|   ricordando 
                  Colin Ward 
                  Stati d'animo dell'anarchia 
                  intervista (immaginaria) a Colin Ward 
                  di Leonardo Caffo 
                    Il pensiero anarchico, la rivista 
                  Anarchy, l'eredità di Thoreau, il bambino al centro 
                  dell'ambiente: sono alcuni dei temi di questa chiacchierata 
                  mai avvenuta con l'architetto e militante anarchico inglese 
                  (1924-2010) che ha saputo esprimere al meglio la concezione 
                  per così dire anglosassone dell'anarchismo, equilibrata 
                  e moderna. 
                 
                  Non è che ho paura di morire. Solo che non voglio 
                  esserci quando accadrà. 
                  Woody Allen 
                 Colin Ward è morto a 
                  Ipswich l'11 febbraio del 2010. Mi è capitato di incontrarlo 
                  di recente: e nulla di strano – non stupitevi (né 
                  spaventatevi... nessuna seduta spiritica). Gli autori come Ward 
                  hanno avuto una funzione specifica che gli consente, almeno 
                  a mio avviso, di parlare anche in assenza: facciamo subito un 
                  esempio pratico così capirete dove è avvenuto 
                  il nostro dialogo. Mi trovavo a un convegno di filosofia morale 
                  e, come al solito, anche questa volta l'anarchia veniva utilizzata 
                  come spauracchio di un mondo privo di etica e organizzazione. 
                  Stanco della solita agonia, tuttavia, avendo già fatto 
                  il mio intervento, decisi di andare via all'applauso scatenato 
                  dalla frase “l'anarchia è disumana” – 
                  e, arrivato nel chiostro (era l'Università Cattolica 
                  di Milano), ecco che mi appare questa figura: sorridente come 
                  suo solito, sigaretta accesa nella mano destra, e camicia maldestramente 
                  abbottonata. Colin Ward, l'altra mano in tasca e sguardo sereno, 
                  mi invita a restare un po' con lui – dopo aver compreso 
                  la mia amarezza per quanto successo al convegno – sollecitando 
                  la mia curiosità: finalmente potevo chiedergli tutte 
                  quelle cose che, da sempre, avrei voluto sapere una volta chiusi 
                  i suoi libri. E... ecco, è andata più o meno così. 
                   
