo numero, si inserirono nei quadri della 
                  Divisione Garibaldi-Friuli in cui diedero prova di grande combattività. 
                  Gli anarchici ebbero anche posti di responsabilità. Va 
                  ricordato Petris di Pradumblis che ebbe il compito di fornire 
                  tutto il vettovagliamento alla Brigata Carnica, facente parte 
                  della Divisione Garibaldi-Friuli. 
                  Fra i primi, anzi il primissimo fra gli organizzatori fu proprio 
                  il nostro compagno Aso che, sia come combattente sia come comandante, 
                  collaborò al disarmo di tutte le caserme dell'Alta Carnia 
                  e Cadore e che morì nell'espugnare la caserma della gendarmeria 
                  tedesca Sappada nel luglio 1944, assaltata per vendicare un 
                  compagno garibaldino ucciso in modo atroce. Le informazioni 
                  passate da un venduto ai tedeschi davano la gendarmeria per 
                  semincustodita. Invece un reticolato alto un metro e mezzo circondava 
                  l'edificio e tutte le finestre erano murate ed in esse vi erano 
                  solo piccole feritoie. Aso, che guidava l'azione al comando 
                  di una quarantina di garibaldini, riuscì ad aprire un 
                  varco nel reticolato e si lanciò verso la porta, sotto 
                  il fuoco tedesco. Raggiuntala, spaccò il vetro con la 
                  canna del mitra ma in quel momento fu raggiunto da una scarica 
                  di pistol-machine e cadde morto. 
                  Fu anche con il contributo dei nostri compagni che si costituì 
                  la Zona Libera in Carnia che durò dal luglio all'ottobre 
                  1944. In questo territorio liberato, la vita di 80.000 persone 
                  era organizzata in forme simili all'autogoverno, e alle necessità 
                  dello scontro armato provvedeva direttamente la popolazione. 
                  In ogni vallata si formarono dei comitati di liberazione per 
                  risolvere i problemi locali, mentre il “potere” 
                  centrale dava solo indicazioni sulle questioni generali. 
                  Finita la guerra, purtroppo i nostri sacrifici e le nostre speranze 
                  restarono deluse a causa della faziosità di tutte le 
                  correnti in lotta e particolarmente del PCI. 
                 
                  Tullio Toniutti 
                 
                   
                   
                   
                    
                   
                  Pistoia 
                   
                  Gli anarchici e i militanti del Partito Comunista Libertario 
                  (nato a cavallo fra il '39 e il '40) costituirono a Pistoia 
                  le prime formazioni partigiane, che dettero inizio alla lotta 
                  armata contro il nazifascismo. Tra queste, la formazione che, 
                  con la morte del suo comandante il 29-7-1944, prenderà 
                  il nome di “Silvano Fedi”. 
                   Gli 
                  anarchici avevano a Pistoia un retroterra storico di esperienze 
                  e di lotte. Durante il biennio rosso 1919-20 il movimento, superata 
                  la tradizionale base artigianale, investe nuovi strati sociali. 
                  La Unione Sindacale Italiana è presente un po' ovunque 
                  ed è particolarmente forte fra i lavoratori del legno 
                  e i tipografi. La sua incisività va oltre la sua forza 
                  reale: essa costituisce un punto di riferimento per tutto l'arco 
                  rivoluzionario, ha una funzione di stimolo e di catalizzatore 
                  all'interno del movimento operaio che molte volte mette in crisi 
                  l'egemonia della CGL. Su una linea di azione diretta si trova 
                  anche il Sindacato Ferrovieri, il cui segretario è l'anarchico 
                  Egisto Gori, segretario anche della locale U.S.I. 
                  Il 7 luglio 1920, i ferrovieri pistoiesi si rifiutano di far 
                  partire un vagone diretto in Polonia, per solidarietà 
                  con la Russia dei Soviet. Dove è presente una forte componente 
                  anarcosindacalista, la lotta si radicalizza. Durante la prima 
                  fase della lotta, che vedeva gli operai di tutta Italia impegnati 
                  nell'ostruzionismo, il prefetto di Firenze, Crivellaro, informa 
                  il Ministro degli Interni con un telegramma delle ore 19,40 
                  del 25 agosto che a Pistoia: “gli operai che fanno capo 
                  all'U.S.I. hanno talmente ridotto la produzione che industriali 
                  hanno dichiarato che ove perdurasse stato di cose sarebbero 
                  costretti ridurre paghe base”. 
                  Anche a Pistoia le violenze fasciste colpiscono duramente il 
                  proletariato e le sue organizzazioni. Con l'avvento del fascismo 
                  molti militanti vengono duramente colpiti con la galera e con 
                  il confino. Una testimonianza efficace di tale clima ci è 
                  fornita dal figlio dell'anarchico Egisto Gori: “... inaspettatamente 
                  il babbo, gli zii, li venivano a prendere e poi per mesi si 
                  stava ad aspettare... il babbo fu il primo ferroviere del dipartimento 
                  di Firenze ad essere licenziato per motivi politici nel giugno 
                  del '22... il 21 luglio '22 passò un camion in via Curtatone 
                  e Montanara, videro mio zio che lavorava da falegname, lo scambiarono 
                  per mio padre e lo ammazzarono...”. 
                  Il movimento è costretto a un lavoro sotterraneo di propaganda 
                  e di contatti. È un lavoro che darà i suoi frutti 
                  nel 1936 quando un gruppo di giovani studenti e operai entrerà 
                  nel movimento anarchico. Nel giugno dello stesso anno, 3 compagni 
                  partono per la Spagna in appoggio alla rivoluzione, ma vengono 
                  fermati alla frontiera italo-francese nei pressi di Clavier 
                  (Torino). Il 27 febbraio 1937 i compagni Archimede Peruzzi e 
                  Enzo Gozzoli vengono condannati a 5 anni di confino. 
                  Il 25 gennaio 1940, 4 giovani anarchici, fra i quali Silvano 
                  Fedi, compaiono davanti al Tribunale Speciale per appartenenza 
                  ad “associazione antinazionale e propaganda”. Gli 
                  imputati vengono assolti per insufficienza di prove, ma il movimento 
                  subisce un nuovo giro di vite. L'agitazione e la propaganda 
                  lasciano ora il posto alla preparazione della lotta armata. 
                  Le prime formazioni che a Pistoia passarono alla lotta armata 
                  (1943) furono costituite da militanti anarchici e dal Partito 
                  Comunista Libertario. La Resistenza pistoiese interessa la XI 
                  Zona, comandante Manrico Ducceschi (Pippo) e la XII Zona, comandante 
                  Silvano Fedi. 
                  In entrambe le Zone la presenza anarchica e libertaria è 
                  preponderante. Nel luglio-agosto 1943 a Piuvica, nella piana 
                  di Pistoia, gli anarchici che operano con Silvano Fedi non si 
                  limitano alla lotta armata, e si preoccupano di organizzare 
                  la popolazione per superare i disagi del momento. Convincono 
                  i contadini a battere il grano che essi avrebbero lasciato marcire 
                  per mancanza di mercato, impiantano un forno dove lavorano fissi 
                  due uomini e il pane viene distribuito gratuitamente alla popolazione 
                  del luogo, alla quale si sono aggiunti gli sfollati di Montagnana 
                  e di Momigno. 
                  In seguito alla efficace organizzazione, le formazioni anarchiche 
                  libertarie aiutano le formazioni di diverso colore politico 
                  con rifornimenti di formaggio, riso, zucchero, farina, scarpe 
                  e sigarette, e vengono date anche 30.000 lire al C.L.N. locale 
                  per l'acquisto di un ciclostile. 
                  Inoltre la formazione “Silvano Fedi”, il cui comandante 
                  fu delegato del gruppo anarchico di Pistoia nelle riunioni tenute 
                  con i compagni fiorentini, sostenne il giornale Umanità-Nova, 
                  stampato clandestinamente a Firenze, con 5.000 lire settimanali. 
                  Fu la prima formazione partigiana, guidata dall'anarchico Artese 
                  Benesperi, a entrare militarmente a Pistoia. Alle cinque di 
                  mattina la bandiera rosso e nera degli anarchici sventola in 
                  cima al campanile in piazza del Duomo: alle 10 è sostituita 
                  dal tricolore, simbolo dell'ordine repubblicano tuttora vigente, 
                  codice Rocco, Concordato e sfruttamento compresi. 
                   
