Contro 
                  il concetto di potere 
                   
                  Il principio di ragione del Potere, la sua essenza, è 
                  l'esercizio di se stesso, il suo perpetuarsi al di là 
                  delle contingenze e delle determinazioni storiche, nelle quali 
                  comunque si esplica. Il Potere è un'immobilità 
                  che basta a se stessa e che comprende al suo interno anche tutta 
                  una serie di movimenti. Seguendo la sua legge di sussistenza, 
                  dispiega all'interno della sua estensione tutta una serie di 
                  valori, a lui stesso funzionali, tracciando in questo modo i 
                  confini del lecito e dell'illecito, disegnando le linee della 
                  normalità. Uno dei modi del dispiegarsi del Potere è 
                  proprio il porre dei limiti, e conferendo dei nomi a ciò 
                  che limita, in un certo senso blocca tutta una serie di movimenti, 
                  che vediamo ora essere apparenti. Parliamo ovviamente di tutti 
                  i movimenti di opposizione politica ed etica ai valori da esso 
                  creati, al suo perpetuarsi reale. Anche quei movimenti che individualmente 
                  nascono in perfetta buona fede, come opposizione al Potere stesso, 
                  finiscono per diventare delle rivolte previste, e per 
                  ciò sotto controllo. La loro carica rivoluzionaria viene 
                  disinnescata. Come può realizzarsi ciò? 
                  Un'altra modalità di dispiegamento del Potere, come dicevamo, 
                  è quella di creare valori; questa modalità è 
                  strettamente connessa al creare limiti, poiché tali valori, 
                  una volta creati, rappresentano proprio il contenuto concreto 
                  dei limiti, e in questo modo viene a disegnarsi il confine tra 
                  ciò che ha valore e ciò che non lo ha, e quindi 
                  ciò che è ammesso o meno. Poco importa al Potere 
                  se questi valori – che spesso restano nell'ombra in rapporto 
                  alla vita quotidiana dei suoi sudditi – siano condivisi 
                  dai singoli nel loro vivere questa quotidianità. Ciò 
                  che per il Potere è importante è questi valori 
                  facciano quadrato nel momento in cui nascono dei movimenti 
                  di opposizione, affinché le masse gli rimangano fedeli, 
                  ed esso a sua volta, rafforzato e legittimato da questa 
                  fedeltà “forzata”, possa da un lato reprimere 
                  tali movimenti – poco importa se con la violenza che gli 
                  è connaturata – e dall'altro ricomprenderli all'interno 
                  di se stesso, cambiandone la polarità e il contenuto 
                  valoriale, e rendendoseli dunque funzionali. 
                  La creazione di valori da parte del Potere è un'operazione 
                  talmente tanto vasta e pianificata che riesce a porre sotto 
                  controllo valori singoli tra loro apparentemente opposti. Come 
                  può essere possibile? Niente di più semplice: 
                  il Potere è una totalità superiore alle sue parti: 
                  esso si pone come terreno unitario sul quale germogliano i movimenti 
                  della vita quotidiana, tra loro in opposizione. Quello che per 
                  il Potere è fondamentale è essere questo terreno 
                  unitario. In altre parole, un movimento di opposizione per quanto 
                  apparentemente si scagli contro uno o più aspetti singolari 
                  del Potere, ivi compreso un intero singolo potere storico, perde 
                  la sua carica rivoluzionaria quando germoglia sul terreno unitario 
                  del Potere, quando cioè non si scaglia contro il concetto 
                  di Potere. Quando un qualsiasi movimento di opposizione rivoluzionaria 
                  ad aspetti singolari del potere, accetta il concetto di Potere, 
                  è destinato ad essere da esso disinnescato, e quindi 
                  votato al fallimento. 
                  Cerchiamo di esplicitare meglio questo discorso. Il Potere è 
                  il concetto di Potere, che precede ogni dispiegamento 
                  concreto di poteri singoli, particolari. Ogni potere particolare 
                  crea i propri valori, il proprio bene e il proprio male. 
                  Ma l'essenza di ciascun potere particolare è il concetto 
                  di Potere: tale concetto sta-dietro anche a quei movimenti di 
                  protesta/ribellione/opposizione che, schierandosi contro un 
                  certo potere particolare, si prefiggono di crearne un altro, 
                  di rimpiazzarlo con il loro potere particolare, che si creerà 
                  una nuova gamma di valori, che verranno ricompresi nella totalità, 
                  nel terreno unitario del Potere. La maggior parte dei movimenti 
                  di opposizione politica sono di questo tipo; mettono in discussione 
                  il potere come potere particolare – non importa se in 
                  singole manifestazioni o nella sua intera struttura – 
                  ma non il Potere in quanto concetto, che rimane di nuovo il 
                  terreno unitario sul quale si svilupperanno le loro evoluzioni 
                  storiche concrete. È per questo motivo che tali movimenti, 
                  seppur sedicenti rivoluzionari, possono magari apparire tali 
                  solo agli occhi del potere particolare, singolare – o 
                  di più poteri particolari – che contestano, mentre 
                  sul piano del concetto di Potere essi sono totalmente integrabili, 
                  perché lo portano al loro interno come fondamento. Sono 
                  solo, agli occhi di esso, dei falsi movimenti, dei movimenti 
                  apparenti. 
                  Questa è anche una delle cause per cui molte volte questi 
                  movimenti, ricompresi in seno al concetto di Potere, vengono 
                  storicamente sconfitti dal potere particolare che contestano, 
                  che si prefiggono di abbattere. Sul terreno del Potere, un potere 
                  particolare – in rapporto al movimento di opposizione 
                  che lo contesta – è posto(-si) in essere prima 
                  che nasca il movimento di opposizione, e detiene quindi una 
                  certa stabilità e una certa organizzazione che rappresentano 
                  le armi con cui schiaccia tale movimento: la sua presenza al 
                  mondo (essere-nel-mondo) già stabilita, è 
                  la fonte di quella legittimità per la quale molti singoli 
                  si porranno comunque a favore del potere particolare stabilito 
                  anziché nel movimento di opposizione, in virtù 
                  di quelle formazioni valoriali – anche inconsce – 
                  col quale il potere in essere si è imposto ai suoi sudditi. 
                  Nei casi in cui un movimento di opposizione particolare ha concretamente 
                  e storicamente sconfitto e abbattuto un potere particolare, 
                  edificando al suo posto un nuovo potere, con valori e finalità 
                  nuove rispetto a prima, questi movimenti si dice che abbiano 
                  compiuto una rivoluzione politica. 
                  Ebbene, questi movimenti hanno compiuto solo una rivoluzione 
                  apparente, in quanto la nuova condizione storico-politica si 
                  edifica sulla base, sul terreno del concetto di Potere, e i 
                  valori che il nuovo potere particolare crea ricalcano la creazione, 
                  il dispiegamento e lo sviluppo di quelli del potere precedente, 
                  anche se con contenuti particolari apparentemente differenti, 
                  in quanto sono scritti sulle pagine della storia con l'inchiostro 
                  del Potere. 
                  Il vero atteggiamento rivoluzionario è quello che va 
                  oltre i poteri particolari per scagliarsi contro il Potere, 
                  il concetto di Potere. Questo non vuol dire ridurre la lotta 
                  di liberazione ad una disputa astratta e teoretica, e astenersi 
                  dal contestare i poteri particolari e dall'opporvisi, ma vuol 
                  dire invece porsi in maniera autenticamente rivoluzionaria anche 
                  e soprattutto verso quel concetto di Potere che è il 
                  fondamento ontologico, la condizione trascendentale e il terreno 
                  onnicomprensivo funzionale alla formazione dei singoli poteri 
                  particolari: l'essenza che precede l'esistenza di essi. 
                  L'unico modo per combattere il Potere è il costruire 
                  valori nuovi e veramente rivoluzionari che scardinino questo 
                  concetto di base, questa totalità, questo terreno unitario 
                  della vita sociale. Ben prima dei singoli valori e delle singole 
                  manifestazioni dei poteri, è il Potere stesso come concetto 
                  astratto, immobile e immutabile, che va eliminato, distrutto, 
                  a partire dal singolo fino alla collettività. 
                 Andrea Mincigrucci 
                  Strasburgo (Francia) 
                 
