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				 Piacenza 
                  
                Resistenza: sostantivo femminile. Plurale 
                  
                di Iara Meloni 
                    
                Dalle testimonianze di anziane che vissero la stagione della Resistenza e dell'occupazione nazista e di loro più giovani parenti, che ricordano i racconti di madri, nonne, zie, ecc, emerge uno spaccato della vita quotidiana, delle difficoltà, dei valori di fondo – in pianura come nelle valli appenniniche – in cui il segno al femminile è determinante. 
                
  
                  Excursus: le ragioni di una ricerca 
                Quando avevo circa nove anni feci una scoperta che mi cambiò la vita. 
                  In una vecchia cassapanca della casa di campagna, quella dove, 
                  con la mia famiglia, trascorrevo tutte le estati, trovai una 
                  vecchia collezione di dischi 33 giri, appartenuti forse a qualche 
                  zio o cugino. Fu lì che per la prima volta sentii cantare 
                  Fabrizio De André. 
                  Si trattò di un'illuminazione improvvisa. Passai il resto 
                  delle vacanze scolastiche ad ascoltare e riascoltare fino allo 
                  sfinimento quei dischi e a riempirmi la testa di quelle parole 
                  e di quelle melodie. 
                  Un disco in particolare, ancora non lo sapevo, ma sarebbe diventato 
                  fondamentale per la mia formazione, come spesso succede, in 
                  maniera assolutamente imprevedibile e trasversale. 
                  Adorai dal primo ascolto Non al denaro, non all'amore ne 
                  al cielo e i suoi personaggi così veri, con le loro 
                  piccole storie umane, capaci di raccontarsi con incredibile 
                  sincerità e trasparenza, quando ormai la morte e il tempo 
                  hanno fatto piazza pulita di vuote convenzioni sociali, piccole 
                  bugie e meschinità. 
                  Paradossalmente però la cosa che mi colpì più 
                  in profondità di quel disco non fu un brano, un personaggio, 
                  un verso. Nelle note di copertina, che lessi e rilessi fino 
                  ad impararle a memoria, si trovava un'intervista a Fabrizio 
                  De André fatta da una donna, Fernanda Pivano, che solo 
                  in seguito avrei imparato a conoscere. 
                  Un'intervista vera, diretta, che lasciava intravedere l'uomo 
                  De André dietro al cantautore. Un'intervista che si chiudeva 
                  in modo inusuale, con una domanda che, in maniera affettuosamente 
                  provocatoria, l'intervistato rivolgeva all'intervistatrice. 
                  “Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è 
                  Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. 
                  Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua 
                  professione traducendo il libro di un libertario mentre la società 
                  italiana ha tutt'altra tendenza. È successo tra il '37 
                  e il '41: quando questo ha significato coraggio.” 
                  Forse ognuno si costruisce a posteriori spiegazioni suggestive 
                  per ricercare l'origine di interessi, passioni, idee ricorrenti, 
                  che invece sono solo il frutto di innate inclinazioni, occasioni 
                  fortuite, incontri dettati dal caso. 
                  Ecco, a me piace pensare che sia in quella lontana estate, china 
                  sui dischi di De André, con le note de Il suonatore 
                  Jones nelle orecchie, colpita nel profondo da quelle parole 
                  che ancora non capivo bene, che sia nata in me la curiosità 
                  di sapere cosa fosse successo a quella ragazza di nome Fernanda, 
                  in quegli anni (neanche tanto) lontani. Ma soprattutto di quella 
                  breve frase mi portai dietro un'idea, che solo anni dopo, quando 
                  cominciai ad occuparmi di storia delle donne nell'antifascismo 
                  e nella Resistenza, riuscii a sviluppare chiaramente: cioè 
                  che in alcuni momenti storici avere coraggio, fare una scelta, 
                  “resistere”, si concretizzi anche in azioni piccole, 
                  quotidiane, normali, che in virtù dell'eccezionalità 
                  degli eventi in corso assumono tutt'altro significato e valore. 
                  Quella frase letta tanto tempo prima continuava a suggestionarmi 
                  e a suggerirmi che in tempi bui, di dittatura, guerra, occupazione, 
                  “resistere” potesse significare non solo impugnare 
                  un'arma e sparare, ma anche infornare una pagnotta per uno sconosciuto, 
                  avere pietà per un cadavere esposto per strada e fare 
                  di tutto per seppellirlo, tradurre testi che parlano di libertà 
                  e antimilitarismo in tempi di oppressione e culto della guerra. 
                  Mi piace pensare che sia stato allora, in quell'estate lontana, 
                  che in me nacquero in nuce gli interessi, le curiosità, 
                  le domande da rivolgere al passato, le sensibilità ideali, 
                  che mi avrebbero portata anni dopo a realizzare una tesi di 
                  laurea magistrale sulla storia delle donne nella Resistenza 
                  a Piacenza, la mia provincia; un lavoro che si concentra non 
                  solo sulla partecipazione in armi alla lotta partigiana ma anche 
                  sulle categorie di “resistenza civile”, “guerra 
                  ai civili”, e vita delle donne in regimi di occupazione 
                  militare. 
                  Per realizzarla ho raccolto trenta interviste a donne piacentine 
                  che settant'anni fa avevano vissuto i terribili mesi del dominio 
                  tedesco nella provincia e preso parte al movimento di liberazione 
                  locale. Partigiane, staffette, ma anche donne comuni che nelle 
                  piccole comunità dell'Appennino si erano prodigate per 
                  dare aiuto e supporto alle formazioni di combattenti coordinate 
                  dal Comitato di Liberazione Nazionale. 
                  Le storie delle loro vite e del loro impegno resistenziale sono 
                  andate così ad affiancarsi alle altre fonti storiche, 
                  ai documenti ufficiali, alla bibliografia, permettendo di far 
                  luce non solo su quanto materialmente queste ragazze avessero 
                  contato nella Resistenza, a quali azioni avessero partecipato, 
                  che ruoli avessero ricoperto, ma anche con quali sentimenti 
                  vi avessero aderito, quali speranze e quali paure avessero sperimentato. 
                  Ne sono usciti ritratti di giovani donne coraggiose, ricche 
                  di inventiva e ingegno, capaci di utilizzare tutte le proprie 
                  risorse per arginare il disastro immane della guerra. Donne 
                  capaci di agire sole in momenti in cui gli uomini sono braccati, 
                  di mettere in campo forza morale, coraggio, fantasia e passione 
                  per limitare gli effetti mortali del conflitto sulle persone, 
                  ma anche sul territorio in generale, sui beni materiali ottenuti 
                  grazie alla fatica e all'impegno di generazioni, sulle comunità 
                  sottoposte a molteplici spinte centrifughe. 
                  Vi proporrò qui alcuni dei loro racconti, raccolti nel 
                  corso della ricerca, per cercare di capire cosa abbia significato 
                  per le piacentine degli anni '40, vivere in una provincia occupata, 
                  essere coinvolte negli scontri, nelle requisizioni, nelle rappresaglie, 
                  e scegliere di prendere parte al movimento resistenziale, ognuna 
                  con i propri mezzi e modi. 
                  Si tratta di un quadro limitato, della storia di una trentina 
                  di ragazze di una piccola provincia periferica dell'Emilia Romagna. 
                  Ma che si allarga e assume rilevanza storica se immaginiamo 
                  un filo rosso che lega idealmente Pierina, Maria, Mina, Alessandra, 
                  che sulle colline del piacentino elaboravano creative strategie 
                  di sopravvivenza e resistenza all'occupazione nazifascista, 
                  a Fernanda che, a Torino, consapevole del rischio, traduceva 
                  un libro proibito. E tutte le ragazze, le donne, che in silenzio, 
                  ma con coraggio, sceglievano da che parte stare. 
                
