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				 Thailandia 
                  
                I garofani d'aria 
                  
                reportage di Moreno Paulon 
                    
                Una storia di profughi, rivoluzioni e monaci buddhisti nella città di Mae Sot, meta di molti rifugiati birmani, 
e nell'eterotopia di Mae La, uno dei più grandi campi profughi della Thailandia. 
 
                    
                  
                     
                    Mae Sot / intervista al monaco Ashin Issariya
                   
                 La città di Mae Sot 
                  è una culla di garofani dell'aria. Malgrado l'appartenenza 
                  al territorio nazionale thailandese, gli abitanti della città 
                  sono piante senza radici. Non affondano i piedi nella terra 
                  patria, vivono di movimenti storici e scambi quotidiani, si 
                  radicano nel vento della diaspora, mettono casa nelle persone 
                  come fanno gli stranieri, non nel suolo o nei monumenti alla 
                  maniera dei nativi. 
                  Ad appena 7 km dal confine birmano, Mae Sot è terra di 
                  esuli per scelta o per forza, è un porto in cui le barche 
                  ormeggiano legate a corda, lasche, senza ancora. Non del tutto 
                  Thailandia e niente affatto Birmania, la sua popolazione ufficialmente 
                  si aggira intorno ai 45 mila abitanti, ma stimarla con esattezza 
                  è molto più difficile di quanto le statistiche 
                  lascino supporre. Le cifre dei censimenti inevitabilmente mentono: 
                  moltissimi abitanti, soprattutto di origine birmana, non vi 
                  sono registrati, attraversano ogni giorno clandestinamente il 
                  confine via terra o sul fiume, si fermano per giorni o per anni, 
                  mettono su famiglia, lavorano, a volte passano tutta una vita 
                  inosservati sotto il naso delle autorità nazionali, invisibili 
                  come le ombre nel buio. Per quelli meno fortunati invece, per 
                  chi viene scoperto nelle strade senza documenti validi, c'è 
                  la gabbia. 
                   
                  “Che cos'è quella?” domando ad un 
                  passante thai. 
                  “Quella è la gabbia” 
                  “Per che cosa?” 
                  “Per i birmani”.
                 
                   
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                    |   “La gabbia” è una sorta di sbrigativo 
                  centro di indentificazione ed espulsione  nel mezzo della città di Mae Sot  | 
                   
                 
                
                  La gabbia è una cella nel bel mezzo della città, 
                  ben visibile dalla strada, proprio accanto alla stazione di 
                  polizia e a due passi da un piccolo terminale secondario di 
                  autolinee. È uno sbrigativo centro di identificazione 
                  ed espulsione, dove ogni giorno birmani irregolari colti sul 
                  territorio finiscono collettivamente sotto chiave per alcune 
                  notti, in attesa dell'espulsione o di altre risoluzioni. 
                  Mae Sot, miscellanea città di confine, è soggetta 
                  a flussi complessi e molteplici: conoscere in maniera approfondita 
                  anche uno solo dei suoi volti richiederebbe anni di permanenza 
                  e ricerche serrate. Sotto la superficie tranquilla della vita 
                  quotidiana si agitano acque in continuo movimento. Alcuni karen 
                  vanno e vengono per Mae Sot muovendosi di nascosto dai vicini 
                  campi profughi, moltissimi birmani entrano in Thailandia come 
                  vittime di traffico di esseri umani, altri sono stati privati 
                  dei documenti dal loro governo per aver preso parte alle varie 
                  lotte contro il regime militare. In città alloggiano 
                  circa trenta bordelli, una miriade di artigiani, gruppi karen 
                  e hmong, pagode buddhiste e chiese cristiane, fotografi 
                  a caccia di un Pulitzer nella miseria, cittadini thai, operatori 
                  internazionali delle centinaia di Ong presenti sul territorio, 
                  cinesi commercianti di pietre preziose, ufficiali, piccoli mercanti. 
                  Nelle strade, accanto alla lingua thai, si sentono spesso parlare 
                  quella karen e quella birmana, mentre fuori dal centro 
                  viaggiano indisturbati pick-up stracarichi con oltre venti persone 
                  a bordo. Piccoli e grandi trafficanti fregano il confine ogni 
                  giorno per contrabbandare dosi di yaba, la droga dei 
                  poveri, una tremenda metanfetamina prodotta in Birmania e rivenduta 
                  sul mercato di Bangkok e di Chiang Mai, da dove entra in circolo 
                  e divora rapidamente il cuore della Thailandia. 
                  Il festoso mercato di Mae Sot è fitto di scritte tondeggianti 
                  in caratteri birmani, alfabeto thai e ideogrammi cinesi. Gli 
                  uomini e le donne indossano spesso il passou e la longyi 
                  come si usa in Myanmar e i volti dei bambini birmani e delle 
                  loro madri sono spesso truccati di tanaka, un legno color 
                  ocra che strofinato sulla pietra e impastato con acqua diventa 
                  una crema usata come belletto. 
                  Come in Birmania, molte persone indossano il pigiama anche di 
                  giorno per uscire in città, con fantasie di cuori e fiori, 
                  cuccioli di gatto, cartoni animati. A cadenza regolare la cantilena 
                  nasale del muezzin risuona dai minareti della moschea 
                  e richiama al tempo della preghiera i musulmani, che accorrono 
                  dalle vie del centro come marinai stregati da un canto di sirena 
                  divulgato sull'oceano, mentre i monaci buddhisti raccolgono 
                  l'elemosina di porta in porta, pregando sull'uscio con voce 
                  baritonale e capo chino, sollevando a due mani il debey, 
                  il vaso delle offerte, pendente dalle accese tonache color zafferano. 
                  All'ultimo piano di una biblioteca nei pressi del mercato centrale, 
                  ho trascorso qualche ora con il monaco buddhista Ashin Issariya, 
                  attivista politico della prima ora, esule birmano e fra i più 
                  rilevanti promotori della grande rivolta del settembre 2007, 
                  poi battezzata Rivoluzione Zafferano. Perseguitato dalla caccia 
                  alle streghe del regime, costretto per anni nel silenzio e nella 
                  penombra della clandestinità, Issariya, come altri protagonisti 
                  della rivolta contro la junta militare, ad anni di distanza 
                  si sente libero di raccontare gli eventi del settembre 2007, 
                  di un movimento che nel giro di due mesi ha coinvolto 227 proteste 
                  in 66 città, interessando tutti i 14 Stati e divisioni 
                  dell'odierna Birmania, o Myanmar. 
                