                   
                   
                   
                   
                
                   
                    |    Silvano 
                        Fedi.  
                        Giovane compagno, animatore della Resistenza nel 
                        pistoiese, Fedi portò a termine con gli altri partigiani 
                        alcune imprese estremamente rischiose.  Ricordiamo tre 
                        attacchi alla fortezza di Pistoia: il primo con il furto 
                        di circa 10.000 colpi di mitraglia (17-10-43), il secondo 
                        con un nuovo furto di bombe, caricatori e due casse di 
                        munizioni (20-10-43), ed un nuovo definitivo attacco, 
                        superando questa volta la vigilanza della guardia tedesca 
                        molto numerosa (1-6-44).  Il 26 giugno dello stesso anno 
                        vari partigiani simularono la traduzione in carcere di 
                        Fedi e di un altro compagno. Quando i falsi poliziotti 
                        ed i due nostri compagni (ammanettati per l'occasione) 
                        furono all'interno del carcere, si fecero consegnare con 
                        la violenza le chiavi di tutte le celle e misero in libertà 
                        tutti i carcerati, fornendo di moschetto quelli che intendevano 
                        raggiungere le formazioni partigiane.  Il compagno Fedi 
                        fu ucciso il mese successivo in uno scontro a fuoco con 
                        una pattuglia tedesca. 
  | 
                   
                 
                
                   
                   
                    
                   
                  MILANO
                   
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Milano, 
                  testate di giornali clandestini libertari  editi e diffusi nel 
                  1944  | 
                   
                 
                 
                  Milano, che prima dell'avvento del fascismo era stato uno dei 
                  centri più attivi del movimento anarchico italiano, fu 
                  nuovamente centro di lotta e propaganda durante la Resistenza. 
                  Nel 1944 uscirono nel capoluogo lombardo vari giornali anarchici 
                  clandestini fra i quali ricordiamo L'adunata dei libertari, 
                  L'azione libertaria, e, dal primo dicembre, Il comunista 
                  libertario (organo della Federazione Comunista Libertaria 
                  Lombarda). 
                  Figura di particolare spicco per la sua lunga militanza nel 
                  movimento (che risaliva ai primi anni del secolo) fu quella 
                  di Pietro Bruzzi; studioso ed abile polemista, efficace propagandista 
                  rivoluzionario, Bruzzi era stato in Russia nel '21, quindi in 
                  esilio a Parigi dove diresse il Comitato Pro Vittime Politiche. 
                  Durante la rivoluzione spagnola del '36 militò nelle 
                  Brigate anarchiche dando prova di grande coraggio; ritornato 
                  in Francia fu deportato in Italia e confinato per 5 anni nell'isola 
                  di Ponza. Alla caduta del fascismo fu trattenuto nel campo di 
                  concentramento di Renicci d'Anghiari (Arezzo) per volontà 
                  della dittatura militare di Badoglio. Fuggito insieme con altri 
                  anarchici, riprese le fila della lotta clandestina guidando 
                  una formazione partigiana anarchica operante nel milanese e 
                  curando la redazione e la diffusione de L'adunata dei libertari. 
                  Catturato su delazione di una spia fascista, pur essendo stato 
                  torturato per cinque giorni con tale violenza da averne il volto 
                  sfigurato, non rivelò nessuna informazione ai nazifascisti, 
                  che quindi lo fucilarono: prima di morire ebbe ancora la forza 
                  di gridare: “Viva l'anarchia!”. 
                  Dopo la sua morte gli anarchici milanesi costituirono le formazioni 
                  “Errico Malatesta” e “Pietro Bruzzi” 
                  che avevano la loro sede nello stabilimento Carlo Erba. Il 25 
                  aprile 1945 le brigate anarchiche disarmarono una colonna tedesca 
                  in fuga, e fecero cadere in possesso del popolo insorto tutta 
                  la zona industriale senza pericolo di sabotaggi né di 
                  nuove violenze. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Milano, documento rilasciato dalle Brigate libertarie «Malatesta»  
                  e «Bruzzi», nel giugno del '45. Nel milanese gli 
                  anarchici  si organizzarono autonomamente nell'ambito  delle formazioni 
                  socialiste «Matteotti»  | 
                   