                   
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                    |   Luisa Calzetta “Tigrona”.  Nella foto a sinistra 
                  è ritratta in compagnia di altre donne, a Folli di Ferriere  | 
                   
                 
                 
	“La mia piccola patria, dietro la Linea Gotica”: Piacenza occupata 
	Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e l'uscita dell'Italia dall'alleanza con la Germania, Piacenza viene occupata dalle forze della Wehrmacht, così come gran parte del territorio italiano. 
Come nelle altre zone soggette al controllo tedesco la quotidianità dell'occupazione è caratterizzata da un'intensa attività di sfruttamento dell'economia agricola e industriale e da razzia di manodopera, e il comportamento nei confronti della popolazione è contraddistinto da un crescendo di episodi di violenza. Le stragi diffuse, gli eccidi, le razzie e le deportazioni permettono di parlare dell'occupazione nazista in Italia come di un “sistema terroristico di dominazione”. 
Per la popolazione piacentina il regime di occupazione significa sottostare a limitazioni alla libertà individuale, vedere ogni aspetto della vita economica e sociale sottoposta al controllo del Comando Militare germanico, subire requisizioni che influenzano negativamente le condizioni di vita, aumentando i problemi legati all'approvvigionamento alimentare, essere vittime di rappresaglie e violenze. 
Spesso, in una situazione di assenza forzata di gran parte della popolazione maschile, a scontrarsi con gli aspetti crudi e disumani del dominio nazista sono proprio le donne, vittime di rappresaglie, sequestri di cibo e materiali vari, violenze, stupri. Le testimonianze raccolte mostrano una moltitudine di soprusi piccoli e grandi, subiti (anche se non sempre e non completamente in maniera passiva), per mano degli occupanti tedeschi e dei loro alleati fascisti, che restituiscono la violenta e terrorizzante dimensione quotidiana dell'occupazione. È qui che si vede il conflitto entrare nelle vite individuali, modificarle, sconvolgerle dalle fondamenta, scombinarle anche negli aspetti più piccoli e comuni. 
Come raccontano le testimoni: 
 
«Hanno ammazzato due tedeschi, allora ogni tedesco che si ammazzava, loro ne ammazzavano dieci. Ci avevano portati tutti in piazza.» 
 
Anche lei? 
«Anche io con mio figlio, davanti al monumento. Il presunto colpevole dell'uccisione dei tedeschi era un vecchio. L'hanno trovato dentro la greppia, dove si era andato a nascondere, e l'hanno ucciso. Se non l'avessero trovato avrebbero scelto tra noi chi uccidere.» 
 
«Il signor N. era esonerato dal servizio militare perché lavorava per la Ditta Petroli, aveva tre bambini ed era a casa. Quando sono arrivati con il rastrellamento bussavano alle porte, come sono entrati a casa mia sono entrati in casa sua (...). Lui è sceso ad aprire la porta e come hanno aperto l'hanno preso e l'hanno portato via. Sua moglie chiamava: “Aiuto! Mi hanno portato via mio marito”. Allora mia mamma le ha detto: “Ti aiuto io a cercarlo.” 
L'hanno trovato morto. Come l'hanno preso, l'hanno portato dietro un cascinale e l'hanno fucilato, forse perché... per cattiveria, che c'era stato un morto tra di loro, per vendicazione [sic]... non lo so.» 
 
«Viene un tedesco e va nella nostra stalla. Noi il maiale l'avevamo nascosto dentro, con tutte le fascine intorno, non si muoveva neanche. È stata una donna; volevano prendere il suo, e allora lei ha detto: “Andate di là che ce n'è un altro più bello”. Allora sono venuti da noi e ci hanno portato via il maiale. Mia mamma piangeva e allora un tedesco le ha detto: “Mamma italiana non essere molto furba, perché uccidere maiale, metterlo sotto la neve e mangiarlo dopo, con tutti i bambini!”. Ma ormai...» 
	Lo sforzo di “restare umani” 
	            I rastrellamenti tedeschi sono a Piacenza una triste realtà già 
                  nell'estate del 1944, quando la provincia è investita 
                  dall'Operazione Wallenstein, un rastrellamento strategico, guidato 
                  dal Walter von Hippel, pensato per perseguire due obiettivi 
                  di primaria importanza: requisire manodopera maschile e generi 
                  alimentari per le esigenze del Reich e terrorizzare gli abitanti 
                  della montagna, minando alla base il sostegno che i partigiani 
                  potevano ricevere dai contadini. Operazioni militari come queste 
                  creano una situazione anomala, di rovesciamento, in cui anche 
                  i pochi uomini rimasti scappano e si nascondono, anche per periodi 
                  piuttosto lunghi, e le donne rimangono sole a fronteggiare pericoli 
                  e minacce. 
                   
