 Utopie, 
                  comunità 
                   e vita vera 
                 Israele: storia di una contraddizione 
                  Cosa possono avere in comune Israele e il sionismo, da una parte, 
                  l'anarchia con la sua “esagerata idea di libertà”, 
                  dall'altra, e una radicale richiesta di pace in un mondo sempre 
                  più in guerra? Il recente saggio di Donatella Di Cesare 
                  (Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, 
                  Torino 2014) riannoda in modo originale i fili a cui questi 
                  temi rimandano. Se sfogliamo l'indice notiamo che il libro, 
                  a sua volta, si articola in tre momenti: il primo ripercorre 
                  le dinamiche interne al movimento sionista, lungo le tappe significative 
                  della sua storia; nel secondo vediamo emergere i motivi di una 
                  originale sensibilità libertaria all'interno del pensiero 
                  ebraico moderno; l'ultimo propone una riflessione, quanto mai 
                  partecipata, sull'attualità della nozione di pace/shalom. 
                  Vediamoli più da vicino. 
                  Che cosa si debba intendere per sionismo è oggi un buon 
                  esercizio didattico, anche presso il popolo di sinistra che 
                  spesso si dichiara, apertis verbis, antisionista senza 
                  sapere bene cosa significa tale espressione. Potremmo dire che 
                  il sionismo sta ad Israele, grosso modo, come il risorgimento 
                  sta all'Italia. Ma il paragone appare insufficiente. Nelle sue 
                  linee generali questa corrente è nata con l'obiettivo 
                  di edificare uno stato-nazione per il disperso e perseguitato 
                  popolo ebraico. Il testo mostra bene come si sia verificato 
                  uno slittamento, in primo luogo semantico, che partendo da Sion 
                  – nome che indica una collina di Gerusalemme e, per estensione, 
                  Gerusalemme stessa – giunge alla nozione, tutta politica, 
                  di ricondurre il popolo ebraico all'idea di nazione e infine 
                  – poiché, in omaggio alla modernità, non 
                  si dà nazione senza stato – alla prospettiva di 
                  un ordinamento statuale, con tanto di ordinamento giuridico, 
                  confini territoriali su cui esercitare il monopolio della violenza 
                  e così via. Tali slittamenti progressivi – pur 
                  partendo da antecedenti storici molto antichi, risalibili al 
                  profondo legame che unisce il popolo mosaico alla terra promessa 
                  – giungono all'idea di uno stato-nazione, rischiando di 
                  perdere lungo il cammino l'afflato originario, suscitando alla 
                  fine perplessità all'interno dello stesso ebraismo. Tutto 
                  ciò nel libro lo vediamo condensato nel “grande 
                  interrogativo”, esplicitato da Joseph Roth, se gli ebrei 
                  non fossero “qualcosa di più che una ‘nazione'” 
                  descrivibile secondo parametri giuridico-politici. 
                  Il sionismo, quindi, è stato un movimento tutt'altro 
                  che granitico; al suo interno, ad esempio, operava la corrente 
                  del sionismo culturale a cui aderiva anche Martin Buber, il 
                  quale reputava riduttivo riportare il concetto di Sion all'idea 
                  di stato-nazione. Buber, lo sappiamo, si farà portavoce 
                  della costruzione non di uno stato israeliano, ma di una “comunità 
                  di comunità” che alla fine avrebbe vanificato ogni 
                  nozione di potere statuale (ricordiamo che Di Cesare ha anche 
                  curato la più recente edizione italiana di Sentieri 
                  in utopia di Buber: cfr. “A” 351, marzo 2010). 
                  Proprio oggi, mentre stiamo assistendo, per opera del capitale 
                  globale, al declino inesorabile degli stati-nazione (di cui 
                  si può ben affermare ciò che fino a ieri si diceva 
                  dei monarchi costituzionali: regnano ma non governano), la prospettiva 
                  buberiana appare meno fantasiosa di quanto i critici un tempo 
                  le imputavano. Assai meno fantasiosa di chi propugnava “l'evoluzione 
                  del socialismo dall'utopia alla scienza”, del “socialismo 
                  in un solo paese”, o di chi si ostinava – e si ostina 
                  tuttora – a parlare di un'“autonomia del politico”, 
                  di una classe sfruttata che decide di farsi stato (mentre, ahimè, 
                  la stessa forma-stato si va disfacendo di fronte ai poteri sovranazionali 
                  e il politico diviene una categoria ancillare rispetto al capitale 
                  finanziario). 
