I vermi dell'artivista 
                 In 
                  quale stato potrebbe capitarvi di vedere poliziotti solidarizzare 
                  con l'estrema destra nelle piazze? In quale stato trovereste 
                  un'occupazione giovanile che oscilla intorno al 40%? 
                  In quale stato non trovereste stime concordanti riguardo al 
                  numero dei morti sul lavoro? 
                  In quale stato potreste assistere a folli spese militari da 
                  parte del governo durante un periodo di pesante crisi economica? 
                  Be', se vivete in Italia e per di più siete giovani disoccupati 
                  o operai cassa integrati non vi sarà difficile trovare 
                  una risposta a questi interrogativi. 
                  E se la situazione del paese vi sembra irreale ancora più 
                  strane a riguardo vi potranno apparire le riflessioni di due 
                  vermi. 
                  Ora, in molti avranno pensato a due persone di cui hanno molta 
                  poca stima, ma qui si parla di vermi... vermi: animali invertebrati 
                  caratterizzati da forma allungata. 
                  Vermi di Rouge è il progetto dell'artivista, così 
                  gli piace essere definito, Simone Rossoni in arte Rouge, appunto, 
                  che racconta le vicissitudini di due vermi, rigorosamente gialli, 
                  uno a righe e uno a pallini, che si svolgono sullo sfondo della 
                  situazione italiana e internazionale. 
                  Un progetto che inizia come un passatempo, ma che presto diventerà 
                  per l'autore un'esigenza; molte le vignette satiriche realizzate: 
                  536 ad ora. 
                  Sfogliando le tavole di Rouge vi divertirete a vedere l'evoluzione, 
                  non solo grafica, dei suo “personaggi”; li ritroverete 
                  coinvolti in diverse situazioni dal G8 di Genova, passando per 
                  la Palestina e la Siria, fino ad arrivare in Val di Susa. 
                  Comunque i suoi vermi non si sono accontentati della carta stampata, 
                  presto hanno deciso di uscire allo scoperto e di arrampicarsi 
                  su muri e pareti. 
                  Se abitate a Milano non potrà certo sfuggirvi il lavoro 
                  realizzato sul muro all'entrata del centro sociale Torchiera, 
                  dove compare un grosso verme, giallo e sorridente, accompagnato 
                  dalla frase: “Sarà una risata...”. 
                  Se invece vi venisse voglia di farvi una pedalata in mezzo alle 
                  campagne dovreste assolutamente passare da Castellazzo de Barzi, 
                  una piccola frazione di Robecco S/N, dove i vermi hanno addirittura 
                  esagerato, con un murales di 2,5x25 metri. L'opera, che rappresenta 
                  una strada circondata dal granoturco, vuole tenere alta l'attenzione 
                  sulla costruzione della Toem (Tangenziale ovest esterna Milano), 
                  prolungamento della Tangenziale est, in un territorio prevalentemente 
                  agricolo. 
                  Una delle loro ultime uscite pubbliche si può ammirare 
                  all'esterno del centro sociale Sos Fornace di Rho, con un dipinto 
                  di 60x3 metri, dove i nostri due invertebrati se la vedono con 
                  il letale eternit.
                
   
                  A partire dal 2011 i vermi danno vita a una collana dal titolo 
                  Vermi: una società che striscia, edita da La Memoria 
                  del Mondo Libreria Editrice. 
                  Il primo libro della serie dal titolo Io “disegno di 
                  legge” (ovvero il pacchetto sicurezza), raccoglie 
                  le tavole realizzate da Rouge in risposta alla redazione del 
                  decreto legge n. 733B, il famoso “Pacchetto sicurezza”. 
                  All'interno del libretto troverete ogni vignetta accompagnata 
                  da un testo che illustra le vergognose modifiche normative introdotte 
                  dal decreto. 
                  Non passa molto tempo che arriva in libreria I vermi, la 
                  guerra e i diritti umani. Il volume è suddiviso in 
                  due parti: la prima ospita i lavori che raccontano la guerra 
                  nelle sue diverse forme, la seconda invece raccoglie una serie 
                  di vignette sui diritti umani. 
                  Ma se il proverbio dice che non c'è due senza tre... 
                  il 1 maggio 2013 esce In quale Stato? Vermi, una società 
                  che striscia. Vol. 3 (2013, pp. 48, e5,00): un vero tributo 
                  ai lavoratori. 
                  Nel libro sono raccolte alcune tavole che ci raccontano di precariètà, 
                  diritti negati, privilegi e sfruttamento, il tutto condito con 
                  la solita ironia dei vermi. 
                  All'interno troverete anche diverse fotografie di alcune opere 
                  di street art. 
                  Prima tra tutte il bellissimo dipinto che dà il titolo 
                  al volume e che si può ammirare sulle pareti del circolo 
                  arci Paz di Castano Primo (Mi) realizzato a quattro mani con 
                  Giorgio Aquilecchia. L'opera riprende il famoso quadro di Giuseppe 
                  Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, anche se stavolta 
                  al posto dei consueti lavoratori in marcia troverete dei vermi 
                  che strisciano con le tasche vuote. 
                  “In quale Stato?” è una raccolta di sensazioni 
                  e di impressioni sul nostro tempo; un'opera socialmente impegnata 
                  e consapevole. 
                  Un libro che come ricorda l'autore non ci darà risposte, 
                  ma solo altre domande, ricco di “riflessioni e sfoghi 
                  personali. Il tutto farcito con dei bei sorrisi. Sorrisi a denti 
                  stretti, strettissimi, praticamente digrignati.” 
                
  Camilla Galbiati 
                   
                   
                    Alle 
                  radici dell'odio
                   contro i diversi 
                Riassumere poco meno di cinquecento pagine non è compito 
                  agevole, ma il libro di Theodore S. Hamerow Perché 
                  l'olocausto non fu fermato (Feltrinelli, Milano 2012, Universale 
                  economica, pp. 491, € 14,00) è una lettura da segnalare 
                  perché tratta in modo quasi esaustivo l'insieme delle 
                  cause che portarono allo sterminio nazista degli ebrei. Il “quasi” 
                  è d'obbligo, rimane infatti il lato d'ombra di un odio, 
                  che pur palesemente costruito nei secoli, sembra mantenere non 
                  poco di inspiegabile, proprio in quell'accanirsi a infierire, 
                  che travalica le circostanze storiche, politiche e sociali riguardanti 
                  un gruppo. 
                  La costruzione dell'odio contro i diversi è forse indice 
                  di una paura, e proprio per questo con più facilità 
                  lo si comprende e condanna, ma odiare un intero popolo, anche 
                  quando i suoi membri sono palesemente integrati e spesso nemmeno 
                  distinguibili da altri cittadini, è cosa ben meno chiara. 
                  Gli esempi che vengono in mente non per caso inquietano, e sono 
                  quelli dell'odio razziale per i neri, perché neri, e 
                  della misoginia che giunge all'omicidio diffuso di donne adulte 
                  e in certi paesi al femminicidio di feti femmina e neonate, 
                  solo perché di sesso femminile, con aborti selettivi 
                  o uccisione alla nascita. Si parla quindi di una non accettazione 
                  estrema che colpisce qualcuno per ciò che è, non 
                  per quello che fa. 
                  Tutti ci siamo posti la domanda sul perché non fu fermato 
                  l'olocausto. Ci sono prove, inoppugnabili, che i governi alleati 
                  sapevano molto, di certo dal 1942 sapevano quasi tutto, e Hamerow 
                  lo documenta in questo libro, ma la realpolitik e le 
                  sorti incerte della guerra divisero uomini di stato, parlamentari 
                  e la stessa opinione pubblica. Il dibattito fu vivace e ricorda 
                  molto quello attuale sulle sorti dei migranti, ma anche nel 
                  migliore dei casi, non ci fu allora una presa d'atto dell'urgenza 
                  di salvare vite indifese. Solo la sinistra radicale, negli Stati 
                  Uniti, si espresse con veemenza e coraggio più volte, 
                  ma rimase l'eccezione. 
                  Gran Bretagna, Usa, Canada e la stessa Unione Sovietica temevano, 
                  nelle figure di chi governava o era in parlamento o a capo del 
                  partito, l'accusa di essere manipolati dai banchieri ebrei e 
                  dall'altro lato, gli ebrei delle classi privilegiate non volevano 
                  essere indicati come una setta che teneva le redini dei governi 
                  agendo nell'ombra con l'influenza del proprio denaro. Venne 
                  così sminuita o occultata la realtà delle deportazioni 
                  che riguardavano la maggioranza della popolazione ebraica degli 
                  stati dell'est Europa. 
                  Gente povera quest'ultima, spesso poverissima, che da secoli 
                  era parte viva di villaggi sperduti dove non mancavano pogrom 
                  pesanti né le persecuzioni di ogni giorno. 
                  Le fondamenta dell'odio risalivano a molto indietro nel tempo, 
                  ma ancora negli ultimi decenni del XIX secolo e nei primi del 
                  XX secolo qualunque cosa gli ebrei facessero venivano accusati 
                  delle cose peggiori: quando l'impedimento a scegliere e a praticare 
                  un mestiere li portava a prestare del denaro a interesse, erano 
                  usurai dipinti a tinte fosche, l'avidità a segnarli perfino 
                  nei tratti somatici; quando sceglievano la fratellanza universale, 
                  e furono tantissimi i rivoluzionari usciti dai ghetti, erano 
                  fautori di un complotto comunista per distruggere le radici 
                  dei paesi cristiani; quando raggiunsero, più tardi, i 
                  vertici nelle professioni aperte ormai anche a loro, miravano 
                  a impossessarsi del mondo eccetera. 
                  Molti scelsero, a un certo punto, di essere, non più 
                  ebrei, ma tedeschi, francesi, inglesi. L'integrazione non era 
                  una parola, ma un fatto. Questo fatto, quando fu evidente che 
                  le loro capacità li portavano ai vertici delle professioni, 
                  gli venne ritorto contro. 
                  Pensatori e scrittori di destra e a volte (duole dirlo) di sinistra 
                  fecero sponda o adottarono una linea ambigua, contro cittadini 
                  della loro stessa nazione, ma di diversa religione. 
                  Se in Francia erano apertamente antisemiti alcuni tra gli intellettuali 
                  più noti vicini all'Action Francaise, meno conosciuta 
                  ma altrettanto contorta è la posizione di scrittori e 
                  pensatori di fede democratica e progressista, di cui H.G. Wells 
                  autore della Macchina del tempo è un esempio. 
                  Wells scriveva nel 1936: “Quello che tiene insieme [gli 
                  ebrei] è una tradizione biblica. talmudica ed economica. 
                  La solidarietà è stata loro imposta dall'ostilità 
                  che la loro tradizione provocava. È una tradizione che 
                  dà grande importanza all'avidità materiale.” 
                  Di conseguenza essi: “Arrivano si infiltrano prendono 
                  il controllo” (p. 113). Per Wells l'ebreo è sempre 
                  uno straniero con una mentalità straniera, non interessato 
                  al bene comune e ad essere un buon cittadino (p. 114). Lo scrittore 
                  inglese avrebbe potuto essere smentito con facilità, 
                  ma si vede ciò che si vuole vedere e spesso non si verificano 
                  le affermazioni, né si chiede a chi scrive di esporre 
                  le prove di quello che crede reale. 
                  Tutto sprofonda in generalizzazioni che risultano comode quanto 
                  efficaci sui lettori superficiali e sulle masse. Se avete dei 
                  dubbi pensate ai luoghi comuni razziali su neri e arabi o a 
                  quelli di genere per le donne. Confutati, riprendono vigore 
                  di volta in volta, spesso come storielle che assumono l'osceno 
                  sapore della pura denigrazione. Tale è il potere di chi 
                  parla da una posizione di privilegio. 
                  I leader occidentali, a conflitto iniziato, consapevoli che 
                  si stava attuando di fatto uno sterminio, scelsero di dare priorità 
                  alla guerra. Vincere e quindi fermare quella macchina di morte 
                  che era il nazismo fu considerata l'unica soluzione. Colpirono 
                  le città tedesche e gli impianti industriali, e indebolirono 
                  il Reich, ma non vennero bombardate le linee di comunicazione 
                  da cui dipendevano i nazisti per i loro trasporti di essere 
                  umani destinati alla morte. 
                  Hamerow non tralascia alcun aspetto del dibattito di allora. 
                  Le domande bruciano anche adesso. 
                  L'autore non si scaglia contro le democrazie, né contro 
                  l'Urss. Esamina ogni volta, anno per anno, le ragioni di ognuno, 
                  i fatti, i rapporti di forza e le leggi in atto in tema di immigrazione 
                  ed emigrazione. Si ha l'impressione che fin dal 1933 qualcosa 
                  sfuggì ai politici, alla stampa e alle persone comuni 
                  di ogni ceto e certo sfuggì che gli effetti delle persecuzioni 
                  razziali potevano assumere anche forme più cruente. Anche 
                  dopo il 1941, per i cittadini delle democrazie, male informati, 
                  lo sterminio scientifico di esseri umani a milioni non era nemmeno 
                  pensabile. 
                  I paesi europei, non governati dai fascisti, ma lo stesso vale 
                  per gli Usa e l'Urss, avrebbero potuto e dovuto impegnarsi di 
                  più, ma tacque chi sapeva per timore di essere indicato 
                  come una marionetta dei banchieri ebrei e la classe agiata e 
                  parte dell'intellighenzia ebraica a loro volta rimasero quasi 
                  silenti perché non si dicesse che avevano voluto la guerra. 
                  A discolpa parziale delle persone comuni resta la tragedia di 
                  un conflitto che travolse l'intero continente gettando tutti 
                  nella confusione e ancora prima, va ricordato, pesò non 
                  poco la complessità di una crisi economica devastante 
                  che finì per dare forza al nuovo totalitarismo di Hitler. 
                  Quando la realtà dello sterminio fu rivelata era ormai 
                  tardi. 
                  Sui sensi di colpa, ancora vivi, delle nazioni e delle popolazioni 
                  coinvolte si potrebbe dire molto, tuttavia l'antisemitismo non 
                  è finito con i milioni di morti. Qualcosa di tenace resiste, 
                  come un tanfo, un odore che risale il tempo rivelando un bisogno 
                  di capri espiatori (ebrei, rom, donne, bambine, gente di colore) 
                  non per un atavico bollore del sangue che mai è stato 
                  provato, ma per mancanza di pensiero, parola e sentire liberi, 
                  dove libertà è riuscire a pensare gli altri non 
                  come massa o gruppo, ma solo nella singolarità del loro 
                  essere nel mondo.
                  Nadia Agustoni 
                   