                  «Cercavano uomini (...). Gli uomini si nascondevano. Mi 
                  ricordo che mio marito e i suoi fratelli avevano fatto un buco 
                  sotto alla concimaia...» 
                   
                  In questa situazione le donne si trovano ad affrontare la guerra, 
                  e gli enormi disagi che essa provoca, attraverso lo sfruttamento 
                  esponenziale delle proprie energie individuali e delle risorse 
                  famigliari. 
                  Garantire il sostentamento della famiglia, sottraendo cibo e 
                  risorse all'inesorabile controllo degli occupanti, diventa progressivamente 
                  un compito sempre più difficile, faticoso, per assolvere 
                  al quale occorre fare appello a tutte le proprie forze, al proprio 
                  coraggio, alla propria inventiva. 
                   
                  «Mio marito era riuscito a comprare un maialino. L'aveva 
                  messo nel suo stallaccio, ma si sentiva sempre il maiale grugnire 
                  e bisognava portarlo via, se no l'avrebbero scoperto. Allora 
                  sono andata su con una carriola e mio figlio. Mi sono messa 
                  d'accordo con i miei fratelli che lo portavo da loro. In piazza 
                  c'era pieno di gente e pieno di tedeschi, noi siamo andati dentro 
                  per prenderlo con un sacco (...). Allora l'ho preso così 
                  e l'ho messo dentro il sacco. C'era pieno di gente, la piazza... 
                  Il maiale ringhiava e mio figlio ci teneva su le manine, era 
                  piccolino. Allora un tedesco, scherzando, ha preso un coltello 
                  e ha fatto finta di colpirlo. Mio figlio ci è volato 
                  contro le gambe: “Lascia stare il mio maialino! Lascialo 
                  stare, eh!”. La gente che rideva... Anche i tedeschi ridevano 
                  e alla fine non ce l'hanno ammazzato.» 
                   
                  In un tale contesto il significato della categoria di “Resistenza 
                  civile” trova pieno risalto. Non si tratta infatti solo 
                  di reperire con difficoltà, tra mille disagi e pericoli, 
                  il cibo per assicurare la sopravvivenza a se stesse e alla propria 
                  famiglia e comunità: 
                   
                  «si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela 
                  e trasformazione dell'esistente – vite, rapporti, cose 
                  – che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico 
                  alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; di un rifiuto 
                  a sottomettersi le cui conseguenze possono andare dalla denuncia 
                  alla deportazione.» 
                   
                  Tanti gli episodi narrati in cui le donne si espongono perché 
                  gli occupanti restituiscano bestiame requisito, liberino il 
                  transito su una strada interdetta, permettano il celebrarsi 
                  di feste e ricorrenze; altrettanti gli episodi in cui le civili 
                  cercano di mantenere, in una situazione brutale e disumanizzante, 
                  un simulacro di “normalità”, custodendo all'interno 
                  di famiglie e comunità un nucleo intangibile di solidarietà 
                  e di valori umani. 
                  Una in particolare tra queste storie colpisce, per lo sforzo, 
                  che trova uniti partigiani e popolazione civile, fatto per garantire 
                  ai bambini del piccolo paese di Vernasca non solo il cibo e 
                  la sopravvivenza materiale, ma anche un momento ricreativo e 
                  spensierato. 
                   
                  «Mi ricordo che doveva passare Santa Lucia. 
                  Era l'inverno del 1944-45, e c'era un posto di blocco a Vernasca. 
                  Ho detto a mio figlio: “Bruno, vedi, quest'anno Santa 
                  Lucia non può venire, perché c'è il posto 
                  di blocco. Il carretto con l'asinello non passa…”. 
                  Lui era tanto triste ma a quel tempo non c'era niente da mangiare, 
                  non ce n'era, e io cosa gli dicevo? 
                  C'era un ragazzo di Castell'Arquato, partigiano, che mi fa: 
                  “Signora non ha proprio niente da dare al bambino?” 
                  “Niente! Purtroppo quest'anno Santa Lucia non porta niente”. 
                  Allora lui è andato al magazzino dove i partigiani conservavano 
                  i viveri e ha preso un pezzo di burro e dello zucchero. Ho fatto 
                  un'infornata immensa di biscotti e li hanno mangiati tutti i 
                  bambini di Vernasca. 
                  Li ha portati Santa Lucia» 
                   
                  Lo sforzo di “restare umani”, di difendere, pur 
                  nel terribile contesto della guerra, spazi comuni di spensieratezza 
                  e allegria, l'impegno per garantire ai figli un'infanzia il 
                  più possibile serena e normale, la cura spesa, pur in 
                  un clima radicalmente mutato, nel ricordare tradizioni e feste 
                  locali, momenti fondanti della costruzione di una identità 
                  comunitaria: tutti aspetti che restituiscono alcuni tratti del 
                  carattere profondo dell'impegno femminile. 
                  Come scrive Mirco Dondi 
                   
                  «Le feste nelle zone rurali sono innanzitutto riti che 
                  sanciscono o confermano l'unione della comunità, e nel 
                  conflitto che si sta sviluppando l'unione della comunità 
                  è minacciata (...).» 
                   