                   
                  Teocrazia anarchica 
                  Soprattutto a Buber, e al suo amico e mentore Gustav Landauer, 
                  è infatti dedicato il capitolo centrale, su “comunità 
                  anarchica e potere planetario”. Con Buber la comunità 
                  prende definitivamente congedo dallo stato. Comunità 
                  dialogica, fondata sulla relazione io-tu, senza potere, dunque 
                  costitutivamente an-archica. E anarchica anche perché 
                  profondamente religiosa, “perché non esiste 
                  sfera politica all'infuori di quella teopolitica”. 
                  Ma qui, sia chiaro, siamo agli antipodi di Schmitt e della sua 
                  teologia politica, quando questi dichiara di aver trasferito 
                  il modello teologico cristiano al campo del diritto: il sovrano 
                  altro non sarebbe che una secolarizzazione del Dio biblico. 
                  Così come Dio crea il mondo ex nihilo, il sovrano 
                  crea dal nulla l'ordine giuridico (il “Dio onnipotente 
                  che è divenuto l'onnipotente legislatore”). Israele, 
                  dirà invece Buber, dovrà essere una teocrazia 
                  anarchica. Teo-crazia diretta, per nulla metaforica: il potere, 
                  la terra e tutto il resto sono di Dio e non degli uomini. Nessuno 
                  si può dichiarare re, sovrano o capo di qualcosa. Teo-crazia 
                  contro iero-crazia, vale a dire contro il potere divenuto monopolio 
                  di una casta sacerdotale che pretende di rappresentare la volontà 
                  divina. 
                   L'ultima 
                  parte del volume è invece una riflessione, per nulla 
                  scontata, sul desiderio di pace in un mondo in guerra. È 
                  possibile, si chiede l'autrice, una pace non fondata sulla guerra 
                  e sugli eserciti, una pace fondata su sé stessa e non 
                  sul terrore e sulla minaccia? Partendo dal riconoscimento della 
                  letale relazione sempre esistita fra filosofia e guerra – 
                  da Eraclito (“la guerra è padre di tutte le cose”) 
                  fino ai moderni – Di Cesare giunge ad affermare, con Lévinas, 
                  che “della pace si può avere solo un'escatologia”, 
                  poiché la vera pace si situa non dopo, bensì prima, 
                  oltre e al di là di ogni logica di guerra. È la 
                  pace anarchica, non deducibile dalla guerra, non il risultato 
                  di calcoli o di compromessi; al contrario, è l'istante 
                  di una trasformazione completa, senza mediazioni, la cifra dell'avvento 
                  improvviso di un mondo assolutamente altro. 
                   
                  Vita vera e vita falsa  
                  Alcuni dei temi trattati da Donatella Di Cesare possono rinviare 
                  a un piccolo libro di Judith Butler apparso la primavera scorsa 
                  (A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma 2013). 
                  Quali vite sono degne d'essere vissute e a chi spetta una buona 
                  vita, si domanda Butler? E, ribaltando la questione: quali morti 
                  meritano d'essere pianti e compianti, meritevoli di lutto? E 
                  ancora: “come condurre una vita buona in una vita cattiva?”. 
                  L'autrice si è posta questi interrogativi, fornendo alcune 
                  sollecitazioni, in occasione del conferimento del Premio Adorno 
                  (le sue domande provengono proprio da una frase dei Minima 
                  Moralia: “Non si dà vera vita nella falsa”), 
                  ricevuto nel 2012 a Francoforte e preceduto da accese polemiche 
                  per l'impegno della filosofa americana contro l'occupazione 
                  israeliana della Palestina. 
                  L'autrice esemplifica il suo discorso citando le condizioni 
                  di chi vive in stato di guerra o in situazione di occupazione; 
                  di chi è recluso, in attesa di processo; dei precari, 
                  dei migranti, dei clandestini e dei profughi delle società 
                  postindustriali, vittime di un sistema che consolida, amplifica 
                  e amministra la disuguaglianza e la violenza, “forme diverse 
                  di morte sociale”. Implicito è il richiamo alla 
                  questione palestinese. La domanda sollevata da Adorno viene 
                  da Butler rovesciata e articolata sul piano biopolitico (luogo 
                  reale del conflitto contemporaneo), su quell'insieme di procedure, 
                  tecniche e logiche di governo della vita umana: “Se la 
                  resistenza equivale a mettere in atto i principi di democrazia 
                  per cui combatte, allora dev'essere plurale e incarnata 
                  nei corpi”. 
                  Di Cesare nel suo saggio menziona Butler, pur non condividendo 
                  sempre le sue opinioni, come una filosofa che contribuisce a 
                  sviluppare una discussione, “né apologetica, né 
                  scontata”, su Israele. E, infatti, il secondo testo presente 
                  nel libriccino di Butler è dedicato proprio alla questione 
                  palestinese, in cui motiva le ragioni per cui un'ebrea (americana) 
                  come lei, regolarmente iscritta alla sinagoga, può dichiararsi, 
                  senza rinnegare la propria origine, contraria alla violenza 
                  dello stato israeliano e schierarsi in difesa del popolo palestinese.