                   
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                    |   Ashin Issariya  | 
                   
                 
                 Perché sei a Mae Sot, Issariya? 
                  «Mi cercavano. Dopo i fatti del 2007 il regime perseguitava 
                  tutti, e in particolare chi come me scriveva articoli e poesie 
                  contro di loro, chi organizzava il movimento di dissidenza dall'interno. 
                  Eravamo i peggiori nemici, quelli che influenzavano le coscienze. 
                  Nel 2008 sono arrivati fino alla mia famiglia, ero in pericolo. 
                  Prima hanno catturato otto membri di Generation Wave e li hanno 
                  torturati per sapere dove fossero i miei familiari, poi sono 
                  arrivati fino al mio villaggio. “Dov'è il vostro 
                  monaco?” chiedevano. La mia famiglia non ha rivelato niente, 
                  ma mi ha chiesto di mettermi in salvo, di andarmene dal Paese. 
                  Così ho deciso di venire qui, appena oltre il confine. 
                  Dal mio villaggio sono partito per Rangoon, passato per Pegu, 
                  poi attraerso il Kayin State fino a Myawaddy e infine sono arrivato 
                  a Mae Sot nell'ottobre 2008. Molti dei miei amici e compagni 
                  monaci, compresi U Gambira e U Kemind, erano già finiti 
                  in galera, erano caduti nelle mani dei militari, io rischiavo 
                  di fare la stessa fine.» 
                   
                  Come sei riuscito a sfuggire agli arresti e alle persecuzioni 
                  fino al 2008? 
                  «La sera del 28 settembre, durante le violenze e i massacri, 
                  mio fratello è venuto segretamente in visita al mio monastero. 
                  “Per ora non puoi fare più di così” 
                  mi disse, “molti monaci sono già finiti in prigione, 
                  altri sono stati picchiati a morte nelle strade. Lo hai visto. 
                  Devi nasconderti, devi muoverti, se ti prendono non potrai lottare 
                  dalla prigione”. Così ho iniziato a muovermi di 
                  nascosto di villaggio in villaggio senza fermarmi mai. Portavo 
                  con me il mio computer, facevo editing, montavo i filmati 
                  delle manifestazioni e li mostravo agli abitanti. Il regime 
                  aveva fatto il lavaggio del cervello alla popolazione. Dicevano 
                  che quelli nei filmati non erano veri monaci, che i veri monaci 
                  erano nei monasteri, non a manifestare. Così cercavo 
                  di mostrare loro la verità. Molti monaci e molti miei 
                  amici e studenti erano in prigione. Io mi nascondevo sotto falso 
                  nome, il regime cercava King Zero, non Ashin Issariya. 
                  King Zero era il nome con cui mi firmavo negli articoli contro 
                  il regime.» 
                   
                  Quando è nato il tuo attivismo politico? 
                  «Devo la mia coscienza politica al mio maestro, Thu Mana. 
                  Ben prima dell'università, i miei genitori volevano che 
                  ricevessi un'istruzione e mio padre mi mandò al monastero 
                  quando la mia scuola statale venne chiusa, così fui affidato 
                  alla guida di Thu Mana. Lui, invece di dirmi cosa pensare, 
                  mi ha insegnato come pensare. Nel 1972 i militari avevano 
                  distrutto la sua biblioteca, ma era riuscito a salvare alcuni 
                  libri, a tenerli nascosti, e me li fece leggere. Più 
                  tardi mi fece ascoltare anche i discorsi di Aung San Suu Kyi. 
                  Mi istruì politicamente, non era una fortuna che avevano 
                  tutti i monaci. Io ho cercato di seguire il suo esempio. Aprivo 
                  biblioteche, ovunque, in qualsiasi città e villaggio, 
                  ne ho aperte 13 finora. Le aprivo così che tutti potessero 
                  iniziare un percorso simile al mio, istruirsi politicamente, 
                  socialmente. Ne ho aperta una anche nella mia stanza a Rangoon, 
                  ho cercato di fare quello che il mio maestro ha fatto con me. 
                  Durante l'università io e gli altri monaci cercavamo 
                  di proporre iniziative creative per informare gli studenti e 
                  la popolazione, scrivevamo articoli e poesie per stimolare le 
                  persone a riflettere, perché sotto il regime l'istruzione 
                  della popolazione era bassissima, li crescevano nell'ignoranza, 
                  facevano solo propaganda e nessuno capiva veramente o si preoccupava 
                  della situazione politica, che era gravissima. Nel 2000 mi hanno 
                  fatto chiudere una biblioteca che avevo aperto nell'università, 
                  perché l'università era statale e statale significava 
                  del regime.» 
                   