                
                   
                    Inizia il dibattito su 
                  movimenti e potere 
                      Pubblichiamo 
                        qui di seguito i primi due interventi pervenuti, con cui 
                        si apre il dibattito, sollecitato da noi della redazione 
                        e aperto a tutte/i, sulle tematiche toccate nei quattro 
                        articoli di Antonio Senta (“potere e movimenti”) 
                        pubblicati sulla nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A” 
                        383) e il febbraio 2014 (“A” 386). Ricordiamo 
                        che, come in occasione del precedente dibattito sul libro 
                        “Libertà senza rivoluzione” di Giampietro 
                        “Nico” Berti, gli interventi non possono superare 
                        le 6.000 battute (spazi compresi). 
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                 Dibattito 
                  Movimenti e potere/1 
                   
                  Andrea Papi/Autogestione o lotta di classe? 
                 Ciò che Antonio Senta scrive sulle diverse rivolte 
                  che stanno costellando il mondo è interessante per la 
                  ricerca puntuale, la volontà di cogliere un nesso di 
                  lotta comune e lo sforzo di comprendere le caratteristiche spontanee. 
                  Stimolante l'interpretazione che aleggia nei quattro articoli, 
                  secondo cui i movimenti contemporanei non intendono la rivoluzione 
                  come evento traumatico in grado di liberare definitivamente 
                  l'uomo, ma intendono la rivoluzione o meglio le rivoluzioni 
                  come rotture, di diversa entità e intensità… 
                  in cui il potere è così diffuso da neutralizzare 
                  il dominio. (“A” 
                  386, pag. 37, Occupiamo il presente). Aspetti evidenziati 
                  anche da ricercatori che lui stesso cita. 
                  Ciò che non capisco è perché fin dalle 
                  prime parole ha inquadrato il tutto sotto l'egida ideologica 
                  di una datata “lotta di classe”, non più 
                  tra proletariato e borghesia si badi bene, ma tra i ricchi da 
                  una parte e i poveri dall'altra. Fra l'altro, ben chiaro fin 
                  dal titolo del primo articolo, si tratterebbe di una guerra 
                  dichiarata dai ricchi contro i poveri, ben diversa da quella 
                  classica in cui sarebbe il proletariato ad attaccare la borghesia. 
                  Una rappresentazione che rischia di essere stonata perché 
                  è azzardato usare il concetto di classe per le due categorie 
                  sociologiche dei ricchi e dei poveri, impiegato non tanto per 
                  classificare differenze sociali, ma per esplicitare una vera 
                  lotta rivoluzionaria. Un'interpretazione fra l'altro che non 
                  mi sembra in sintonia con quella data alle lotte, giustamente 
                  caratterizzate da una tensione che definisce autogestionaria. 
                  Per ragioni di spazio non è possibile spiegare adeguatamente 
                  sia le classi sia la lotta di classe. Mi limito a dire che in 
                  sociologia il concetto di classe è difficilmente definibile, 
                  applicabile più o meno ad ogni gruppo di persone in una 
                  posizione simile nell'ambito della struttura governata dalle 
                  relazioni economiche e politiche di una società, in genere 
                  comunque strutturate gerarchicamente. 
                  Cosa ben diversa dalla visione “lotta di classe”, 
                  derivata dalla concezione ideologica marxista, che le attribuisce 
                  invece una collocazione ben precisa, intendendo per classe un 
                  insieme di individui che hanno lo stesso posto nella produzione 
                  sociale e lo stesso rapporto con i mezzi di produzione. Quando 
                  Marx parla di lotta di classe intende la guerra che i proletari 
                  fanno ai borghesi, ritenuta insita nel rapporto strutturale 
                  tra gli uni e gli altri, inevitabile perché sono tra 
                  loro inconciliabili. Del resto un simile conflitto non avrebbe 
                  senso se non fosse per distruggere il potere borghese e impossessarsene 
                  per impedire che ritorni (Lenin è molto chiaro in proposito). 
                  La lotta di classe è stata impostata e pensata affinché 
                  la classe sottomessa prendesse il potere. 
                  A suo tempo Marx e Lenin prospettavano una borghesia al potere 
                  sempre in qualche modo legata allo stato nazionale. Proprio 
                  dal punto di vista economico la situazione attuale è 
                  completamente differente. Da una parte, che dovrebbe essere 
                  quella dei ricchi, domina una rete finanziaria sopranazionale 
                  e globale, non strutturata in classe perché non determinata 
                  dai rapporti di produzione. Al posto della borghesia non c'è 
                  nessuna struttura sostitutiva. L'accumulazione capitalista egemone 
                  non è quella proprietaria, non deriva dal sistema produttivo, 
                  non si basa sul profitto ma sulle rendite. 
                  Dall'altra parte, quella dei poveri, abbiamo un insieme sociale 
                  molto disomogeneo. La condizione di povertà, differente 
                  per strati e categorie, ha molte cause e una molteplicità 
                  di condizioni esistenziali, alla fin fine dovute tutte alla 
                  cappa plumbea della rete della speculazione finanziaria ai cui 
                  interessi è ormai asservito l'intero sistema produttivo. 
                  Oggi è attivo un dominio diffuso non strutturato ed extrastrutturale, 
                  che agisce determinando circostanze che influenzano e creano 
                  situazioni che s'impongono. È un dominio non localizzabile, 
                  sempre più avvolgente e inafferrabile, che induce a fare 
                  e non ha bisogno di nessuna classe per prevalere. In definitiva 
                  non c'è nessun potere di classe da prendere o da abbattere. 
                  Le varie rivolte che a ondate si stanno proponendo in tutto 
                  il mondo sembrano determinate da condizioni esistenziali più 
                  che di classe. I bisogni, individuali e collettivi, che da più 
                  parti si stanno manifestando mettono sempre più in evidenza 
                  il rifiuto degli imperanti modelli di sviluppo nocivi e aberranti, 
                  l'esigenza di una qualità di vita completamente diversa 
                  da quella che subiamo, il desiderio di conquistare autonomia 
                  di decisioni nelle scelte del modo di vivere e nel tipo di condizioni 
                  ambientali e sociali. Insomma, la tendenza in atto ha sempre 
                  di più l'aspetto di una vera e vibrante voglia di rivoluzione 
                  sociale ed esistenziale per prendere in mano le sorti delle 
                  proprie vite, più che un riduttivo riscatto di classe. 
                  È probabilmente in conseguenza di questa lettura ideologica 
                  degli accadimenti che nel racconto espositivo di Senta c'è 
                  a tratti una rischiosa sottovalutazione dell'intervento avanguardistico 
                  degli illusi dell'insurrezione. In più occasioni, infatti, 
                  hanno provato ad agire dall'interno delle proteste di piazza 
                  per indurre e trascinare i manifestanti allo scontro fisico 
                  con le varie polizie. Come se già non ci pensassero queste 
                  da sole a creare simili occasioni che controllano perfettamente, 
                  una tale scelta prioritaria d'attacco non può che distogliere 
                  la ribellione dai tentativi di costruzione autogestionaria di 
                  un'alternativa esistenziale, politica e sociale. Soprattutto, 
                  questi neofiti del modello insurrezionale non tengono conto 
                  che è diventato praticamente impossibile l'abbattimento 
                  manu militari del nemico, perché abbiamo a che 
                  fare con un potere imprendibile che sfugge e da cui ci si vorrebbe 
                  liberare.
                  Andrea Papi 
                