                   
                    Una 
                  cassetta degli attrezzi per
                   l'auto-educazione 
                Elèuthera ha da poco pubblicato una nuova edizione 
                  del Lessico minimo di pedagogia libertaria 
                  (pp. 176, € 14,00) di Filippo Trasatti. Ne riprooduciamo 
                  qui la prefazione di Francesco Codello. 
                   
                  La storia dell'educazione libertaria è ai più 
                  sconosciuta. Ma questo patrimonio di idee ed esperienze è 
                  vivo e concretamente sperimentato in diverse parti del mondo. 
                  Anche questa realtà attuale è perlopiù 
                  sconosciuta sia dal grande pubblico che, e questo è più 
                  preoccupante, dai cosiddetti addetti ai lavori (insegnanti, 
                  educatori, genitori). Non parliamo poi delle sedi ufficiali 
                  del sapere pedagogico, come le università e gli istituti 
                  scolastici di vario ordine e grado, che beatamente ignorano 
                  (tranne poche eccezioni) questa ricchezza sia storica che esperienziale. 
                  Nonostante tutto questo occultamento, talvolta ideologico talvolta 
                  semplicemente ignorante, se noi entriamo all'interno del dibattito 
                  pedagogico attuale possiamo riscontrare che molte delle tradizionali 
                  intuizioni libertarie sono diventate patrimonio comune: la coeducazione 
                  dei sessi, l'obiettivo dello sviluppo armonico e integrale della 
                  personalità, il fare come condizione indispensabile di 
                  un apprendimento profondo, un certo antiautoritarismo e una 
                  relazione più rispettosa dei tempi e dei progressi dei 
                  bambini/e, ecc. Ma l'acquisizione di idee e la progettazione 
                  di interventi coerenti con esse, non ha impedito una sottile 
                  ma più profonda deriva autoritaria nel sistema di istruzione 
                  e di educazione più diffuso. In sostanza, il portare 
                  a sistema organizzativo strutturato, pratiche e intuizioni educative 
                  innovative rispetto al passato, sembra non aver prodotto una 
                  profonda trasformazione in senso autenticamente libertario delle 
                  relazioni educative e di istruzione oggi praticate nei diversi 
                  contesti istituzionali. Se quindi da un lato possiamo cogliere 
                  una nuova sensibilità terminologica, tale da indurci 
                  a pensare che l'antiautoritarismo sia divenuto pratica comune 
                  e accettata, dall'altra non possiamo non individuare una deriva 
                  concretamente autoritaria nei contesti educativi. 
                  Il motivo principale di questo fatto risiede, a mio giudizio, 
                  innanzitutto nell'impossibilità di inserire pienamente 
                  stili, contenuti, forme, relazioni, di marca autenticamente 
                  libertaria, in un sistema organizzato e strutturato autoritariamente 
                  come è quello appunto scolastico, famigliare, esperienziale 
                  attuale. Ma soprattutto perché una autentica rivoluzione 
                  copernicana del rapporto educativo tra adulto e bambino/a non 
                  solo non è avvenuta ma, anzi, viene sistematicamente 
                  ignorata quando non apertamente osteggiata. Infatti nelle discussioni 
                  e nelle sperimentazioni (ormai poche per la verità) in 
                  ambito educativo e di istruzione l'attenzione è sempre 
                  più posta sull'innovazione tecnologica, sulla didattica 
                  strumentale, sulla necessità di classificare i comportamenti 
                  dei bambini/e e alunni/e in modo sempre più preciso e 
                  puntiglioso, su una valutazione che si vuole meritocratica, 
                  su modelli organizzativi sempre più frammentati e segmentati, 
                  su ingegnerie tecniche volte a razionalizzare costi e tempi, 
                  ecc. Poco spazio è rimasto a quelle pratiche attive che 
                  avevano aperto uno spiraglio di luce per superare modalità 
                  frontali di educazione e istruzione. 
                  Ciò che è prevalso ormai, è una definitiva 
                  impostazione sottilmente gerarchica, che ha ampliato una realtà 
                  fortemente adulto-centrica nella relazione educativa e istruttiva. 
                  Sostanzialmente si tratta del trionfo della gerarchizzazione 
                  adulto-bambino non più fondata su una evidente forma 
                  di autoritarismo ma, piuttosto, su suadenti e condizionanti 
                  strumenti sofisticati che comunque non annullano, anzi ampliano, 
                  la supremazia dell'adulto. Anche operatori, insegnanti, genitori, 
                  politicamente progressisti, non escono quasi mai da uno schema 
                  di questo genere. I tempi, gli spazi, l'organizzazione dei contesti, 
                  rispondono ancora di più alle esigenze e ai bisogni, 
                  ma anche al ruolo codificato, degli adulti, intorno ai quali 
                  vengono piegate le esigenze dei più piccoli. Insomma 
                  la centralità è posta, nella realtà e con 
                  buona pace delle dichiarazioni d'intento, sull'insegnamento 
                  (spazio dell'adulto) e non sull'apprendimento (spazio del bambino/a). 
                  La vera e profonda rivoluzione consiste infatti nel capovolgere 
                  per davvero questa logica, partendo dai tempi, dai modi, dell'apprendimento 
                  di ogni singolo, attorno ai quali modellare un'organizzazione 
                  completamente diversa. Insomma affermare nei fatti la centralità 
                  della domanda, dell'incidentalità, della curiosità 
                  e della ricerca, condivise, in una relazione autenticamente 
                  antiautoritaria. Per fare questo è indispensabile un 
                  grande lavoro su di sé, un confronto-ascolto dell'altro 
                  da sé, un sistema di osservazione veramente aperto, una 
                  continua verifica dei risultati non per declinare inopportune 
                  valutazioni docimologiche, quanto piuttosto per ricostruire 
                  condivise e concordate nuove ricerche e nuove piste di lavoro. 
                  Queste premesse sono alla base invece di un variegato (sia geograficamente 
                  che culturalmente) arcipelago di esperienze scolastiche che 
                  si nutrono di una tradizione di pensiero, ma anche di storia, 
                  veramente libertaria. Senza ricorrere qui alle tradizionali 
                  (e più conosciute in ambito libertario) sperimentazioni 
                  di Paul Robin, Sébastien Faure, Francisco Ferrer y Guardia, 
                  Lev Tolstoj, e altri educatori raccontati in ambito storiografico, 
                  a partire dal 1921 con la fondazione della scuola (ancor oggi 
                  funzionante) di Summerhill in Inghilterra da parte di Alexander 
                  Neill, si è sviluppato un insieme di realtà che 
                  ormai sono diffuse in tutti i continenti, sostenute da periodici 
                  incontri sia a livello mondiale (International Democratic Education 
                  Conference, Idec) che europeo (European Democratic Education 
                  Community, Eudec), che italiano (Rete per l'educazione libertaria, 
                  Rel). Queste scuole hanno in comune alcune caratteristiche fondative: 
                  democrazia diretta e paritaria nella formulazione delle decisioni 
                  intorno alla vita scolastica, facoltatività della partecipazione 
                  alle lezioni, apertura totale al contesto ambientale come presupposto 
                  indispensabile per l'apprendimento attivo e partecipe, relazione 
                  egualitaria tra adulti e bambini/e, ragazzi/e, valutazione condivisa 
                  e non selettiva del percorso di apprendimento, molteplicità 
                  e varietà dei curricoli, gestione non violenta e partecipata 
                  dei conflitti, molteplicità metodologica, non confessionalità 
                  religiosa e/o ideologica, ruolo di facilitatore dell'insegnante. 
                  Accanto a queste realtà alternative al sistema di istruzione 
                  ufficiale e tradizionale, numerose sono ancora le energie positive 
                  che, singolarmente o in piccoli gruppi di resistenza, si impegnano 
                  all'interno di contesti più strutturali e istituzionalizzati, 
                  cercando di creare piccole aree di libertà e di autonomia, 
                  consapevoli che comunque è il Sistema nel suo dispiegarsi 
                  che va radicalmente modificato. 
                  Come è facile intuire in questa contrapposizione tra 
                  le due prospettive così radicalmente diverse dell'intendere 
                  la relazione adulto/bambino, ci sono zone grigie, contaminazioni, 
                  possibili interferenze e inferenze, confusioni (si pensi ad 
                  esempio al mal inteso senso di “giovanilismo” genitoriale, 
                  oppure alla facile confusione tra permissivismo e libertà), 
                  che rischiano seriamente di produrre devastanti conseguenze 
                  proprio nei confronti dei più deboli. Vi è quindi 
                  una permanente necessità, per chi ha autenticamente a 
                  cuore un'educazione che sia educare a essere e non a dover essere, 
                  di riflettere interiormente, confrontarsi con altri, ascoltare 
                  con tutto se stessi l'altro, assumere una postura profondamente 
                  rispettosa, saper riconoscere la diversità senza dividere 
                  ed escludere, essere se stessi senza pretendere che gli altri 
                  siano come noi, e molto altro ancora. 
                  Ecco perché questo libro di Filippo Trasatti, ora alla 
                  seconda edizione, è uno strumento di lavoro particolarmente 
                  utile e importante. Lo è soprattutto perché, nella 
                  sua essenzialità apparente, è uno stimolo e un 
                  rinvio a tessere collegamenti, a cogliere la necessità 
                  di assumere sguardi diversi, approcci variegati, stimoli vari, 
                  utili comunque a ricomporre un equilibrio olistico mai definitivo 
                  ma sempre in cammino. Questo lavoro è una specie di cassetta 
                  degli attrezzi che educatori, insegnanti, genitori, possono 
                  utilizzare per costruirsi un proprio percorso di auto-educazione 
                  in senso libertario che ristabilizzi l'ordine di un discorso 
                  educativo: educare, ex-ducere, tirare fuori, non plasmare, 
                  né riempire, essere non dover essere. Infine è 
                  un libro da leggere perché scritto con tutto se stesso, 
                  con la semplicità che deriva da esperienze vissute intimamente, 
                  senza quel dannoso distacco derivante da una fredda e asettica 
                  postura autoritaria, ma anche con quel rigore necessario per 
                  ogni ricerca che sia rispettosa dell'altro.
                  Francesco Codello 
                   
                   
                    Ispirazioni 
                  e contraddizioni
                   dell'anarchismo moderno 
                Note a margine del volume L'anarchismo oggi. Un pensiero 
                  necessario, curato da Luciano Lanza e pubblicato da Mimesis 
                  (Milano 2013, pp. 229, € 18,00): ideale prosecuzione, 
                  sotto forma di annuario, della rivista Libertaria. Il testo 
                  di Alberto Giovanni Biuso, membro del comitato scientifico della 
                  collana Libertaria, traccia una sorta di filo conduttore tra 
                  gli interventi ospitati e offre interessanti chiavi di lettura. 
                   