                  Siamo quindi di fronte a forme di Resistenza apparentemente 
                  secondarie ma molto importanti dal punto di vista simbolico: 
                  si cerca di creare le condizioni di vita più favorevoli 
                  per tutta la comunità, si capitalizzano i piccoli passi, 
                  i risultati parziali e provvisori, si dà importanza a 
                  gesti di lieve entità ma di grande peso morale. 
                  E a incaricarsi di questa funzione di mantenimento della continuità 
                  con le scansioni e i riti del tempo di pace sono spesso le donne. 
                  I rastrellamenti tedeschi per la requisizione di forza lavoro 
                  maschile per fini militari e di vettovaglie per le esigenze 
                  dell'esercito danno luogo a un rovesciamento dei ruoli tradizionali: 
                  sono le donne che devono provvedere integralmente al sostentamento 
                  del nucleo famigliare, sobbarcandosi l'intero peso delle attività 
                  agricole e piccolo-imprenditoriali. Se gli uomini sono costretti 
                  in una situazione di passività, obbligati a fuggire e 
                  nascondersi, le donne li proteggono, tacendo sulle loro posizioni, 
                  facendo finta di non conoscere i loro nascondigli, avvertendoli 
                  sugli spostamenti delle truppe. 
                  È interessante notare come spesso nei racconti dei pericoli 
                  corsi in questo momento di “assenza di uomini”, 
                  emerga una precisa strategia narrativa, che vuole essere una 
                  forma di riscatto femminile: si enfatizza il proprio ruolo da 
                  protagonista, la propria astuzia, il disprezzo del rischio, 
                  la capacità di fare ricorso a strategie creative per 
                  giustificare le assenze maschili senza subire ritorsioni. 
                   
                  «Mi ricordo che avevo un cognato io, il marito di mia 
                  sorella, che era andato in Germania, e ci aveva scritto da là. 
                  Una volta sono venuti dei tedeschi severi, severi: “Suo 
                  marito?”. Per fortuna che io avevo quel cognato lì 
                  che era stato in Germania a lavorare. Ho messo la mano in alto 
                  e ho tirato fuori una cartolina postale scritta da lui: “Ecco, 
                  mio marito è qui, a lavorare in Germania”. Ma aveva 
                  visto degli scampoli e mi ha detto: “E chi lavora?” 
                  “Io, io faccio la sarta”. È andata bene che 
                  non mi ha detto di cucire qualcosa, se no...» 
                   
                  I tedeschi cosa facevano? 
                  «Arrivavano e cercavano. Quando avevo mio figlio piccolino 
                  sono venuti i tedeschi e mi facevano: “Dove marito?”. 
                  Mio marito era scappato, era nell'Ongina dentro un buco, sotto 
                  un cespuglio. Io ho detto: “Non ce l'ho il marito” 
                  “Come? E questo figlio?”. Ho alzato le spalle, così. 
                  C'erano delle altre sposine, hanno visto, c'era la Giulia... 
                  e nessuna aveva il marito, erano tutti scappati e allora uno 
                  fa: “Signorine italiane niente bene, tutte senza marito 
                  con bambino”. Il mio vicino aveva una cagnetta incinta, 
                  un tedesco l'ha messa sul davanzale della finestra: “E 
                  questa? Niente marito neanche lei!”. Aveva una panciona, 
                  questa cagnetta!» 
                   
                  «Una volta mio marito era scappato e aveva lasciato un 
                  paio di scarpe sotto il letto. Io ero con mio figlio piccolino 
                  e il tedesco mi ha fatto: “Dov'è il marito?” 
                  “Non c'è, non ce l'ho” “E queste scarpe 
                  da uomo?”. Mi è venuto in mente e ho detto: “Sono 
                  per mio figlio quando sarà grande”... che stupidata! 
                  Lui si vede che era una brava persona, che aveva bambini piccoli.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Giuliana e altre ragazze di Gropparello  | 
                   
                 
                 
	Le piacentine e il “Grande Rastrellamento” 
	            La situazione descritta peggiora esponenzialmente tra il novembre del 1944 
                  e il gennaio seguente, quando l'intera provincia viene investita 
                  da un'operazione militare su più larga scala, mirata 
                  a debellare definitivamente la presenza partigiana. Approfittando 
                  della situazione di stallo determinatasi in seguito al cosiddetto 
                  “Proclama Alexander” del 13 novembre, i tedeschi 
                  riversano sulla XIII Zona partigiana, corrispondente ai territori 
                  della provincia di Piacenza, e su zone limitrofe del Pavese, 
                  del Genovese e dell'Alessandrino, circa 21 mila effettivi, oltre 
                  a contingenti ausiliari della Repubblica Sociale Italiana. L'obiettivo 
                  principale è quello di riacquistare il controllo della 
                  Zona, che nell'estate precedente aveva visto un'enorme crescita 
                  del fenomeno partigiano, con ampie aree controllate direttamente 
                  dalle formazioni patriottiche. L'assoggettamento di Piacenza 
                  e della sua provincia era considerato infatti di primaria importanza 
                  per il Comando Tedesco, perché, in caso di sfondamento 
                  della Linea Gotica, la libertà di muoversi su questo 
                  territorio avrebbe permesso di ritirarsi ordinatamente o predisporre 
                  un'ulteriore linea difensiva lungo il fiume Po. La centralità 
                  di Piacenza come snodo stradale e ferroviario, poi, rendeva 
                  essenziale riprendere il controllo delle vie di comunicazione, 
                  diventate pericolose a causa delle continue imboscate partigiane. 
                  La funzione antipartigiana di quello che è comunemente 
                  definito il “grande rastrellamento invernale” ha 
                  delle ricadute pesanti non solo per le brigate partigiane, ma 
                  anche per tutta la popolazione civile: alle grandi battaglie 
                  volte a disperdere le forze della Resistenza si accompagna una 
                  violenta azione di rastrellamento casa per casa. Alle misure 
                  di repressione della guerriglia si unisce una sistematica operazione 
                  di razzia di beni alimentari, utile non solo a sostenere le 
                  esigenze dell'imponente esercito occupante ma anche a mettere 
                  in difficoltà la già provata popolazione delle 
                  montagne, rendendo sempre più difficile e gravoso il 
                  rapporto di solidarietà che in molte zone si era instaurato 
                  con i “ribelli”. 
                  Si tratta del momento di maggiore difficoltà per le formazioni 
                  partigiane del Piacentino, che non riescono a fronteggiare la 
                  gigantesca forza d'urto e si disperdono, nascondendo le armi 
                  e cercando riparo singolarmente o a piccoli gruppi. 
                  Nell'inverno del “grande rastrellamento” il dare 
                  rifugio a partigiani e sbandati diventa ancora più pericoloso 
                  per i civili, a causa del sempre maggiore controllo esercitato 
                  dall'esercito tedesco e dell'accresciuta severità delle 
                  punizioni, che puntavano ad essere esemplari e scoraggiare qualsiasi 
                  forma di sostegno e supporto ai “ribelli”. 
                  Simbolo di questa fase di sbandamento è il “buco”, 
                  fossa sotterranea scavata con mille precauzioni e accorgimenti 
                  per risultare invisibile dall'esterno, in cui ci si rifugia, 
                  rimanendo immobili in spazi angusti per intere giornate e affidandosi 
                  totalmente ai civili, di solito alle donne. Sono loro che portano 
                  il cibo cercando di non farsi notare, avvisano in caso di arrivo 
                  dei reparti di rastrellatori, cercano di distrarre i militari 
                  nel caso si avvicinino troppo ai nascondigli. 
                   