                 
                 
                  Nel popolare quartiere di Porta Ticinese gli anarchici furono 
                  gli animatori della lotta e qui prima che altrove nella città 
                  l'intero quartiere fu in mano agli insorti. 
                  Con una serie di abili e coraggiose manovre, le brigate anarchiche 
                  giunsero a controllare le arterie che conducevano a Porta Sempione 
                  e a Porta Garibaldi, occuparono la caserma Mussolini e protessero 
                  la centrale elettrica. Inoltre espugnarono molti fortilizi fascisti, 
                  e perfino la stazione della Radio fu occupata dalle brigate 
                  della formazione Malatesta in cooperazione con altre brigate. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  LUCCA 
                   
                  Premettendo che nessuna formazione partigiana anarchica ha 
                  operato nella zona di Lucca, possiamo solo mettere in rilievo 
                  l'impegno militante rivoluzionario di alcuni compagni che tanto 
                  hanno fatto durante la lotta partigiana a Lucca. 
                  Luigi Velani, militante anarchico, di professione avvocato 
                  (morto nel 1973); nella primavera del 1944 svolse importanti 
                  incarichi informativi a Lucca per conto delle forze della resistenza. 
                  Quando fu scoperto, si sottrasse all'arresto e raggiunse i compagni 
                  sui monti nella zona della Val di Serchio. Fu aiutante maggiore 
                  della XI Zona, in cui agivano anche molti partigiani anarchici. 
                  Questa formazione partigiana composta da 1000 compagni, a 
                  capo della quale si trovarono il famoso “Pippo” 
                  ed il compagno anarchico Luigi Velani ebbe tra le sue fila 300 
                  caduti e fece prigionieri 8000 nazi-fascisti. 
                  Emanuele Diena, militante anarchico di professione prima 
                  elettricista nelle ferrovie e dopo impiegato, fu arrestato a 
                  Taranto nel 1943 durante il lavoro in ferrovia e fu mandato 
                  al confine a Pisticci (provincia di Matera). A Milano durante 
                  la Liberazione fece parte della guardia rossa come comandante 
                  responsabile della Tramvia Municipale a Porta Vittoria. 
                  Ferruccio Arrighi, militante anarchico, di professione rappresentante 
                  (morto nel 1956), e Vittorio Giovannetti, militante anarchico, 
                  di professione scultore in legno (morto nel 1968) svolgevano 
                  importanti attività di coordinamento all'interno della 
                  città per mettere in contatto gli antifascisti con le 
                  formazioni partigiane che operavano nella Garfagnana (monti 
                  nella vicinanza di Lucca). 
                  Tutti questi compagni hanno aderito durante la Liberazione 
                  ai comitati cittadini antifascisti. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  PIACENZA: Emilio Canzi 
                   
                  Nato nel 1893, Emilio Canzi combattè sin dall'inizio 
                  contro il fascismo militando negli Arditi del Popolo. Costretto 
                  all'esilio in Francia, accorse in Spagna all'inizio della rivoluzione. 
                  Combattè nelle file della Divisione Ascaso e quale ufficiale, 
                  successivamente, nella Divisione Garibaldi.  
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Il monumento a Canzi,  eretto dallo scultore  Tizzoni vicino 
                  al  cimitero di Peli di Coli  (Piacenza), ov'è sepolto  | 
                   
                 
                 
                  Tornato in Francia fu arrestato nel 1940 dalla polizia nazista, 
                  chiuso nel carcere della “Santé” a Parigi, 
                  e quindi trasportato in Germania e rinchiuso nel campo di concentramento 
                  di rigore di Hinget. Restituito all'Italia venne confinato a 
                  Ventotene e, dopo l'8 settembre 1943, assegnato al campo di 
                  Renicci D'Anghiari. Fu successivamente l'organizzatore delle 
                  prime bande armate nel piacentino, fu fatto prigioniero dai 
                  fascisti e scambiato con ostaggi. Ripreso il suo posto di lotta 
                  fra i partigiani, per il suo valore divenne comandante di ben 
                  tre divisioni e 22 brigate (oltre diecimila uomini!). Partecipò 
                  nel contempo all'attività clandestina di riorganizzazione 
                  del movimento anarchico fino alla sua morte (17-11-'45) avvenuta 
                  in seguito alle gravi lesioni riportate in uno “strano” 
                  incidente motociclistico. Come altre volte in quell'epoca, fu 
                  infatti un autocarro alleato ad affiancarglisi e ad investirlo: 
                  e proprio il fatto che una simile meccanica dell'incidente sia 
                  stata riscontrata in incidenti stradali mortali per altri anarchici 
                  ha sempre lasciato aperto il dubbio di un premeditato assassinio 
                  da parte dello Stato e degli “alleati”. 
                   