                  Le dinamiche antropologiche e sociali sono così complesse 
                  da rendere perdente ogni riduzionismo metodologico che intenda 
                  aggredire la realtà senza prima averla compresa quanto 
                  più a fondo possibile. La politica, si potrebbe dire, 
                  si è sinora limitata a tentare di trasformare il mondo; 
                  è arrivata l'ora di comprenderlo. È infatti solo 
                  “agendo su regimi di verità e credenze” (S. 
                  Boni, p. 34) che si possono delineare modi e strategie capaci 
                  di incidere sulle strutture sociali, trasformandole. 
                  Uno degli elementi di forza e di costante fecondità dell'anarchismo 
                  è dunque il suo costituire non un'ideologia ma un approccio 
                  metapolitico alla realtà sociale, “una teoria e 
                  una pratica della libertà, dell'eguaglianza e della diversità” 
                  (L. Lanza, 9). L'anarchismo si fonda infatti su un peculiare 
                  concetto di koinonia, intesa non come semplice comunità 
                  ma in quanto costante e radicale stare-insieme di individui, 
                  strutture, visioni del mondo diverse tra di loro ma convergenti 
                  in una pratica della libertà intesa come rifiuto di comandare 
                  e di essere comandati, come rinuncia alla volontà di 
                  fare da padrone, poiché tale volontà – come 
                  sosteneva Nietzsche – “si trova nella profondità 
                  del cuore di ogni schiavo. (...) L'anarchia inizia quando 
                  impariamo a rinunciare. Rinunciare a cosa? L'ipotesi che possiamo 
                  formulare è la seguente: alla rappresentazione metafisica 
                  dell'arché”. (M. Amato, 101). L'affermazione 
                  di Proudhon secondo la quale “a misura che la società 
                  s'illumina, l'autorità regale diminuisce”, si può 
                  quindi spiegare in questo modo: “A misura che l'esistenza 
                  umana si dispiega esplicitamente a partire dalla Lichtung, 
                  e quindi come il lavoro ogni volta finito del disascondimento, 
                  la rinuncia all'appropriazione dell'arché fa sì 
                  che la regalità finita di ogni uomo possa coincidere 
                  con la libera sottomissione alla Lichtung” (Amato, 
                  127), dove sostanza della Lichtung – dell'apertura 
                  che si apre nell'oscuro – è la intrinseca convergenza 
                  di ciascuno con i molti e della parte con il tutto, senza che 
                  i molti e il tutto soffochino la parte e senza che uno solo 
                  o un gruppo soltanto possa ergersi a decisore ultimo di ogni 
                  conflitto. “Mentre 'comunità' pone in rilievo ciò 
                  che è comune, o in comune, quindi una sorta di comune 
                  denominatore che ha già sempre inglobato ogni differenza 
                  e a cui ogni differenza deve poter essere ricondotta (reductio 
                  ad unum), nella koinonia come ancora la intende Aristotele 
                  si deve saper leggere non il fondamento che accomuna ciò 
                  che ha tendenza a separarsi, ma l'essere-insieme stesso 
                  nel movimento, o meglio nella movimentatezza che lo caratterizza 
                  propriamente. La traduzione di koinonia dovrebbe quindi 
                  essere: essere-insieme” (Amato, 129). 
                  Da questo fondamento discendono alcune ovvie e decisive conseguenze. 
                  La prima è “l'assunto che la libertà di 
                  espressione è il germe da cui si sviluppa ogni altra 
                  libertà” (P. Adamo e G. Giorello, 91); quella libertà 
                  di espressione che fa dire a Chomsky parole assai chiare a proposito 
                  del principio che guida da sempre la politica estera degli Stati 
                  Uniti d'America, principio che consiste nel “diritto di 
                  usare la forza a proprio piacimento”, tanto da concludere 
                  che “il nostro desiderio di democrazia sta all'incirca 
                  al livello dei discorsi di Stalin sull'impegno russo per la 
                  libertà, la democrazia e la libertà nel mondo” 
                  (Chomsky, 15 e 16). 
                  La seconda consiste nell'oltrepassamento di ottimismi e pessimismi 
                  antropologici che si rivelano sempre più dei miti invalidanti 
                  e funzionali soltanto a impedire ogni reale cambiamento, o sul 
                  versante di un sempre differito sorgere del 'sol dell'avvenire' 
                  o della conservazione inevitabile di ciò che esiste ora. 
                  Gran parte dell'anarchismo contemporaneo va dunque certamente 
                  oltre Hobbes ma va anche oltre Rousseau, integrando “eguaglianza 
                  e differenza al di fuori di uno schema ottimistico sulla natura 
                  umana che Rousseau ha idealizzato in contraltare all'antropologia 
                  pessimistica di Hobbes, ma di cui fortunatamente il pensiero 
                  anarchico più avvertito è esente” (S. Vaccaro, 
                  217). 
                  Superamento dunque di due paradigmi fondamentali della modernità: 
                  il contrattualismo e la crescita. Già in 
                  uno dei testi fondanti il libertarismo – il Discours 
                  sur la servitude volontaire di Étienne de La Boétie 
                  – ci si pone con chiarezza a favore della Differenza 
                  e contro l'Identità: “È più 
                  che evidente come l'impianto teoretico di de La Boétie 
                  si ponga ante litteram in direzione ostinatamente contraria 
                  ad ogni successiva narrazione contrattualistica, che muove dalla 
                  passione della paura per conseguire il duplice risultato di 
                  erigere l'Unità del politico e assegnargli una potente 
                  legittimità di dominio, dissimulando il tasso di violenza 
                  in esso accumulato e economicizzato” (Vaccaro, 138-139). 
                  Gli anarchici sono assai sensibili verso un altro paradigma 
                  moderno quale “'il mito della crescita', il santuario 
                  decrepito del prodotto interno lordo, l'espansione illimitata” 
                  (Lanza, 10) e quindi sanno che se nessuna parola è mai 
                  neutra e neutrale, il “termine 'crisi', è un dispositivo 
                  di potere di tipo nominativo, ovvero influenza la concettualizzazione 
                  di ciò che succede, mediante la scelta lessicale, emanata 
                  dai media, e fatta propria, con parziale passività, dal 
                  corpo sociale. La nozione di 'crisi' ha infatti caratteristiche 
                  che si coniugano bene alla visione promossa dai poteri consociati” 
                  (Boni, 30). Non a caso Serge Latouche congiunge il paradigma 
                  della decrescita con l'esigenza di decolonizzare l'immaginario, 
                  vale a dire il metapolitico e il metaeconomico: “Si tratta, 
                  una volta usciti dall'illimitatezza dell'economia produttivistica, 
                  di costruire una società dell'abbondanza frugale o della 
                  prosperità senza crescita. La prima rottura consiste 
                  nel decolonizzare il nostro immaginario e quindi uscire dalla 
                  religione della crescita e rinunciare al culto dell'economia” 
                  (Latouche, 81). 
                  È anche tale varietà di fondamenti, strategie, 
                  prospettive a suggerire che quello nel quale siamo immersi è 
                  e sarà sempre più – nonostante le apparenze 
                  contrarie – il secolo dell'anarchismo, il tempo di una 
                  teoria e pratica capace di evitare il feroce autoritarismo del 
                  comunismo e l'implacabile diseguaglianza dell'ultraliberismo 
                  trionfante: “La resistenza si dà: in tutti i tempi 
                  la gente si è opposta al potere, in vari modi, e l'esercizio 
                  del potere riproduce sempre le proprie forme locali di resistenza. 
                  Grandi insurrezioni contro le strutture di potere possono certamente 
                  aver luogo ma, al contrario di quanto credevano gli anarchici, 
                  non sono immanenti alle relazioni sociali. Un'insurrezione va 
                  a costruirsi attraverso le molteplici e locali resistenze che 
                  prendono campo nelle pieghe sociali della vita quotidiana. A 
                  questo punto, possiamo affermare insieme ai situazionisti la 
                  necessità della 'rivoluzione della vita quotidiana'. 
                  (...) È necessario riconoscere che l'insurrezione contro 
                  il potere è più frammentata e incerta, emergendo 
                  da luoghi differenti, e spesso soggetta a strategici ribaltamenti” 
                  (S. Newman, 166). Soltanto rinunciando alle grandi narrazioni 
                  sul futuro, solo attraversando la porta stretta del rifiuto 
                  di ogni palingenesi a favore dell'azione individuale e collettiva 
                  quotidiana che muta qui, ora e subito le forme della 
                  vita, solo ammettendo – pur con dispiacere, certo – 
                  che “in qualsiasi relazione sociale, anche in una relazione 
                  sociale anarchica, a un certo livello ci sarà sempre 
                  potere, anche se in quest'ultima (presumibilmente) le relazioni 
                  di potere sarebbero più fluide, reciproche ed egualitarie” 
                  (Newman, 165), si potrà avere il coraggio libertario 
                  di porsi domande di questo genere: “Come possiamo essere 
                  sicuri che la rivolta contro il potere non lo riprodurrà 
                  semplicemente sotto un'altra forma? può allo stesso tempo 
                  una politica rivoluzionaria essere rivolta contro i nostri celati 
                  desideri di dominio?” (Newman, 163)1. 
                  La sintesi che ho tentato dei contenuti anche assai diversi 
                  di un libro vasto e prezioso non deve tuttavia indurre nell'errore 
                  di pensare all'anarchismo contemporaneo – anche solo a 
                  quello degli autori qui presenti – come a una scuola unitaria 
                  e ben compatta. Tutt'altro. Basta scorrere queste pagine per 
                  capire come le analisi non soltanto a volte divergano radicalmente 
                  ma siano proprio tra di loro quasi incompatibili (faccio un 
                  solo esempio: se Heidegger è uno degli ispiratori dell'eccellente 
                  saggio di Amato, lo stesso filosofo è definito da Vaccaro 
                  – ancora e stancamente a dir la verità – 
                  come senz'altro 'fascista'). E questo accade perché “l'anarchismo 
                  moderno è permeato da innumerevoli contraddizioni” 
                  (D. Graeber e A. Grubacic, 42). Per dirla con il linguaggio 
                  di Kant, l'anarchismo appare più un principio regolativo 
                  che costitutivo, ma anche e proprio in quanto regolativo 
                  è necessario: “In una tensione perenne e interminabile 
                  volta a 'raddrizzare' quel 'legno storto dell'umanità': 
                  sforzo eutopico, probabilmente, sempre imperfetto per costituzione, 
                  e quindi perfettibile, senza una meta definitiva da raggiungere, 
                  pur tuttavia orizzonte imprescindibile per oltrepassare i limiti 
                  delle forme-di-vita storicamente date. Priva di questo slancio, 
                  l'umanità si condannerebbe a una evoluzione eterodiretta 
                  dalla tecnica, cioè da una forma dell'umano reso inconsapevole 
                  della propria umanità” (Vaccaro, 206). 
                  Ma c'è qualcosa che sin dall'inizio e ancora oggi – 
                  e confidiamo sempre – ha segnato il discorso anarchico 
                  come paradigma di una libertà senza padroni: è 
                  la volontà di volgere in dubbio e sottoporre a critica 
                  tutte le affermazioni. Anche le proprie. È ancora Saul 
                  Newman a dirlo con chiarezza, quando fa dell'anarchismo – 
                  andando in tal modo ben al di là del filosoficamente 
                  corretto – un principio non soltanto politico e sociale 
                  ma anche epistemologico e ontologico, un principio che non vuole 
                  “semplicemente sostituire un tipo d'autorità con 
                  un altro (l'autorità politica dello stato con l'autorità 
                  scientifica della ragione) e perciò al posto di un fondamento 
                  ne sarebbe messo un altro” (157). Al di là dei 
                  padri, ai quali molto dobbiamo, possiamo però “scorgere 
                  il vicolo cieco degli approcci positivisti e razionalisti degli 
                  anarchici classici, tra cui Kropotkin e Godwin. Dovremmo valutare 
                  i discorsi egemonici della verità razionale, della scienza 
                  e della morale in tutto e per tutto alla stregua di istituzioni 
                  politiche con i loro effetti di dominio” (165). In questo 
                  modo l'anarchismo diventa ciò che è, ciò 
                  che lo renderà sempre necessario e ben vivo: una forma 
                  della libertà senza divinità senza maestri e senza 
                  definitive verità.
                  Alberto Giovanni Biuso
                 
                   
                  - Newman osserva che «si tratta degli stessi interrogativi 
                    sollevati da Lacan in risposta al radicalismo del maggio '68: 
                    'L'aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, 
                    quella di portare, sempre, al discorso del Padrone. È 
                    ciò di cui l'esperienza ha dato prova. Ciò a 
                    cui aspirate come rivoluzionari è un padrone. L'avrete'» 
                    (Il Seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, 
                    qui a p. 171). Profetico, certamente.
                