                  [ ... ] 
                
                   
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                    |   Mae Sot, Thailandia occidentale, in prossimità del 
                  confine con il Myanmar (Birmania)  | 
                   
                 
                Che cosa ti ricordi dei giorni di settembre? 
                  «È stato un massacro. Il 5 settembre oltre 500 
                  monaci scesero in strada a Pakokku, Magwe Division, ed altri 
                  200 erano già intervenuti ad Arakan, Rakhine State. Furono 
                  picchiati e arrestati dalle forze dell'ordine. Poco tempo dopo 
                  con U Gambira e U Kemind ci siamo incontrati per stendere un 
                  documento, era il 9 settembre. Uke l'ha trasmesso attraverso 
                  la Bbc e tutti i monaci del Paese l'hanno sentito. La All Burma 
                  Monks Alliance chiese delle scuse ufficiali, scuse pubbliche 
                  da parte del regime e delle forze dell'ordine per le violenze 
                  perpetrate contro i monaci che avevano manifestato pacificamente. 
                  Chiedevamo anche la liberazione dei prigionieri politici, di 
                  ridurre immediatamente le tasse, la fine della dittatura e l'inizio 
                  di un dialogo fra le parti sociali. Durante la raccolta dell'elemosina 
                  distribuivamo di nascosto volantini ai cittadini. Abbiamo dato 
                  un ultimatum ai militari: avrebbero dovuto scusarsi entro 
                  il 17 settembre. Ma le scuse non arrivarono. 
                  Il giorno dopo abbiamo sfilato di fronte ai militari con i debey 
                  “ma”, le urne dell'elemosina capovolte, a indicare 
                  che non c'era nessuna associazione fra noi e loro, che noi dipendevamo 
                  solo dall'elemosina del popolo e intendevamo estrometterli dall'ordine 
                  sociale. L'abbiamo fatto in tutti i monasteri, poi in corteo, 
                  in moltissime città, in tutte le città. 
                  La mattina del 26 settembre è iniziata un'altra manifestazione 
                  non violenta, con le stesse richieste. Il giorno prima mi ero 
                  collegato a internet e un monaco anziano mi aveva avvisato che 
                  la situazione sarebbe diventata ancora più violenta, 
                  che il regime non aveva intenzione di tollerare il nostro dissenso. 
                  C'erano blocchi enormi di polizia a serrare le strade e alcune 
                  zone della città, non ci lasciavano manifestare liberamente. 
                  Noi avevamo diffuso video e fotografie delle violenze, la gente 
                  era arrabbiata, chiedeva “Perché avete picchiato 
                  i nostri monaci?” 5.000 monaci andarono verso la Sule 
                  Pagoda. I soldati ci picchiavano a morte, non riuscivamo a parlargli 
                  da uomini, obbedivano agli ordini come robot. Allora ci siamo 
                  divisi nei monasteri. I soldati ci fermavano, chiudevano le 
                  strade, non avevamo dove andare. Non potendo più muoverci, 
                  abbiamo deciso di sederci tutti a terra e pregare. Allora ci 
                  hanno gridato che non ci accordavano il permesso di pregare 
                  per strada, che ce lo proibivano. Gridavano “Vi diamo 
                  10 minuti per smettere”, poi hanno sparato colpi in aria. 
                  Molti monaci erano terrorizzati dagli spari, quindi abbiamo 
                  detto “Torneremo ai monasteri, apriteci la via”, 
                  e ci siamo divisi. 
                  Nella notte sono entrati nei monasteri. Ci hanno picchiati, 
                  ci hanno uccisi, portati in galera. Il 26, 27, 28 e 29 settembre 
                  sono venuti ogni notte, poi sporadicamente nei primi di ottobre. 
                  Molti sono scappati nei villaggi cercando riparo e non hanno 
                  più potuto partecipare alla lotta. Se studenti e popolazione 
                  riempivano le strade, i militari gli sparavano, c'era il coprifuoco. 
                  Poi una notte è arrivato mio fratello, in segreto, come 
                  ti ho detto, chiedendomi di scappare, dicendomi che U Gambira 
                  e U Kemind erano in galera, sotto tortura. Allora ho iniziato 
                  a muovermi per i villaggi. È cominciata la caccia al 
                  monaco.» 
                   
