| 
				 cinema 
                  
                Di Mutonia e di altri spazi urbani 
                  
                intervista a Anna de Manincor di Steven Forti 
                    
                Temporary Cities è un progetto del collettivo artistico ZimmerFrei. Attraverso il linguaggio del documentario, i tre artisti hanno realizzato i ritratti di cinque città europee: Bruxelles, Copenaghen, Budapest, Marsiglia e infine Mutonia, la città/comunità creata nel 1990 a Santarcangelo di Romagna. 
                 
                  ZimmerFrei è il nome di 
                  un gruppo di artisti, formato dalla padovana Anna Rispoli, dalla 
                  trentina Anna de Manincor e dal toscano Massimo Carozzi, che 
                  fa confluire nell'ambito delle arti visive esperienze che provengono 
                  dal cinema, dalla musica e dal teatro. Lavorano insieme da una 
                  quindicina d'anni tra Bologna e Bruxelles. Uno degli ultimi 
                  progetti che hanno sviluppato si chiama Temporary Cities. 
                  Si tratta di una serie di ritratti di città europee in 
                  forma di documentario, delle riflessioni sullo spazio urbano 
                  e i cambiamenti imposti o decisi dei luoghi in cui viviamo e 
                  ci muoviamo. Bruxelles, Copenaghen, Budapest, Marsiglia e Mutonia 
                  sono i primi cinque ritratti. Quest'ultimo indaga una città 
                  invero molto sui generis, Mutonia appunto, la città/comunità 
                  creata dalla Mutoid Waste Company nel 1990 nella periferia di 
                  Santarcangelo di Romagna. Di Hometown. Mutonia – 
                  presentato all'ultimo Festival Internazionale del Film di Roma 
                  –, delle altre città di questo progetto e dell'esperienza 
                  di ZimmerFrei, ne abbiamo parlato con la film maker Anna de 
                  Manicor.
                
 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Anna de Manincor  | 
                   
                 
                  
                 
                  Quando è nato il progetto ZimmerFrei? 
                  «Ci siamo conosciuti a Bologna. Tutti e tre studiavamo 
                  al Dams. L'amicizia con Anna Rispoli nasce con l'esperienza 
                  dell'occupazione del Teatro Polivalente Occupato nel 1995. Con 
                  Massimo Carozzi ci siamo conosciuti per altre vie, attraverso 
                  il gruppo musicale Massimo Volume. Il nostro primo lavoro è 
                  del 1999, ma non era ancora firmato ZimmerFrei. Nel 2000 abbiamo 
                  scelto questo nome e abbiamo iniziato a lavorare insieme su 
                  diversi formati: performance che diventano installazioni, video, 
                  video installati negli spazi, lavori solo sonori.» 
                   
                  ZimmerFrei (camera libera): perché questo nome? 
                  «Ragionavamo più come un gruppo musicale o un gruppo 
                  teatrale che come dei performers. Un punto fermo per noi rimaneva 
                  il collettivo. Non volevamo un nome in inglese, né in 
                  italiano. Stavamo lavorando a Rimini con un'altra compagnia 
                  teatrale e davanti alla pizzeria in cui ci trovavamo lampeggiava 
                  un neon: “Zimmer Frei“. Poi lo vedi scritto ovunque 
                  e pensi: “guarda come siamo ben rappresentati sul territorio...“. 
                  E ci siamo sempre detti che se le cose vanno male apriamo un 
                  Bed & Breakfast!» 
                   
                  Quali sono le vostre influenze? 
                  «Ne abbiamo il triplo di una persona normale! Massimo 
                  frequenta molto la scena della sperimentazione musicale a Bologna. 
                  Per un periodo ci siamo applicati molto ai film di David Lynch, 
                  la musica di John Cage e La Monte Young e anche di Morton Feldman. 
                  Per me personalmente i libri di Cormac McCarthy o un film di 
                  guerra come La sottile linea rossa di Terrence Malick. 
                  Ma anche Werner Herzog.» 
                   
                  Com'è lavorare insieme per così tanto tempo? 
                  «Abbiamo vissuto momenti diversi. Momenti di grande unione 
                  e momenti di maggiore libertà. Tutti mi dicono che ci 
                  lasceremo. E invece no, noi continuiamo! Ci dicono poi che il 
                  nostro percorso artistico è a tempo. Ma è una 
                  cosa che ci fa ridere: quale percorso artistico non è 
                  a tempo? Ci sono miriadi di giovani artisti che non durano più 
                  di due stagioni perché quello che si cerca in loro è 
                  che siano giovani e che facciano delle cose nuove... Ma tra 
                  l'essere dei giovani artisti e il divenire dei vecchi maestri 
                  c'è in mezzo tutta la tua vita!» 
                  