                   
                   
                   
                    
                   
                  TORINO: un episodio 
                   
                  Il 24 aprile 1945 il compagno Ruju, partigiano della 23a Divisione 
                  autonoma “Sergio De Vitis”, fu inviato ad Avignana 
                  per organizzare la resistenza e la difesa di alcuni stabilimenti 
                  industriali. 
                  Giunto sul posto, mentre cercava di contattare alcuni giovani 
                  antifascisti si imbattè in una pattuglia tedesca e riuscì 
                  ad approfittare di un attimo di (...) nazisti e condurli a Giaveno 
                  (dove già si trovavano alcuni tedeschi catturati). Quando 
                  tornò ad Avignana gli si fece incontro il parroco che 
                  lo implorò di restituire i tre prigionieri perché 
                  altrimenti la città sarebbe stata distrutta alle due 
                  del pomeriggio di quella stessa giornata. 
                  Recatosi subito al comando tedesco accompagnato da due pubblici 
                  funzionari, il compagno Ruju ebbe modo di parlare con il comandante; 
                  questi lo pregò di rendere i tre soldati catturati perché, 
                  altrimenti, sarebbe stato costretto ad ordinare la distruzione 
                  della città secondo gli ordini ricevuti dalla 5a divisione 
                  Alpina. Il nostro compagno gli fece notare che 10.000 partigiani 
                  circondavano il centro e che allo scadere di 30 minuti sarebbero 
                  passati all'attacco; non solo, ma gli eventuali tedeschi superstiti 
                  sarebbero stati considerati criminali di guerra e quindi passati 
                  per le armi. 
                  Tutto ciò era un “bluff”, ed i 10.000 partigiani 
                  esistevano solo nella mente di Ruju. Ma il comandante gli credette 
                  e si arrese con i 500 uomini del suo presidio, consegnando tutte 
                  le armi ai partigiani. 
                  Per questo episodio lo stato “democratico” volle 
                  decorare Ruju di una croce al valor militare, ma il nostro compagno 
                  rifiutò l'inutile decorazione come fecero altri partigiani 
                  anarchici per testimoniare nuovamente la loro fede anarchica. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  CARRARA 
                   
                  La 
                  resistenza anarchica nel centro apuano tradizionalmente libertario 
                   
                   
                  Fin dal suo sorgere, il movimento operaio locale era stato fortemente 
                  influenzato dal socialismo libertario, a tal punto che Carrara 
                  divenne fin dai primi anni del secolo un importante centro di 
                  propaganda anarchica. 
                  Furono soprattutto le lotte anarcosindacaliste dei lavoratori 
                  delle cave - che organizzati dall'anarchico Alberto Meschi ottennero 
                  per primi in Italia le sei ore e mezza di lavoro - ad indicare 
                  ai lavoratori la validità dell'attività politica 
                  degli anarchici: e così Carrara fu sempre in prima linea 
                  nelle lotte di popolo contro il militarismo, contro la tracotanza 
                  padronale, contro la repressione di stato e quindi oppose fin 
                  dall'inizio decisa resistenza al fascismo. L'intera provincia 
                  del carrarino, con quelle vicine di La Spezia, Pisa e Livorno, 
                  fu uno degli epicentri del terrorismo squadrista. Basti ricordare 
                  la sparatoria contro un gruppo di anarchici da parte di una 
                  squadraccia fascista appoggiata dai carabinieri, a Carrara (giugno 
                  1921). E poi lo sciopero generale nella stessa città 
                  in risposta all'aggressione fascista contro il compagno Alberto 
                  Meschi, allora segretario della Camera del Lavoro (18 ottobre 
                  1921), ed il ferimento, sempre da parte delle camicie nere, 
                  dell'anarchico Bonnelli a Berizzano (Carrara). Tanti simili 
                  episodi costellano l'opposizione antifascista dei lavoratori 
                  della zona, che sempre portarono il loro aiuto anche agli altri 
                  centri vicini assaliti dai fascisti, come durante i fatti di 
                  Sarzana, in seguito ai quali una cinquantina di anarchici furono 
                  processati sotto l'imputazione di “associazione a delinquere” 
                  (19 gennaio 1922). 
                  Durante il ventennio della dittatura fascista l'opposizione 
                  popolare al fascismo si mantenne viva, anche se non vi furono 
                  episodi clamorosi a testimoniarla (a parte il fallito attentato 
                  al duce degli anarchici carrarini Lucetti e Vatteroni, di cui 
                  parliamo in altra parte. 
                   
                   la 
                  formazione “Lucetti” 
                   
