Lisbona/ 
                  Un mondo che sta per scomparire 
                Nell'appartamento di fianco al nostro, nel predio nel quale 
                  viviamo a Lisbona, abita Donna Maria. Donna perché a 
                  Lisbona Donna è un titolo di rispetto, e lei è 
                  anziana, ma non è Maria, l'abbiamo battezzata così 
                  perché ci ricorda troppo la “sciura Maria“. 
                  Il predio nel quale viviamo è stato rimodernato qualche 
                  anno fa, tutti gli appartamenti sono nuovi tranne quello di 
                  Donna Maria. Il suo appartamento ha i serramenti vecchi, scrostati 
                  dalle intemperie, e la porta d'ingresso non chiude bene, tanto 
                  che si formano dei buchi dai quali, sbirciando, ci si può 
                  accorgere che le rifiniture non sono certo di lusso e l'appartamento 
                  non è di classe A. 
                  A Lisbona fino a quest'anno gli affitti erano calmierati, i 
                  prezzi erano stati definiti al tempo di Salazar, salvo modesti 
                  aggiornamenti nel corso degli anni. Quindi è frequente 
                  che le persone paghino 50 euro al mese per un affitto di un 
                  appartamento in centro città, meglio all'Alfama, nel 
                  quartiere dove abitiamo. Per godere di questi affitti irrisori 
                  gli affittuari devono vivere nell'appartamento da tempo, dal 
                  tempo di Salazar appunto, e comunque il contratto d'affitto 
                  poteva essere passato da padre a figlio. Come controeffetto 
                  di questa politica, i proprietari delle case non hanno mai avuto 
                  nessun interesse a rimodernare gli appartamenti, infatti i lavori 
                  non sarebbero mai stati rimborsati dagli affitti. Pertanto a 
                  Lisbona ci sono tanti palazzi decadenti, e Donna Maria vive 
                  in uno di questi. Ma soprattutto questo è il motivo per 
                  cui a Lisbona nel centro storico, credo unica capitale in Europa, 
                  vivono ancora persone autentiche che rendono il quartiere vivo.
                 
                   
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                    |   Lisbona (Portogallo) - Donne nel quartiere Alfama  | 
                   
                 
                
                  L'Alfama è un quartiere autentico. Il sabato mattina, 
                  quando lo attraverso per portare i bambini in piscina, capisco 
                  perché ho voluto vivere in questo quartiere. S'incontrano 
                  donne con gli scialli per la strada che se la raccontano, bambini 
                  sporchi che giocano a calcio nelle stradine, profumo di pesce 
                  fresco messo a grigliare per la strada. 
                  Dall'appartamento di Donna Maria escono uomini. In particolare, 
                  quasi quotidianamente, incontro tre uomini sulle scale. João 
                  il panettiere è il più giovane dei tre, avrà 
                  60 anni, poi ci sono Nuno e Zé che faranno 70 ognuno. 
                  La caratteristica che accomuna donna Maria, Nuno e Zé 
                  è la stampella. 
                  Donna Maria deve arrivare alla fine del mese, come tutti, ed 
                  un modo per racimolare soldi ha dovuto escogitarlo. Il fatto 
                  che Donna Maria, alla veneranda età di 70 anni circa, 
                  lavori ancora offrendo quello che possiede le fa solo onore. 
                  Ognuno può avere la propria opinione in merito, io sinceramente 
                  dopo averci riflettuto lungamente non ci ho trovato niente di 
                  male. In pratica Donna Maria sub-affitta le stanze di casa sua 
                  a João, Nuno e Zé. 
                  Da quest'anno la camera municipale di Lisbona ha deciso di liberalizzare 
                  il mercato degli affitti. Il fascino della Lisbona decadente 
                  che ho conosciuto, e di cui mi sono innamorato, è destinato 
                  a sparire nei prossimi anni. Peggio, le persone che rendono 
                  autentico un quartiere come l'Alfama sono destinate a scappare 
                  per popolare la grigia periferia, creando quindi nel centro 
                  di una capitale europea l'ennesimo nonluogo privo di vita, ma 
                  pieno di locali cool, donne ben vestite e bambini ben pettinati. 