                 ZimmerFrei è diventata la tua famiglia? 
                  «Sì. E una storia in comune. Il lavoro artistico 
                  è spesso un lavoro di grande solitudine in cui perdi 
                  il contatto con l'esterno. Il mantenimento di un'identità 
                  senza corpo, ZimmerFrei, è stato chiave per superare 
                  questa problematica. E dunque il discorso che crei la tua personalità 
                  d'artista sulla tua psicologia perde di senso. Siamo davvero 
                  come una band in tour. Possiamo anche scomparire dalla memoria 
                  di tutti, ma possediamo una memoria plurale che è diventata 
                  la nostra vita.» 
                   
                  Dove è nato il progetto di Temporary Cities? 
                  «Nel 2010 da una proposta del Kunsten/Festival des Arts 
                  di Bruxelles. Ci proposero di fare un lavoro su rue de Laeken, 
                  la strada in cui si trovava la sede del festival. 
                  È nato così il film-documentario LKN Confidential, 
                  con i luoghi privati ad accesso pubblico di questa strada, i 
                  negozianti, i bar, gli uffici al piano terra. All'inizio parlavamo 
                  del lavoro, ma era molto incerto, non aveva un soggetto. Abbiamo 
                  dunque girato un secondo film incentrato sulla visione di questa 
                  strada dal futuro con occhi totalmente alieni. E da lì 
                  le nostre riflessioni sono virate sulla morte. Abbiamo provato 
                  ad immaginare cosa succede il giorno dopo, non tanto le questioni 
                  emotive, ma quelle pratiche. Chi apre il negozio?» 
                   
                  E poi? 
                  «Il film è stato visto dai curatori di In Situ, 
                  circuito europeo di festival dedicati allo spazio urbano, ed 
                  è nata l'idea di sviluppare un progetto più ampio. 
                  Dei ritratti di città, le città di questo circuito: 
                  Copenaghen, Budapest, Marsiglia... Dei ritratti molto circoscritti 
                  ma in cui si potesse riverberare un tessuto urbano molto grande. 
                  Ad esempio a Copenaghen abbiamo fatto un intero film, The 
                  Hill, dal punto di vista di una panchina su una collina 
                  nel quartiere popolare di Nørrebro. È una collina 
                  artificiale che ricopre una palestra pubblica, costruita contro 
                  il volere di alcuni degli abitanti, che temevano di perdere 
                  lo spazio comune all'aperto. Le nostre sono delle riflessioni 
                  sullo spazio urbano che vengono proiettate nel luogo in cui 
                  i film vengono girati. La loro natura è di essere dei 
                  cinema site-specific. A Santarcangelo il film è 
                  stato proiettato dentro una roulotte dei Mutoid.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Il collettivo ZimmerFrei  | 
                   
                 
                
                  Dopo Copenaghen siete andati a Budapest. 
                  «A Budapest ci siamo focalizzati sull'Ottavo distretto, 
                  un antico quartiere rom. Il progetto di riqualificazione urbanistica 
                  e di ingegneria sociale si è bloccato con la crisi economica 
                  e ci sono dei lotti vuoti, dei buchi nel tessuto urbano. La 
                  domanda alla base di Temporary 8th è stata: che 
                  cosa ne fanno di questi buchi le persone che ci vivono? La modalità 
                  era di farci portare da chi ci viveva nei luoghi, filmarli mentre 
                  tutti noi stavamo dietro la camera. L'accento non è sull'inquadratura, 
                  sull'immagine. Ci siamo resi conto che si rompeva la rottura 
                  tra in campo e fuori campo. Le persone del luogo molto spesso 
                  attraversavano l'inquadratura e irrompevano nel campo nella 
                  foga dei loro racconti.» 
                   
                  E poi è stato il turno di Marsiglia. 
                  «Il progetto era legato a Marsiglia capitale europea della 
                  cultura 2013 e al festival Lieux Public. Il tema, comune 
                  a tutte le grandi città europee, è quello del 
                  ridisegno urbanistico, soprattutto del vecchio porto e del cosiddetto 
                  waterfront. È un tema molto grande che coinvolge 
                  la politica e l'economia. È come se le città si 
                  assomigliassero sempre di più. Come per i musei con quel 
                  discorso, che ormai si è esaurito, del museo come volano 
                  per una città, la cultura come cultura di massa. E ora 
                  le strutture sono care da mantenere... Non avevamo voglia di 
                  fare un altro film su tutto questo. Ci siamo trovati in un quartiere 
                  di resistenza popolare, Noailles, il quartiere del mercato, 
                  una zona di immigrazione storica, dove le persone condividono 
                  la povertà e la marginalità. È un luogo 
                  di umanità molto forte perché la gente è 
                  costretta a vivere in strada. Siamo stati tre settimane in un 
                  bar diurno, il Mon Bar, frequentato da habitué. Una situazione 
                  in cui tutti si conoscono, ma non sei amico di nessuno. Una 
                  specie di porto di mare e allo stesso tempo di luogo di riconoscimento. 
                  Il film si intitola La beauté c'est ta tete, ossia 
                  “la bellezza è la tua testa“.» 
                   