                  Federico Battistutta 
                   
                   
                    Gli 
                  oppositori?
                   In manicomio 
                “Per tenere a mente Carol Lobravico e Francesco Mastrogiovanni 
                  persone libere”. A queste due vittime delle violenze della 
                  psichiatria Marco Rossi dedica il suo ultimo libro Capaci 
                  di intendere e volere. La detenzione in manicomio degli 
                  oppositori al fascismo (edizioni Zero in Condotta, Milano 
                  2013, pp. 96, Ä 10,00). 
                  Del tema “psichiatria e fascismo” si sono occupati, 
                  negli anni, autorevoli scrittori, ricercatori, giornalisti che 
                  hanno analizzato sopratutto le relazioni intercorse fra le politiche 
                  razziste, eugenetiche e biopolitiche, messe in atto dal regime. 
                  In gran parte delle opere pubblicate fino a oggi si riscontra 
                  una minimizzazione del ruolo e della funzione nefasta che il 
                  manicomio e altre strutture sanitarie, ritenute civili, hanno 
                  svolto nella repressione del dissenso politico e sociale in 
                  Italia. 
                  Marco Rossi, al contrario, ci fornisce, in questo rigoroso quanto 
                  meticoloso lavoro sugli archivi, i dati documentali e gli elementi 
                  necessari per una nuova riflessione sulla reale portata, non 
                  solo in termini statistici, della segregazione manicomiale degli 
                  oppositori politici nel ventennio fascista. L'autore ha analizzato 
                  i fascicoli del Casellario politico centrale di circa un centinaio 
                  di antifascisti, di alcuni “senza partito” e di 
                  “donne degeneri” e ha raccolto le tracce di vita 
                  di alcuni internati raggruppandole in “categorie” 
                  politiche: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani ecc. 
                  Nella prefazione al libro, Luigi Balsamini sottolinea la necessità, 
                  da parte di tutti i poteri, di utilizzare la psichiatria là 
                  dove la detenzione comune non riesce a raggiungere il risultato 
                  sperato. La nota espressione di Lombroso: “I martiri sono 
                  venerati, dei matti si ride: ed un uomo ridicolo non è 
                  mai pericoloso”, ripresa da Balsamini, racchiude in sé 
                  il folle progetto che, purtroppo, è stato applicato a 
                  ovest come a est, di screditare le opposizioni politiche esibendole 
                  come devianti, irrazionali e quindi folli. 
                  La conferma che la psichiatrizzazione di individui scomodi viene 
                  ancora oggi utilizzata associando ad essa comportamenti ritenuti 
                  violenti, la ritroviamo, a distanza di quasi settanta anni dalla 
                  Liberazione, nelle testimonianze degli operatori sanitari e 
                  di coloro che intervennero sulla spiaggia del villaggio turistico, 
                  dove Franco Mastrogiovanni trascorreva le ferie, per la nota 
                  mega-operazione di cattura in stile hollywoodiano. 
                  Libri come questo servono, come si legge nella dedica, per “tenere 
                  a mente”, per non dimenticare. E allora è il caso 
                  di ricordare che, dopo l'ultima ascesa del governo Berlusconi, 
                  in poco meno di un anno, sono stati presentati ben cinque disegni 
                  di legge per la modifica della legge 180 del 13 maggio 1978, 
                  meglio conosciuta come legge Basaglia. Il più preoccupante 
                  è quello che porta la firma dello psichiatra e parlamentare 
                  Carlo Ciccioli (Pdl), ex-dirigente del Msi-Dn, che parla del 
                  contratto terapeutico vincolante per il proseguimento delle 
                  cure che ben si configura con la denominazione di “contratto 
                  di Ulisse”. Come vediamo c'è ancora chi sogna, 
                  nel terzo millennio, l'internamento a vita per motivi psichiatrici 
                  e la trasformazione di strutture sanitarie in carceri a gestione 
                  privatistica. 
                  La speciale qualità di questo lavoro sta proprio nella 
                  sua capacità di stimolare il lettore alla riflessione 
                  sul passato, sul presente e a prepararci a non avere paura per 
                  il futuro, ma a essere consapevoli e a vigilare affinché 
                  tutto ciò non accada. Consiglio vivamente la lettura 
                  di questo libro con la speranza che in tanti lettori induca, 
                  come è avvenuto in me, una partecipazione emotiva straordinaria 
                  e un rinnovato impegno politico.