                  Che ne è stato del movimento? 
                  «Tornato a Rangoon ho potuto usare internet e organizzare 
                  ancora il movimento. Volevamo soprattutto la liberazione dei 
                  prigionieri politici, inclusa Aung San Suu Kyi, non ci volevamo 
                  fermare. Ma poi i militari sono arrivati alla mia famiglia, 
                  erano troppo vicini, e sono venuto a Mae Sot. Da qui cerco ancora 
                  di diffondere istruzione, materiale politico, libri, cultura. 
                  U Gambira si è sposato, si è tolto l'abito. Ma 
                  le torture dei militari l'hanno cambiato, non è più 
                  lo stesso, la sua mente non è più la stessa, non 
                  è più lui. U Kemind è ancora monaco e milita, 
                  si trova a Mandalay. L'hanno imprigionato due volte: nel 1990 
                  e poi nel 2007, è un osso duro. Il mese scorso ci siamo 
                  incontrati a Yangon.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   La città di Mae Sot  | 
                   
                 
                
                  Una domanda di rito: cosa pensi di Aung Sang Suu Kyi e 
                  del Ndl (Lega nazionale per la democrazia)? Gli stati birmani 
                  non hanno mai dimenticato l'indipendenza sottratta, il federalismo 
                  perso prima con il colonialismo inglese e poi con la morte di 
                  Aung San. Molti di loro non parlano la lingua nazionale e non 
                  accettano lo stato unitario. Credi che una possibile elezione 
                  di Suu Kyi potrebbe migliorare la situazione birmana? 
                  «Aung San Suu Kyi ha un buon programma, conosce la storia 
                  e le necessità del suo popolo, ma c'è qualcosa 
                  di più urgente della sua elezione. Prima occorre cambiare 
                  il sistema politico, scrivere una nuova Costituzione. Qualsiasi 
                  variazione ora richiede una maggioranza parlamentare superiore 
                  al 75% dei voti, e i militari hanno sempre tenuto per loro il 
                  25% dei seggi. Senza la loro approvazione niente si muove, quindi 
                  siamo ancora in loro balia, malgrado la farsa democratica. Occorre 
                  cambiare il sistema prima che Aung San Suu Kyi e il suo partito, 
                  Ndl, possano intervenire concretamente. Lo stiamo facendo, ma 
                  non c'è molto tempo.» 
                   
                  E se non riusciste a intervenire in tempo? Se i militari 
                  non lasciassero il campo? 
                  «Chissà, potrebbe anche scoppiare una rivoluzione.» 
                   
                  Lo speri? 
                  «In un certo senso lo speriamo tutti.» 
                   
                  Ringrazio Issariya per le parole scambiate e sorseggiamo un 
                  tè caldo nella tiepida stanza dei libri. A guardarlo 
                  così, vis-à-vis, si resta stregati dalla 
                  forza latente che riposa nei suoi occhi bui ma visionari, dalle 
                  mani ben ferme ai polsi durante i gesti nel discorso, dal vigore 
                  aggraziato di quel corpo, un corpo sacro, mai toccato da mano 
                  di donna. Si avvicina l'ora del pranzo e sul pavimento è 
                  stato allestito un tavolino rotondo alto appena una spanna da 
                  terra, come si usa nelle case e nei templi birmani. Il riso 
                  al vapore vi fuma controluce. Scattiamo alcune fotografie, poi 
                  prima del congedo domando ad Issariya informazioni su un suo 
                  amico, un altro monaco che vorrei intervistare, un altro garofano 
                  d'aria esiliato dal giardino birmano e finito a Mae Sot dopo 
                  la tempesta politica. Issariya siede nuovamente. Con un brivido, 
                  sospeso fra entusiasmo e timore, apprendo dalle sue parole la 
                  delicata posizione del mio monaco: “È qui, ma non 
                  lo troverai a Mae Sot. Vive da anni nel campo di Mae La”. 
                  
                 
				Mae Sot / intervista al monaco U Tilawca
                   
                 La nazione birmana è 
                  composta da 14 stati e divisioni minori. Nonostante l'istituzione 
                  dello Stato unitario, oltre 130 gruppi di minoranze (qualcuno 
                  direbbe “etnie”) fin dalla conquista britannica 
                  non hanno fatto che lottare contro un governo centralizzato 
                  più o meno dittatoriale, più o meno colonialista, 
                  più o meno democratico. Dopo la morte dell'eroe dell'indipendenza 
                  Aung San (padre di Suu Kyi), il quale aveva assicurato alle 
                  minoranze una certa autonomia nel 1947, la chimera del federalismo 
                  è scomparsa e di fronte alle reiterate richieste di indipendenza 
                  da parte delle minoranze, la strategia dei generali e dello 
                  stato è stata grosso modo sempre la stessa: lasciare 
                  l'eco come sola risposta alle domande e passare alla repressione, 
                  al massacro, alla “pacificazione” via esercito per 
                  imporre l'annessione e l'unità. Alcuni gruppi hanno deciso 
                  di impugnare le armi, ed è il caso dei Kachin, 
                  altri di negoziare, altri ancora risolsero di fuggire via dalla 
                  loro terra. 
                  Malgrado le recenti aperture al turismo da parte del governo 
                  e il sorriso caricato a molla degli ufficiali, molte aree sono 
                  tuttora coinvolte in una guerra sanguinaria e i loro territori 
                  restano chiusi ermeticamente agli stranieri. Scoraggiare gli 
                  occhi dei curiosi non è lavoro da poco: le reti infrastrutturali 
                  del Paese sono pattugliate intensamente, le strade sono disseminate 
                  di barriere e checkpoint militari, le visite in alcune 
                  destinazioni richiedono permessi governativi e raggiungerne 
                  altre da straniero comporta un biglietto di treno con prezzo 
                  gonfiato fino a dieci volte. Viaggiando nei pressi delle zone 
                  di confine capita di essere fermati e registrati anche sette 
                  o otto volte in uno spostamento via terra di un paio d'ore. 
                  Molti karen lottano per l'indipendenza fin dagli anni 
                  '40 opponendo la karen National Union all'esercito del Myanmar, 
                  mentre la zona del Kachin State, a Nord del Paese, è 
                  attualmente coinvolta in una violentissima guerra armata sotto 
                  il più serafico silenzio mediatico internazionale. La 
                  Birmania non “pacificata”, la Birmania delle trincee 
                  e delle mine anti-uomo, grondante di sangue e sparsa di brandelli 
                  di corpi, resta ampiamente un segreto, mentre le rivolte e le 
                  repressioni continuano avvolte nella complice intimità 
                  di una coltre di fumo statale.
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Principali campi profughi birmani sul territorio thailandese  | 
                   