                  Certe volte mi domando come abbiate fatto a resistere, 
                  testimoniando attraverso le vostre riflessioni, in una società 
                  come questa in cui è praticamente impossibile scindere 
                  tra Stato e Società. Uso il plurale perché, ovviamente, 
                  non penso solo a te ma anche a Noam Chomsky o a Robert Paul 
                  Wolff (che proprio su come le università siano resistenti 
                  all'anarchia, anche solo a livello teorico, ha scritto molto). 
                  È tutto talmente naturalizzato, dal capitalismo al potere 
                  dispotico, che a discutere di uno spazio politico possibile 
                  privo di gerarchie, e addirittura confacente alla natura umana 
                  – mentre la psicologia evoluzionistica prova a insegnare 
                  che siamo malvagi sin da piccoli –, sembra di fare a pugni 
                  con la nebbia. Non ti sembrava, anche quando collaboravi con 
                  Freedom, piuttosto che quando fondasti Anarchy, 
                  che di fronte avessi una sfida troppo grande rispetto alle reali 
                  capacità di comprensione di coloro che potevano ascoltarvi? 
                  «Mah... questa tua domanda mi stupisce molto perché 
                  la risposta è secca: no. Nel mio Anarchy in Action1 
                  del 1973, come dovresti sapere, ho argomentato proprio che l'anarchia 
                  non è, per usare le tue parole, uno “spazio politico 
                  possibile”, ma proprio uno spazio politico attuale. Qualcosa 
                  che, al massimo, dobbiamo cercare di estendere e di utilizzare 
                  come testa d'ariete contro la resistenza, coatta, del potere 
                  gerarchico. Questo, in parte, risponde anche al senso più 
                  generale della tua domanda: come abbiamo fatto, o almeno come 
                  ho fatto io, a resistere in una Società in cui scrivere 
                  contro lo Stato è considerato quasi un atto violento. 
                  Perché risponde anche a questa questione? Perché 
                  sapere che esistono progetti, in giro per il mondo, che da Linux 
                  come comunità basata sul “dono”, fino ai 
                  tentativi come quello dell'Isola delle Rose (Insulo de la Rozoj), 
                  dimostrano che l'anarchia non solo è possibile, ma è 
                  anche attualizzabile in varie forme, serve proprio a rendere 
                  il nostro essere anarchici una forma di resistenza al potere 
                  costituito. Mi spiego: se anche noi perdessimo la volontà 
                  di testimoniare allora sarebbe, davvero, darla vinta a coloro 
                  da cui tu oggi sei scappato. Lasciare il convegno, per esempio, 
                  senza dire la tua – rispondendo sul punto a coloro che 
                  sostenevano che l'anarchia è il male peggiore – 
                  è una tua grave mancanza. Base morale del pensiero anarchico, 
                  infatti, è che non siamo responsabili soltanto di ciò 
                  che facciamo – ma anche di ciò che avremmo potuto 
                  fare e abbiamo scelto coscienziosamente di non fare. Tu, in 
                  parte, sei responsabile del fatto che oggi, molti, usciranno 
                  da quel convegno rafforzando i loro preconcetti sull'anarchia. 
                  Non voglio colpevolizzarti, ma invitarti a lottare per le tue 
                  idee. C'è poi questa questione della psicologia evoluzionistica, 
                  che dici essere colei che insegna che siamo “malvagi” 
                  sin da piccoli, che come sai non è altro che un'estensione 
                  del modello di Hobbes secondo cui non saremmo altro che lupi 
                  in lotta tra loro. Anche contro questo bisogna lottare: non 
                  basta congedare queste teorie con sufficienza. 
                  Proprio quando fondai Anarchy, che hai citato, feci in 
                  modo di ottenere una collaborazione tra scienziati, filosofi, 
                  antropologi, e tante altre figure, per usare anche le nuove 
                  acquisizioni scientifiche volte a contrastare vecchi pregiudizi. 
                  La natura umana non è né buona né cattiva, 
                  ma ha in sé le condizioni di possibilità per l'anarchia 
                  più di quanto non le abbia della democrazia o della monarchia 
                  (ci fosse qui Noam potrebbe spiegarti, sapientemente, il paragone 
                  tra questa mia idea e la sua sul linguaggio). La barriera tra 
                  il sé e l'altro, completamente inesistente già 
                  a livello infantile (pensiamo agli studi di psicologi come Donald 
                  Winnicott o Melanie Klein), è poi comunque un falso confine 
                  – come mostrano i contemporanei studi sui neuroni specchio2. 
                  Si tratta, come dire, di unire i due pezzi della risposta che 
                  ti ho dato: mostrare che, non soltanto tentativi anarchici esistono 
                  e sono ben riusciti, ma che sono anche la forma culturale migliore 
                  per la nostra natura umana. Si tratta di lavorare sfaldando 
                  il sistema che critichiamo dall'interno, ognuno dalla prospettiva 
                  che meglio sente di poter perseguire.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Colin Ward  | 
                   
                 
                 