                 
                   Dibattito 
                  Movimenti e potere/2 
                   
                  Andrea Aureli/Ma chi ha detto che c'è? 
                Seduta di fronte a me, dall'altra parte del tavolo le mani 
                  in tasca, poco prima di natale una mia amica rifletteva che 
                  gli anarchici son moralisti. Incontrarla questa mia amica è 
                  sempre una festa, anche quando siamo seduti in panchina ai giardinetti 
                  senza far niente, a volte dice cose intelligenti che lì 
                  per lì mi sembrano stupide, poi ci ripenso e mi accorgo 
                  che non lo sono. Questa mia amica faceva riferimento ai comportamenti 
                  privati degli anarchici in quanto persone (maschi?), ma io estenderei 
                  la sua osservazione agli anarchici, come dire, in società. 
                  In che senso noi anarchici tendiamo ad essere moralisti? Nel 
                  senso che ci diamo le risposte ancor prima di porci le domande. 
                  Un problema non da poco per chiunque desideri cambiare la società. 
                  L'anarchismo per me è senso della possibilità, 
                  una prospettiva interlocutoria nei confronti di se stessi e 
                  degli altri. Quasi un grattarsi la testa collettivo nel tentativo 
                  di capire di volta in volta come vivere insieme senza comandare 
                  né essere comandati, se possibile col sorriso sulle labbra. 
                  In una situazione del genere sono le domande che fanno la differenza 
                  e le risposte, se e quando ci sono, hanno una loro validità 
                  contingente e mai risolutiva. 
                  È questo l'anarchismo che mi divertirebbe condividere 
                  e praticare e in questa interlocutoria prospettiva che propongo 
                  alcune riflessioni. L'occasione è la serie di articoli 
                  di Antonio Senta recentemente pubblicati da A (potere e movimenti). 
                  Dei quattro articoli il primo (La 
                  lotta di classe dei ricchi contro i poveri) e l'ultimo (Occupiamo 
                  il presente) mi sembrano quelli più importanti. Il 
                  primo è un sintetico riepilogo della rivoluzione neoliberista. 
                  Antonio legge questo processo con le lenti della lotta di classe, 
                  dei ricchi contro i poveri. Una lettura che in larga parte condivido 
                  anche se con qualche perplessità. 
                  La mia impressione è che una simile lettura tenda a non 
                  prendere in considerazione un tratto propriamente rivoluzionario 
                  del paradosso neoliberista: la scomparsa delle classi sociali 
                  non solo come soggetti politici ma come luoghi dell'identità 
                  collettiva. Questo è avvenuto, e qui sta il paradosso, 
                  di pari passo alla reale proletarizzazione della maggioranza 
                  assoluta della popolazione mondiale. Viviamo in società 
                  talmente polarizzate in termini di disuguaglianza delle condizioni 
                  di vita materiali che la previsione marxiana di una società 
                  duale sembrerebbe oggi essersi pienamente realizzata.1 
                  A fronte di questa situazione non solo la rivoluzione non sembra 
                  all'ordine del giorno nelle strade,2 
                  ma neanche nei discorsi e nei comportamenti dei movimenti, 
                  la cui combattività e il consenso di cui godono sono 
                  inversamente proporzionali alla radicalità delle loro 
                  istanze. Le lotte per la difesa del territorio, per il diritto 
                  all'abitare, per i diritti dei migranti, contro la precarietà 
                  non sono di per sé rivoluzionarie; se a volte possono 
                  assumere forme radicali, raramente si pongono nella prospettiva 
                  di una complessiva trasformazione sociale. Più che criticarli 
                  dal punto di vista “nostalgico”, sarebbe più 
                  interessante leggerli come “sintomi” degli effetti 
                  della rivoluzione neoliberista. Dire che il neoliberismo è 
                  la sussunzione al mercato di ogni ambito della vita, la sua 
                  messa a valore, è retoricamente efficace ma di poca utilità 
                  analitica. Se non altro perché rende difficile capirne 
                  un altro tratto distintivo, l'emergere di un'umanità 
                  superflua. Superflua perché tendenzialmente deprivata 
                  di quel tratto che la renderebbe potenzialmente “produttiva”: 
                  la facoltà di cooperare che costituisce come dire il 
                  “grado zero” della vita umana.3 
                  È un ipotesi di lavoro, niente più. Ma se questa 
                  ipotesi ha una qualche corrispondenza con la realtà, 
                  tutti i discorsi sulla rivoluzione (più o meno violenta), 
                  sulla resistenza (e relative prefigurazioni eterotopiche più 
                  o meno durature) o sull'esodo, rischiano non solo di lasciare 
                  il tempo che trovano ma di immaginarsi un tempo che non c'è, 
                  liquefatto insieme al “sociale”. A questo punto 
                  potremmo interpretare i movimenti anche come espressione 
                  sintomatica dell'entropia che sta investendo la società; 
                  che sono sì movimenti di resistenza che prefigurano un 
                  mondo altro ma lo fanno sulla base un sostrato “antropologico” 
                  in via di dissoluzione. Dato che il sintomo non è 
                  la malattia ma la sua manifestazione, leggere i movimenti in 
                  questo modo (anche in questo modo) implicherebbe la necessità 
                  di ripensare sia l'anarchismo “classico” che il 
                  post-anarchismo. Che la necessità ci sia mi sembra evidente 
                  in ciò che scrive Antonio nel suo articolo conclusivo 
                  quando, per sottolineare la perdurante vitalità dell'anarchismo, 
                  fa contemporaneamente riferimento al volontarismo Malatestiano 
                  (l'arbitrarietà dell'anarchismo) e allo “spontaneismo” 
                  antropologico di Graeber (la cooperazione e il mutuo appoggio 
                  come sostrato universale dell'anarchismo). Ora, che si pensi 
                  l'anarchismo come una scelta fondamentalmente arbitraria (Malatesta, 
                  così per dire) o come antropologica realizzazione (Graeber, 
                  tanto per non far nomi) si da comunque per scontato che esista 
                  qualcosa come un legame sociale in grado di mediare la volontà 
                  di libertà ed eguaglianza o altrimenti fungere da suo 
                  più o meno “primitivo” fondamento. E se così 
                  non fosse?
                  Andrea Aureli
                  Note 
                 
                  - Cf. Göran Therborn, “A New Class Politics” 
                  in New Left Review 78 (Nov/Dic 2012), ma anche Luciano 
                  Gallino, per esempio La lotta di classe dopo la lotta di 
                  classe, Laterza, 2012.
                  
 - Cf. per esempio Nancy Fraser, “Crisis Politics” 
                  in New Left Review 81 (May/June 2013).
                  
 - Sarebbe forse il caso di ricordarsi che lo Stato sociale con 
                  le relative garanzie e tutele se da una parte è stato 
                  frutto della combattività delle classi subalterne è 
                  stato anche un processo che ne ha disarticolato la sociabilità. 
                  Cf. Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, 1987, 
                  per quanto riguarda il caso italiano, cf. Pino Ferraris, Ieri 
                  e domani, Edizioni dell'asino 2011. 
				  
  
                 