                  Quando, all'indomani dell'8 settembre 1943, seppero che i tedeschi 
                  stavano disarmando i soldati italiani nella caserma “Dogali” 
                  di Carrara, molti anarchici (fra cui Del Papa, Galeotti, Pelliccia, 
                  ecc.) si recarono sul posto e riuscirono ad impossessarsi di 
                  molte armi, formando squadre di partigiani. 
                  La partecipazione degli anarchici alla Resistenza propriamente 
                  detta assunse proporzioni determinanti nel carrarino, più 
                  che in qualsiasi altra zona d'Italia. Non si trattò infatti 
                  né della presenza di singole individualità né 
                  fu caratterizzata dall'adesione degli anarchici a formazioni 
                  partigiane non anarchiche, in maniera disorganica. Fu veramente 
                  un fenomeno di massa, che coinvolse la grande maggioranza della 
                  popolazione è che vide in prima fila sempre formazioni 
                  anarchiche. 
                  Dal settembre 1943 i compagni stesero una valida rete di contatti 
                  che comprendeva anche Sarzana ed altri centri, ed il primo rastrellamento 
                  operato dai carabinieri e dalla milizia fu appunto attuato contro 
                  i primi tentativi organizzati di resistenza anarchica. Ma l'azione 
                  repressiva non sortì l'effetto sperato, poiché 
                  il movimento di resistenza era saldamente radicato; furono compiuti 
                  alcuni arresti fra gli anarchici, dopo meno di due mesi, comunque 
                  fu rapito il figlio del direttore delle carceri di Massa, ed 
                  in cambio della sua liberazione fu ottenuta la scarcerazione 
                  dei compagni arrestati. 
                  Ricostituita la sua piena organicità, il movimento anarchico 
                  si sviluppò ulteriormente sia in città sia nei 
                  piccoli centri, prendendo contatti con gli altri raggruppamenti 
                  antifascisti. La formazione anarchica “Gino Lucetti” 
                  si trovò ad operare nella stessa zona di altre formazioni; 
                  si stabilì di costituire un comando unificato della Brigata 
                  Apuana, pur lasciando autonomia alle singole componenti politiche 
                  (anarchici, comunisti, ecc.). Questa decisione fu conseguente 
                  alla necessità, fortemente sentita, di coordinare tecnicamente 
                  le operazioni belliche contro i nazifascisti, che - con il progressivo 
                  stabilizzarsi della Linea Gotica - si erano fatti ancora più 
                  numerosi e più spietati nel reprimere il movimento partigiano. 
                  In generale i rapporti fra la “Lucetti” e le altre 
                  formazioni erano buoni, anche se la recente traumatizzante esperienza 
                  della guerra di Spagna spingeva ad una grande diffidenza nei 
                  confronti dei comunisti, ed in particolare della loro formazione 
                  “Giacomo Ulivi”. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Partigiani anarchici in marcia nelle Alpi Apuane  | 
                   
                 
                 l'episodio 
                  di Casette 
                   
                  Quanto questa diffidenza non fosse infondata lo dimostra l'episodio 
                  di Casette, finora assolutamente inedito, e sconosciuto al di 
                  fuori della cerchia di coloro che vi parteciparono. Si avvicinava 
                  l'inverno del '44, e la situazione era veramente difficile sia 
                  a causa della crescente repressione nazifascista sia per il 
                  mancato arrivo degli aiuti alleati. In compenso Radio Londra 
                  continuava a trasmettere inviti ai partigiani a tornarsene a 
                  casa, per trascorrervi l'inverno. Ma le vendette nazifasciste 
                  attendevano chi fosse tornato a casa dai monti e dalle valli, 
                  per cui i partigiani preferirono restare alla macchia, preparandosi 
                  alla prossima primavera. Fu stabilito di cercare di superare 
                  la linea Gotica attraverso i monti, e di cercare di riparare 
                  a Lucca, città tenuta dagli alleati. 
                  In un'unica colonna si trovarono a marciare partigiani della 
                  “Lucetti” e quelli comunisti della formazione “Giacomo 
                  Ulivi”, con i rispettivi comandanti Ugo Mazzucchelli (che 
                  ci ha narrato questo episodio di casette) e Guglielmo Brucellaria. 
                  Quando giunsero nei pressi di un ponte che, vicino al paesino 
                  di Casette, congiunge due vallate, i comandanti comunisti chiesero 
                  con insistenza agli anarchici di prendere la testa della colonna, 
                  e di passare per primi sul ponte. Era notte fonda, e quando 
                  Ugo Mazzucchelli per primo si accinse a traversare il ponte, 
                  il cupo silenzio dell'oscurità fu rotto dal crepitare 
                  infernale di una mitraglia, che, posta in una casa-matta antistante 
                  il ponte, poteva fortunatamente colpire solo una parte del ponte. 
                  Così il nostro compagno, ed altri anarchici, poterono 
                  mettersi in salvo, contrariamente a quelle che certamente erano 
                  le speranze dei comunisti. La loro precedente insistenza fece 
                  subito sorgere gravissimi interrogativi fra gli anarchici, che 
                  stesero un duro rapporto al comando unificato della Brigata 
                  Apuana: questi interrogativi ebbero una precisa risposta quando 
                  si venne a sapere con certezza che i dirigenti comunisti sapevano 
                  con anticipo della presenza di una mitraglia in quella casa-matta, 
                  ma sul tutto venne subito steso il silenzio più assoluto, 
                  con la solita giustificazione della necessità dell'unità 
                  (sic!) antifascista. 
                   