  
                  
                   
                   
                    Quel 
                  fornaio di
                   Minervino Murge 
                Chiarisco subito – per coloro i quali fossero interessati 
                  a una lettura storiografica prettamente anarchica del volume 
                  di Domenico Cangelli Carmine Giorgio nella storia del sindacalismo 
                  rivoluzionario in Puglia (edizioni del Rosone, Foggia 2013, 
                  pagg. 180, € 10,00 + spese di spedizione postale, richieste 
                  a: anarres56@tiscali.it) 
                  – che non vi sono riferimenti specifici poiché 
                  il periodo in esame si conclude nel giugno 1914 in coincidenza 
                  con la Settimana Rossa quando le Camere del Lavoro di Minervino 
                  Murge, Cerignola, Lucera e Bari – che facevano già 
                  parte della corrente interna alla CGdL denominata “dell'Azione 
                  Diretta” – avevano da poco (gennaio 1913) aderito 
                  all'Unione Sindacale Italiana costituitasi a Modena alla fine 
                  di novembre del 1912. 
                  Il pregio del libro di Domenico Cangelli sta proprio nell'accendere 
                  i riflettori in quel vero e proprio magma vulcanico che era 
                  il Psi pugliese – specie nella sua componente giovanile 
                  – nella prima decade del novecento. Un magma dal quale 
                  è, oggettivamente, difficile distinguere i riformisti 
                  dai rivoluzionari; i legalitari dagli antimilitaristi; gli aderenti 
                  alla Prima o Seconda Internazionale e costituisce il “brodo 
                  di coltura” che consente a intellettuali organici di etichettare 
                  quel particolare periodo storico e quel particolare movimento 
                  popolare come “marginale”, “ininfluente”, 
                  “primitivo”, e in cui spicca la figura del giovane 
                  Di Vittorio che – dalle pagine de “La Fiumana” 
                  organo della Camera del Lavoro di Bari e provincia (Usi) – 
                  a partire dal gennaio 1913 spiega, in modo inequivoco, la sua 
                  posizione anarcosindacalista in aperta contrapposizione con 
                  il riformismo “votaiolo” e “parolaio” 
                  del Psi. 
                  Basato su una mole imponente di dati e riferimenti bibliografici 
                  – come documentato dalla bibliografia riportata a margine 
                  – il saggio di Domenico Cangelli non si limita a ripercorrere 
                  un trentennio di travaglio sociale della Puglia operaia e contadina 
                  ma lo inserisce in una “cornice sociale” specifica 
                  e documentata: quella nazionale all'indomani dell'unità 
                  e, soprattutto, dei “moti” del Matese (1874). 
                  L'opera prende spunto dalle vicissitudini personali – 
                  raccolte in una memoria a tutt'oggi inedita – di Carmine 
                  Giorgio, un fornaio di Minervino Murge – e attraversa 
                  con riferimenti storici precisi e dettagliati l'intero periodo 
                  che va dalla “rivolta” di Minervino (1898) alla 
                  Settimana Rossa (7-13 giugno 1914). Con particolare riferimento 
                  alla violenza – spesso gratuita – delle forze dell'ordine 
                  e degli organi di autorità giudiziaria affiancati, in 
                  quest'opera disgregatrice, dalla legislazione “compiacente” 
                  formulata “ad hoc” di un governo presieduto da chi 
                  – come Giolitti – proveniva dalle fila “socialiste”. 
                  La ricostituita sezione pugliese dell'Unione Sindacale Italiana 
                  aderente all'Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ait) 
                  è impegnata in un – difficile ed impegnativo – 
                  percorso di ricostruzione della memoria storica per troppo tempo 
                  offuscata da “narrazioni” parziali e fantasiose 
                  se non, addirittura, travisate ad uso e consumo di un'unica 
                  fazione politica. E sindacale. 
                  Emblematico, in questo contesto, il tentativo posto in essere 
                  – nell'estate del 2012 – dalla Cgil con la “complicità” 
                  della Fondazione Di Vittorio e l'ausilio tecnico di un “intellettuale 
                  organico” – il prof. Vito Antonio Leuzzi – 
                  di stravolgere il significato sociale, storico e politico della 
                  distruzione della Camera del Lavoro Sindacale (Usi) di Bari 
                  – ubicata nella città vecchia – disconoscendo 
                  e mistificando il ruolo – preponderante – svolto 
                  dagli anarco-sindacalisti e dagli anarchici nella formazione 
                  e nella costituzione degli Arditi del Popolo che furono – 
                  in tutti i modi – ostacolati non solo dal potere costituito 
                  (e dai suoi organi repressivi) ma anche dal Psi, dalla CGdL 
                  e dal PCd'I di Gramsci e Bordiga. 
                  A ben vedere – per rimanere ai giorni nostri – dietro 
                  il governo delle “larghe intese” si scorge il tragico 
                  filo rosso che percorre la storia di un paese nato per “creare 
                  un mercato” e cresciuto così, malato dei mali del 
                  suo capitalismo “incompiuto”: penuria di capitale 
                  per scarsa accumulazione primitiva, nessuna propensione al rischio, 
                  frazionamento politico e assenza di un grande mercato interno. 
                  L'Italia che Garibaldi unì, insomma, non era un mercato. 
                  Mancavano investimenti e smercio e ci pensò lo stato, 
                  in mano a un capitalismo molto interessato al controllo delle 
                  leve governative. Iniziò così una rapina costante, 
                  un travaso ininterrotto di ricchezza prodotta dal lavoro e regalata 
                  al capitale dei Lanza e dei Sella, impegnati a “pareggiare 
                  il bilancio” per risarcirsi delle spese delle guerre per 
                  l'indipendenza. I lavoratori sputarono sangue, pagarono tasse 
                  persino sul grano macinato e fu la fame. La finanza, in compenso, 
                  divenne “allegra”, e i proventi fiscali finirono 
                  alle banche, pronte a sostenere ogni avventura industriale. 
                  Quando scoppiò la bolla immobiliare, s'intravidero legami 
                  oscuri tra politica e mafia e nel 1893 si scoprì che 
                  le banche d'emissione truccavano conti e stampavano banconote 
                  false. Non pagò nessuno e cominciarono i salvataggi: 
                  le banche fallivano, i lavoratori pagavano e quando la speculazione 
                  mise piede in Africa, si andò alla guerra. Nessuno ha 
                  calcolato mai quanto c'è costata in oro, sangue e civiltà 
                  l'avventura del cattolico Banco di Roma nel mare di sabbia libica, 
                  mentre il Sud mancava d'acqua e lavoro. Da Adua all'Amba Alagi, 
                  passando per l'ignominia di Sciara Sciat, la Spagna martoriata, 
                  la tragica Siberia e da ultimo l'Afghanistan, chi cercherà 
                  notizie serie sul debito di cui cianciano gli economisti, dovrà 
                  andare a cercarle tra i bilanci delle banche e incrociare i 
                  dati con quelli dello stato. Altro che welfare. Qui da noi, 
                  la storia del capitale oscilla tra avventure, salvataggi e lavoratori 
                  strangolati. Gronda sangue. Anche la Comit è stata salvata: 
                  oggi si chiama Intesa e ha ministri al governo. 
                  Valga per tutti quanto formulato in un vecchio manifesto antiprotezionista 
                  formulato – giusto cent'anni fa! – dall'Usi e riportato 
                  su “La Fiumana” organo ufficiale della CdL Sindacale 
                  di Bari e provincia che sembra adattarsi perfettamente al presente: 
                  “I nuovi briganti sono rappresentati oggi in Italia dagli 
                  industriali e dagli agrari protetti. Costoro però non 
                  vivono nella macchia in attesa di poter aggredire il viandante, 
                  ma alla luce del sole: occupano i migliori posti nella vita 
                  pubblica italiana ed hanno a loro disposizione i poteri dello 
                  stato (...) agrari, zuccherieri e siderurgici dal 1887 impunemente 
                  possono comandare alla nazione italiana; per il governo borghese 
                  che tiene il sacco alle loro rapine quotidiane; per la stampa 
                  prezzolata che sostiene con menzogne la necessità di 
                  mantenere il privilegio camorristico dei zuccherieri, degli 
                  agrari e dei siderurgici; per il popolo che ignora, tace e subisce. 
                  I guadagni dei briganti sono superiori ad ogni immaginazione. 
                  18mila latifondisti – mercé la protezione – 
                  truffano al popolo italiano oltre 40 milioni; sei società 
                  siderurgiche – mercé la protezione – truffano 
                  al popolo italiano 260 milioni all'anno.”
                  Pasquale Piergiovanni 
                   
                   
                    Tutto 
                  il potere
                   ai soviet 
                Negli ultimi giorni del febbraio 1917 aveva inizio il rivolgimento 
                  che andrà a condizionare più di ogni altro evento 
                  la storia del XX secolo, la rivoluzione che abbattendo l'autocrazia 
                  zarista voleva trasformare la dissoluzione dello sterminato 
                  impero russo nel faro che portasse alla liberazione e all'autodeterminazione 
                  dei lavoratori e di tutti i popoli oppressi. L'insurrezione, 
                  cominciata nelle strade di Pietrogrado, si trasmise immediatamente 
                  alla vicina Kronštadt, la città-fortezza posta 
                  a difesa della capitale, dove si trovava una concentrazione 
                  dei rivoluzionari più radicali e intransigenti dell'intera 
                  Russia. 
                  I soldati e i marinai presero il potere, regolando rapidamente 
                  i conti con la feroce gerarchia militare che li aveva oppressi 
                  fino a quel giorno, e trasmisero il potere al soviet, esercitando 
                  un continuo controllo dal basso sul suo operato. Tra i membri 
                  del soviet c'era Tomasz Parczewski, polacco di Russia (non esisteva 
                  allora una Polonia indipendente) insegnante di ginnasio e, contro 
                  ogni suo desiderio, ufficiale dell'esercito russo in quei giorni 
                  di guerra contro gli Imperi centrali. 
                  Parczewski è un testimone prezioso degli avvenimenti 
                  accaduti a Kronštadt durante quegli anni tumultuosi, 
                  sia per la sua estraneità agli schieramenti politici 
                  (nel soviet aderiva ai Senzapartito) sia per il suo tentativo, 
                  da uomo di studi filosofici e letterari, di raccontare imparzialmente 
                  gli eventi. 
                  La storia rivoluzionaria di Kronštadt fu del tutto straordinaria: 
                  sin dall'inizio fu attuata dal basso quella rivoluzione socialista 
                  (nel senso ampio e liberatorio che aveva al tempo, non quello 
                  immiserito imposto dalle pestilenziali ideologie del '900), 
                  che portò rapidamente alla rottura con il governo provvisorio 
                  e, come conseguenza di quello scontro, all'elezione di Parczewski 
                  a governatore dell'isola. 
                  I rivoluzionari di Kronštadt si batterono senza sosta 
                  contro il potere di chi voleva che la guerra proseguisse e cercava 
                  di impedire ai contadini russi di prendere possesso della terra, 
                  e furono in prima fila nella Rivoluzione d'ottobre, forse impossibile 
                  senza i marinai della flotta baltica. Quella che doveva essere 
                  la liberazione definitiva dai vecchi padroni portò invece 
                  al potere non il popolo lavoratore ma il Partito comunista, 
                  i suoi commissari e la sua polizia politica, la eka di Lenin. 
                  L'amara disillusione dei rivoluzionari di Kronštadt divenne, 
                  nel marzo 1921, aperta rivolta contro i bolscevichi, un'insurrezione 
                  che l'Armata rossa di Trockij spazzò via con un enorme 
                  massacro. 
                  La testimonianza di Tomasz Parczewski (Kronstadt nella Rivoluzione 
                  russa, Edizioni Colibrì / Candilita, pp. 311, € 
                  14,00, traduzione di Alina Maria Adamczyk, a cura di Giuseppe 
                  Aiello), rifugiatosi nella Polonia divenuta indipendente, fu 
                  stampata nel 1935, tre anni dopo la morte dell'autore ed è 
                  rimasta pressoché sconosciuta, mai tradotta e scarsamente 
                  citata. Questa prima traduzione dal polacco è corredata 
                  da un apparato di note per restituire una completezza alla dimensione 
                  storica della narrazione, e vuole contribuire con un tassello 
                  fondamentale alla ricostruzione di quel tratto di storia volutamente 
                  nascosta e mistificata dalla storiografia ufficiale che Volin 
                  chiamò Rivoluzione sconosciuta.
                  Giuseppe Aiello 
                   