                  «Gli uomini si nascondevano. Mi ricordo una che mio marito 
                  e i suoi fratelli avevano fatto un buco sotto alla concimaia... 
                  robe da matti! (...) La gente si nascondeva... dei buchi sotto 
                  terra facevano.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Claudia Catelli “Cicci”, 38a Brigata  
                  Garibaldi Divisione Val D'Arda  | 
                   
                 
                 
	I “mongoli” della Turkestan 
	Combattimenti impari, disperati tentativi di resistenza, cascine date alle fiamme, uccisioni, fughe precipitose in mezzo alla neve, nascondigli ingegnosi ma non sempre efficaci, sbandamenti, razzie di bestiame, distruzione di suppellettili: il grande rastrellamento invernale ritorna nelle parole dei testimoni come un periodo di paura, confusione, difficoltà estrema declinata in mille forme diverse. Eppure c'è un aspetto che tutti ricordano e di cui tutti parlano, un qualcosa che viene da lontano, da luoghi esotici, quasi inimmaginabili per il ristretto orizzonte dei contadini di montagna, degli abitanti dei piccoli paesi dell'Appennino per molti dei quali la stessa città di Piacenza rimaneva un altrove mai visto. Un qualcosa che incuriosisce e spaventa, e finisce per incarnare la violenza, la brutalità, la bestialità del grande rastrellamento. Non si può parlare infatti con qualcuno, partigiano o testimone, uomo o donna, che abbia vissuto nel Piacentino nell'inverno 1944-45 senza che emerga, quasi sempre con forza, il discorso dei “mongoli”. 
Ricordati con un nome coniato in tempi lontani dalla sensibilità del politically correct, i “mongoli” sono soldati calmucchi, uzbechi, tartari, georgiani, karakalpachi, azebargiani, ucraini, kirghisi inquadrati nella 162a Divisione “Turkestan”, una delle Ostlegionen, le formazioni volontarie composte da prigionieri catturati dai nazisti sul fronte sovietico. Un nome dovuto ai tratti somatici di sapore asiatico ma che, non a caso, rimanda a Gengis Khan, alle orde barbariche, a terribili invasioni e devastazioni, a un'ondata di terrore che viene da lontano, quasi dai margini del mondo civilizzato. Sono loro, i circa 12 mila uomini della 162a ai comandi del generale Ralph Von Heygendorff, che, insieme a reparti tedeschi e della RSI, compiranno in ampie zone del Piacentino, del Genovese e del Pavese, durissimi rastrellamenti in funzione antipartigiana, scompaginando le fila del locale movimento partigiano e mettendo in ginocchio la popolazione. 
Nelle testimonianze raccolte i “mongoli” sono raffigurati come individui bestiali, dai tratti somatici spaventosi, tali da non sembrare nemmeno umani. 
 
«I mongoli erano molto piccoli e molto brutti, non sembravano neanche persone. Ci sarà stato un metro e mezzo di neve a quell'epoca, nevicava a più non posso, venivano sotto la neve... non sopra, camminavano sotto la neve come le talpe. Noi si guardava dalla finestra e si vedeva la neve muoversi, poi spuntavano fuori... era un disastro vedere quelle persone lì... paurose proprio.» 
 
«I mongoli sono molto brutti eh! Poverini, non è colpa loro... però quando te li vedi davanti, tutti sporchi, tutti pieni di fango. Aver davanti degli omoni così... io ho fatto in tempo a scappare in mezzo ai campi ma hanno portato via la bicicletta e poi hanno picchiato tanto mio nonno.» 
 
«Erano spaventosi da vedere, brutti, con quei baffoni, con quegli occhi.» 
 
È interessante notare come spesso, nelle testimonianze, i “mongoli” siano associati alla bestialità e alla ferinità in riferimento al cibo. Già da tempo gli antropologi si occupano del cibo e delle pratiche legate ad esso, cercando di svincolarlo dalla sua mera accezione di “nutrimento”, inteso come soddisfacimento di un bisogno fisiologico, per evidenziarne la natura di costruzione culturale, elaborata dalle comunità umane nel corso dei secoli. In un mondo in cui il contatto, il dialogo, lo scambio tra culture sono ormai una consolidata normalità, le attuali riflessioni sul cibo come strumento di ostentazione dell'identità culturale e di definizione della differenza etnica offrono spunti interessanti di analisi sulla percezione che i testimoni hanno avuto delle truppe naziturkestane. In particolare le pietanze tradizionali sono state al centro di recenti polemiche nazionali legate all'immigrazione e alla supposta perdita dell'identità culturale, che hanno reso evidente come attraverso il cibo si definisca non solo l'identità, a livello sia individuale che comunitario, ma anche l'alterità, legando fortemente un alimento percepito come insolito e “non buono da mangiare e assimilare”, a chi lo consuma, percepito anch'esso come alieno e non assimilabile. 
Con le dovute differenze di contesto storico e culturale anche le testimonianze sul “grande rastrellamento” rimandano al cibo: nel delineare gli aspetti di bestialità e inumanità dei naziturkestani si sottolinea come fossero soliti nutrirsi di alimenti che in queste zone venivano consumate raramente, e soprattutto come si cibassero in modo ferino, macellando e cuocendo la carne in modo approssimativo. 
 