                   
                  la difesa di Carrara 
                   
                  Oltre alla “Lucetti”, operarono nel carrarino la 
                  formazione anarchica “Michele Schirru”, parallela 
                  alla “Lucetti”, la divisione “Garibaldi Lunense”, 
                  formata soprattutto da anarchici e la formazione “Elio 
                  Wockievic”, il cui vice-comandante, l'anarchico Giovanni 
                  Mariga, fu talmente valoroso da vedersi concessa la medaglia 
                  d'oro al valor militare, che naturalmente rifiutò per 
                  restare coerente alle idee anarchiche. 
                  Sia sulle Apuane sia nella pianura costiera operarono costantemente 
                  numerosi raggruppamenti anarchici, che ovunque si trovarono 
                  ad affrontare la criminale repressione nazifascista. 
                  Il carrarino fu infatti teatro di alcune delle stragi più 
                  efferate commesse dai tedeschi e dai loro servi repubblichini: 
                  basti pensare alla distruzione delle popolazioni del paesino 
                  di Sant'Anna di Stazzena (560 morti, 12 agosto 1944), di Vinca 
                  (173 morti, 24 agosto 1944) e di San Terenzo Monti (163 morti, 
                  19 agosto 1944). E l'elenco non finisce certo qui. In questa 
                  tragica realtà di guerra, distruzioni e rappresaglie, 
                  gli anarchici del carrarino ebbero il grande merito di organizzare 
                  e di difendere la vita della popolazione nella città 
                  di Carrara. Soprattutto i compagni si incaricarono di assicurare 
                  il regolare flusso degli approvvigionamenti, e di far funzionare 
                  l'Ospedale, continuando nel contempo la lotta armata contro 
                  il nemico. 
                  Indispensabili erano i fondi, ed il loro reperimento resta una 
                  delle pagine più belle scritte dagli anarchici carrarini. 
                  Il metodo adottato fu quello di convocare i ricchi possidenti, 
                  e di obbligarli a versare ingenti somme ai partigiani, sotto 
                  la minaccia delle armi e dietro regolare... ricevuta di versamento! 
                  Di questa anzi venivano stilate tre copie, una per il versatore, 
                  una per il Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) ed una 
                  per il compagno Ugo Mazzucchelli, comandante della “Lucetti”, 
                  presso la cui sede avvenivano queste convocazioni. 
                  Così fu possibile aiutare le famiglie più bisognose, 
                  finanziare le formazioni partigiane e l'Ospedale, rinsaldando 
                  quella forte unità fra popolo e partigiani anarchici, 
                  che resta la lezione più importante della resistenza 
                  anarchica nel carrarino. 
                   
                   
                   
                    
                   
                  GENOVA 
                   
                  Fra gli anarchici più attivi nella resistenza ligure 
                  ricordiamo Marcello Bianconi (membro del C.L.N. di Pontedecimo), 
                  Emilio Grassini (combattente nella formazione anarchica “Malatesta”, 
                  Emilio Caviglia, Adelmo Sardini, Giuseppe Pasticcio, Antonio 
                  Pittaluga. Quest'ultimo morì a Genova il 24 aprile 1945, 
                  durante le ultime fasi della lotta per la liberazione della 
                  città. Quel giorno Pittaluga, già distintosi in 
                  numerose azioni armate, si imbattè nelle preponderanti 
                  forze tedesche asserragliate nell'albergo “Eden”, 
                  ed all'invito ad arrendersi rispose con il lancio di una bomba 
                  a mano, prima di cadere ucciso sotto i colpi dei nazi-fascisti. 
                   
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Genova, 25 aprile 1945, partigiani in azione  | 
                   
                 
                
                   
                   
                   
                    
                   
                  Anarchici ammazzati dai nazifascisti durante 
                  la resistenza 
                   
                  Questo elenco, che riprendiamo dal periodico libertario “L'Impulso” 
                  (15 aprile 1955) è, come avvertono i curatori, assolutamente 
                  incompleto. Esso non comprende i nomi di numerosi compagni dei 
                  quali non sono riusciti a raccogliere dati sufficienti. Non 
                  comprende altresì i nomi di tanti compagni caduti nella 
                  mischia talvolta senza lasciare una traccia. 
                   
                  Nel Veneto 
                   
                  ALFREDO MUNARI, già volontario in Spagna, partigiano 
                  sull'Altipiano dei 7 Comuni, ucciso a Valgallania il 5 settembre 
                  1944. 
                  GIOVANNI DOMASCHI, attivo militante anarchico e antifascista, 
                  condannato a 15 anni di reclusione durante il fascismo, poi 
                  confinato, nel 1943 partecipa alla fondazione del C.L.N. di 
                  Verona. Arrestato e torturato dalle SS fu successivamente fucilato. 
                   
                  A Trieste 
                   
                  GIOVANNI BIDOLI, già perseguitato e confinato, militante 
                  della resistenza triestina, arrestato dai tedeschi, deportato 
                  in Germania, morì in campo di concentramento. 
                  CARLO BENUSSI, originario di Zara, perseguitato, esule, arrestato 
                  a Trieste dai tedeschi, deportato, morì in campo di concentramento. 
                   
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Giaveno (TO), 14 Agosto 1944:  partigiani impiccati  | 
                   
                 
                 
                  In Piemonte 
                   
                  SPARTACO ERMINI, attivo elemento di una formazione partigiana, 
                  cadde nelle Langhe. 
                  GIACINTO REPOSSI, di Torino, militante della resistenza, 
                  deportato in Germania ed ucciso a Mathausen. 
                  GIULIO GUERRINI, comandante di formazioni partigiane in Val 
                  Pellice, preso prigioniero nel corso di un combattimento, deportato 
                  in Germania, morì a Leitmeritz, in Cecoslovacchia nel 
                  maggio 1945. 
                  DARIO CAGNO, già confinato, arrestato per complicità 
                  nell'esecuzione del seniore Giardina, venne fucilato nel cortile 
                  della Caserma Monte Grappa il 22 dicembre 1943. 
                  ILIO BARONI, militante attivo della resistenza torinese, 
                  cadde nel corso dei combattimenti per la liberazione di Torino. 
                   
                  A Milano 
                   
                  PIETRO BRUZZI, vecchio militante, più volte esule 
                  in Francia, Russia, Germania, Spagna; confinato, redattore di 
                  pubblicazioni clandestine anarchiche, fu arrestato, torturato 
                  e fucilato dai tedeschi nel 1944. 
                   