                 
                
                  Ad oggi la violenza e la morte delle guerre civili e le ripetute 
                  violazioni dei diritti umani hanno costretto oltre 140.000 birmani 
                  in cerca di pace alla fuga oltreconfine. Il governo thailandese 
                  li ha accolti, temporaneamente, in una decina di campi profughi 
                  lungo la linea di demarcazione nazionale, ma la temporaneità 
                  di queste aree d'eccezione, vere e proprie eterotopie istituite 
                  a cavallo degli stati nazionali, dura ancora dagli anni '80. 
                  Nuove generazioni di non-cittadini ogni anno nascono all'interno 
                  dei campi, nuove umanità in bilico, senza nazione o documenti, 
                  mentre quella birmana passa alla storia come una delle più 
                  durature condizioni di dislocazione del mondo intero. Nel giugno 
                  2013 la Tbc ha censito una popolazione di 128.480 persone all'interno 
                  di queste aree speciali, ma appena la metà di questa 
                  è stata riconosciuta e registrata dalle Nazioni Unite. 
                  Il più grande di questi campi per i profughi birmani 
                  è proprio quello di Mae La. Situato nel bel mezzo della 
                  giungla, a 8 km dal confine birmano e a circa 60 km dalla città 
                  di Mae Sot, il campo contiene attualmente una popolazione di 
                  circa 60.000 persone, di cui un buon l'85% è di origine 
                  karen. Mae La fu istituito nel 1984, ha l'estensione 
                  di una città di provincia ed è suddiviso in tre 
                  aree (A, B, C) a loro volta ripartite in cinque sezioni ciascuna 
                  (1, 2, 3, 4, 5). Alle 6 del mattino sono salito sul primo songthaew 
                  in servizio ed ho lasciato il centro di Mae Sot diretto verso 
                  il campo. L'area di Mae La è posta sotto la tutela del 
                  Ministero degli Interni e l'accesso è strettamente riservato 
                  ai rifugiati e ai pochi operatori abilitati e dotati di carte 
                  governative. Tutto il perimetro adiacente alla strada è 
                  recintato di filo spinato e pattugliato dall'esercito. Fallito 
                  il dialogo con le Ong, sempre timorose di bruciarsi i finanziamenti 
                  con mosse sbagliate, il mio monaco avrebbe dovuto convincere 
                  (o corrompere) una delle guardie per farmi entrare, e mi aspettava 
                  al cancello di ingresso alle 7.30. Avvicinandomi al campo, tuttavia, 
                  mi sono reso conto che non esisteva un cancello di ingresso, 
                  ma una decina di cancelli, ben snocciolati lungo tutta la lunghezza 
                  del confine. La sorveglianza era piuttosto elevata e il perimetro 
                  era troppo esteso per pensare di percorrerlo a piedi cercando 
                  il mio contatto al cancello giusto. Dopo un maldestro tentativo 
                  di ingresso dal cancello principale, e dopo il prevedibile muso 
                  duro dei soldati thai a gambe divaricate, sono tornato sui miei 
                  passi, ho cercato con calma un punto debole nella camicia di 
                  forza del recinto e sono entrato di nascosto, con il cuore leggero 
                  e gagliardo di chi tralascia di pensare alle conseguenze delle 
                  proprie azioni. Da dentro, con prudenza, ho iniziato la ricerca 
                  del mio monaco. 
                  I primi passi fra le capanne sono stati con i piedi di piombo. 
                  Ogni rumore è sinistro, ogni piccola ombra sulle palizzate 
                  sembra venire per portare disgrazie. Il campo al primo sguardo 
                  è un labirinto di vicoli sterrati che si districano senza 
                  logica né disegno, sentieri nodosi figli di un inurbamento 
                  spontaneo, casuale, non pianificato. Senza il conforto possibile 
                  di una mappa, al principio non c'era strada che potessi essere 
                  certo di non aver già percorso un attimo prima, e sul 
                  villaggio riposava il silenzio grave e imponente di un tempio. 
                  Le capanne avevano pareti e recinti in bambù, un pian 
                  terreno e uno sopraelevato, spesso un piccolo giardino in cui 
                  razzolavano polli e a volte anche una casetta per i porci. L'umidità 
                  mattutina della giungla ovattava il campo in una nebbia fitta 
                  e granulosa che abbracciava tutta la valle e la vegetazione 
                  trasudante tutto intorno, e solo alcuni buchi passeggeri nel 
                  vapore permettevano a tratti di intravedere i crinali delle 
                  alture circostanti e i campi coltivati a fondo valle. I pochi 
                  strumenti linguistici acquisiti in un mese trascorso in Birmania 
                  si sono rivelati inutili: i karen di Mae La non parlano 
                  birmano, parlano karen. Fortunatamente ho incontrato 
                  Gedeon, un giovane karen che ha studiato inglese nel 