                   
                   Camillo Berneri né santino né liberale 
                Le edizioni Zero in condotta pubblicano in una nuova edizione 
                  il volume Camillo Berneri. Scritti scelti (pp. 
                  322, € 20,00), con introduzione di Gino Cerrito, 
                  prefazione, note e biografia di Gianni Carrozza. 
                  Camillo Berneri, nato il 20 maggio 1897 a Lodi, laureato 
                  in filosofia, aderì al movimento anarchico nel 1916, 
                  dopo aver militato nella Federazione Giovanile Socialista. Per 
                  la sua molteplice attività di scrittore, organizzatore 
                  e propagandista, subì le persecuzioni del regime di Mussolini 
                  che lo costrinse all'esilio nel 1926 prima in Francia, poi in 
                  Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania. Ciò non gli impedì 
                  un'intensa opera di approfondimento teorico, sui principali 
                  temi in discussione nei movimenti rivoluzionari dell'epoca, 
                  che trovò ospitalità prevalentemente sulla stampa 
                  editata dalla diaspora anarchica e antifascista in esilio. Accorso 
                  in Spagna all'indomani dell'insurrezione popolare contro il 
                  colpo di stato militare – prima in veste di organizzatore 
                  e di combattente della sezione italiana della Colonna Ascaso 
                  poi di animatore delle trasmissioni in italiano di Radio Barcellona 
                  e del giornale Guerra di classe – Berneri, per la sua 
                  circostanziata denuncia del ruolo controrivoluzionario dei comunisti 
                  e dei loro alleati, divenne oggetto della loro rappresaglia. 
                  Il 5 maggio 1937, non ancora quarantenne, venne assassinato 
                  da una pattuglia della polizia. 
                  I testi raccolti nella presente antologia riguardano un periodo 
                  di grande importanza per le vicende politiche e sociali che 
                  caratterizzano la storia europea del primo trentennio del novecento, 
                  dall'opposizione alla guerra del '14-18 all'insurrezione antifranchista 
                  del '36 in Spagna, passando per la rivoluzione russa, il biennio 
                  rosso, la dittatura fascista. 
                  Riproduciamo qui di seguito la premessa di Gianni Carrozza. 
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Camillo Berneri  | 
                   
                 
                 
                  L'antologia che le edizioni Zero in condotta presentano è 
                  stata pubblicata nel 1988, in francese, dalle Editions du Monde 
                  Libertaire. Gino Cerrito ne aveva curato l'introduzione fin 
                  dal 1983 ed è il suo ultimo scritto, che ha preceduto 
                  di poco la sua morte. All'epoca, e durante quasi vent'anni, 
                  è stata la più completa antologia di scritti berneriani. 
                  Ma perché presentarla oggi? Occorre fare un passo indietro 
                  per comprendere il modo in cui Berneri è stato conosciuto 
                  e vissuto dal movimento anarchico. Durante la sua vita, la quasi 
                  totalità dei suoi scritti (con l'eccezione di alcuni 
                  opuscoli) appare sui giornali anarchici, soprattutto di lingua 
                  italiana, ma anche spagnola, francese, inglese, ai quattro angoli 
                  del mondo e principalmente in Europa, Stati Uniti, America Latina. 
                  La sua fama di intellettuale militante comincia a diffondersi 
                  nella prima metà degli anni '20, ma la maggior parte 
                  dei suoi scritti circola sull'onda della diaspora anarchica 
                  e antifascista italiana nel mondo. 
                  Se i giornali anarchici di lingua italiana lo ospitano volentieri 
                  sulle loro colonne, non avrà quasi mai la possibilità 
                  di fare una pubblicazione veramente “sua”, una pubblicazione 
                  che esprima non soltanto il suo punto di vista su questo o quel 
                  problema specifico, ma una visione d'insieme, una visione del 
                  mondo. Ci proverà, tra mille difficoltà, nel fuoco 
                  dell'azione, in Spagna, con Guerra di classe, ma l'esperienza 
                  sarà interrotta dalla sua morte. Si aspettava comunque 
                  che questa interruzione si producesse per effetto della stessa 
                  censura che aveva tagliato i fondi a giornali come L'Espagne 
                  Antifasciste, le cui analisi critiche davano fastidio al gruppo 
                  dirigente della CNT. 
                  Tutta la stampa anarchica internazionale si riempie di articoli 
                  sulla sua morte, sul suo pensiero, sulle sue prese di posizione. 
                  Lo scritto più completo e acuto è quello di Max 
                  Sartin (Raffaele Schiavina) sull'Adunata dei Refrattari, 
                  che tanti articoli di Berneri aveva pubblicato. Possiamo datare 
                  la tendenza a trasformarlo in icona, in santino, che ha prevalso 
                  poi per molti anni, a partire proprio da questo scritto. A partire 
                  da questo momento Berneri non è più uno che discute 
                  di tutto e con tutti, ma diventa il martire dell'anarchia, il 
                  simbolo della rivoluzione spagnola assassinata alle spalle dagli 
                  stalinisti, diventa il simbolo dell'intransigenza anarchica 
                  di fronte al ministerialismo del gruppo dirigente della CNT 
                  e la sua “Lettera aperta alla compagna Federica Montseny” 
                  farà il giro del mondo. 
                 L'anno 
                dopo, il comitato Camillo Berneri pubblica a Parigi la prima antologia 
                postuma (Pensieri e battaglie), con una introduzione di 
                Emma Goldman, e nel 1939 esce a Barcellona l'antologia Ensayos. 
                La fine della guerra di Spagna e il successivo scoppio della guerra 
                mondiale inghiottirà nella tempesta tutto quello che tenta 
                di andare oltre il tentativo di sopravvivere da parte degli anarchici 
                scampati alla barbarie nazista, fascista, stalinista e alla repressione 
                più soft e selettiva (ma non meno efficace) dei paesi democratici. 
                  La tendenza a farne un santino perdura in Italia nel dopoguerra, 
                  accentuata dal fatto che i giornali su cui Berneri scriveva 
                  sono diventati introvabili e dalle riedizioni dei suoi testi 
                  politicamente più innocui e meno controversi. Dall'altro 
                  lato alcuni militanti più giovani, Masini in testa, tentano 
                  di utilizzare l'autorità morale di Berneri e pubblicano 
                  alcuni opuscoli riesumando scritti che hanno un forte odore 
                  di zolfo: parlare del rispetto che Berneri nutriva per Gramsci 
                  ad un movimento arroccato sull'anticomunismo, rievocare la polemica 
                  sulle elezioni che aveva preceduto quelle spagnole del 1936 
                  parlando di “cretinismo anti-elettorale”, rimettere 
                  in discussione l'anticlericalismo virulento che era una parte 
                  costitutiva dell'identità anarchica nell'Italia del dopoguerra, 
                  poteva sembrare un'operazione iconoclasta. Lo era, nel senso 
                  che dava una scossa ad un movimento arroccato sulla propria 
                  identità, ma l'operazione non permetteva di conoscere 
                  meglio né Berneri né il contesto in cui questi 
                  scritti avevano visto la luce. Ma soprattutto non poteva risolvere 
                  i problemi che erano all'origine della crisi dell'anarchismo 
                  del dopoguerra. 
                  Un primo contributo alla conoscenza di Berneri viene ancora 
                  da Masini, con Pietrogrado 1917 - Barcellona 1937, ma 
                  da un Masini profondamente cambiato rispetto a quello che aveva 
                  partecipato ai GAAP (Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) 
                  nel decennio precedente. Fino all'uscita di questa antologia, 
                  di Berneri si conosce molto poco: si sa che è stato assassinato 
                  in Spagna e gli articoli che appaiono di tanto in tanto sulla 
                  stampa libertaria ne tengono viva la memoria ed il mito. Del 
                  suo pensiero si sa ancora meno. 
                  A partire da questo momento si comincia a cercare di ricostruire 
                  la biografia di Berneri, il contesto del movimento, a cercare 
                  di capire chi sono i suoi interlocutori. Il convegno di Milano 
                  del 1977, la tesi di Paco Madrid pubblicata da Aurelio Chessa 
                  nel 1985, la Memoria antologica pubblicata sempre da 
                  Chessa nel cinquantesimo anniversario della sua morte, hanno 
                  il merito di riaprire la discussione sulle discutibili (e discusse 
                  finché era vivo) opinioni di Berneri. Punti di vista 
                  diversi trovano il modo di esprimersi, ma a partire dalla fine 
                  degli anni '80 si afferma la tendenza a leggere Berneri più 
                  come un liberale atipico che come un militante anarchico che 
                  esprime una concezione propria, originale, dei problemi che 
                  tratta. I capitoli dedicati a Berneri in studi più generali 
                  prodotti da Nico Berti, gli interventi di Pietro Adamo sono 
                  alla punta di questa tendenza. L'antologia di scritti editi 
                  e inediti curata sempre da Adamo offre un'analisi della formazione 
                  e delle opzioni culturali del nostro, sempre in questa chiave. 
                  Senza parlare della caricatura che viene fornita da un certo 
                  Carlo Lottieri, che lo arruola sfacciatamente – insieme 
                  a Francesco Saverio Merlino – fra i predecessori dei cosiddetti 
                  “anarcocapitalisti”. Onda lunga dell'implosione 
                  dell'Urss? Sintonia con il pensiero unico dominante? Una cosa 
                  non esclude l'altra, ovviamente, ma sembra che gli effetti tocchino 
                  in pieno anche il cuore del movimento anarchico attraverso alcuni 
                  prestigiosi docenti universitari. Questa tendenza trova una 
                  conferma nello studio biografico di Carlo De Maria – sicuramente 
                  il più serio e completo pubblicato fino ad oggi – 
                  e negli interventi che questi studiosi hanno fatto in vari convegni 
                  degli ultimi anni. 
                  Manca a tutt'oggi una raccolta seria degli scritti che permetta 
                  di uscire da una lettura ideologica di testi berneriani, che 
                  spesso vengono letti, selezionati ed utilizzati come pezze d'appoggio 
                  per convalidare le chiavi di lettura degli uni o degli altri. 
                  Solo una raccolta di scritti, se non generale, almeno degli 
                  scritti politici, intorno a cui venga ricostruito il dibattito 
                  militante dell'epoca in cui questi sono stati prodotti, permetterebbe 
                  di fare un salto di qualità e di ridare all'opera di 
                  Berneri quello spessore analitico, etico, militante che finora 
                  solo pochi topi di biblioteca hanno potuto apprezzare nella 
                  sua complessità. 
                  Merita di essere segnalato uno scritto sintetico di Claudio 
                  Strambi, che esprime un punto di vista opposto, e che a mio 
                  avviso coglie bene il senso dell'attività intellettuale 
                  e militante di Berneri. La scheda biografica che gli è 
                  stata dedicata nel Dizionario biografico degli anarchici 
                  italiani tenta una ricostruzione equilibrata dei passaggi 
                  nodali della sua esistenza, richiamandone le caratteristiche 
                  politiche fondamentali. 
                  Va detto infatti che è proprio Berneri ad aver facilitato 
                  una lettura contrastata di sé stesso. La quasi totalità 
                  dei suoi articoli ha un carattere frammentario, è legata 
                  a problemi e momenti precisi della sua epoca, si inquadra molto 
                  spesso dentro discussioni o polemiche che si sviluppano sulle 
                  colonne della stampa libertaria. È ovvio quindi che, 
                  a seconda dell'interlocutore, del momento storico, del dibattito 
                  politico, possa dire cose diverse e con qualche estrapolazione, 
                  qualche citazione estratta dal contesto, qualche brogliaccio 
                  o appunto trovato in un archivio, gli si possa far dire più 
                  o meno tutto quello che l'autore desidera leggere. L'inesistenza 
                  di uno o più lavori d'insieme che pongano rimedio a questo 
                  stato di cose ci riporta alle difficoltà, alle contraddizioni 
                  e alle debolezze del movimento anarchico qual è stato 
                  fino ad oggi in Italia. 
                  Veniamo quindi alla nostra antologia, che, pur non colmando 
                  i vuoti e le insufficienze di cui abbiamo parlato, è 
                  un passo importante che il pubblico italiano non aveva ancora 
                  a disposizione. Essa rappresenta l'ultimo tentativo in ordine 
                  di tempo di ridare la parola allo stesso Berneri, con una scelta 
                  ampia di scritti pubblicati quando era vivo, che spazia su tutti 
                  gli aspetti della sua produzione politica e permette di farsi 
                  un'idea della consistenza del suo lavoro. Non è soddisfacente, 
                  certo, e ci auguriamo che questo lavoro venga rapidamente superato 
                  da ulteriori ricerche e pubblicazioni. 
                  Se dovessimo segnalare al lettore qualcosa che caratterizza 
                  più di tutto il pensiero di Berneri, potremmo dire che 
                  la sua scelta rivoluzionaria è critica viva, è 
                  desiderio di non accontentarsi dell'esistente, è una 
                  spinta ad andare più lontano a partire dalla concretezza 
                  delle difficoltà che ci troviamo davanti. 
                  C'è una differenza profonda fra la situazione che conosciamo 
                  attualmente nelle società occidentali a capitalismo maturo 
                  e quella che ha preceduto l'ultima guerra mondiale. Per capire 
                  l'azione e le varie posizioni di Berneri non si può fare 
                  astrazione dalla prospettiva concreta e costante di avviare 
                  la rottura rivoluzionaria, cercando tutte quelle soluzioni che 
                  la rendono possibile per le élites rivoluzionarie, desiderabile 
                  e realizzabile per la maggioranza del proletariato, migliore 
                  della società esistente per l'umanità intera. 
                  Questa prospettiva è talmente presente nell'attività 
                  di Berneri (come pure di Malatesta e di buona parte dei militanti 
                  della loro generazione) che non ha bisogno di parlarne in modo 
                  esplicito. Ma se a 70 anni di distanza vogliamo capire il senso 
                  di quel che fa, scrive o dice, dobbiamo fare uno sforzo per 
                  tornare a questo elemento che la nostra realtà quotidiana 
                  non ci permette necessariamente di sentire come una prospettiva 
                  immediatamente praticabile. 
                 Gianni Carrozza 
                   