   
                  Il bonobo e l'anarchico 
                Lo scimpanzé è di destra, il bonobo è 
                  di sinistra. Si sa. Lo scimpanzé, machista, aggressivo 
                  e intollerante dello straniero, è il classico portatore 
                  della mentalità Law and Order. Il bonobo no. Questa 
                  scimmia antropomorfa, che vive in una pacifica società 
                  matriarcale e che regola le questioni col sesso piuttosto che 
                  con la guerra, è l'idolo della nuova sinistra etologica. 
                  Tra l'altro, pare che non si faccia problemi di orientamento 
                  sessuale. È curioso quali connessioni improbabili possa 
                  attivare la lettura pressoché simultanea di libri diversissimi. 
                  Un esempio di ciò sono proprio le riflessioni sugli animali 
                  umanizzati che mi si sono prodotte dalla presentazione “sinottica” 
                  di tre testi. Il primo è quello del primatologo olandese 
                  Frans de Waal (Il bonobo e l'ateo. In cerca di umanità 
                  fra i primati, Raffaello Cortina editore, Milano, 2013), 
                  il secondo, uno dei tanti libri del sociologo polacco Zygmunt 
                  Bauman (Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, 
                  Bari, Laterza, 2007) e, l'ultimo, un manuale di psicoterapia 
                  (S. Sassaroli, R. Lorenzini, G.M. Ruggiero (a cura di), Psicoterapia 
                  cognitiva dell'ansia, Raffaello Cortina, Milano, 2006). 
                  Triade azzardata, lo so. Fatto è che il sociologo della 
                  società liquida, Bauman, cita Isahia Berlin che, a sua 
                  volta, riprende Archiloco. Quest'ultimo scrisse una favola intitolata 
                  “La volpe e il riccio” la cui morale è che, 
                  per quanto si possano conoscere molte vie e molti trucchi, come 
                  la volpe, nulla si può contro una sola idea che funziona 
                  (quella del riccio). 
                  Berlin propone una rilettura del testo di Archiloco finalizzata 
                  a caratterizzare e dividere in due gruppi gli scrittori e i 
                  pensatori più famosi della storia, ma, in fondo, gli 
                  uomini tutti. Platone, così, sarebbe un esponente della 
                  squadra dei “ricci”. Questi sono coloro i quali 
                  “riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema 
                  più o meno coerente e articolato, con regole che li guidano 
                  a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, 
                  unico e universale, il solo che può dare un significato 
                  a tutto ciò che essi sono e dicono». Sanno una 
                  cosa sola, ma è quella giusta, direbbe Archiloco. Sono 
                  guidati dall' etica del principio, direbbe, invece, il 
                  buon vecchio Max Weber. Si tratta di quel modo di agire che 
                  nasce da principi giusti a-priori e si preoccupa poco degli 
                  esisti dell'azione. In parole povere, il tipo di ragionamento 
                  di quel chirurgo che disse che l'operazione era perfettamente 
                  riuscita, ma il paziente era deceduto. Ci sono poi le “volpi”, 
                  come Aristotele. Questi non hanno certezze assolute e le loro 
                  azioni non sono unificate da un principio morale o estetico. 
                  Sono, insomma, pragmatici, talvolta incongruenti e, quindi probabilmente 
                  più propensi ad agire in base all'etica della responsabilità, 
                  cioè giudicando l' appropriatezza di una azione a posteriori, 
                  sulla base dei risultati. 
                  Berlin definisce “monismo” la prima condizione psicologica, 
                  quella del riccio, e “pluralismo” la seconda”, 
                  quella della volpe. Egli non esita a dare al monismo la responsabilità 
                  di tutte le feroci dittature che hanno funestato il XX secolo. 
                  Il monismo è fede in un principio, quindi è popperianamente 
                  infalsificabile, è certezza. La certezza diviene sempre 
                  zelo messianico. Lo zelo messianico produce cataste di cadaveri. 
                  Un comportamento da scimpanzè, diciamolo. Non solo perché 
                  strettamente legato all'intolleranza, ma perché connesso 
                  perfino con la territorialità. Ed eccoci alla psicologia. 
                  Berlin stesso, del resto, aveva già instaurato un parallelismo 
                  tra monismo, che è ricerca d'unità e sicurezza, 
                  e agorafobia, che è ricerca di un luogo chiuso 
                  e rassicurante. Il monista è chi cerca la sicurezza. 
                  Come l'agorafobico. Questi diffida dell'aria aperta e chiede 
                  porte chiuse (salvo lamentare mancanza d'aria). Al contrario, 
                  il pluralismo soffre di claustrofobia. Chiede aria, porte 
                  aperte, luce. Il pluralista sperimenta nuove idee e nuove soluzioni. 
                  Ciò lo porta ad essere molto più tollerante. Quello 
                  di cui l'umanità abbisogna, dunque, probabilmente, non 