                  campo, il quale mi ha raccontato la sua storia e si è 
                  offerto di farmi da guida nel campo. I genitori di Gedeon sono 
                  stati uccisi sei anni fa dall'esercito birmano. Fucilati a freddo 
                  e senza colpa sulla nuda terra. Non erano soldati e non facevano 
                  parte dei gruppi armati, erano semplici contadini karen, 
                  con il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento 
                  sbagliato all'arrivo dell'esercito pacificatore. L'unico parente 
                  in vita di Gedeon, uno zio, si trovava nel campo di Mae La da 
                  anni e gli ha proposto di raggiungerlo. Senza più le 
                  impronte di una famiglia davanti ai suoi passi, in una casa 
                  vuota, su una terra di assassini e campi minati, Gedeon ha camminato 
                  per due settimane, dormendo nella giungla, fino a raggiungere 
                  il campo, dove vive da sei anni. Gli ho domandato di condurmi 
                  al monastero più vicino, specificando che non voglio 
                  incontrare militari né operatori di Ong lungo la via. 
                  Gedeon non aveva certo più simpatia di me per le forze 
                  armate, comprende la situazione e mi mostra la via. 
                  Senza conoscere a fondo il campo, di primo acchito è 
                  facile abbandonarsi a impressioni romantiche e fantasie ad occhi 
                  aperti. Si apre davanti allo sguardo una società senza 
                  stato, senza polizia, senza documenti; una società costruita 
                  su relazioni spontanee da conoscere e indagare, una comunità 
                  pre-sociale da salvare, accudire, educare, da convertire per 
                  alcuni. Si apprende poi che dentro il campo si verifica la stessa 
                  criminalità vigente nel mondo esterno, che la corruzione 
                  è alle stelle e che un chief commander incassa 
                  fra i 10 e i 20 mila euro al mese di mazzette per vedere certe 
                  cose e non vederne altre, con pieno controllo su tutta l'area; 
                  si scopre che famiglie di ricchi musulmani sono arrivate da 
                  fuori esclusivamente per fare affari, con il benestare delle 
                  autorità corrotte. Si viene a sapere che ogni notte alle 
                  21 c'è il coprifuoco, che esiste un servizio d'ordine 
                  gestito da rifugiati e che i cattolici, culto predatore, fanno 
                  spudorata opera di conversione nel campo in cambio di servizi 
                  al non-cittadino, ai danni della comunità buddhista meno 
                  provvista di capitali occidentali erogati via Ong. La presenza 
                  di Ong nel campo, cristiane o meno, è massiccia e provvede 
                  alla fornitura di servizi basilari come acqua, elettricità, 
                  istruzione di primo e secondo livello. Vedo che tutte le abitazioni 
                  sono numerate e Gedeon mi spiega che anche gli abitanti sono 
                  suddivisi in due categorie: vecchi e nuovi. Mi dice che ai primi 
                  è stata rilasciata una sorta di carta di registrazione, 
                  che consente loro di interfacciarsi con Ong e autorità 
                  thai, di svolgere alcuni lavori retribuiti e di partecipare 
                  ai programmi di integrazione all'estero. I secondi, fra cui 
                  lui stesso, non esistono. 
                  Dopo una lunga camminata attraverso l'Area C del campo, giungiamo 
                  in cima ad una collina sfavillante di panni arancioni sbattuti 
                  dal vento contro il cielo turchino del primo pomeriggio, collina 
                  su cui sorge uno dei tre templi buddhisti che si trovano all'interno 
                  di Mae La. Faccio subito il nome del mio monaco fra i novizi, 
                  solo per scoprire che sfortunatamente non fa parte di questo 
                  monastero, mentre nessun monaco maturo sa dirmi dove si trovi. 
                  Mostro allora il suo numero di telefono al monaco superiore, 
                  il quale, estratto il suo iPhone dalla tonaca zafferano, inoltra 
                  la telefonata per me. I novizi fuori dal monastero giocano a 
                  chillou, sorta di tennis palleggiato con le gambe, facendo 
                  volare una leggera palla di vimini intrecciati delle dimensioni 
                  di una noce di cocco oltre una rete tesa fra le due metà 
                  di un campo. Circa mezz'ora dopo, vedo arrivare il mio monaco, 
                  che si arrampica sulla collina con un'agile motocicletta 125. 
                  Ci sediamo a terra, sulle assi scure e lucide di una terrazza 
                  ombrosa, sotto il sorriso bonario e dorato di una statua del 
                  Buddha. U Tilawca è nato nel 1982 e non è sempre 
                  stato un monaco; prima di indossare l'abito faceva parte del 
                  Ndl, il partito di Aung San Suu Kyi, e in queste vesti ha partecipato 
                  agli eventi della Rivoluzione Zafferano. 
                 