                  Se non altro chi deve venire ancora a visitare Lisbona è 
                  avvisato .... ;-)  
                 Gianluca Luraschi 
                 
                 
                   Una 
                  serata, un libro e
                   uno spettacolo teatrale sul fornaio Caserio 
                “Cara madre, vi scrivo queste poche righe per farvi 
                  sapere che la mia condanna è la pena di morte.  
                  Non pensate [male] o mia cara madre di me? Ma pensate che 
                  se io comessi questo fatto non è che sono divenuto [un 
                  delinquente] e pure molto vi dirano che sono un assassino un 
                  malfattore. No, perché voi conosciete il mio buon quore, 
                  la mia dolcezza, che avevo quando mi trovavo presso di voi? 
                  Ebbene anche oggi è il medesimo quore: se ò comesso 
                  questo mio fatto è precisamente perché ero stanco 
                  di vedere un mondo così infame .“ 
                   
                  È il 3 agosto 1894 quando Sante Caserio scrive questa 
                  lettera dal carcere di Lione. Lì c'era finito qualche 
                  mese prima, esattamente il 24 giugno, quando durante un evento 
                  pubblico, aveva pugnalato al cuore François Sadi Carnot, 
                  presidente della repubblica francese. 
                  Sante era nato l'8 settembre 1873 a Motta Visconti, un piccolo 
                  paesino della Lombardia, da una famiglia contadina. Dopo la 
                  morte del padre si era trasferito a Milano per cercare mestiere; 
                  iniziò così a lavorare al forno delle Tre Marie 
                  di via Olgiati. È forse nella città meneghina 
                  che il ragazzo viene a contatto per la prima volta con l'ambiente 
                  e i pensatori anarchici del tempo. 
                  Ben presto sarà però costretto ad abbandonare 
                  l'Italia fino ad approdare in Francia dopo molto girovagare. 
                  Quel 24 giugno a Lione Caserio ci arriva a piedi e senza mangiare 
                  perché i soldi sono pochi e finiscono in fretta. In via 
                  della Repubblica aveva atteso il passaggio della Guardia Repubblicana 
                  e dei militari a cavallo, poi aveva aspettato il calesse scoperto 
                  di Carnot. Una ventina di gendarmi lo avevano accerchiato per 
                  poi trascinarlo in carcere. 
                  Una delle tante storie dimenticate quella del giovane anarchico 
                  lombardo, una storia che 120 anni dopo ci viene raccontata dalla 
                  Compagnia Teatrale FavolaFolle. 
                  In occasione dell'uscita del libro Fu il mio cuore a prendere 
                  il pugnale di Gianluca Vagnarelli (Edizioni Zero in Condotta, 
                  Milano 2013, pagg. 100, Ä 10,00), docente di filosofia 
                  politica all'Università di Macerata, la prima presentazione 
                  del libro è avvenuta proprio a Motta. Una serata a più 
                  tappe, tenuta nel vasto auditorium del paese, introdotta da 
                  una coinvolgente rappresentazione della compagnia teatrale “La 
                  favola folle“ (www.favolafolle.com) che ha ripercorso 
                  gli ultimi giorni di Caserio in cella. A questa è seguita 
                  l'intervista all'autore del libro, intervallata da canzoni popolari 
                  di fine Ottocento interpretate da Oreste Magni dell'Ecoistituto 
                  della Valle del Ticino. Un serata non facile e dall'esito non 
                  scontato, premiata dalla presenza di un folto pubblico che ha 
                  apprezzato l'iniziativa. 
                  La compagnia teatrale FavolaFolle nasce nel 2006 a Casorate 
                  Primo, paesino che dista solo 4 km da Motta Visconti (Pavia). 
                  Lo spettacolo, liberamente tratto dal testo francese di Roger 
                  Défossez, per la regia di Carlo Compare, traccia un bel 
                  ritratto del giovane mottese e non solo per quello che riguarda 
                  l'attività e l'ideale politico: sulla scena troverete 
                  le emozioni e le passioni di un ragazzo di vent'anni. 
                  La vicenda si apre all'indomani della morte di Carnot; il giovane 
                  Sante Caserio, interpretato da Mirko Lanfredini, è rinchiuso 
                  in una cella di prigione. 