                  Angelo Pagliaro 
                  angelopagliaro@hotmail.com 
                   
                   
                   Un rendez vous catalano 
                  tra amore e anarchia 
                Joan Isaac è senza dubbio una delle voci più 
                  intense della canzone d'autore catalana. In Italia lo si è 
                  conosciuto piuttosto recentemente, verso la fine degli anni 
                  novanta, per le sue partecipazioni al Premio Tenco e per l'amicizia 
                  che lo lega a Sergio Secondiano Sacchi. Ma il primo singolo 
                  di Joan Isaac, Rèquiem, è del 1973. E quasi 
                  fosse per festeggiare i quarant'anni di carriera di Joan Isaac 
                  è stata pubblicata questa ben documentata biografia (Joan 
                  Isaac. Bandera negra al cor, prologo di Joan Manuel Serrat, 
                  Editorial Milenio, Lleida 2013, pp. 256, € 21,00), opera 
                  del poeta e scrittore gaditano Luis García Gil, che già 
                  si era dedicato a raccontare le vite di altri referenti della 
                  canzone d'autore spagnola e internazionale come Joan Manuel 
                  Serrat, Javier Ruibal, Atahualpa Yupanqui e Jacques Brel.
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Barcellona, febbraio 2013. Festival Cose di Amilcare. 
                        Joan Isaac durante il concerto di Eugenio Finardi  | 
                   
                 
                 Grazie a una ricerca appassionata ed appassionante, García 
                  Gil ricostruisce la vita e la traiettoria artistica di Joan 
                  Vilaplana i Comín, in arte Joan Isaac, dagli anni dell'infanzia 
                  a Esplugues, poco fuori Barcellona, fino al suo ultimo disco, 
                  Piano, piano, uscito nel 2012. E nel mezzo, oltre ad 
                  un'utilissima appendice con la discografia completa e con fotografie 
                  provenienti dall'archivio privato di Joan Isaac, c'è 
                  tutta la poesia, le emozioni, le lotte, i sogni, le delusioni, 
                  l'impegno di un cantautore controcorrente che García 
                  Gil definisce come un epigono della Nova Canço catalana. 
                  Secondo lo scrittore gaditano, per capire Joan Isaac è 
                  imprescindibile difatti conoscere quella straordinaria esperienza 
                  che rivoluzionò la canzone e la cultura catalana e i 
                  suoi compagni di viaggio. Artisti come Maria del Mar Bonet, 
                  Quico Pi de la Serra e Lluis Llach, tra gli altri. E anche una 
                  figura imprescindibile per quanto molto criticata dai puristi 
                  negli anni Settanta: Joan Manuel Serrat. 
                  Ma, come spiega García Gil, per contestualizzare la raffinata 
                  poesia di Joan Isaac e la sua scelta di scrivere e cantare in 
                  catalano bisogna ritornare agli ultimi anni della dittatura 
                  franchista e alla lenta transizione alla democrazia. È 
                  in tutto questo che nasce una canzone che rimane ancora oggi 
                  un simbolo, A Margalida, dedicata alla compagna di Salvador 
                  Puig Antich, l'ultima persona ad essere giustiziata dal regime 
                  franchista con la barbara tecnica della garrota nel marzo del 
                  1974. E proprio questo 2 di marzo, per ricordare Puig Antich 
                  ai quarant'anni esatti dal suo assassinio, Joan Isaac dedica 
                  uno spettacolo, organizzato insieme agli amici di Cose di Amilcare 
                  e del BarnaSants, intitolato non a caso Cançons d'amor 
                  i d'anarquia. Uno spettacolo che approderà anche 
                  a Sanremo il prossimo 3 maggio. 
                  È questa capacità di unire amore e anarchia, ci 
                  spiega García Gil, la chiave per capire la poesia che 
                  si fa canzone di Joan Isaac, sia nel primo intenso decennio, 
                  segnato da dischi pregevoli come És tard (1975), 
                  Viure (1977) e Barcelona, ciutat gris (1980), 
                  sia negli ultimi quindici anni – dopo una lunga pausa 
                  tra il 1985 e il 1998 in cui il cantautore di Esplugues si è 
                  ritirato dalle scene e si è dedicato alla professione 
                  di farmacista – con dischi superbi come Joies robades 
                  (2002), Duets (2007) e Auteclàssic. Joan Isaac 
                  & Luis Eduardo Aute (2009). Dischi dove un Joan Isaac 
                  maturo intervalla con garbo ed esperienza nuove canzoni con 
                  versioni in catalano di classici in altre lingue, tra cui è 
                  doveroso ricordare lo spagnolo Aute e i nostri Roberto Vecchioni 
                  e Paolo Conte. 