                   
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                    |   U Tilawca  | 
                   
                 
                 U Tilawca, come sei arrivato al campo di Mae La? 
                  «Dopo i fatti del settembre 2007 sono scappato dalla Birmania. 
                  Sono stato in Malesia fino al 2008. Ho attraversato il fiume 
                  di notte, poi ho viaggiato attraverso la Thailandia con bus, 
                  barche, macchine, contrabbandieri, mazzette. Un amico musulmano 
                  mi ha organizzato il viaggio, e sono partito. C'era troppo sangue 
                  per le strade. Quando le acque si sono calmate ho deciso di 
                  rientrare in Birmania, ma nel gennaio 2008, quando sono arrivato 
                  alla frontiera di Mae Sot, gli ufficiali allo sportello mi hanno 
                  portato via la carta di identità. Mi hanno guardato, 
                  hanno controllato una qualche lista, si sono presi il mio documento 
                  e mi hanno detto di andarmene, che non ero il benvenuto, di 
                  tornare da dove venivo e che il mio documento sarebbe stato 
                  mandato direttamente al governo. Mi sono trovato improvvisamente 
                  in bilico, senza terra sotto i piedi: da un lato del fiume c'era 
                  la frontiera thailandese, dall'altro quella birmana, ero fra 
                  i due ingressi, entrambi chiusi, e non potevo andare né 
                  da una parte né dall'altra, ero bloccato nella terra 
                  di nessuno. Non sapevo dove andare, così ho preso la 
                  via del fiume, sono passato nella foresta e sono arrivato fino 
                  al campo. Vivo qui da cinque anni.» 
                   
                  Cosa pensi dell'intervento dei monaci nella Rivoluzione 
                  Zafferano, tu che non eri ancora monaco in quel periodo? 
                  «No infatti, la mia situazione era diversa, non indossavo 
                  gli abiti del monaco quando iniziarono le sommosse, facevo parte 
                  del Ndl. Le proteste erano già in corso quando i monaci 
                  hanno deciso di darci il loro supporto, a fine agosto. Il Ndl 
                  Generation Wave, 88 Generation, gli studenti, eravamo tutti 
                  in fermento, ma l'intervento dei monaci buddhisti ha dato un 
                  supporto e una legittimazione enorme al movimento di protesta. 
                  I musulmani hanno fatto lo stesso più avanti, il 24 settembre, 
                  quando sono scesi in strada fianco a fianco con i monaci buddhisti, 
                  ma ovviamente erano meno. Il messaggio dei monaci era talmente 
                  forte che la junta si è spaventata. Prima ha cercato 
                  di screditare il fenomeno dicendo che quelli in protesta non 
                  erano veri monaci, poi, quando la popolazione di Rangoon ha 
                  preso parte e fu chiaro che la propaganda non bastava, sono 
                  passati alle mani. Il 26 settembre hanno ammazzato tre monaci, 
                  due a forza di botte e uno sparandogli a bruciapelo. Si appellavano 
                  ai diktat: l'ordinamento 7/90 proibiva ai monaci di partecipare 
                  a iniziative non religiose, di pronunciare sermoni di contenuto 
                  politico e di iscriversi ai partiti. Capivano bene l'importanza 
                  dell'intervento dei monaci. Dopo le violenze molti ufficiali 
                  hanno aumentato le loro offerte ai monasteri, e a Pakokku hanno 
                  offerto 30.000 kyat ai monaci come rimborso per le botte, cercando 
                  di insabbiare i fatti, di accattivarsi simpatie, di rimediare. 
                  L'intervento dei monaci nelle nostre file è stato inestimabile, 
                  è diventato il centro della Rivoluzione Zafferano. Non 
                  era la prima volta che i monaci intervenivano politicamente. 
                  Già nel 1990 quelli di Mandalay avevano boicottato le 
                  elemosine dei militari, che è il più grande schiaffo 
                  possibile da parte loro, significa che il legame sociale di 
                  interdipendenza, con tutto ciò che rappresenta per la 
                  comunità religiosa, è infranto.» 
                
                   
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                    |   Un profugo karen, vittima  di una mina anti-uomo  | 
                   
                 
                 Chi ha la responsabilità delle violenze di settembre? 
                  «I generali naturalmente, con i loro nomi e cognomi, e 
                  tutti i loro soldati senza nome. Il generale Than Shwe, il generale 
                  Maung Aye, il generale Thura Shwe Man. Da tempo soffocavano 
                  il paese di tasse, usavano le armi contro la popolazione, contro 
                  le minoranze che chiedevano l'indipendenza, contro i Kachin, 
                  i karen, i Lissu, i Pa-o, i Chin, 
                  i Kayan e tutti gli altri gruppi. Eravamo tutti uniti 
                  contro di loro: il partito Ndl, gli studenti, la All Burma Monks 
                  Alliance, Generation Wave, tutti. I monaci chiedevano una democrazia, 
                  scuse ufficiali per le violenze subite, la fine della guerra 
                  alle minoranze e la liberazione dei prigionieri politici: Suu 
                  Kyi, Min Ko Naing, Ko Ko Gyi, Ko Htay Kywe, Ma Su, Su Nway. 
                  Tutte richieste legittime. Il 28 e 29 settembre i militari hanno 
                  sparato ancora, hanno raso al suolo i monasteri con i carri 
                  armati per ordine dei generali, hanno sparato a un reporter 
                  giapponese, si chiamava Kenji Nagai, e hanno distrutto il monastero 
                  di Ngway Kyas Yan a Rangoon. Hanno iniziato la caccia al monaco 
                  e messo in galera tutti i nemici politici, chi voleva cambiare 
                  le cose. In prigione, oltre alle torture, alle umiliazioni, 
                  alla malnutrizione, nell'acqua c'erano residui di piombo e la 
                  facevano bere ai prigionieri, avvelenandoli. U Gambira è 
                  uscito malato, aveva tutta la pelle macchiata, poi ha perso 
                  la testa. I generali e i loro soldati hanno la piena responsabilità 
                  di tutto questo, tanto delle cause e quanto delle conseguenze.» 
                   