                  Incaricato di svolgere l'inchiesta è il giudice Benoist 
                  (Matteo Sala), che inizierà ad interrogare Sante per 
                  capire le ragioni del suo gesto. Gli ideali del ragazzo porteranno 
                  il giudice a confrontarsi non solo con la realtà, ma 
                  anche con se stesso; egli sarà indotto a scontrarsi con 
                  le riflessioni di Caserio sulla condizione umana e sulle disparità 
                  sociali. 
                  Testimoni degli ultimi giorni dell'anarchico saranno il suo 
                  carceriere (Gabriele Paina) e una prostituta conosciuta qualche 
                  sera prima dell'arresto, interpretata da Giada Catone. 
                  Il primo, inizialmente indifferente e duro nel suo ruolo, presto 
                  riscoprirà con un piccolo gesto un'umanità apparentemente 
                  perduta tra le mura della prigione. 
                  La donna invece si recherà a trovare l'anarchico avendo 
                  appreso dai giornali che il giovane italiano con cui aveva passato 
                  la notte poco tempo prima era stato arrestato per l'uccisione 
                  del presidente francese. Emblematico l'ultimo saluto tra i due: 
                  “Dimmi che non stai per morire!“. 
                  Il ragazzo non cercherà mai di difendersi davanti ai 
                  giudici e rifiuterà inoltre l'infermità mentale 
                  offertagli per scampare alla pena di morte. 
                  La rappresentazione si concluderà con il giovane Sante 
                  che sale al patibolo e dall'alto della ghigliottina lancerà 
                  le sue ultime parole di riscatto: “Signori della giuria. 
                  Non voglio intraprendere la mia difesa, ma spiegare il mio gesto. 
                  Molto giovane, ho capito che la società è male 
                  organizzata. Sono a centinaia, gli uomini in cerca di un lavoro. 
                  D'inverno hanno freddo. Chiedono l'elemosina e vengono arrestati 
                  per vagabondaggio. Questo esiste, signori. E non solo nei romanzi 
                  di Zola e di Victor Hugo.  
                  Nel mio paese, come in Francia, ho visto ragazzi di otto 
                  o dieci anni costretti a lavorare quindici ore al giorno per 
                  un salario di venti centesimi. Per loro, l'educazione è 
                  vietata. Padri e madri contadine che lavorano dall'alba al tramonto. 
                  A trenta o quaranta anni esausti muoiono negli ospizi. Nelle 
                  città, ho visto i negozi abbondare di cibo e vestiti 
                  caldi, inaccessibili a coloro che soffrono. Eppure i ricchi 
                  esistono, sono lì, provocanti. Ho visto molte persone 
                  non fare nulla, non produrre nulla, che vivono sul lavoro degli 
                  altri, dando loro ordini. Queste persone hanno palazzi con servi. 
                  Soffro davanti a questa società che favorisce i ricchi! 
                  Maledico queste immense fortune! Quando ero un bambino, ho imparato 
                  ad amare la patria. Ma quando ho visto centinaia di lavoratori 
                  lasciare il proprio paese, mogli e figli, dover emigrare in 
                  America per trovare lavoro, ho pensato: “La patria non 
                  esiste per i poveri. Per loro il Paese è il mondo intero“. 
                  Coloro che predicano il nazionalismo lo fanno per interesse, 
                  per il loro benessere. Gli uccelli difendono i loro nidi, perché 
                  lì si trovano bene. Ho creduto in Dio.  
                  Ma quando ho visto una tale disuguaglianza intorno a me, 
                  mi sono reso conto che non è Dio che ha creato gli uomini, 
                  ma gli uomini che hanno creato Dio! Il paradiso e l'inferno 
                  servono ad alimentare la paura e l'ignoranza del popolo! Due 
                  leggende che vengono mantenute con cura per salvaguardare la 
                  proprietà privata. È per questo che sono diventato 
                  ateo. E anarchico! E sono orgoglioso di esserlo! Se ho ucciso 
                  il presidente Carnot, è perché rappresentava la 
                  società borghese che ci fa soffrire così orrendamente. 