                  è unità, perfezione, certezza, bensì scetticismo, 
                  pluralità, vale a dire incertezza e claustrofobia. Meno 
                  scimpanzé e più bonobo. Si, perché il bonobo 
                  è claustrofobico. 
                   
                  Ipocondria securitaria e agorafobia liquida 
                  La paura implica prudenza. Il mio manuale di psicologia definisce 
                  “strategia iperprudenziale” quel comportamento che 
                  i sociologi scoprono solo ora. Esiste, infatti, un chiarissimo 
                  correlato di massa fra agorafobia di interesse clinico e i comportamenti 
                  da angoscia sociale contemporanea. Bauman ne fa il tema del 
                  suo libro. La società contemporanea è “ossessionata” 
                  dal problema della sicurezza. Gli occidentali contemporanei 
                  hanno strutturato dei circoli viziosi tali da produrre una mole 
                  di rituali compulsivi a carattere assicurativo e preventivo 
                  di chiara marca ossessiva. Eppure, il sociologo Robert Castel 
                  lo dice chiaramente nella sua analisi sull'angoscia sociale: 
                  “viviamo senza dubbio – perlomeno nei paesi sviluppati 
                  – nelle società più sicure finora mai conosciute”. 
                  Gli individui più viziati di ogni tempo, invece, approcciano 
                  l'informazione mediatica con lo stesso spirito con cui un ipocondriaco 
                  legge un testo di patologia medica. Vi trova tutte le ragioni 
                  per sentirsi vicino all'olocausto. Terrorismo islamista, immigrazione 
                  clandestina, microcriminalità, sono tutti segni del dramma 
                  prossimo ed ineluttabile. Il bisogno di controllo che l'ansioso 
                  percepisce è basato su un' idea di fondo irrazionale, 
                  cioè che, oltre che utile, possedere il controllo sia 
                  doveroso e, soprattutto, possibile. Si legge nel manuale che 
                  “ciò che determina la patologia non è il 
                  desiderio di controllare “per quanto possibile” 
                  l'andamento delle cose, ma la certezza di poterlo fare” 
                  . Se ne deduce che, se non si riesce a raggiungere la certezza, 
                  si ritiene giocoforza che il problema sia il non essersi applicati 
                  abbastanza oppure la propria incapacità. L'effetto sarà 
                  quindi l'aumento del controllo con aumento della frustrazione 
                  e dell'ansia. Scrive a proposito dell'ansia sociale Z. Bauman, 
                  che psicologo non è, che “L'acuta e inguaribile 
                  esperienza dell'insicurezza è un effetto collaterale 
                  della convinzione che la sicurezza assoluta sia raggiungibile, 
                  con le giuste capacità e con uno sforzo adeguato (“si 
                  può fare”, “possiamo farcela”). E così, 
                  se viene fuori che non ce la si è fatta, l'insuccesso 
                  si può spiegare soltanto con un atto malvagio e malintenzionato. 
                  In questo dramma, un cattivo ci dev'essere”. L'effetto 
                  è l'aumento del controllo con aumento della frustrazione 
                  e dell'ansia. la sovrapponibilità dell'osservazione del 
                  sociologo a quella dello psicologo è totale. Qui, in 
                  più, c'è la costruzione di quelle che in criminologia 
                  si chiamano le “nuove classi pericolose” (immigrati 
                  extracomunitari, soprattutto). Come si ottiene, dunque, protezione 
                  da tutto ciò? Chiudendosi, separandosi. L'ipocondria 
                  securitaria sfocia nell'agorafobia sociale. L'alienazione urbana 
                  della Los Angeles descrittaci anni fa da Davis (M. Davies, L'agonia 
                  di Los Angeles, Datanews, 1994) come vero laboratorio della 
                  medievalizzazione dei tessuti metropolitani, con tanto di cittadelle 
                  indipendenti, ponti levatoi, bravi prezzolati e telecamere ad 
                  ogni angolo a definire l'avverarsi della distopia del “panoptikon”, 
                  è ormai dilagata al resto delle metropoli. San Paolo 
                  del Brasile ne è uno degli esempi più eclatanti, 
                  ma la parcellizzazione armata è processo dal quale nessuna 
                  città è immune. I muri e l'orientamento delle 
                  telecamere distinguono “noi” da “loro”, 
                  dividono l'ordine dalla natura selvaggia. Si tratta di una spinta 
                  verso delle comunità di simili, allontanamento agorafobico 
                  dall'alterità esterna e, al contempo, rinuncia all'interazione 
                  interna, riducendosi l'interno ad essere un blob uniformato 
                  e indifferenziato. La “comunità degli identici” 
                  è una polizza assicurativa contro i rischi del plurale, 
                  della polifonia del mondo esterno, ma anche, ci ricorda Berlin, 
                  assicurazione di eccesso di zelo. Ad esempio, zelo nell'allontanare, 
                  in base allo ius excludendi alios connesso alla proprietà. 
                   