                  Mantieni i rapporti con il Ndl di Suu Kyi dal campo di 
                  Mae La? 
                  «No, ho lasciato il partito quando sono tornato dalla 
                  Malesia, nel 2008. Ho cambiato vita. Arrivato a Mae La ho indossato 
                  gli abiti del monaco, ora qui insegno la lingua birmana, quella 
                  inglese e matematica. Cerco di diffondere istruzione dal basso, 
                  la politica di partito non mi interessa più. Le mie idee 
                  sono cambiate, credo che Suu Kyi non possa salvare la nazione, 
                  la popolazione non ha istruzione, i buddhisti sono in lotta 
                  con i musulmani che arrivano dal Bangladesh, i cristiani cercano 
                  di convertire i buddhisti, di stravolgere la nostra società. 
                  Non sono problemi che può risolvere lei, lei fa la sua 
                  vita politica, cerca di mediare, troppo, non prende parte e 
                  parla vagamente di pace, non si capisce da che parte stia. Ha 
                  un'etica diplomatica che non fa i conti con i conflitti più 
                  urgenti nella nostra società; ci servono soluzioni, non 
                  discorsi diplomatici. Non basta condannare il fervore religioso 
                  con un bel discorso pubblico, è giusto ma non basta. 
                  Bisogna preservare la religione buddhista dalle conversioni, 
                  e dalle lotte. Noi non siamo una religione di conversione, ci 
                  possono estinguere. I cristiani hanno supporti enormi che noi 
                  non abbiamo. L'Europa e l'Occidente in generale li hanno, noi 
                  siamo allo sbando, frammentati. Mi hanno chiamato anche tra 
                  le file dell'esercito karen. Ho rifiutato. Non voglio 
                  saperne di eserciti e armi, sono violenti, ignoranti, io cerco 
                  di diffondere sapere, la via del Buddha, la non violenza. Dato 
                  che non posso tornare in Birmania, cerco di fare quello che 
                  posso qui, nel campo, senza partiti né stati.» 
                   
                  Come è organizzato socialmente il campo? E cosa 
                  fanno qui le Ong? 
                  «L'area più estesa è la C, dove ci troviamo 
                  ora. Qui ci sono gruppi karen, Kachin, Lissu, 
                  Pa-o, Chin, Kayan, musulmani. Nell'area 
                  B non ci sono musulmani invece, perché è piena 
                  di cristiani. Nell'area A ci sono ancora cristiani, buddhisti, 
                  soldati karen, Shan. Ma i gruppi sono molto ramificati 
                  dentro Mae La, non ci sono veri confini. Qui non si parla birmano, 
                  non si parla thai, si parla karen. In cima alla piramide 
                  ci sono le autorità thai, poi una commissione rifugiati, 
                  poi coordinatori, Ong e Un. Le Ong sono ovunque nel campo, forniscono 
                  servizi sanitari, istruzione, costruiscono toilettes, depurano 
                  le acque, distribuiscono razioni. Fanno tante cose, ma non ci 
                  aiutano con le questioni più importanti, non ci aiutano 
                  con i documenti, non vanno alla radice, qui ci servono passaporti 
                  per andarcene, per acquisire diritti, non solo assistenzialismo.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Il campo profughi di Mae La  | 
                   
                 
                
                  Saluto il monaco U Thilawca e lo ringrazio per le sue parole. 
                  Il sole dalla cima della collina mostra i colori del declino, 
                  si prepara a scomparire tutto in una volta come accade a queste 
                  latitudini, tirandosi subito dietro la notte come un lenzuolo 
                  a strascico, senza concedere l'intervallo della sera. Alle sei 
                  sarà già notte fonda, non ho molto tempo per ritrovare 
                  il punto da quale sono entrato e riattraversarlo di nascosto. 
                  Poco prima delle sei, inoltre, passerà l'ultimo songthaew 
                  pubblico, che mi conviene prendere al volo. Seguo Gedeon, che 
                  ricalca i nostri passi fino alla sua abitazione per vie secondarie, 
                  e prima di salutarmi, avendo ascoltato attententamente la mia 
                  conversazione con il suo monaco, mi regala un dossier sulla 
                  Rivoluzione Zafferano: Bullets in the Alms Bowl, proveniente 
                  da una ex biblioteca del campo profughi. 
                  Con la breve distanza dei primi passi fra me e l'eterotopia 
                  di Mae La, inizio a sentirmi più calmo, e ripensando 
                  alle interviste a quei garofani dell'aria, alle violenze di 
                  stato contro le minoranze birmane, al sacro attivismo dei monaci 
                  buddhisti e alla vita quotidiana dei 60.000 non-cittadini del 
                  campo profughi, mi appresto a raccontare una storia di campi, 
                  rivoluzioni e monaci birmani.  
                 Moreno Paulon 
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