                  A Roma 
                   
                  GIOVANNI GALLINELLA, già confinato, tornato a Roma 
                  dopo la caduta del fascismo, fece parte di una banda partigiana 
                  libertaria; arrestato, fu deportato a Mathausen dove morì. 
                  ALBERTO DI GIACOMO, già confinato, arrestato nel febbraio 
                  1944 per la sua attività partigiana; deportato in Germania 
                  morì a Mathausen. 
                  LELLO LOTTI, perseguitato politico, fece parte di una banda 
                  partigiana libertaria; arrestato, deportato in Germania, morì 
                  a Mathausen. 
                  GIULIO RONCACCI, militante della resistenza romana, operante 
                  con le squadre del Partito d'Azione, ucciso alle Fosse Ardeatine. 
                  ALDO ELOISI, partigiano, catturato durante un conflitto a 
                  fuoco, torturato alla Pensione Jaccarino, quindi fucilato alle 
                  Fosse Ardeatine. 
                  UMBERTO SCATTONI, partigiano, catturato da poliziotti italiani 
                  al servizio dei tedeschi, condotto a Via Tasso, quindi fucilato 
                  alle Fosse Ardeatine. 
                  RIZIERO FANTINI, già esule nel Nord e nel Sud-America, 
                  collaboratore di periodici nostri, operò in formazioni 
                  partigiane del Partito Comunista. Arrestato, torturato nella 
                  propria casa, quindi incarcerato con i propri figli. Fucilato 
                  a Forte Bravetta il 31 dicembre 1943. 
                   
                  Nelle Marche 
                   
                  ALFONSO PETTINARI, prima elemento attivo della Resistenza 
                  a Roma, poi commissario politico di una formazione partigiana 
                  nelle Marche, cadde nella zona di Macerata il 14 luglio 1944. 
                  CRISTOFANO GIORGIANI, militante della Resistenza, arrestato 
                  per la sua attività, fucilato insieme a suo figlio diciottenne 
                  a Fermignano (Pesaro) il 2 agosto 1944. 
                   
                  In Toscana 
                   
                  GINO MANETTI, perseguitato ed esule, arrestato a Firenze 
                  nel 1943, venne fucilato per rappresaglia al Poligono di Tiro 
                  delle Cascine. 
                  ORESTE RISTORI, vecchio militante, incarcerato a Firenze 
                  nel 1943, venne fucilato per rappresaglia al Poligono di Tiro 
                  delle Cascine. 
                  RENATO MACCHIARINI, carrarese, esule e combattente in Spagna, 
                  deportato dai tedeschi in Italia dopo l'occupazione della Francia, 
                  confinato, viene paracadutato dagli alleati in Toscana: fatto 
                  prigioniero dai tedeschi ad Altopascio, è deportato in 
                  Germania ed ivi soppresso in un campo di concentramento. 
                  SILVANO FEDI, comandante partigiano nel pistoiese, cadde 
                  in un'imboscata nel luglio 1944. 
                   
                  In Romagna 
                   
                  FABIO MELANDRI, di Ravenna, già redattore del giornale 
                  anarchico “L'Aurora”, fucilato dai tedeschi insieme 
                  alla figlia, a Villa dell'Albero nel novembre 1943. 
                  FILIPPO PERNISA, militante di Massalombarda, venne ucciso 
                  da elementi di una “brigata nera” sulla pubblica 
                  via il 24 ottobre 1943. 
                   
                  In Emilia 
                   
                  ATTILIO DIOLAITI, di Bologna, fucilato il 1 aprile 1944 alla 
                  Certosa insieme ad altri compagni. 
                  EMILIO ZAMBONINI, perseguitato ed esule, già volontario 
                  in Spagna, fucilato al Poligono di Reggio Emilia il 29 gennaio 
                  1944. 
                   
                  In Liguria 
                   
                  RENATO OLIVIERI, dopo aver scontato molti anni di carcere 
                  e di confino, prese parte alla lotta partigiana in Lunigiana; 
                  fatto prigioniero durante uno scontro, venne torturato e fucilato 
                  a La Spezia. 
                  ANTONIO PITTALUGA, attivo partigiano nella zona di Genova-Nervi, 
                  cadde il 24 aprile 1945, nell'assalto all'Albergo Eden dove 
                  si trovavano asserragliate forze tedesche. 
                  UMBERTO RASPI, originario di Volterra, già combattente 
                  in Spagna, comandante delle Squadre d'Azione anarchiche nella 
                  zona Genova-Arenzano, arrestato e deportato in Germania, fucilato 
                  a Buchenwald il 4 aprile 1945. 
                  MARIO COLANDRO, arrestato dalle SS tedesche e deportato in 
                  Germania nel gennaio del 1944, fucilato a Dachau il 22 marzo 
                  1945. 
                  EMANUELE CAUSA, membro delle Squadre d'Azione della Federazione 
                  Comunista Libertaria, militante attivo nel periodo della cospirazione 
                  a Genova-Sestri, fucilato dalle Brigate Nere a Portofino nell'agosto 
                  1944 e gettato a mare. 
                  DOMENICO DI PALO, arrestato e fucilato dalle Brigate Nere 
                  a Portofino nell'agosto 1944. 
                  BRUNO RASPINO, originario di Govone d'Asti, componente delle 
                  formazioni della Federazione Comunista Libertaria a Sestri, 
                  arrestato e fucilato dalle Brigate Nere a Portofino il 29 agosto 
                  1944. Aveva diciotto anni. 
                  CIPRIANO TURCO, arrestato il 20 luglio 1944 e deportato in 
                  Germania dove morì due mesi dopo. 
                  MARIO BISIO, membro delle squadre d'azione. Arrestato nel 
                  1944 e fucilato in un forte di Genova. 
                  CARLO RAVAZZANI, membro dei GAP. Arrestato nell'ottobre 1944, 
                  venne fucilato nel successivo dicembre a Portofino. 
                  EMANUELE SCIUTTO, membro dei GAP dal gennaio 1944. Arrestato 
                  nel novembre e fucilato a Portofino nel dicembre dello stesso 
                  anno. 
                  RINALDO PONTE, membro dei GAP per tutto il periodo cospirativo; 
                  cadde il 25 aprile 1945, assieme al comunista Raffaele Pieragostini. 
                  CATANI GIACOMO, nato il 24 dicembre 1923. Membro delle Squadre 
                  d'Azione. Disperso. Non si è più avuta alcuna 
                  notizia di lui. 
                  PARODI ATTILIO, nato il 15 ottobre 1889, cadde in combattimento 
                  in Val Bronda (Cuneo) il 19-4-1945. 
                  DACCOMI MARIO, nato il 2 novembre 1924. Caduto in combattimento 
                  a Rocchetta (Modena) l'11 agosto 1944. 
                  STANCHI DARIO, nato il 21 agosto 1923. Membro della FCL e 
                  partigiano. Arrestato e fucilato il 17 marzo 1944 a Ceva (Cuneo). 
                  NATALINO CAPECCHI arrestato nell'agosto 1944 e trasferito 
                  alla Casa dello Studente di Genova, in seguito deportato in 
                  Germania dove morì. 
                  ERNESTO ROCCA, membro dei GAP, arrestato una prima volta 
                  e poi rilasciato, arrestato nuovamente nell'agosto 1944 e deportato 
                  in Germania nel campo di Flossemburg dove morì. 
                  Walter Stanchi, fece parte di una formazione partigiana, 
                  cadde in combattimento a Pian Casotto nel 1944. 
                  PIETRO BIGATTI, arrestato nell'agosto 1944 dalle SS tedesche, 
                  deportato in Germania dove morì nel dicembre 1944. 
                  OTELLO GAMBELLI, arrestato dalla polizia fascista e fucilato 
                  a Portofino, nel 1945. 
                   