                  Un rendez vous, quello tra amore e anarchia ed un legame, 
                  quello con la cultura e la canzone italiana, che continuerà 
                  anche nei prossimi anni come il nuovo disco che uscirà 
                  a breve, Vuit joies italianes i altres maravelles, con 
                  versioni in catalano di Capossela, Dalla, Battiato, Giorgio 
                  Conte e De Gregori, tra gli altri, fa presagire. 
                  Un bel libro, insomma, questo di García Gil, la cui lettura 
                  è consigliata a chi si vuole avvicinare alla canzone 
                  d'autore catalana e, più concretamente, alla poesia/canzone 
                  di Joan Isaac. 
                 Steven Forti 
                   
                   
                   Documentari/ 
                  (r)esistenze cilene 
                 “C'è la terra, ma non c'è 
                  l'acqua. Cosa può fare una persona in quel posto, senza 
                  acqua? Serve l'acqua per lavorare (...) Come si fa a non sentirsi 
                  male per tutto questo?  
                  Voi non vi sentite male?” 
                  Berta, donna mapuche. 
                  
                Già da diversi anni capita di sentire la sentenza: “Le 
                  guerre del futuro verranno combattute per l'acqua”. Se 
                  fino a tempi relativamente recenti una guerra per l'acqua sarebbe 
                  sembrata tanto assurda quanto una guerra per l'aria (in stile 
                  Spaceballs), oggi a ben vedere ci si può accorgere 
                  che quelle assurde guerre sono già iniziate. 
                  Il caso della Patagonia cilena non è l'unico, ma forse 
                  il più eclatante. A combattere questa guerra non ci sono 
                  due eserciti contrapposti ma multinazionali da una parte, e 
                  villaggi, comitati, semplici cittadini dall'altra. Lo Stato 
                  cileno, nelle vesti di politici corrotti e carabineros, 
                  fa da arbitro cercando di rendere ancora più impari il 
                  conflitto, difendendo con la legge l'arroganza delle multinazionali 
                  e reprimendo con la violenza la triste rabbia del popolo. 
                  Con il documentario Lucciole per lanterne (Italia 2013, 
                  42 minuti), Stefano e Mario Martone raccontano con poetica lucidità 
                  questa “guerra” che si sta combattendo in Cile, 
                  in cui anche l'Italia (purtroppo) gioca un suo ruolo. Infatti 
                  è la “nostra” Enel (società al 33% 
                  di partecipazione pubblica) a controllare il gruppo Endesa Chile, 
                  responsabile del progetto HydroAysén. Un folle progetto 
                  che prevede la costruzione di ben cinque mega-dighe nella Patagonia 
                  cilena, per produrre energia elettrica, portarla nelle zone 
                  industriali di Santiago, e venderla. Tutto ciò per il 
                  solo scopo di ricavarne profitto. 
                  A far da sfondo al documentario vi è anche il “nostro” 
                  Pier Paolo Pasolini, non solo per la citazione iniziale (“Io, 
                  ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per 
                  una lucciola”), ma soprattutto per la fondamentale distinzione 
                  tra sviluppo e progresso fatta da Pasolini. Perché, come 
                  suggerisce il finale del documentario, la soluzione per sconfiggere 
                  un assurdo modello di sviluppo non arriverà dai meeting 
                  sullo sviluppo sostenibile che si tengono tra i grattacieli 
                  delle megalopoli contemporanee, ma potrà arrivare soltanto 
                  dalle persone che combattono ogni giorno per “proteggere 
                  le foreste, le montagne, i fiumi; perché sanno che le 
                  foreste, le montagne e i fiumi proteggono loro”. 
                  Giustamente uno spazio importante del documentario viene riservato 
                  ai volti dei mapuche, il popolo originario della Patagonia, 
                  “custodi del nostro passato” ma anche “guide 
                  per il nostro futuro”, perché non ci sarà 
                  mai né acqua né energia a sufficienza finché 
                  il mondo non si guadagnerà un nuovo “spazio filosofico” 
                  che contenga idee di progresso, e non di sviluppo. 
                  Un documentario girato dall'altra parte del mondo ma che ci 
                  tocca personalmente, non solo per il coinvolgimento di Enel, 
                  non solo perché di privatizzazioni se ne parla molto 
                  anche da noi, ma soprattutto perché se queste “guerre” 
                  non ci toccano gli scontri saranno sempre più impari. 
                  Il senso di tristezza che trasmette il documentario è 
                  lo stesso senso di tristezza che sente il nostro pianeta difronte 
                  a questi dolorosi e inumani mega-progetti; ma questo senso di 
                  tristezza è anche un buon punto di ritrovo da cui possiamo 
                  muoverci tutti insieme per costruire non più delle dighe 
                  ma uno “spazio filosofico” che contenga una nuova 
                  “idea di felicità e di appagamento”. Questo 
                  non sarà possibile senza riconoscere l'importanza delle 
                  moltitudini di piccoli “spazi fisici” che vengono 
                  costruiti ogni giorno dalle persone che sanno di non potere 
                  (e non volere) vivere senza l'acqua limpida dei loro fiumi. 