Mi parli dei mongoli. 
«I mongoli mangiavano le pecore, i tedeschi mangiavano i maiali e le galline. Oppure ammazzavano le oche e dicevano: “Calina grande”. I mongoli mangiavano le pecore.» 
 
Voi mangiavate la carne di pecora? 
«No, noi non l'abbiamo mai mangiata, non l'abbiamo mai voluta. 
I mongoli tagliavano la testa alle galline e facevano venire fuori il sangue. Tu dovevi pulirgliele e farle cuocere nella pentola. Tu dovevi mangiare con loro perché avevano paura che tu li avvelenassi, non ti andava giù niente delle volte, e non avevi fame... ma dovevi mangiare con loro...» 
 
«La carne di pecora era particolarmente gradita ai mongoli.» 
	La violenza contro i corpi, la violenza contro le cose 
	            E poi l'aspetto che le donne intervistate ricordano sempre con terrore 
                  è quello degli stupri. Si tratta di un tipo di violenza 
                  specificamente connotata in base al genere, e che fatica a trovare 
                  spazio nella memoria popolare: se è molto comune trovare 
                  nelle testimonianze racconti relativi alle violenze, questi 
                  sono sempre lontani, appresi per sentito dire, accaduti a qualche 
                  vicina o conoscente e mai narrati in prima persona. Allo stesso 
                  modo nella storiografia locale sulla guerra di Liberazione, 
                  che pur spesso fa generici riferimenti alla violenza sulle donne 
                  che avrebbe accompagnato il rastrellamento, non si riescono 
                  a trovare indicazioni puntuali e accurate sui tempi, i modi 
                  e le vittime di questa violenza. 
                  Al di là dei comprensibili silenzi dei testi e dei testimoni, 
                  la violenza sessuale sulla popolazione civile accompagna le 
                  diverse fasi del grande rastrellamento, assumendo rilevanza 
                  come problema sociale se il parroco di Broni, piccolo paese 
                  a cavallo tra il Piacentino e il Pavese, nel dicembre 1944 scrive 
                  sul suo diario: 
                   
                  «Le gravi voci di violenza sulle donne da parte delle 
                  truppe germaniche comprendente [...] truppe di ogni nazionalità, 
                  già prima prigionieri di guerra, vengono confermate da 
                  una circolare segreta inviata dall'autorità degli ospedali 
                  in cui si autorizzano gli aborti per far scomparire le prove 
                  della violenza.» 
                   
                  Le testimonianze raccolte fanno spesso riferimento alla violenza 
                  sessuale compiuta dai “mongoli”, una violenza che 
                  ha due caratteri: 
                   
                  a) è indiscriminata, si rivolge verso ogni donna, 
                  anche quelle anziane, non risparmia donne incinte e malate, 
                  poco appetibili, e a nulla valgono strategie di camuffamento 
                  come il tentare di invecchiarsi, di rendersi meno piacenti; 
                  b) è brutale, si accompagna a pestaggi, rapimenti 
                  e torture, anche efferate. 
                   
                  «Mia cognata, di 24 anni, quando l'hanno vista l'hanno 
                  portata di sopra e l'hanno violentata quasi tutti. Aveva una 
                  gamba nera, che sembrava fosse stata rotta (...). Stava svolgendo 
                  un compito di staffetta, ha bussato alla porta ma non sapeva 
                  che c'erano i tedeschi che stavano facendo la colazione. Lei 
                  ha bussato la porta e quando l'hanno vista hanno detto a quei 
                  signori: “La conoscete?” e loro hanno detto di no. 
                  Potevano dire: “Sì, è una nostra amica, 
                  è venuta a trovarci”, invece loro hanno detto: 
                  “No, non l'abbiamo mai vista”. Allora l'hanno portata 
                  di sopra.» 
                   
                  Hanno capito che lavorava per i partigiani? 
                  «No! Non l'hanno capito, l'hanno immaginato! Hanno immaginato... 
                  se quella famiglia avesse detto: “Sì, è 
                  una signora che passa ed è stata a messa...” perché 
                  aveva il velo in tasca... ma quelli là gli hanno detto 
                  così e allora hanno immaginato che era una staffetta.» 
                   
                  Cosa le hanno fatto? 
                  «L'hanno violentata e poi l'hanno uccisa. L'hanno portata 
                  in fondo al cortile, le hanno dato un colpo di pistola in testa 
                  ed è caduta giù. Ci è stata tre giorni, 
                  che nevicava... hanno fatto fatica anche a trovarla (...). 24 
                  anni, una bella ragazza. Aveva tutto il corredo pronto perché 
                  aveva il fidanzato per sposarsi.» 
                   
                  In alcuni casi le testimoni ammettono di aver subito attenzioni 
                  sgradite, addirittura di essere state percosse pesantemente, 
                  ma la violenza carnale vera e propria è sempre, nei racconti, 
                  un pericolo scampato, o che qualcun'altra ha subito, di solito 
                  una conoscente o una parente. 
                   