                  Anarco-ricci fra inferno e utopia  
                  In Italia certo sedicente “anarcocapitalismo” secessionista, 
                  commistione di reazione e rivoluzione, di autodeterminazione 
                  western e culto identitario, è l' espressione strapaesana 
                  di questi fermenti metropolitani. Qui gli spazi da delimitare 
                  diventano quelli di indefinite “nazioni per consenso” 
                  (concetto mutuato dall'ultimo, contraddittorio, Rothbard), compattate 
                  artificialmente della provinciale paura agorafobica. “Mixofobia” 
                  è il termine utilizzato da Zygmunt Bauman per definire 
                  questa reazione “iperprudenziale” per gestire l'ingestibile, 
                  ossia la connaturata diversità dell'umano. Una utopia, 
                  come tutte le utopie destinata a produrre molte infelicità, 
                  come ben sa l'agorafobico. La mixofobia, quindi, è l'agorafobia 
                  del mondo liquido, di quel mondo, cioè, in cui 
                  la velocità dei processi è tale da impedire la 
                  cristallizzazione dei fatti sociali in dati strutturali, in 
                  cui le modalità sono cangianti e inafferrabili e nel 
                  quale sono venute meno le agenzie collettive di sicurezza (welfare 
                  state ecc.). Che a produrre tale forma di “chiusura a 
                  riccio” – espressione che qui è proprio il 
                  caso di usare - sia un aggregato di individui che si rifanno 
                  alla cultura “libertarian” è decisamente 
                  paradossale, visto che questa si propone quale forma estrema 
                  e compiuta dell'idea “liberale”, un'idea, cioè, 
                  che si fonda proprio sul confronto e la libera sperimentazione 
                  in assenza di verità universali. Proprio la cultura liberale, 
                  intesa come ethos, ha prodotto, con la caduta degli assoluti, 
                  “le società più sicure di sempre” 
                  di cui parla Castel. E la globalizzazione di cui cantano le 
                  lodi è lo stesso fenomeno da cui si difendono. Dimentichi 
                  del passato da volpe, i nostri “libertari” si palesano 
                  quali ricci ben colmi di aculei e si fanno cartina di tornasole 
                  della deriva liberale. Significativo, ed estremamente esplicativo, 
                  notare che, al suo primo affacciarsi, sul finire degli anni 
                  settanta, il libertarismo di mercato italiano si presentava 
                  con una rivista intitolata Claustrofobia. Al suo ripresentarsi, 
                  il think thank anarco-capitalista ha propagandato il proprio 
                  pensiero, orgogliosamente politicamente scorretto, da una rivista 
                  denominata Enclave... 
                  La reazione allo stato di cose prodotte dalla modernità, 
                  infatti, può essere di tipo regressivo o progressivo. 
                  Nel primo caso, si può cadere in una romantica nostalgia 
                  per un mondo premoderno in cui la comunità era la sicura 
                  cornice dell'attività umana. Vi rientra lo stesso Bauman, 
                  col suo disdegno dell'individualismo “moderno” e 
                  la sua fiducia nel socialismo, ma, paradossalmente, e per gli 
                  stessi motivi, anche una parte non piccolissima dell'anarchismo. 
                  Poi c'è il sistema della volpe (e, un po', del bonobo). 
                  Quello del pluralismo, del meticciato, del confronto, della 
                  libera sperimentazione. Questa è l'opzione, in senso 
                  lato, libertaria. Intendo sotto questa etichetta una concezione 
                  trasversale che contiene ogni pensare “liquido”, 
                  nemico, cioè, della scelerotizzazione, e che può 
                  ritrovarsi nell'ethos anarchico come in quello liberale delle 
                  origini. I nostri anarcocapitalisti “paleolibertari” 
                  (così si chiamano), pur affermando di richiamarsi a quell'ethos, 
                  sia in quanto “anarchici”, sia in qualnto “liberali”, 
                  rischiano spesso di utilizzare la prima delle due scelte proposteci 
                  da Italo Calvino nel suo Le città invisibili: 
                  Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile 
                  a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto 
                  di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed 
                  esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere 
                  riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, 
                  e farlo durare, e dargli spazio. 
                  Affiancare secessionismo para-leghista, mixofobia, urbanistica 
                  securitaria privata, rivolta fiscale e integralismo cattolico 
                  è sicuramente la scelta di diventare parte dell'inferno. 
                  Forse di alimentarlo. La seconda opzione spetta a chi non vuole 
                  contribuire a questa causa. Coloro, poi, che vogliono sostituire 
                  all'inferno il paradiso seguendo scrupolosamente il loro catechismo 
                  non fanno che denunciare il loro monismo. Hanno una soluzione 
                  sola, ma è quella giusta, quindi essi sono l'inferno. 
                  Ricci e volpi possono non essere così riconoscibili al 
                  primo sguardo. E fino a pochi anni fa il bonobo era considerato 
                  una specie di scimpanzè. 
                 Luigi Corvaglia 
                  Casarano (Le) 
   