                   
                   1945/La Sicilia scandagliata da un giornalista molisano 
                Nell'autunno del 1945, lo scrittore molisano Francesco Jovine 
                  venne in Sicilia per seguire, come inviato del quotidiano romano 
                  L'Epoca, i fermenti separatisti che agitavano l'isola. Jovine, 
                  autore già noto e apprezzato per il suo romanzo La 
                  signora Ava (pubblicato nel '43), e per il suo impegno sociale 
                  sui temi e le battaglie del meridionalismo, dal 27 ottobre al 
                  13 dicembre, tenne, per il quotidiano diretto da Leonida Rèpaci, 
                  una temporanea rubrica dal titolo Separatismo siciliano 
                  e in dieci articoli raccontò storie e personaggi, passioni 
                  e umori, grandezze e miserie della Sicilia del dopoguerra. 
                  Nel suo primo pezzo, del 27 ottobre, che ha per titolo “24 
                  ore di repubblica”, Jovine informa che il separatismo 
                  in Sicilia è davvero “nell'atmosfera e si giova 
                  di cento, mille ragioni, di innumerevoli impulsi sentimentali, 
                  delle sottigliezze bizantineggianti degli avvocati, del candore 
                  degli illusi, delle torbide mene dei reazionari, degli incoffessati 
                  interessi di gruppi politici e di clientele, della rozzezza 
                  mentale del popolo”. Ma, constata Jovine, gli effetti 
                  concreti che gli agitatori del movimento separatista riescono 
                  a realizzare, mischiandosi a briganti e criminali, ai quali 
                  chiedono aiuto e sostegno, sono gli assalti a piccoli e spesso 
                  remoti e isolati municipi (Falcone, Montelepre, ecc.) e l'instaurazione 
                  di fragili repubbliche locali che durano a malapena un giorno, 
                  per svanire l'indomani. 
                  Nel pezzo successivo, in “Sguardi verso cielo”, 
                  del 31 ottobre, Jovine affronta un tema drammatico per l'isola, 
                  denunciando la grave mancanza di energia elettrica, che rallenta 
                  la produzione nei luoghi di lavoro; la sera fa assomigliare 
                  a catacombe gli alberghi palermitani, con i corridoi e le stanze 
                  a malapena illuminate con le antiche “lumere” ad 
                  olio; e rende invidiosi i messinesi che al buio, di notte, vedono, 
                  “sfolgorante di luce”, Reggio Calabria, al di là 
                  dello stretto. “Tutti i giorni la Sicilia ha luce appena 
                  sufficiente per prendere coscienza delle sue tenebre”, 
                  constata Jovine. Ed è questo solo un aspetto della grave 
                  e diffusa precarietà che caratterizza l'isola e che acuisce 
                  la voglia di parte del suo popolo di staccarsi dal continente, 
                  come continua a mostrare Jovine nel suo articolo del 1 novembre 
                  dal titolo “Viva la 49a stella”, ricostruendo 
                  storicamente i sentimenti separatistici, nati subito dopo il 
                  Risorgimento e ora incanalati in una consistente presenza organizzata, 
                  politicamente e militarmente, soprattutto a Palermo, anche se 
                  variamente composita. Del movimento separatista, infatti, nel 
                  capoluogo vi è un'ala ultra-conservatrice di cui fanno 
                  parte “un manipolo di baroni e marchesi decaduti che ronza 
                  attorno ai pochi rappresentanti di famiglie principesche dal 
                  patrimonio ancora solido”, sotto la guida della principessa 
                  Lanza di Trabia (“che è ancora donna piena di fascino, 
                  di mente perspicace e incline all'intrigo politico”), 
                  che vorrebbe liberare la Sicilia e consegnarla al re; un altro 
                  gruppo di latifondisti e nobili parteggia, invece, per il “paternalismo 
                  illuminato” del primo sindaco separatista della città, 
                  Lucio Tasca Bordonaro, ritenuto un agricoltore modello, che 
                  conduce delle tenute con i più arditi ritrovati della 
                  tecnica agraria, non dimenticando neppure di preoccuparsi del 
                  benessere dei contadini. Tutti però hanno un obiettivo 
                  comune e primario: “immunizzarsi dal bacillo rosso” 
                  (come recita il titolo dell'articolo del 3 novembre), e fanno 
                  proprie le parole pronunciate dal leader maximo del separatismo 
                  nell'isola, l'on. Finocchiaro Aprile: “le classi sociali, 
                  i partiti, i gruppi politici che paventano il comunismo, se 
                  vorranno salvarsi non avranno che un mezzo: fare un blocco e 
                  aderire all'indipendenza della Sicilia”. 
                  Per realizzare questo obiettivo e per mantenerlo, annota Jovine 
                  in “Maffia che nasce e maffia che muore” (dell'8 
                  novembre) “i separatisti pensano che la Maffia sia sicuramente 
                  un elemento di ordine”, poiché “in una regione 
                  che soffre della progressiva disgregazione molecolare dei poteri 
                  pubblici, in cui domina una violenza armata imponente, sanguinaria, 
                  tumultuosa, sorprendente, senza carattere deciso o stabile, 
                  sia da preferire un'altra violenza limitata nei fini, nei mezzi, 
                  di volto domestico di cui si conoscono il linguaggio e il codice, 
                  che ubbidisce a norme abiette, ma tradizionali e inviolabili”. 
                  Nota però Jovine che la vecchia criminalità organizzata 
                  sta mutando nelle forme, nei metodi, negli obiettivi della sua 
                  corsa al denaro e al potere, traendo ispirazione dal gangsterismo 
                  di stampo nordamericano. 
                  Esempio di questa trasformazione della Maffia a Jovine pare 
                  di vederli in Papuzza, il capo mafia di Adrano, grosso centro 
                  agricolo del catanese. Delle sue gesta e della sua ramificata 
                  organizzazione (ha tre o quattromila seguaci sparsi in tutta 
                  la provincia di Catania, perfettamente organizzati, la maggior 
                  parte dei quali vive mescolata alla gente comune, ma ubbidisce 
                  fanaticamente agli ordini dell'invisibile capo), Jovine scrive, 
                  il 13 novembre, in “Papuzza inaridisce le fonti”. 
                  E se Papuzza spadroneggia nella parte orientale dell'isola, 
                  a comandare nei grandi feudi della Sicilia centro-occidentale 
                  sono i campieri che a colpi di lupara si stanno adoperandosi 
                  per rendere vani i tentativi di riforma agraria voluti dal ministro 
                  Gullo: e sparano sui contadini che vorrebbero avere la giusta 
                  parte dei prodotti dei campi, che hanno coltivato e raccolto 
                  col loro lavoro. L'articolo “I campieri sparano dalle 
                  alture” (del 15 novembre) dà conto di queste violente 
                  intimidazioni e soprattutto della triste vita dei braccianti 
                  e dei contadini giornalieri. 
                  Dell'inferno delle miniere, invece, dove non vi è limite 
                  d'età in chi vi è condannato a lavorare, a causa 
                  della miseria, Jovine parla nell'articolo “Il divertimento 
                  del Caruso” (del 17 novembre) raccontando della sua visita 
                  alla miniera di Trabonella, dove a colpirlo, tra l'altro, è 
                  l'incontro con un ragazzo di dieci anni, di nome Michele Milanese. 
                  È “bello, di tenere membra, di viso sottile e dorato 
                  con grandi occhi azzurri pesanti e di antichissima malinconia”; 
                  ha addosso “come soli indumenti, un paio di mutandine 
                  tutte a toppe, incrostate di mota e un cappuccio fatto con un 
                  cencio di impermeabile”. Pronuncia una sola parola: 'travagghiu', 
                  ma viene subito ripreso dal capomastro che, mentendo spudoratamente, 
                  dice allo scrittore che il bambino è lì per giocare 
                  a impastare lo zolfo. 
                  Una visita a Catania, poi, diventa l'occasione per constatare 
                  come i pochi tentativi dell' imprenditoria locale vengano vanificati 
                  dalla burocrazia nazionale: in “Fiammiferi senza fosforo” 
                  (uscito il 24 novembre), Jovine racconta la tragicomica vicenda 
                  capitata ad un'impresa catanese che vedendosi negare pretestuosamente 
                  dal governo l'autorizzazione a produrre fiammiferi, mette ugualmente 
                  in commercio, clandestinamente, le poche quantità che 
                  aveva già realizzato: solo che questi fiammiferi, viene 
                  detto a Jovine, forse perché “adombrati seriamente, 
                  per l'ostile trattamento, si rifiutarono d'accendersi, non solo 
                  sulle lastre di vetro come si prometteva nella loro confezione, 
                  ma finanche sulla carta vetrata”. 
                  È un'isola scandagliata in ogni sua parte, quella che 
                  prende corpo negli ampi racconti di Jovine, ricchi di storie 
                  e di aneddoti, di rilievi e riflessioni che, ricercando le ragioni 
                  dei separatisti, illuminano sulla realtà complessa del 
                  dopoguerra, sul feudo e indagano sul carattere e l'identità 
                  dei siciliani, sui loro pubblici comportamenti. 
                  Il suo ultimo articolo dalla Sicilia dal titolo “Esportazione 
                  dei cervelli”, del 13 dicembre, offre il ritratto del 
                  pubblico impiego isolano, della piccola e media borghesia impiegatizia 
                  che trasforma il suo ruolo di servizio in potere e crea attorno 
                  alla sua funzione, abusandone, clientela e sudditanza, perpetuando 
                  così, nel rapporto tra cittadini e rappresentanti dello 
                  Stato, modi e mentalità feudali e borboniche. Per questo 
                  gran parte dei funzionari siciliani parteggia per il separatismo: 
                  vogliono amministrare 'sicilianamente' – secondo i loro 
                  interessi e scopi personali – l'isola, allontanando il 
                  controllo del centro, del governo e della politica nazionale.
                  Stefano Livolsi 
                   