                  Si ricorda il rastrellamento invernale, quello coi mongoli? 
                  Questo è stato triste. Loro, i mongoli, non cercavano 
                  gli uomini, loro cercavano soldi, oro e donne da violentare. 
                  Mi ricordo quando è entrato un mongolo in casa mia. Io 
                  aspettavo la bambina, hanno bussato la porta... erano spaventosi 
                  da vedere, brutti, con quei baffoni, con quegli occhi. Io ho 
                  fatto: “Ohiamme! I mongoli!” e mi ha dato uno schiaffone 
                  tanto forte che sono caduta e mi sono sentita... che stavo per 
                  abortire. Allora è entrato un tedesco che aveva la croce, 
                  non so se era infermiere o dottore, e mi ha detto: “Signora 
                  si sente male?” “Sto perdendo il mio bambino” 
                  “Si metta a letto...” “Con questa gente?” 
                  “Si metta a letto! Non c'è un dottore qua?” 
                  “No”. Il dottore era scappato coi partigiani. Lui 
                  è andato sulla porta, ha scritto delle parole in tedesco 
                  e non è più entrato nessuno. Ho saputo dopo che 
                  significato avevano quelle parole lì, significavano: 
                  In questa casa vivono dei tubercolotici. I mongoli erano 
                  terrorizzati dalla tubercolosi, e non è più entrato 
                  nessuno. 
                   
                  Lei si è rimessa? 
                  «La cosa... poi si è fermata.» 
                   
                  Si ricorda i mongoli? 
                  «C'era una signora, una donna anziana, da sola per strada... 
                  non era neanche tanto a posto con la testa. L'hanno presa e 
                  le hanno fatto di tutto. Ha pianto tanto quella donna lì...» 
                   
                  «Lì ai Badoni hanno preso delle ragazze e le hanno 
                  violentate.» 
                   
                  «Hanno violentato a Lugagnano, molto, ma anche a Vernasca 
                  (...): Hanno detto che erano andati con una vecchia che piangeva 
                  e diceva: “Io sono vecchia!”, la signora Irene.» 
                   
                  «Oh mamma, una volta stavo andando in là dalla 
                  mia bambina, dalla finestra ho visto una faccia e ho detto: 
                  “Ho visto il Diavolo!”. Pensavo di aver visto il 
                  Diavolo... col naso spiaccicato sul vetro. Allora [..] sono 
                  scappata ma han preso su mia cugina.» 
                   
                  I mongoli? 
                  «I mongoli. È tornata dopo quattro anni che era 
                  finita la guerra, con un bambino.» 
                   
                  Quanti anni aveva sua cugina? 
                  «21.» 
                   
                  L'hanno rapita? 
                  «L'han portata via con loro, al suo paese. E io quel bambino 
                  lì, finita la guerra, l'ho tenuto a battesimo... ma assomiglia 
                  un po' a un mongolo.» 
                   
                  Cosa le ha raccontato sua cugina di quei quattro anni? 
                  «La violavano... la violentavano... mica appena uno. Non 
                  era più stata lei, dopo la guerra, dopo che è 
                  tornata... era stata molto prepotente... si ribellava, poverina. 
                  Io sono scappata da quell'altra porta, lei era nell'altra casa, 
                  l'han presa, non è riuscita a scappare. Io credevo di 
                  aver visto il diavolo.» 
                   
                  Le violenze sessuali sembrano essere un fenomeno diffuso e noto, 
                  tanto che nei mesi del “grande Rastrellamento” si 
                  pratica un'inversione di genere della pratica del nascondimento: 
                  se prima, specie nel rastrellamento dell'estate 1944, a nascondersi 
                  erano soltanto gli uomini, e le donne potevano rimanere a casa 
                  perché “alle donne non facevano niente, loro portavano 
                  via gli uomini”, ora sono le donne a scappare, a nascondersi, 
                  cercando di evitare la terribile sorte dello stupro. 
                   
                  «Quei giorni lì che c'era il rastrellamento proprio 
                  grosso, nel mese di gennaio, siamo andati via anche noi. Eravamo 
                  una squadra di 5 o 6 o 7 ragazze e siamo andate a finire a Fossero. 
                  A Fossero abbiamo trovato due partigiani, uno era un sudamericano 
                  e ci ha portato in una casa di una signora tanto brava... poverina, 
                  non avevano niente neanche loro e ci hanno dato pane e miele 
                  da mangiare la sera, e burro che faceva lei in casa. Poi ci 
                  hanno messo là, davanti a un camino grosso pieno di legna, 
                  sopra la paglia... abbiamo dormito per terra un paio di notti 
                  (...). Quando siamo tornati a casa nostra c'era di tutto per 
                  aria.» 
                   
                  «Mia mamma conosceva quella signora là che l'ha 
                  chiamata e le ha detto: “Vieni a casa mia che qui i mongoli 
                  non ci vengono di sicuro”, infatti non ci sono andati. 
                  Al mattino siamo tornati a casa subito. Mio papà non 
                  è scappato: “Se volete andare andate ma io da casa 
                  mia non mi muovo”.» 
                   
                  Voi ragazze siete scappate perché arrivavano i 
                  mongoli. Come mai? 
                  «Perché dove arrivavano facevano la festa.» 
                   
                  E la violenza esercitata dalle truppe d'occupazione tedesche 
                  e turkestane, con la collaborazione degli alleati della RSI, 
                  non si rivolge soltanto verso i corpi ma anche verso le cose, 
                  gli oggetti, le abitazioni. La presenza sul territorio di eserciti 
                  che necessitano di strutture logistiche e d'appoggio ha ricadute 
                  pesanti sulla popolazione: le case vengono occupate per far 
                  spazio alle truppe, la tavola non viene più preparata 
                  per la famiglia, che attorno ad essa si riunisce in un rito 
                  quotidiano, ma i pasti si devono dividere, volenti o nolenti, 
                  anche con i soldati stranieri. Dalle testimonianze emerge lo 
                  spaesamento, il dispiacere, nel vedere come le proprie case 
                  e le proprie cose fossero utilizzate senza riguardo dagli occupanti, 
                  e ancora l'umiliazione, la paura nell'essere costretti a condividere 
                  spazi e pasti con quelli che erano percepiti come nemici. 
                   
