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                  Movimenti sociali e violenza, alcune riflessioni  
                Il curatore di questa rubrica dà ospitalità 
                  a Stefano Boni, anche lui antropologo, anarchico e collaboratore 
                  di “A”. 
                   
                  Di seguito, sistematizzo ed elaboro idee che sono emerse nel 
                  corso della discussione collettiva con cui si è concluso 
                  l'incontro della EASA (Associazione Europea degli Antropologi 
                  Sociali) sul tema dell'attivismo politico e la possibilità 
                  di giustizia, tenuto a Perugia a fine Ottobre 2013. La tavola 
                  rotonda si è nutrita di molteplici riflessioni sul tema 
                  del rapporto tra movimenti sociali e violenza che mi son preso 
                  la responsabilità di organizzare perché mi paiono 
                  particolarmente feconde. Ringrazio tutti i partecipanti per 
                  uno sforzo collettivo lucido e polifonico che mi duole non essere 
                  riuscito a sintetizzare nella sua ricchezza. 
                  Innanzitutto, si è insistito sul fatto che ogni violenza 
                  è un prodotto culturale, sia nella sua effettiva manifestazione 
                  (l'intensità, la forma e il bersaglio dell'atto brutale), 
                  sia nella sua lettura (il significato e la classificazione etica 
                  del gesto). La violenza, come l'amore, ricorre nei diversi contesti 
                  culturali. Rappresenta una opzione possibile che viene canalizzata 
                  contestualmente in modalità peculiari: varia quindi in 
                  maniera cospicua sia la sua manifestazione che il suo livello 
                  di accettabilità. L'Italia, ad esempio, è caratterizzata 
                  da un livello di violenza relativamente contenuto, combinato 
                  ad una sproporzionata copertura mediatica del tema. 
                  Esiste un chiaro legame tra violenza e potere istituito. Questo 
                  tende a non ammettere che le sue azioni siano categorizzabili 
                  come violenza, presentandole come interventi tecnici necessari. 
                  Si occulta – spesso rendendo invisibile il funzionamento 
                  delle istituzioni – la crudeltà dei Cie, dei manicomi 
                  giudiziari, dei commissariati di polizia o dei macelli industriali. 
                  Inoltre, controllando la rappresentazione mediatica, si enfatizza 
                  la “violenza” commessa dai movimenti sociali. La 
                  rappresentazione delle mobilitazioni popolari, autonome dalle 
                  istituzioni politiche, si concentra e spesso si estingue su 
                  azioni anche molto blande che vengono criminalizzate come “violente”. 
                  L'interruzione di comizi o di riunioni istituzionali, il blocco 
                  del traffico ferroviario o stradale, scandire slogan e resistere 
                  passivamente vengono presentate come frutto di una furia incontrollata 
                  e minacciosa. La possibilità di etichettare queste forme 
                  di azione diretta come “violenza” si fonda sulla 
                  presunta incommensurabilità tra tali azioni e quelle 
                  condotte dalle istituzioni statali: ci viene detto che non c'è 
                  un unico metro di valutazione. 
                  Per uscire da queste mistificazioni e comprendere la violenza, 
                  questa (a) va riconosciuta in tutte le sue forme; (b) va contestualizzata, 
                  ovvero osservata nel contesto che la produce; (c) va esaminata 
                  nella dialettica tra ciò che i soggetti individuali e 
                  collettivi subiscono e ciò che generano; (d) va distinta 
                  in maniera chiara quella contro le persone, gli altri essere 
                  animati, le cose. Va inoltre considerato che esistono violenze 
                  che si dichiarano esplicitamente e altre che non appaiono come 
                  tali, spesso chiamate “violenze strutturali”, quali, 
                  ad esempio, il controllo dei media, la concentrazione della 
                  proprietà, la disoccupazione, il taglio dei servizi sociali. 
                  In questo periodo storico appaiono particolarmente intense le 
                  violenze burocratiche e finanziarie che funzionano mediante 
                  la silenziosa applicazione delle leggi, il dispiegamento del 
                  mercato, la riscossione dei debiti. 
                  In tale contesto, c'è una tendenza diffusa a richiedere 
                  ai movimenti sociali un atteggiamento pacifico, assolutamente 
                  non-violento. In Italia questo si lega al discorso cristiano 
                  che manipola le tematiche associate ad amore, cura, carità. 
                  L'associazione tra movimenti sociali e violenza, continuamente 
                  ribadita dai media, rischia di minare il consenso generalizzato 
                  che le mobilitazioni ricercano. 
                  C'è quindi un dilemma. Da un lato, la non-violenza è 
                  ciò che permette ai movimenti sociali di estendersi in 
                  maniera inclusiva e rispettosa. Dall'altro lato, guardando alla 
                  storia, ogni trasformazione radicale (anche quelle tentate e 
                  fallite) ha richiesto una dose non indifferente di violenza. 
                  La stessa eliminazione dei circuiti culturali a potere diffuso 
                  da parte degli Stati ha preso forme di inaudita violenza, nel 
                  massacro dei vari popoli indigeni; nella repressione di luddisti, 
                  cosacchi e pirati; nelle azioni militari contro la comune di 
                  Parigi e il governo spagnolo nel 1936. L'anarchia non si è 
                  mai consolidata in epoca moderna non perché inattuabile 
                  ma perché sistematicamente, drammaticamente violentata 
                  appena appariva. Per secoli il nesso tra violenza e politica 
                  è stato evidente. Il Settecento, l'Ottocento, e il Novecento 
                  fino alla seconda guerra mondiale, sono segnati da continue 
                  eruzioni di violenza popolare nella forma di insurrezioni, espropri 
                  collettivi ai danni degli aristocratici, roghi dei palazzi dei 
                  potenti, rivolte per l'accesso agli alimenti, banditismo, vendette 
                  e regicidi. La folla in piazza aveva un peso politico perché 
                  portatrice di una evidente dimensione di forza latente: la massa 
                  agiva politicamente attraverso l'azione diretta. 
                  