                   
                 
                 Parola 
                  di
                   fisarmonicista 
                “Questo libro che racconta la vita di Jovica Jovic non 
                  è scritto per i moralisti, è invece per chi è 
                  disposto a contemplare e ad accogliere il valore della fragilità 
                  umana, per chi capisce che cos'è l'umanità e la 
                  rispetta in tutte le sue manifestazioni”. Così 
                  Moni Ovadia mentre dà parola, insieme a Marco Rovelli, 
                  alla narrazione della vita particolare di Jovica Jovic (Moni 
                  Ovadia, Marco Rovelli, La meravigliosa vita di Jovica Jovic, 
                  Feltrinelli, Milano 2013, pagg. 187, € 15,00). Un'esistenza 
                  fuori dalle logiche omologanti di quella cultura che continua 
                  a farsi carico del pesante “fardello dell'uomo bianco”, 
                  presunta depositaria di una missione civilizzatrice ancora da 
                  compiere. 
                  Un libro nato dall'incontro di amici intorno a un tavolo di 
                  una trattoria di campagna. Condividono il talento per la musica 
                  e una visione del mondo che intende contrastare le gabbie di 
                  un'ottica ristretta, deformante, miope, discriminante che pesa 
                  ancora troppo, soprattutto sulle culture minoritarie, escludendo 
                  altri mondi possibili. 
                  “Io sono nato in un bosco”, dice Jovica. “Sono 
                  stato partorito da una zingara, io. Sono colpevole. Non ho mai 
                  avuto la mia terra. E non si sa da dove vengo e dove vado. Per 
                  questo tutti ci disprezzano, perché siamo senza terra”. 
                  Ancora: “Io vi ho raccontato tutto di me. Adesso voi dovete 
                  scrivere un libro sulla mia vita. Non ho mai scritto un libro, 
                  non ho mai pensato di poter scrivere...” Si convince: 
                  “E poi a voi vi ascoltano. Se lo scrivete voi questo libro, 
                  tutti sapranno che cosa vuol dire essere rom. Sapranno che è 
                  anche bello essere rom”. 
                  Una vita inedita, capace di suscitare meraviglia per l'intensità, 
                  il gusto e la forza, il coraggio, la tenacia con la quale Jovica 
                  sceglie di viverla. Con un bel gesto empatico, gli autori intrecciano 
                  parole, frammenti di lettere, favole, profonde riflessioni, 
                  ricordi suscitati da vecchie fotografie, dando origine al racconto 
                  di una vita che va oltre la dimensione individuale, per abbracciare 
                  un più ampio scenario di un mondo “altro”, 
                  sfaccettato, complesso, avventuroso, spesso tragico, a volte 
                  inafferrabile. Viene restituito un genuino e autentico mosaico 
                  corale di tradizioni mai uguali, perché “le diversità 
                  tra i rom dipendono da dove sono cresciuti”. Ma tutti 
                  accomunati dalla parentela e dalla lingua romanes. Non riconosciuta 
                  tra le lingue minoritarie, sopravvive ai margini portandosi 
                  addosso i segni di una cultura alla quale non è stato 
                  concesso mettere radici. 
                  Jovica è ultimo anello di una catena secolare di musicisti. 
                  Una vita con la musica. La musica dentro la vita, si potrebbe 
                  dire. Le armi di famiglia, strumenti a corda e la voce: “Un 
                  vero cantante deve saper spegnere le fiammelle della lampada”. 
                  Il padre Dusan suonava violino e contrabbasso e ha fatto il 
                  partigiano. Il bisnonno è morto a centosei anni con il 
                  violino in mano e vestito a festa. “La musica tzigana 
                  si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore”. 
                  Ma poi arriva la fisarmonica, e “per avere una fisarmonica, 
                  mangiavano la crusca!”. Jovica la imbraccerà presto. 
                  A tredici anni avrà già guadagnato il rispetto 
                  dei suoi parenti grandi musicisti, per saper suonare i Kolo, 
                  la musica delle danze ai matrimoni. Dopo dirà: “C'è 
                  forse un modo più nobile di guadagnarsi la vita che offrire 
                  la tua musica a chi vuole ascoltarla accettando in cambio da 
                  lui quello che liberamente si sente di darti? No, io credo che 
                  non c'è”. Nei locali di tutta Europa, suonerà 
                  i bottoni della sua nuova Dallapè comprata a Stradella 
                  nel 1971. Fidata, inseparabile perché “noi fisarmoniche 
                  conosciamo le parole dei poeti”. 
                  Ma il passaporto vero per il mondo, il mestiere di vivere lo 
                  apprenderà fin da bambino nell'ascolto religioso delle 
                  parole del nonno Mikailo, vecchio e saggio: “La saggezza 
                  no: quella dovete cercarla da soli”. Parole da imprimere 
                  in testa come un testamento. “Più tardi capii che 
                  essere giudicati senza essere conosciuti era il destino secolare 
                  del popolo rom”. Così la solidarietà immediata 
                  e naturale verso chi dice di essere perseguitato, calunniato, 
                  infangato, non creduto diventa la chiave privilegiata per leggere 
                  la realtà. 
                  L'intreccio di sette lettere di Jovica rivolte ai lettori, storie 
                  cantate che spaziano tra genti diverse del suo popolo, l'abilità 
                  affabulatoria e intrigante e la persuasione della parola ci 
                  restituiscono lo spirito resiliente del popolo rom. Uno spirito 
                  solido, coraggioso, energico e vitale, mai disperato, perseverante 
                  e capace di resistere alle avversità e di uscirne rafforzato. 
                  Uno spirito che intende resistere all'omologazione. 
                  Nella terra serba ortodossa che lo ha accolto al mondo, la madre 
                  Radmila e il padre Dusan si guadagnano verso le altre famiglie 
                  quel rispetto fatto di gratitudine che sarebbe durato tutta 
                  la vita. E viene trasmesso al piccolo Jovica dalla madre, guardata 
                  con gli occhi di bambino innamorato, capace di cogliere la destrezza, 
                  la sapienza di Radmila nell'improvvisare tavole imbandite per 
                  ospiti inattesi, sempre graditi. Il cibo, dono dell'accoglienza, 
                  condivisione e ospitalità. 
                  Nella Kris Romanì, il valore della sincerità. 
                  Corte di giustizia del mondo rom, è considerata “giusta” 
                  non perché imposta dall'autorità dello stato, 
                  ma chi deve essere sottoposto al suo giudizio ne riconosce la 
                  saggezza, l'equilibrio, la fama di uomini giusti capaci di giudicare 
                  con sapienza. Accettare il giudizio della Kris, riconoscere 
                  la propria colpa in modo sincero, significa riguadagnarsi la 
                  dignità perduta. 
                  Le parole di Jovica invitano inoltre a cogliere il senso profondo 
                  della famiglia allargata: “Ricco è chi ha più 
                  figli”. E ancora: “Ognuno sente di appartenere all'altro”. 
                  Il racconto si dipana sul significato della verginità 
                  e degli ottanta ducati di dote per sposare Angelina. Parole 
                  per capire, astenendoci dal giudicare anche le croci che segnano 
                  questo popolo. Come quella del furto: “Nessuno vuole rubare, 
                  se ha un'altra possibilità”. Spiega: “Povero 
                  è il rom al quale non entra nessuno in casa, e non si 
                  mangia un piatto in casa sua, e non è invitato da nessuna 
                  parte, né ai matrimoni, né alle feste, a niente. 
                  Quello è povero. Quello che non ha una casa, ma solo 
                  una tenda, che non ha niente, però è generoso 
                  e ospitale, e vanno tanti a frequentare la sua tenda, quello 
                  è ricco. Questa è la differenza di ricchezza tra 
                  i rom”. La ricchezza sta nel carattere, nell'onestà, 
                  nella parola mantenuta, nel metterci la faccia. 
                  Le parti narrative si intersecano con le riflessioni di Moni. 
                  Ci riporta ai nostri metri di giudizio e sollecita un decentramento 
                  di prospettiva. L'ipocrisia della nostra cultura abolisce la 
                  forza logica ed etica dei contesti. Il furto al fisco reca danni 
                  deleteri non più sopportabili dalla collettività. 
                  Derubare il concittadino è classificato tra i comportamenti 
                  veniali. Ancora: “Quali metri di giudizio abbiamo per 
                  capire chi chiede l'elemosina?” Così, parlare di 
                  culture “altre” consente di riportare l'attenzione 
                  sulla nostra cultura guardandola con la lente di ingrandimento 
                  per svelarne le ipocrisie. 
                  Anche Marco, in veste di insegnante, riconduce il discorso nella 
                  quotidianità: la maglietta della Juventus, indossata 
                  da uno studente, con scritto dietro Pirlo, calciatore di origini 
                  sinte o le considerazioni sulle abilità di un altro grande 
                  calciatore svedese di origini rom, uno dei più completi 
                  attaccanti di talento. Ogni occasione è proficua per 
                  aprire spiragli sul mondo rom. Ma l'elenco potrebbe continuare 
                  annoverando nomi di personaggi noti e altrettanto apprezzati, 
                  per capire quanto i nostri pregiudizi siano stigmatizzanti. 
                  Circostanze propizie per intraprendere la storia di questi popoli 
                  stanziali indo-ariani, ma costretti al nomadismo a più 
                  ondate migratorie. Un popolo che ha conosciuto lo sterminio 
                  nei lager. E proprio ad Auschwitz, madre e padre di Jovica sono 
                  statti deportati. 
                  Un popolo che non ha mai dichiarato guerra a nessuno, ma che 
                  dalle guerre si trova travolto, perseguitato, torturato. Come 
                  nelle guerre balcaniche, con la cancellazione della Jugoslavia 
                  dalla carta geografica: “Io non capivo e dicevo che non 
                  dovevo scappare, non avevo nemici”. Ancora oggi in Italia, 
                  Jovica con la sua famiglia sta combattendo un'altra guerra. 
                  Sgomberi. Documenti regolari che scadono. Impossibilità 
                  per lui di un ritorno in Serbia a salutare il padre morente. 
                  Impronte digitali e denuncia per detenzione illegale di armi: 
                  due cacciaviti. Decreto di espulsione. Permesso di soggiorno 
                  provvisorio per motivi umanitari. Presto scaduto. Di nuovo straniero 
                  illegale. Il musicista che non ha ancora una patria ha affiancato 
                  artisti come Piero Pelù, Moni Ovadia, Dario Fo, suonato 
                  a Milano al “Binario 21” della stazione e in tournée 
                  con il suo gruppo I Muzikanti. Oggi è maestro di fisarmonica, 
                  con metodo a orecchio, proprio come si conviene a una cultura 
                  che si basa su una trasmissione orale. Ma il suo non è 
                  ancora riconosciuto come un lavoro. 
                  Jovica nella sua ultima lettera si fa portavoce del suo popolo. 
                  Cosa desideriamo? Documenti in regola, terra a pagamento per 
                  costruire casette e vivere insieme alla famiglia allargata. 
                  E un lavoro. Una vita normale. È tutto. 
                  Così, le parole in musica composte dal padre Dusan ad 
                  Auschwitz, ritrovate da Jovica dopo la sua morte, suonano ancora 
                  come un monito per una società che voglia considerarsi 
                  civile: Na bi strena men – Non dimenticateci.
                  Claudia Piccinelli
                  Jovica, Moni e Marco sono tre amici di “A” 
                  (e miei personali). Con Jovica da anni mi capita di partecipare 
                  a iniziative pubbliche, spesso nelle scuole, in cui io presento 
                  il nostro dvd sullo sterminio nazista degli zingari e lui, spesso 
                  con altri, suona la fisarmonica (e come la suona!). Viaggi, 
                  lunghe chiacchierate, conoscenza reciproca: una storia che continua. 
                  Di Moni mi piace ricordare, tra le altre cose, la comune 
                  partecipazione, tanti anni fa, a un'iniziativa pubblica in occasione 
                  del giorno della memoria, promossa dal e al Teatro Parenti, 
                  di Milano, da Andree Ruth Shammah. Io ero stato chiamato come 
                  anarchico per ricordare i compagni nostri passati per il camino. 
                  Nei pochi minuti previsti, io ricordai appunto la presenza anarchica 
                  anche nei lager nazisti, ma preferii utilizzare il “mio” 
                  tempo per ricordare chi lo sterminio l'aveva subito come conseguenza 
                  non di una personale scelta politica (come, tra i tanti “politici”, 
                  gli anarchici) ma i rom e i sinti che – unici insieme 
                  agli ebrei – furono sterminati su basi “razziali”. 
                  E Moni, che suonò dopo le mie parole, ad esse si unì 
                  sottolineando come nel suo gruppo ci fosse uno zingaro. 
                  E anche Marco, prima per il cd dei “Les anarchistes” 
                  e poi con i suoi volumi di denuncia sociale (lavoro nero, immigrati, 
                  ecc.), ha trovato spazio sulla nostra rivista più volte 
                  in questi anni. 
                  Ecco perché questo libro a sei mani di/su Jovica lo 
                  sentiamo molto come (anche) una nostra storia. Come tutte le 
                  storie di persecuzione e di emarginazione.
                  Paolo Finzi 
                   