                  Arrestati no-Tav/Chi non volta lo sguardo 
                Ospitiamo qui due lettere, relative alle vicende giudiziarie 
                  e carcerarie di quattro arrestati lo scorso dicembre per episodi 
                  connessi con la lotta no-Tav in val di Susa nel maggio 2013. 
                  Una l'hanno scritta i familiari di Chiara Zenobi, Claudio Alberto, 
                  Niccolò Blasi e Mattia Zanott, l'altra tre loro avvocati. 
                   
                  I familiari/Un Paese in crisi di credibilità 
                   
                  In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone 
                  arrestate il 9 dicembre con l'accusa, tutta da dimostrare, di 
                  aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell'assalto 
                  è stato danneggiato un compressore, non c'è stato 
                  un solo ferito. Ma l'accusa è di terrorismo perché 
                  “in quel contesto” e con le loro azioni presunte 
                  “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione 
                  e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d'immagine. Ripetiamo: 
                  d'immagine. L'accusa si basa sulla potenzialità di quei 
                  comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato 
                  di terrorismo colposo, l'imputazione è quella di terrorismo 
                  vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria 
                  di tutti corre spontanea: le stragi degli anni 70 e 80, le bombe 
                  sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, 
                  grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, 
                  che uccideva, che, appunto, terrorizzava l'intera popolazione. 
                  Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre 
                  avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, 
                  hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. 
                  Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli 
                  orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che 
                  li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato 
                  spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita 
                  di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti 
                  i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso 
                  i loro siti. È forse questa la popolazione che sarebbe 
                  terrorizzata? E può un compressore incendiato creare 
                  un grave danno al Paese? 
                  Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in 
                  crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all'improvviso 
                  terroristi per danno d'immagine con le stesse pene, pesantissime, 
                  di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. È un passaggio 
                  inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da 
                  domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall'alto 
                  potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in 
                  teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe 
                  essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d'immagine. 
                  È la libertà di tutti che è in pericolo. 
                  E non è una libertà da dare per scontata. 
                  Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari 
                  ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l'isolamento, 
                  due ore d'aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le 
                  lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, 
                  arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano 
                  affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta 
                  Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una 
                  distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle 
                  loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili 
                  vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro 
                  e in alcuni casi l'isolamento totale. Tutto questo prima ancora 
                  di un processo, perché sono “pericolosi” 
                  grazie a un'interpretazione giudiziaria che non trova riscontro 
                  nei fatti. 
                  Questa lettera si rivolge: 
                  ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino 
                  il loro compito di informare, perché valutino tutti gli 
                  aspetti, perché trovino il coraggio di indignarsi di 
                  fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna 
                  durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, 
                  secondo l'accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe 
                  stato presente quando è stato fatto; 
                  agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. 
                  Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un 
                  posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande 
                  opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche 
                  spicciolo dall'Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista; 
                  alla società intera e in particolare alle famiglie come 
                  le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica 
                  i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare 
                  lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha 
                  bisogno di noi. 
                  Grazie.
                  I familiari di Chiara, Claudio, Mattia 
                  e Niccolò
                  Gli avvocati/Trattamento inumano e degradante 
                   