                 Michele Salsi 
                   
                   
                    Dalle 
                  Ande
                   agli Appennini 
                Pasaporte n° 00031, Milan 2 de mayo de 1978. Firma del 
                  titular: Vicente Taquias V. È questo il passaporto 
                  cileno, con la “elle” della malasorte stampata sopra, 
                  di Vicente Taquias Vargas, Urbano per i compagni. Un passaporto 
                  marchiato, per sovversivi indesiderati. Segno distintivo della 
                  strategia dell'Operazione Condor per l'individuazione, cattura, 
                  eliminazione degli oppositori di Pinochet all'estero. Nella 
                  lettera “L” tracciata con il pennarello rosso, il 
                  destino già segnato di molti desaparecidos. 
                  L'autore Alessandro Alessandria, nel suo contributo (Dal 
                  Cile all'Italia. Cinquant'anni di militanza internazionalista, 
                  Sensibili alle foglie, 2013, pp. 304, euro 18,00), ricostruisce 
                  la vicenda personale, intensa, umana e politica di Urbano, ma 
                  anche quella collettiva e sofferta del popolo cileno. Attraverso 
                  documenti e fonti orali offre l'opportunità di accostarsi 
                  alla storia non solo del Cile. Una storia che ci riguarda, divulgata 
                  da un'appassionata prospettiva non ufficiale. 
                  Urbano, cileno di Santiago, classe 1945. Uno tra le migliaia 
                  di esuli ancora oggi sparsi per il mondo, arriva in Italia dopo 
                  il golpe dell'11 settembre 1973. Il padre calzolaio e anarchico. 
                  Fondatore e dirigente di un'organizzazione sindacale dei lavoratori 
                  del legno, durante la dittatura di Videla verrà iscritto 
                  nell'elenco nero e perderà il lavoro in fabbrica. “Mio 
                  padre si portava dietro, con sé, due scatoloni enormi, 
                  due bauli che erano pieni di libri. Pieni di libri! Libri sociali, 
                  No?” La morte del padre, avvenuta nel '79, segnerà 
                  per Urbano la perdita di un importante punto di riferimento, 
                  ideale e affettivo. 
                  La madre un'attivista contro la “falange” fascista, 
                  militante, rivoluzionaria. Agli inizi degli anni Cinquanta, 
                  andranno a vivere in un'immensa baraccopoli di “mattoni 
                  fatti da noi con la paglia”, la Legua Nueva, un 
                  affollato quartiere operaio, di famiglie numerose e di confinati. 
                  Tutti si portavano dietro storie di militanza. Prenderà 
                  presto forma un vivace laboratorio di politica dal basso, vitale 
                  per la sua formazione che influenzerà l'agire nelle battaglie 
                  future, anche quelle lontano dal Cile. Lì c'erano i suoi 
                  veri maestri, i saggi del quartiere, “quelli che riuscivano 
                  a spiegarti le cose”. 
                  In casa aiuta il padre a lavorare su commissione, insieme agli 
                  altri fratelli, nove vivi. Dopo la scuola, tutti intorno a un 
                  banco a fare le scarpe, ascoltare l'unica vecchia radio che 
                  informava sui fatti del Cile, e le riunioni clandestine dei 
                  dirigenti e militanti sindacali. Così fin “da piccoli 
                  abbiamo dovuto cercare di capire e spiare agli angoli delle 
                  strade che non arrivasse la polizia”. Ma senza mezzi non 
                  era possibile studiare. Urbano si ferma alla quarta elementare. 
                  Solo anni dopo, in Italia conseguirà la maturità 
                  artistica. 
                  A dodici anni in fabbrica, presto diventa un dirigente del sindacato 
                  di base dei lavoratori del cuoio fondato dal padre. Conoscerà 
                  il valore della solidarietà nel sostegno alle lotte dei 
                  baraccati: “A volte perdevi lo sciopero perché 
                  ti prendevano per fame”. Suscita tenerezza la determinazione 
                  di quel ragazzetto smilzo di forse quindici anni già 
                  impegnato nella lotta per l'occupazione della terra: “L'avevamo 
                  disegnato nella nostra mente, sui fogli e quando si riusciva 
                  a rimanere, e di solito ci riuscivamo a rimanere, si tracciava 
                  il terreno dove si sarebbero fatte le scuole, l'ospedale, il 
                  campo sportivo (...) sono nati così i quartieri a Santiago”. 
                  Seguiranno altre lotte per l'elettricità, l'occupazione 
                  delle corriere per aumentare il numero delle fermate, allungare 
                  il percorso di due o tre chilometri, e poter andare a lavorare. 