                   
                   
                   
                    
                   
                  DOPO IL '45 
                   
                  La lotta degli anarchici italiani al fascismo non si è 
                  fermata al '45. È continuata, soprattutto in termini 
                  di solidarietà internazionale rivoluzionaria con i compagni 
                  spagnoli. Il nostro breve ed incompleto panorama storico però 
                  si vuole fermare alla cosiddetta liberazione. Citiamo solo tre 
                  episodi del dopoguerra. 
                  L'8 novembre del 1949, tre giovani anarchici, Busico, De Lucchi 
                  e Mancuso, irrompono armati nel consolato spagnolo a Genova; 
                  riuniscono il personale presente in anticamera, con le mani 
                  alzate, poi espongono una bandiera anarchica al balcone e danno 
                  fuoco all'archivio. Processati nel giugno e nel novembre del 
                  '50, si trasformano da accusati in accusatori del fascismo iberico, 
                  riuscendo ad avere pene relativamente lievi (da due a tre anni, 
                  condonati). 
                  Il 30 agosto del 1957, a Barcellona, il giovane anarchico carrarino 
                  Goliardo Fiaschi viene arrestato assieme al compagno spagnolo 
                  Luis Vicente. Essi con Josè Facerias trucidato dagli 
                  sbirri quello stesso giorno, fanno parte di un commando italo-spagnolo 
                  di “guerriglieri urbani”. Condannato a vent'anni, 
                  sconterà solo una parte della pena in Spagna, perché 
                  nel '65 viene estradato in Italia, dove nel frattempo è 
                  stato condannato dalla “giustizia” italiana a tredici 
                  anni e sette mesi per una rapina che il commando avrebbe compiuto 
                  a Casale Monferrato nel '57 per finanziare l'azione antifranchista.. 
                  È ancora in carcere, a Lecce. 
                  Nel settembre del 1962, quattro giovani anarchici, Amedeo Bertolo, 
                  Gianfranco Pedron, Luigi Gerli, e Aimone Fornaciari, con l'aiuto 
                  di tre giovani socialisti rapiscono il vice console spagnolo 
                  di Milano e chiedono, per la sua liberazione, la revoca della 
                  condanna a morte inflitta a Barcellona pochi giorni prima al 
                  giovane anarchico Jorge Conil Valls. La condanna a morte viene 
                  revocata e dopo tre giorni di prigionia il vice console viene 
                  liberato. Tutta la vicenda ed il successivo processo a Bertolo 
                  e compagni (conclusosi con pene lievi) è una grande occasione 
                  di propaganda antifranchista e libertaria. 
                   
                   
                
                   
                    |    
                        Hanno collaborato alla redazione di questo numero speciale 
                        dedicato agli anarchici contro il fascismo molti compagni, 
                        gruppi e federazioni: Antonio Ruju (Torino); Ivan 
                        Guerrini (Brescia); Clara Germani (Trieste); 
                        Gino Ganese e Vincenzo Toccafondo (Genova); 
                        Federazione Anarchica Spezzina; Mario Marenghi 
                        (Piacenza); Michele Reggio (Reggio Emilia); Pio 
                        Turroni (Cesena); Giampiero Landi e Nello 
                        Garavini (Castelbolognese); Piero Orselli (Ravenna); 
                        Centro Studi Sociali “Malatesta” (Imola); 
                        Gino Cerrito (Firenze); Sergio Ravenna (Carrara); 
                        Alfredo e Ugo Mazzucchelli (Carrara); Renzo 
                        Vanni (Pisa); Organizzazione Anarchica Lucchese; 
                        Gruppo “Azione Anarchica” di Pistoia; 
                        Federazione Anarchica di Livorno; Federazione 
                        Anarchica di Piombino; Renzo Zuccherini (Perugia); 
                        Remo Franchini (Ancona); Giuseppe Galzerano 
                        (Casalsavino Scalo - SA); Giuseppe Sallustro (Torre 
                        del Greco); Achille Maccioni (Romana - SS); Pietro 
                        Montaresi (Bruxelles).   | 
                   
                 
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