                   
                   Carlo Oliva, un anarchico giallo 
                Quella che segue non è una recensione, ma è un 
                  atto di stima e di amore verso un amico e un intellettuale di 
                  grande spessore. Non sarò dunque “distaccata” 
                  quanto basta e quanto deve essere chi si accinge a recensire 
                  un'opera, ma poi penso anche che non si debba sempre esserlo: 
                  la lettura è passione, e di razionale vi è ben 
                  poco. 
                  Carlo Oliva era sì un grande critico della letteratura 
                  di genere, ma era soprattutto uno degli uomini più colti 
                  e intelligenti che abbia conosciuto. Rileggere molte delle sue 
                  recensioni e sentire la sua voce mi dà la stessa emozione. 
                  Perché la voce di Carlo Oliva che arrivava dalle onde 
                  di Radio Popolare, per me era quanto di meno radiofonico esistesse, 
                  ma era anche, allo stesso tempo, un'esperienza ipnotica, così 
                  che quando finivo di ascoltarlo: a) mi veniva voglia di leggere 
                  il libro di cui aveva parlato; b) mi veniva voglia di parlarne 
                  con lui. Spesso, per mia fortuna, entrambe le cose sono capitate.
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Carlo 
                        Oliva disegnato, tanti anni fa,  
                        dalla matita 
                  di Roberto Ambrosoli  | 
                   
                 
                 
                  Le curatrici del volume (Giallo popolare, Mimesis, Milano 
                  2013, pp. 150, € 12,00), Nicoletta Vallorani e Nicoletta 
                  Di Ciolla scrivono nella prefazione: “Questa raccolta 
                  è dedicata a Carlo Oliva, che è stato partecipe 
                  del progetto, ma non ha fatto in tempo a collaborare concretamente. 
                  Le curatrici hanno cercato di mantenerne lo spirito e di intuire 
                  le scelte che avrebbe fatto lui. Dunque la selezione va intesa 
                  in questa prospettiva, ovvero come un tributo a una personalità 
                  che ha contribuito in modo determinante, con la mente e col 
                  cuore, a creare e mantenere un circolo di scrittori e lettori 
                  che alla letteratura di genere facevano riferimento. In questo 
                  lavoro, un ruolo fondamentale va assegnato alla Libreria Sherlockiana, 
                  per anni animata dalle iniziative e dallo spirito inarrestabile 
                  di Tecla Dozio, contro le avverse fortune di questo nostro difficile 
                  contesto culturale. 
                  E già in queste poche righe sta il senso dell'intero 
                  volume: la letteratura poliziesca, popolare e di genere; la 
                  partecipazione attiva di Carlo Oliva alla sua crescita che ha 
                  visto negli anni l'affermazione di alcuni tra i più importanti 
                  autori e le più importanti autrici, italiani e internazionali, 
                  di questo genere letterario che spazia dal noir, al giallo, 
                  al poliziesco, al gotico e va oltre, approdando in quell'unica 
                  categoria che vale e che contiene tutto: la Letteratura”; 
                  ed infine, ultimo elemento ma non meno importante, anzi spesso 
                  vero e proprio pilastro per molti degli autori recensiti da 
                  Carlo, la Sherlockiana di Milano di Tecla Dozio, luogo nel quale 
                  non solo si trovavano libri noti o introvabili, ma in cui ci 
                  ritrovavamo noi, autori e, soprattutto, si potevano incontrare 
                  Carlo e Tecla, le due persone che, insieme a poche altre – 
                  per esempio Luigi Bernardi, scomparso da poco – sono stati 
                  i e sono i grandi “costruttori” della letteratura 
                  di genere italiana. 
                  Le parole di Tecla Dozio che insieme a quella delle curatrici 
                  dà voce all'uomo Oliva oltreché all'intellettuale, 
                  sono rivelatrici: “Non era snob nonostante fosse un serio 
                  intellettuale, nel senso più nobile del termine. Non 
                  evitava di sporcarsi le mani con la letteratura di genere che, 
                  anzi, aveva messo al centro dei suoi interessi di lettore e 
                  studioso. Questo da molti anni, non da quando il 'giallo' è 
                  diventato di moda. Era anarchico nel senso più puro del 
                  termine.” 
                  È facile usare aggettivi, soprattutto quando si deve 
                  scrivere o parlare di qualcuno che non c'è più, 
                  ma in questo caso tutti quelli utilizzati sia da Dozio che da 
                  Vallorani e Di Ciolla corrispondono a una verità profonda 
                  e pura. Sullo stile della scrittura delle recensioni di Oliva, 
                  su quali sono state selezionate e con quale criterio, sono notizie 
                  che troverete nel libro. 
                  Io vi posso dire che leggerlo è riascoltare la voce di 
                  un uomo davvero grande, un intellettuale generoso e un amico 
                  che ha fatto vivere un pezzo importante della cultura di questo 
                  paese miope e un po' mediocre in cui la cultura non è 
                  mai messa tra le priorità per un riscatto morale e civile 
                  come, invece, Oliva e tanti di noi cittadini – autori 
                  e lettori – auspicheremmo. 
                 Barbara Garlaschelli 
                   
                   
                 
                 Bambini 
                  e diritti/
                   Una proposta pedagogica 
                Alice nel paese dei diritti (edizioni Sonda, 2013, pp. 
                  176, € 12,00) è un libro realizzato con la collaborazione 
                  di molte persone e dedicato a bambini e adulti. La presentazione 
                  di Daniele Novara sui diritti e i doveri dei bambini denuncia 
                  la deriva consumistica a cui sono sottoposti i fanciulli nel 
                  mondo occidentale e cosiddetto benestante, ribadendo la necessità 
                  della presenza di educatori che rispettino la differenza infantile, 
                  per una pedagogia “amica” della crescita dei bambini 
                  e delle bambine. Le illustrazioni di Pia Valentinis corredano 
                  il racconto di Alice che esce dal paese delle meraviglie per 
                  esplorare il mondo reale, compiendo un percorso iniziatico e 
                  a tappe, per scoprire e spiegare come sono nati i diritti dell'infanzia. 
                  Le scoperte di Alice sono poi rese fruibili attraverso test, 
                  giochi e racconti. Proseguendo nella lettura, si trova un capitolo 
                  dedicato alla “Convenzione dei diritti dei bambini”: 
                  un documento molto importante, approvato dall'ONU e da tanti 
                  paesi del mondo, impegnati per la tutela dell'infanzia, abilmente 
                  ritrascritto, in formula didattica, da Mario Lodi. Questo libro 
                  ludico e divertente apre ad una serie di riflessioni imprescindibili 
                  non solo sul mondo dell'infanzia, a partire dalla “Dichiarazione 
                  universale dei diritti umani”, fino ad arrivare alla “Convenzione 
                  internazionale sui diritti dell'Infanzia”, approvata dall'Organizzazione 
                  delle Nazioni Unite (ONU) il 20 novembre 1989. Questi documenti 
                  aiutano a comprendere il valore della condizione dello stato 
                  del bambino e della bambina, oltre gli stereotipi, i pregiudizi, 
                  le discriminazioni, perché “siamo noi stessi nella 
                  misura in cui siamo gli altri”, per scoprirci attraverso 
                  le reciproche differenze, le implicite contraddizioni ed esplicite 
                  conflittualità. Infatti, in un contesto sociale micropedagogico, 
                  proprio il conflitto – secondo gli autori –, non 
                  la violenza, favorisce l'incontro e trasforma l'indifferenza 
                  in consapevolezza, per il diritto dei bambini di litigare in 
                  pace, oltre i falsi miti del perbenismo, perché la condizione 
                  infantile del litigio è un diritto. Ovviamente si intendono 
                  contesti di conflitto e non di violenza: due aspetti pedagogici 
                  ben distinti. È necessario gestire i litigi come occasioni 
                  formative, per aprirsi a nuovi ambiti di incontro e transitare 
                  dall'appartenenza escludente alla cittadinanza aperta e solidale, 
                  per favorire la diversità come risorsa. 
                  Alla radice dell'educazione sussiste il concetto di umanità 
                  e lo scopo di adeguare la cultura e gli atteggiamenti sociali 
                  delle persone a una dimensione planetaria, in cui il diritto 
                  del singolo e dei popoli assuma un ruolo centrale. Nel tempo 
                  delle grandi migrazioni, l'intero apparato educativo e formativo 
                  deve considerare la necessità di accogliere bambini provenienti 
                  da vari “altrove”. L'accoglienza comporta di vivere 
                  una relazione che innesti fiducia, valorizzazione e capacità 
                  di trasformare i problemi in risorse. I grandi spostamenti umani 
                  del nuovo millennio costituiscono un segnale importante di una 
                  fase rinnovata dell'umanità, in un percorso collettivo 
                  vissuto come sfida arricchente e non come minaccia che impoverisce. 
                  È sempre più necessario transitare dalla logica 
                  dell'accoglienza, basata sulla visione dello “straniero” 
                  come ospite, all'idea che dobbiamo costruire una convivenza 
                  possibile con il concetto e la pratica della gestione del conflitto. 
                  Infatti il conflitto e il disagio sono provocati da ogni convivenza, 
                  ogni incontro con il nuovo e il diverso, ed è proprio 
                  attraverso la situazione conflittuale e la condizione di disagio 
                  che possiamo giungere alla scoperta dell'altro, ma anche di 
                  noi stessi, per vivere pienamente una cittadinanza aperta, plurale 
                  e solidale, in una innovativa grammatica interiore e in una 
                  nuova e ampia concezione dell'essere umano, aperta al dialogo 
                  e all'incontro, per favorire contesti di pace e rispetto dei 
                  diritti di tutti gli esseri viventi.
                  Laura Tussi 
               |