                  Solo una rivoluzione violenta può conquistare i diritti 
                  dei lavoratori, dal momento che il dialogo non esiste. Quel 
                  giorno, non ci saranno più né sfruttati né 
                  sfruttatori, né sovrani né oppressi. Ognuno produrrà 
                  secondo le proprie capacità e consumerà secondo 
                  i propri bisogni. Una nuova società nascerà, fondata 
                  sulla fratellanza. Signori della giuria, non ho più niente 
                  da dire. Se volete la mia testa, prendetela. Ma non avrete mai 
                  quello che c'è dentro.“  
                 Camilla Galbiati 
                 
                 
                  Calabria/ 
                  E se è un maschio si chiamerà Bakunin 
                “L'anno millenovecentoventitrè, addì tredici 
                  di Luglio, ore sedici e minuti dieci, nella Casa Comunale di 
                  Lago Avanti di me Ragioniere Vincenzo Cupelli Assessore funzionante 
                  per l'assenza dell'assessore delegato Uffiziale dello Stato 
                  Civile del Comune di Lago, Luigia Giordano fu Agostino, di anni 
                  cinquanta, contadina, nata in Lago domiciliata in Lago la quale 
                  mi ha dichiarato che alle ore quindici meridiane e minuti dieci 
                  del dì undici del corrente anno nella casa posta in strada 
                  sotto la Piazza Angela, Francesca, Pasqualina, Assunta Vozza 
                  fu Saverio casalinga, moglie di Giacinto Cupelli Fabbro Ferraro 
                  ambo domiciliati in Lago, è nato un bambino di sesso 
                  maschile che mi presenta, e a cui dà il nome di Galleani“. 
                  Fino a un certo punto l'atto di nascita registrato col numero 
                  novantuno, nel registro del 1923, conservato presso l'ufficio 
                  anagrafe del Comune di Lago (Cosenza) non sembra essere molto 
                  diverso da tanti altri se non fosse per quel nome un po' particolare, 
                  diciamo insolito, che i coniugi Cupelli hanno voluto dare al 
                  loro bimbo. La prefettura di Cosenza, in una riservata, rivelerà 
                  in seguito che il Cupelli: “voleva imporre ad uno dei 
                  figliuoli, nato a Lago, il nome di Giacomo Bakunin, sovversivo 
                  russo, ma venne dissuaso. Al bambino fu dato il nome di Galliano 
                  (agli atti Galleani, nda), ma nonostante ciò, i familiari 
                  lo chiamano ugualmente Bakunin“. 
                  Chi era dunque Giacinto Cupelli che, in piena dittatura fascista, 
                  voleva dare a suo figlio il nome Bakunin? Di mestiere faceva 
                  il “fabbro ferraro“, amato e rispettato dai concittadini. 
                  Come tanti lavoratori calabresi a causa della grande crisi economica 
                  è costretto ad emigrare, nel 1927, negli Stati Uniti, 
                  a New York. Il 1927 è un anno particolare, soprattutto 
                  per gli emigrati italiani in America. Nell'agosto di quell'anno, 
                  a Charleston, si consumò la barbara esecuzione di Nicola 
                  Sacco e Bartolomeo Vanzetti: un omicidio giudiziario per evitare 
                  il quale hanno protestato, in tutto il mondo, milioni di cittadini. 
                  Appena sbarcato in America l'attività di Giacinto Cupelli 
                  desta subito preoccupazione e, dopo quattro anni di costanti 
                  “attenzioni“, nel 1931 verrà arrestato per 
                  attività sovversiva. Solo dopo aver versato un deposito 
                  cauzionale verrà liberato e, per sottrarsi ad altri arresti, 
                  deciderà di darsi alla latitanza. Per sfuggire alle persecuzioni 
                  poliziesche, si sposterà tra le città di Point 
                  Marion, Pittsburgh e Charleston dove riceverà l'accoglienza 
                  e la protezione degli altri emigrati libertari. Costantemente 
                  ricercato visse una vita travagliata e solo il 20 maggio 1939, 
                  quando il provvedimento di fermo verrà definitivamente 
                  revocato, potrà ricominciare una vita “normale“. 
                  A testimonianza della testardaggine di questo anarchico oggi 
                  vive, a Lago, un suo erede che si chiama, non per caso, Bakunin 
                  Galleani Cupelli. 
                 Angelo Pagliaro 
                  angelopagliaro@hotmail.com 
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