                  Cosa sapevi dei Mutoid prima di iniziare questo progetto? 
                  «Sapevo chi erano dagli anni novanta, da quando vivevo 
                  a Bologna. Mi attraevano molto, ma allo stesso tempo ne avevo 
                  un po' di paura per la loro estetica post apocalittica, alla 
                  Mad Max e alla Waterworld. Avevo una specie di 
                  timore reverenziale per delle persone molto radicali nel loro 
                  modo di vivere e anche nell'estetica e nella produzione artistica. 
                  Per me quella del cyber punk e del sopravvivere in una 
                  preistoria post industriale è una stagione finita. Per 
                  me quello di avere a che fare con i metalli e il fuoco dopo 
                  l'Apocalisse è un'immaginazione che si è affievolita 
                  perché il futuro che immaginavamo allora si è 
                  rivelato un presente diverso. I Mutoid invece sono ancora molto 
                  legati a quell'immaginario. E lo conservano come comunità. 
                  Sono delle personalità singolari che a volte lavorano 
                  insieme e altre volte no e che hanno fatto una scelta di vita 
                  autodeterminata in cui trasformano luoghi non abitabili in luoghi 
                  abitabili. Ora i Mutoid possono essere interpretati dal punto 
                  di vista della sostenibilità, delle comunità autosufficienti 
                  e hanno un aspetto molto interessante dal punto di vista della 
                  connessione abitazione-territorio che elimina la parte di ingegneria, 
                  ma in realtà vivono con molte meno strutture di quelle 
                  che noi gli attribuiamo. Vivono davvero per i fatti loro, nonostante 
                  siano cittadini di Santarcangelo e i loro figli frequentino 
                  le scuole di Santarcangelo e siano perfettamente inseriti in 
                  quel contesto romagnolo!» 
                    
                  Com'è stato il lavoro per Hometown. Mutonia? 
                  «È stato molto lungo e complesso. I Mutoid sono 
                  molto consapevoli della loro immagine e la proteggono. Una cosa 
                  che mi riporta molto a delle riflessioni che facevamo negli 
                  anni novanta: la tua persona e il tuo nome sono di tua proprietà 
                  e sono un bene che tu decidi come utilizzare. Decidi la tua 
                  identità a seconda del contesto. I Mutoid lo fanno in 
                  maniera anticorporativa. Questo discorso che è stato 
                  superato nel loro vivere comune mi ha ricordato anche quanto 
                  abbiamo svenduto quest'idea. Ora siamo noi che buttiamo la nostra 
                  vita e le nostre cose più intime in luoghi comuni e li 
                  facciamo diventare appunto dei luoghi comuni. Pensa ai social 
                  network. Hanno sbriciolato un patrimonio. Dei discorsi che 
                  sono stati approfonditi in un periodo sono stati poi abbandonati, 
                  per quanto non avessero ancora detto tutto quello che potevano 
                  dire. E dunque i Mutoid sono stati l'occasione per poter riprendere 
                  dei discorsi in cui io stessa mi ero impegnata, ma dei quali 
                  mi ero dimenticata.» 
                   
                  Ad esempio? 
                  «Voglio che il mio nome sia abbinato al mio viso oppure 
                  no? Voglio essere identificata o no? O dei discorsi anche molto 
                  semplici: cosa trasmetto ai miei figli? Voglio o non voglio 
                  che vengano coinvolti nelle riprese del film? Domande anche 
                  molto naturali tra generazioni diverse e nella relazione padri-figli: 
                  cosa è stata la mia vita? Cosa è la tua? Un contesto 
                  così particolare come quello dei Mutoid ti permette di 
                  toccare delle cose che sono davvero quotidiane. Anche questioni 
                  molto semplici: mia figlia ha 14 anni e vuole una stanza sua. 
                  Come facciamo? La costruiamo con la motrice di quel camion e 
                  la mettiamo su un albero? Ma poi? Per andare in bagno come farà?» 
                   
                  Com'è stato il rapporto con loro durante le riprese? 
                  «Li abbiamo conosciuti uno per uno. E con ognuno si è 
                  instaurata una relazione diversa. C'è chi vuole parlare 
                  solo del lavoro, con alcuni siamo diventati amici davvero. Non 
                  sono un collettivo coeso, non decidono le cose in assemblea. 
                  A volte ci sono delle coincidenze di intenzioni, altre volte 
                  ci sono dei lunghissimi bracci di ferro.» 
                   
                  E ora quali sono i vostri prossimi progetti? 
                  «Vogliamo continuare a fare dei lavori attraverso l'oggetto 
                  film. Siamo stati invitati da un altro festival del circuito 
                  In Situ, ma faremo un lavoro diverso perché non c'è 
                  nessuna città a Terschelling, un'isola di quattro mila 
                  abitanti al nord dell'Olanda. Sarà un lavoro più 
                  sulla percezione del territorio che sulla dimensione urbana.» 
                 Steven Forti 
                
                
               |