                  In seguito al golpe, Urbano racconta l'arresto a causa della 
                  sua militanza politica e l'internamento nello stadio nazionale 
                  insieme a migliaia di persone. Quindici giorni di bastonate, 
                  torture con scosse trasmesse da fili elettrici. Rilasciato, 
                  se ne guarderà bene dal passare a mettere la sua firma 
                  presso una caserma di polizia. Scampa così alla deportazione 
                  in campi di concentramento. I carabineros invece spareranno 
                  al fratello, freddandolo mentre aspettava l'autobus. 
                  Vicende temerarie lo catapultano dall'altra parte del mondo. 
                  Approdato in Italia con due figlie e la moglie ancora in attesa, 
                  la meta dell'esilio sarà Massa Carrara. La mitica Carrara 
                  dei racconti del padre e dei compagni più anziani. La 
                  Carrara anarchica, antifascista e poi partigiana. Per tutti 
                  sarà Urbano, fedele al nome di battaglia in Cile. Espressione 
                  di intima volontà di militanza futura, anche in terra 
                  straniera. Ai piedi delle Apuane, che forse sentiva un po' come 
                  un prolungamento della sua terra, trova un terreno fertile per 
                  continuare la sua vocazione. Per i cani sciolti come Urbano, 
                  esuli dissidenti e sospettati non sarà facile ottenere 
                  l'asilo politico e il diritto a un libretto di lavoro. 
                  Prima occupazione: addetto alle pulizie in un campeggio. Il 
                  proprietario è un ex comandante partigiano della Garibaldi. 
                  Inizia ad appassionarsi alla Resistenza italiana e alla situazione 
                  politica. Poi un lavoro nel cantiere navale “Apuania”. 
                  Diventa un saldatore specializzato. Dopo il fallimento degli 
                  scioperi di Mirafiori, quando decide di licenziarsi dirà: 
                  “Potevo andare dove volevo.(...) non dovevo chiedere un 
                  posto di lavoro né a partiti, né a sindacati o 
                  al collocamento. Il mestiere me lo ero creato così come 
                  avevo fatto in Cile, osservando e praticando”. 
                  Nel '76 darà vita al Comitato dei lavoratori cileni 
                  in esilio. L'attività di sostegno alla peculiare 
                  resistenza popolare cilena viene ribadita insieme ai principi 
                  internazionalisti di autonomia politica, per un'autentica democrazia 
                  popolare. Autogestione, azione diretta, controllo dal basso, 
                  auto-conquista delle condizioni minime di esistenza. Solo così 
                  “si può dare al termine libertario tutta la ricchezza 
                  dei suoi significati; con la resistenza popolare in Cile cresce 
                  anche un modo nuovo di essere libertari”. Sarà 
                  il contributo che Urbano trasferirà pure nell'esilio. 
                  Non si riesce a pensare Urbano disgiunto dalla passione per 
                  la lotta politica e l'azione. Il libertario audace, l'interventista 
                  energico, quando nel 1988 una nube tossica fuoriesce dallo stabilimento 
                  della Montedison, accorre impavido e insieme ai suoi compagni 
                  dà l'avvio alla mobilitazione di cavatori, operai dei 
                  cantieri navali e tanti giovani: “C'era troppa gente per 
                  una città così piccola come Massa”. Per 
                  quarantacinque giorni, Comune, ferrovie e il palazzo dell'Associazione 
                  degli industriali verranno occupati. Appoggerà altresì 
                  la popolazione della Valle Bormida contro l'inquinamento chimico 
                  dell'Acna di Cengio. 
                  Mai sopito, il legame viscerale con la sua terra e la sua gente 
                  si intensifica intorno alla metà degli anni Ottanta, 
                  quando il Comitato ristabilisce i contatti con i barrios, 
                  i quartieri popolari di Santiago: “Non era ammissibile 
                  che mentre in Cile si stava massacrando il popolo, noi non facessimo 
                  nulla”. Chi ha conosciuto Urbano lo ricorda girare per 
                  la Toscana a denunciare la violenza e la repressione del regime 
                  di Pinochet e raccogliere aiuti a favore del popolo cileno. 
                  Non mancheranno fondi per comprare macchine da cucire per le 
                  donne. È noto l'appoggio al Comitato da parte 
                  delle cooperative dei lavoratori portuali di Carrara, in nome 
                  della solidarietà al popolo cileno che faticava a racimolare 
                  cibo o altri prodotti da scambiare. Sequestrate nel porto, per 
                  due mesi, tre navi con bandiera cilena cariche di derrate alimentari. 