                  «Comunque noi siamo rimasti tutti disastrati perché 
                  a casa nostra non hanno fatto niente di incendi e di maltrattamenti 
                  però ci hanno distrutto tutto... i nostri viveri, la 
                  nostra mobilia... tutto buttato dalla finestra, tutto calpestato 
                  coi piedi... ci hanno distrutto tutto, questi soldati. Poi sono 
                  partiti, hanno attraversato la montagna e continuato il loro 
                  rastrellamento.» 
                   
                  «I fascisti, uniti ai mongoli, portarono via tutto dalle 
                  case e distrussero tutto dalla biancheria ai piatti, ai bicchieri. 
                  Spaccarono i mobili per scaldarsi e far cuocere la carne delle 
                  pecore, dei buoi, delle galline.» 
                  «Si erano messi in casa mia, i tedeschi. Mi hanno mangiato 
                  anche il maiale. Sono venuti che c'era la neve, avevamo due 
                  mucche, hanno tirato fuori le mucche e hanno messo i loro cavalli 
                  e le mucche via, in mezzo alla neve, e dopo le hanno portate 
                  in un altro paese. Loro sono andati di sopra, hanno aperto le 
                  finestre, hanno messo le mitragliatrici sulle finestre e stavano 
                  lì. Loro a letto e noi sulle sedie, in casa.» 
                   
                  Quanto sono stati? 
                  «Un mese. Ci hanno requisito tutti i letti, aprivano il 
                  comò, prendevano la roba, le mutande, la biancheria e 
                  ci pulivano i fucili.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Pierina Tavani “Stella”  | 
                   
                 
                 
	La scelta comune, una storia comune 
	            Credo che l'aspetto veramente sorprendente che l'indagine sull'impegno 
                  resistenziale femminile consente di constatare è come, 
                  a Piacenza e nella sua provincia, si fosse creato un vasto movimento 
                  d'appoggio, di spalleggiamento, di consenso ai partigiani. Se 
                  è vero che per le donne il coinvolgimento in combattimenti 
                  veri e propri è un fenomeno di minoranza, molto ampio, 
                  generalizzato e diffuso era invece l'appoggio popolare del mondo 
                  femminile al fenomeno resistenziale. Un appoggio che non può 
                  configurarsi però come un semplice aiuto esterno a causa 
                  degli stessi caratteri del conflitto in corso: un conflitto 
                  combattuto sul territorio anche nelle sue più piccole 
                  frazioni, una guerra che cancella il confine tra civili e armati 
                  e in cui anche il più piccolo atto di connivenza può 
                  costare la vita. 
                  Sembra essere questo uno dei tratti eccezionali di quel momento 
                  storico, il fatto cioè che il corso degli eventi spinga 
                  tutti, anche coloro che fino ad allora erano restati ai margini 
                  della vita politica, come le donne, a compiere una scelta sostanziale. 
                  Claudio Pavone è il primo ad individuare come nocciolo 
                  dell'esperienza resistenziale proprio quella scelta necessaria, 
                  autentica, dalla posta in gioco molto alta. In questo senso 
                  lo storico cita Jean-Paul Sartre, per il quale “non siamo 
                  mai stati tanto liberi come sotto l'occupazione tedesca”, 
                  proprio per rimarcare come, alla base della pregnanza dell'esperienza 
                  partigiana, ci sia l'apertura forzata di uno spazio di scelta. 
                  Questo allargarsi dell'orizzonte decisionale individuale ha 
                  un grande valore, perché arriva dopo lunghi e dolorosi 
                  anni di espropriazione forzata della possibilità di scelta, 
                  e ha un valore tanto più grande per il genere femminile, 
                  tradizionalmente subalterno, incapace di iniziativa e decisione 
                  autonoma. 
                  È un insieme di tante scelte individuali, dal quale però 
                  nasce un'esperienza collettiva molto pregnante a livello storico, 
                  che non si esaurisce alla Liberazione ma continua per i decenni 
                  successivi, con il progressivo rafforzamento di partiti e aggregati 
                  sociali che contribuiranno in modo determinante a costruire 
                  la cultura, le forme di azione politica, la socialità, 
                  l'identità nazionale italiana. 
                  Una scelta importante che tutte le protagoniste di questa piccola 
                  storia hanno compiuto, che per alcune si è tradotta nel 
                  rompere tutte le convenzioni di genere e unirsi alle formazioni 
                  partigiane, magari addirittura imbracciando un'arma. Per altre 
                  si è invece trattato di continuare a fare quello che 
                  si faceva prima: cucinare, curare, offrire ospitalità, 
                  svolgere la propria professione, ma in un contesto completamente 
                  diverso, capace di trasfigurare profondamente il senso di quelle 
                  azioni, un tempo così “normali”. 
                  Ecco, secondo me è questo il significato profondo di 
                  questa piccola storia di donne. 
                  Perché, oggi come settant'anni fa, la scelta rimane una 
                  categoria fondamentale e necessaria dell'esperienza umana, una 
                  conditio sine qua non per una vita reale, autentica, vera. Me 
                  lo ha insegnato sempre lui, Fabrizio De André, in Storia 
                  di un impiegato, dove la domanda fondamentale che il protagonista 
                  pone alla sua ex fidanzata è proprio quella: “Continuerai 
                  a farti scegliere o finalmente sceglierai?”. 
                 Iara Meloni 
                
                   
                    Grazie 
                      La mia più profonda gratitudine va a Pierina, Alessandra, 
                  Mina, Iolanda, Carolina, Milena, Albertina, Liliana, Maria, 
                  Artemisia, Rambalda, Giuliana, Gabriella, Elena, Maria, Fanny, 
                  Italina e a tutte le piacentine che, con pazienza e generosità, 
                  hanno condiviso con me le loro storie di Resistenza e di vita. 
                      I.M.  
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