                  Chiara Zenobi, Claudio Alberto, Niccolò Blasi e Mattia 
                  Zanotti, i giovani No Tav arrestati all'inizio di dicembre 2013 
                  e accusati dell'assalto al cantiere dell'alta velocità 
                  di Chiomonte, avvenuto il 13-14 maggio 2013, sono stati trasferiti 
                  nelle scorse settimane dal carcere di Torino nei reparti ad 
                  Alta sicurezza delle case circondariali di Roma, Ferrara e Alessandria. 
                  Il regime detentivo a cui sono attualmente sottoposti è 
                  più rigido rispetto a quello previsto per gli altri detenuti 
                  in regime di Alta sicurezza, che prevede già, come è 
                  noto, una forte attenuazione delle opportunità trattamentali 
                  ed un regime di socialità specifico e più ridotto 
                  rispetto a quello dei detenuti definiti “normali”. 
                  Nessuno di loro ha la possibilità di avere colloqui con 
                  i rispettivi conviventi. La loro posta in entrata e uscita è 
                  sottoposta a censura. 
                  Nonostante fino a poche settimane si incontrassero regolarmente 
                  in sezione e ai colloqui con i difensori, Blasi e Zanotti hanno 
                  attualmente un divieto di incontro tra loro. Questo divieto 
                  ha come conseguenza una sensibile riduzione delle loro ore d'aria 
                  (visto che sono costretti a farle a turno), che da sei sono 
                  diventate tre. 
                  Claudio Alberto si trova nella situazione più preoccupante. 
                  A causa del divieto di incontro con due dei tre detenuti presenti 
                  nella sezione ad Alta sicurezza, e della scelta del terzo di 
                  svolgere la socialità unitamente agli altri due, Claudio 
                  Alberto, dalla data del suo trasferimento, avvenuto a fine gennaio, 
                  si trova in una situazione di completo isolamento, tanto più 
                  grave se si pone mente alla sua giovane età e alla circostanza 
                  che si tratta della sua prima esperienza carceraria. 
                  In più occasioni la Corte europea dei diritti dell'uomo 
                  e il Comitato europeo per la prevenzione contro la tortura hanno 
                  sostenuto che l'isolamento carcerario, in considerazione della 
                  grave sofferenza psichica che ne deriva, può configurare 
                  un un trattamento inumano e degradante che viola l'art. 3 della 
                  convenzione europea dei diritti dell'uomo. Perché ciò 
                  non si verifichi, tale misura deve essere contenuta nel tempo 
                  (non superare mai i 14 giorni), essere giustificato da comportamenti 
                  straordinari e specifici del soggetto e non essere totale, vale 
                  a dire che non è possibile vietare al detenuto qualsiasi 
                  contatto sociale con gli altri soggetti ristretti in carcere. 
                  L'isolamento e le altre restrizioni a cui sono sottoposti i 
                  nostri assistiti vengono giustificate dalla Procura di Torino 
                  con ragioni investigative, che, peraltro, nessuna autorità 
                  giudiziaria si è preoccupata di vagliare e verificare. 
                  Ma l'ordinamento penitenziario, all'art. 33, ammette l'isolamento 
                  degli imputati solo durante la fase delle indagini. Nel nostro 
                  caso, le indagini sono da tempo concluse e gli imputati sono 
                  stati già rinviati a giudizio per il dibattimento, fissato 
                  per il prossimo 14 maggio. 
                  Il regime detentivo a cui sono attualmente sottoposti gli imputati 
                  si risolve in un inasprimento generalizzato del grado di afflittività 
                  della misura cautelare a loro imposta e in una compressione 
                  dei loro diritti, in contrasto con l'insegnamento della Corte 
                  di cassazione, che ha più volte affermato come sia “principio 
                  di civiltà che a colui che subisce una restrizione carceraria 
                  ... sia garantita quella parte di diritti della personalità 
                  che neppure la pena detentiva può intaccare”. 
                 Avvocati Eugenio Losco, Claudio Novaro, 
                  Giuseppe Pelazza 
                  Torino – Milano, 19 febbraio 2014 
                       
                
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
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                           Sottoscrizioni. Biblioteca Comunale (Fino 
                            Mornasco – Co) 40,00; Aurora e Paolo (Milano) 
                            ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; 
                            Carlo Capuano (Roma) 45,00; Attilio A. Aleotti (Pavullo 
                            nel Frignano – Mo) 10,00; Fulvio Casara (Venasca 
                            – Cn) 10,00; Santi Rosa (Novara) 10,00; Saverio 
                            Nicassio (Bologna) 10,00; Claudio Stocco (Saonara 
                            – Pd) 10,00; Alessandro Natoli (Cogliate – 
                            Mb) 10,00; Dino Delcaro (San Francesco al Campo – 
                            To) 10,00; Sergio Pozzo (Arignano – To) 10,00; 
                            Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 10,00; Gualtiero 
                            Mannelli (Pistoia) 10,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca 
                            (Senigallia – An) 10,00; Aldo Curziotti (San 
                            Andrea Bagni – Pr) 20,00; Luigi Vivan (San Bonifacio 
                            – Vr) 10,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00; 
                            Marvi Maggio (Firenze) 40,00; Romeo Muratori (Rimini) 
                            20,00; Roberto Barison (Montechiaro d'Asti – 
                            At) 50,00; Davide Giovine (Luserna San Giovanni – 
                            To) 15,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo – 
                            Sa) 40,00; Franco Frascolla (Olgiate Molgora – 
                            Lc) 150,00; Giorgio Bigongiari (Lucca) 10,00; Pietro 
                            Steffenoni (Lodi), 40,00; Mirko Piras (Nulvi – 
                            Ss) 10,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa 
                            – Fi) 20,00; Collettivo d'Agraria dell'Università 
                            (Firenze) 10,00; Rino Quartieri (Zorlesco – 
                            Lo) 100,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri 
                            Ponente) 4,70; Milena Morniroli (Clermont-Ferrand 
                            – Francia) ricordando Paolo, Marina e Fiorenzo, 
                            100,00; Davide Gherardi (Blogna) 20,00; Pasquale Messina 
                            (Milano) “ricordando mio padre”, 50,00. 
                            Totale € 1.374,70. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Carlo 
                            Brunati (Como); Giuseppe Lo Piccolo (Pully – 
                            Svizzera); Francesco Barba (Villanuova sul Clisi – 
                            Bs) 200,00; Roberto Panzeri (Valgreghentino – 
                            Lc); Andrea Albertini (Bolzano) 150,00; Gudo Bozak 
                            (Treviso) 300,00; Tiziano Viganò (Casatenovo 
                            – Lc) ricordando Pierluigi Magni e Franco Pasello, 
                            saluti a tutti: amore, antimilitarismo, antiautoritarismo, 
                            anticlericalismo, autogestione; Gianluigi Tartaull 
                            (Ravenna); Lucio Brunetti (Campobasso); Michele Pisicchio 
                            (Roma); Michele Piccolrovazzi (Rovereto – Tn); 
                            Fabio Palombo (Chieti) 200,00; Massimo Locatelli (Inverigo 
                            – Co); Ermanno Battaglini (Oria – Br) 
                            150,00; Jean-Pierre Nuenlist (Riva San Vitale – 
                            Svizzera) 300,00; Matteo Gandolfi (Genova); Gianfranco 
                            Di Nardo (Roma); Giancarlo Gioia (Grottammare – 
                            Ap); Luca Vitone (Milano); Claudio Venza (Trieste); 
                            Fabio Leone (Sedriano – Mi); Pietro Steffenoni 
                            (Lodi); Tommaso Bressan (Forlì) 140,00; Liana 
                            Borghi (Firenze); Augusto Piccinini (Campiano – 
                            Ra); Andrea Pasqualini (Vestenanuova – Vr); 
                            Oreste Roseo (Savona) ricordando Umberto Marzocchi, 
                            Ugo Mazzucchelli e Mario Mantovani, 150,00. Totale 
                            € 3.490,00. 
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