                  Le lotte di Urbano per il popolo cileno si intersecano, solidarizzano 
                  e puntano i riflettori su un'Italia che non conosce ancora la 
                  cultura dell'accoglienza. Alla fine degli anni Ottanta, l'internazionalista 
                  combattivo affianca gli immigrati nelle loro battaglie. Sarà 
                  il primo a portarli in piazza, ad Alessandria, in una manifestazione 
                  per soli stranieri. Il saggio maestro cileno entra in conflitto 
                  con l'ambiente sindacale: “Noi non è che facessimo 
                  assistenza agli immigrati. Noi gli insegnavamo come dovevano 
                  fare per acquisire i propri diritti senza andare dal funzionario 
                  dell'assistenza del sindacato o del volontariato, ma imparare 
                  da soli. Come avevamo insegnato agli operai in Cile, no? Usavamo 
                  la stessa pratica, la stessa politica”. 
                  Lucida l'analisi sull'impossibilità per il volontariato 
                  di risolvere i problemi, ne rallenterebbe addirittura la presa 
                  di coscienza: “Se hai fame, ti va bene che qualcuno ti 
                  dia un piatto di minestra, ma la soluzione di tutti i problemi 
                  non sta né nella coperta né nella minestra, perché 
                  domani avrai ancora freddo e ancora fame (...) perché 
                  la propria liberazione non può essere delegata a nessuno 
                  e nessuno che non sia protagonista della propria liberazione 
                  riuscirà a diventare effettivamente libero”. Sostegno 
                  e solidarietà anche ai profughi della ex Jugoslavia e 
                  alle minoranze etniche e sociali oggetto di atteggiamenti razzistici 
                  e discriminatori, come la comunità rom accampata lungo 
                  il Lavello vicino a una discarica abusiva inquinata dagli scarichi 
                  della Montedison. 
                  Urbano è il primo cileno a presentare presso un tribunale 
                  italiano una denuncia contro l'ex generale Pinochet Augusto 
                  Ugarte, per i reati di omicidio, tortura, lesioni gravissime, 
                  sequestro di persona. La risposta: minacce di morte. Sarà 
                  un brindisi amaro, quando alla morte dell'ex dittatore, Urbano 
                  stapperà la bottiglia regalatagli dal fratello e rimasta 
                  più di vent'anni nel sottoscala. Un'euforia spezzata 
                  perché Pinochet non essendo mai stato processato morirà 
                  da innocente. Urbano porterà avanti anche una battaglia 
                  personale per far valere il suo legale diritto alla cittadinanza. 
                  Pur avendone i requisiti, gli viene negata per motivi ostativi 
                  fondati su calunnie, insinuazioni in un clima di caccia all'anarchico 
                  pericoloso, sospettato di aver avuto contatti con “individui 
                  seguaci della lotta armata”. Perquisito nella sua abitazione 
                  durante la sua assenza per cercare documentazione ritenuta sospetta. 
                  Intimidazioni per aver appoggiato le battaglie ambientaliste. 
                  Accusato da certa stampa di fomentare riunioni di anarchici 
                  insurrezionalisti in occasione del primo anniversario del G8 
                  a Genova. Invece l'incontro incriminato serviva per raccogliere 
                  fondi per il giornale anarchico “Umanità Nova”. 
                  Diventa un caso politico e giuridico nazionale. La rivista “A”, 
                  che anche in passato aveva dedicato spazio alle vicende di Urbano, 
                  ne parlerà a più riprese. Se ne occuperà 
                  pure la stampa moderata con articoli polemici contro le istituzioni. 
                  Essere anarchico può precludere il diritto alla cittadinanza. 
                  L'anarchico cileno la otterrà solo nel 2007. 
                  Urbano ha maturato una disposizione naturale all'immedesimazione 
                  umana di chi condivide la sorte di essere uno straniero del 
                  sud del mondo. Oggi, il militante internazionalista insieme 
                  alla sorella Ana, esiliata da anni a Londra, sostiene il progetto 
                  Ecomemoria, un albero per ogni desaparecido o assassinato 
                  dalla dittatura di Pinochet. Memoria storica ed ecologica anche 
                  in appoggio solidale alla resistenza dei mapuche, nativi americani 
                  che difendono la loro terra sacra dall'ecocidio e dagli espropri 
                  delle multinazionali. Confesserà in un'intervista: “Il 
                  Cile è il luogo della mia giovinezza, della lotta della 
                  prima parte della mia vita. Oggi, dopo 28 anni di vita da esiliato, 
                  il mio terreno di lotta, da anarchico e internazionalista è 
                  qui dove vivo, dove la 'democrazia reale' non si mostra meno 
                  dura verso chi le si oppone, cercando di costruire una società 
                  libera e solidale”. 
                 Claudia Piccinelli  |