Il dilemma violenza/nonviolenza 
Dal secondo dopoguerra si instaura il dogma, iscritto nelle costituzioni, che politica e violenza sono irriconciliabili: l'unica via per modificare le politiche governative sarebbero il voto e mobilitazioni che esercitano pressione pacificamente sulle istituzioni legittime. Ampissimi settori sociali hanno chiesto movimenti sociali assolutamente pacificati, che si attivino in mobilitazioni innocue, petizioni, ricorsi legali, elezioni. Spesso, però, l'assottigliarsi delle modalità di lotta dei movimenti sociali a quelle ritenute lecite, genera impotenza. Oggi il dilemma si ripropone: di fronte alla potenza dei mezzi repressivi contemporanei, possiamo immaginare trasformazioni radicali senza un ricorso alla violenza? Le insurrezioni tunisine e egiziane, hanno mostrato che, nella prima fase, l'utilizzo della violenza spesso consiste nell'auto-immolazione, nel suicidio come gesto politico (l'Italia è già da qualche anno in questa fase). La fase successiva consiste nell'indirizzare una violenza, blanda ma sistematica, contro la causa del proprio dolore, nella forma di occupazioni, blocchi, manifestazioni non autorizzate (stiamo entrando in questa fase). Quando le istituzioni ritengono che il protagonismo politico popolare mette in gioco la loro tenuta, attivano forme di repressione di estrema violenza, quelle che hanno causato in Tunisia e Egitto centinaia di morti. Se il movimento non viene eradicato, il confronto, nella fase successiva, spesso si gioca in buona parte sulla violenza. 
Uno dei principali problemi dell'uso della violenza oggi, oltre all'aggiornato apparato repressivo dello Stato, è trovare bersagli utili, ovvero capire contro cosa abbia senso indirizzarla. In un contesto di politica anonima e di dominio economico delocalizzato proprio dell'odierno sistema neoliberista globale, non ci sono più re da uccidere o capitalisti da attaccare. Danneggiare una banca è un atto che scalfisce i simboli del capitalismo, può essere una denuncia della violenza quotidianamente messa in campo da quella istituzione, ma è un atto ben lontano da generare una trasformazione complessiva e strutturata. 
Un secondo problema, è che l'organizzazione della violenza da parte dei movimenti sociali rischia di riprodurne modalità e logiche. Questo appare evidente nelle rivoluzioni comuniste dove la violenza dello Stato è stata replicata dai capi degli eserciti rivoluzionari appena preso il potere. Il contro-potere che imita la violenza sistemica contro cui vorrebbe opporsi, fa nascere enormi e spesso irrisolvibili contraddizioni nei movimenti sociali. 
Per non farsi cogliere impreparati 
                L'antropologia può dare un contributo utile al mondo libertario nella 
                  decostruzione dei discorsi egemonici sulla violenza e nel relativizzare 
                  l'uso della forza, osservandone l'utilizzo in diversi contesti 
                  culturali. Da un processo di ripensamento dialogico e polifonico 
                  possono emergere pratiche di uso della forza che siano in linea 
                  con un'etica diffusa (e che quindi non generino ripudio sociale) 
                  e allo stesso tempo siano efficaci nel sabotare la configurazione 
                  attuale dei poteri. 
                  Non sostengo né la bellezza né l'indispensabilità 
                  dell'azione diretta violenta. Sarebbe però ingenuo pensare 
                  che l'attività politica più efficace sia iscrivibile 
                  nello spazio pacificato consentito dalle istituzioni. Il tema 
                  della violenza, dopo decenni di tabù, torna a 
                  far riflettere e discutere per varie ragioni. Per non farsi 
                  cogliere impreparati, sono gli eventi contemporanei ad imporlo. 
                  Per trovare percorsi di analisi e prassi condivisa, attraverso 
                  un dialogo senza preclusioni, in una galassia libertaria in 
                  cui le posizioni sono molto distanti ma spesso non esplicitate. 
                  Per riuscire a concepire, e possibilmente costruire, una forza 
                  che permetta di difendersi dalla violenza statale. Questa è 
                  riuscita a seccare sistematicamente i germogli libertari che 
                  si sono timidamente manifestati in questi ultimi secoli. Se 
                  dovessero dare nuovi frutti in questi anni imprevedibili, sarebbe 
                  scellerato lasciarli devastare senza opporre una seria resistenza.
                  Stefano Boni
  Per chi 
                  volesse vedere l'intero dibattito, è disponibile in rete 
                  su: www.youtube.com/watch?v=GKQ6Ph6KJCs 
                   
                  Per il programma dell'incontro EASA: http://www.easaonline.org/networks/movement/events/perugia2013.shtml  |