                L'anarchia è qui, intorno a noi  
                Capisco... e non c'è dubbio che il pensiero anarchico, 
                  una volta assunto come modello per la propria vita, dovrebbe 
                  condurre a resistere sempre alla spada di Damocle che è 
                  la presunta vittoria di un modello d'esistenza completamente 
                  diverso. Ma non credo di essere stato chiaro, e non voglio certo 
                  riproporre un classico dialogo tra lo scettico e l'anarchico 
                  come quelli su cui tu stesso hai scritto. Mettiamoci d'accordo 
                  – qui siamo anarchici entrambi e, se io lo sono, lo devo 
                  proprio alla gente come te che ha speso la propria vita in favore 
                  di questa idea di libertà. Ma concedimi, lo stesso, la 
                  domanda più banale che potrebbero farti: quali sono oggi, 
                  a tuo avviso, le reali possibilità per l'anarchia – 
                  non solo a livello microscopico – ma anche macroscopico? 
                  «Ancora una volta la domanda potrebbe condurre fuori strada 
                  – se con macroscopico ci si immagina delle cose, come 
                  gli Stati attuali, però anarchici. Questo sarebbe un 
                  ossimoro: la stessa organizzazione dei territori in forma geopolitica 
                  lo è – se assumiamo una prospettiva anarchica. 
                  Uno dei nostri antenati anarchici più chiari, su questo 
                  punto, è sicuramente Thoreau: pensiamo al suo Camminare3, 
                  e alla disperazione nel sapere che un giorno avremmo avuto questo 
                  mondo – in cui intere porzioni di terra, di libera 
                  terra, sono proibite da umani ad altri umani – in un folle 
                  gioco al massacro. Ma dobbiamo proprio smetterla di continuare 
                  a chiederci quali siano le reali possibilità dell'anarchia 
                  altrimenti, consentimelo, facciamo il gioco degli stessi detrattori 
                  dell'anarchia. L'anarchia è qui, intorno a noi, ogni 
                  giorno: ogni volta che qualcuno fa del bene senza che gli venga 
                  imposto da un principio esterno. Sai che l'ho definita “seme 
                  sotto la neve” – perché basta sapersi guardare 
                  attorno, e questa utopia è in realtà già 
                  nascosta tra il peso del quotidiano. Noi siamo una specie cooperativa 
                  – questo è ovvio anche nelle contingenze storiche 
                  che più hanno condotto lontano da un ideale anarchico. 
                  Quello che bisogna fare, sin da subito, è smetterla di 
                  pensare se l'anarchia è possibile e invece vivere, direttamente, 
                  delle possibilità che oggi ci vengono offerte: cooperazione 
                  e mutuo appoggio sono la cifra del pensiero anarchico ma si 
                  ottengono solo attraverso il ricorso all'azione diretta che 
                  va organizzata in modo libero. La mia idea è: se l'anarchia 
                  è un seme sotto la neve ciò che bisogna fare è 
                  far crescere questo seme e fargli strada. Il resto verrà 
                  da sé.» 
                   
                  Sì ma tu stesso hai speso diverse energie per sostenere 
                  che, affinché questo seme si faccia strada, le cose vadano 
                  accompagnate da processi specifici. Mi riferisco soprattutto, 
                  nel tuo caso, all'organizzazione degli spazi anche in senso 
                  architettonico. L'idea che architettura e potere siano intrinsecamente 
                  legate – e che anche per le generazioni che rappresentano 
                  la vita che verrà, dunque, la città vada ripensata 
                  dalle fondamenta4 – attraversa 
                  tutti i tuoi scritti... 
                  «Sì, questo è un aspetto importante della 
                  mia teoria che non voglio venga trascurato – e non, come 
                  dire, solo perché sono stato principalmente un urbanista. 
                  Piuttosto perché la vita architettonica rappresenta il 
                  mondo-ambiente dell'umano: noi costruiamo sulla base dell'idea 
                  di mondo sociale che abbiamo e, come un cerchio che trova la 
                  sua unità, viviamo ed esperiamo il mondo sociale sulla 
                  base delle costruzioni che ci circondano. Il motivo per cui 
                  ho messo “il bambino” al centro delle mie critiche 
                  anarchiche è che è nella sua essenza rendere espliciti 
                  certi principi morali a passeggio per le nostre città. 
                  Divulgare anarchia tra costruzioni come le carceri o i macelli, 
                  piuttosto che in città che assumono sempre più 
                  la struttura di un immenso Panopticon, è davvero complesso 
                  – per questo ripensare il nostro modello di vita significa 
                  anche ripensare gli spazi che costruiamo e in cui, ovviamente, 
                  questo stesso modello dovrebbe svilupparsi. Che potere e architettura 
                  si incrocino di continuo è ovvio – pensa a come 
                  W.G. Sebald ha raccontato nel suo Storia naturale della distruzione5 
                  il tentativo, architettonico, di rimuovere dalla Germania post-bellica 
                  il concetto di colpa (per la Shoah) anche a livello urbanistico. 
                  La mia idea è la città debba essere uno spazio 
                  che estende i principi della natura umana di cui ti ho detto: 
                  luogo dove bambini e adulti socializzano e scoprono nuovi modelli 
                  di esistenza e sopravvivenza – “perché nessuna 
                  città è governabile se i cittadini non la sentono 
                  propria”.» 
                   
                  Senti... io rientro al convegno, e proverò a intervenire 
                  sul punto. Quale che sia il risultato, avrò fatto spazio 
                  sotto la neve a quel seme meraviglioso. 
                  «Sì... rientra. Ma l'importante è fare tesoro 
                  di ciò che ci siamo detti: l'anarchia è qui, in 
                  mezzo a noi, ed è estensione della natura umana che deve 
                  trovare compimento anche in quella che, voi filosofi, chiamate 
                  “ontologia sociale”. L'architettura, come pratica 
                  di vita, è il compimento ultimo di questo percorso. Quale 
                  che sia, oggi, lo spazio che riuscirai a fare a quel seme – 
                  l'azione diretta, tua e di ogni altro, rimane comunque qualcosa 
                  di necessario. E consentimi di concludere con un verso di Giacomo 
                  Leopardi, che dice tutto ciò che ci siamo detti, e anche 
                  il resto che ancora potevamo dirci, prima che io torni a oziare 
                  tra coloro che vi faranno da punto di partenza per le vostre 
                  sfide, analisi e battaglie future:
                 
                   Sempre i codardi, e l'alme  
                    Ingenerose, abbiette  
                    Ebbi in dispregio.» 
                 
                 Leonardo Caffo 
                Note 
                 
                  - C. Ward, Anarchia come organizzazione, Antistato, Milano 
                  1976 e ried. Elèuthera, Milano 2006.
                  
 - G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai: il cervello 
                  che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Milano 
                  2006.
                  
 - H.D. Thoreau, Camminare, Se, Milano 1999.
                  
 - Cfr. C. Ward, Il bambino e la città, Ancora 
                  del Mediterraneo, Napoli 2000.
                  
 - W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Adelphi, 
                  Milano 2004.
                  
  
                  
                
                   
                     Ritratti 
                        in piedi 
                        dialoghi fra storia e letteratura 
                      Questo 
                        libro raccoglie i quaranta Ritratti in piedi apparsi 
                        sulla nostra rivista tra il 2001 e il 2009. 
                       In 
                        ciascuno di essi Massimo Ortalli propone al lettore una 
                        scelta di testi letterari affiancandovi documenti d'epoca 
                        tratti dalla pubblicistica o da fonti d'archivio.
                        
                        Il volume, 572 pagine con illustrazioni e indice dei nomi, 
                        va richiesto direttamente all'autore.
                        
                        Massimo Ortalli, via Emilia 216, 40026 Imola (Bo). Cellulare 
                        348 7445927.
                        
                        Una copia costa € 22,00 (invece dei 32,00 di copertina), 
                        spese di spedizione comprese.
                        
                        Pagamenti: bonifico bancario, intestato a Massimo Ortalli, 
                        IBAN IT 49 G05080 21012 CC 120000075, Bic/Swift IMCOIT2AXXX. 
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