Campi rom/Una politica assurda 
                   
                  Caro Paolo, 
                  ho letto l'articolo di tuo fratello Enrico sul penultimo numero 
                  di “A”. I dati che riporta ne “Il 
                  cuore freddo di molti italiani” a proposito dei rom 
                  sono impressionanti, ma per noi che lavoriamo su queste tematiche 
                  purtroppo ben noti. 
                  Il punto è: com'è che il popolo italiano, in genere 
                  non particolarmente “cattivo” (!) e che ha mostrato 
                  anzi capacità di solidarietà piuttosto ragguardevoli 
                  in molte occasioni, è arrivato a un tal punto di ostilità 
                  (di razzismo) da far sì che solo il 17 per cento sia 
                  in grado di mostrarsi solidale verso questa gente? 
                  Noi – mi riferisco sia all'Associazione OsservAzione di 
                  cui faccio parte, anche se ormai ne sono parte poco attiva per 
                  le conseguenze di una brutta malattia, sia a molte altre organizzazioni 
                  tra cui la 21 Luglio – pensiamo che l'immagine che è 
                  stata costruita addosso ai rom, attraverso il termine improprio 
                  di 'nomadi' e le condizioni di vita in cui sono costretti a 
                  vivere da oltre trent'anni qui in Italia, abbia influito pesantemente 
                  su quei sentimenti negativi già presenti da lungo tempo 
                  ed espressi nel termine “zingari”. 
                  I dati ricordati da Francesca de Carolis nel riquadro “Roma 
                  / Dopo il fallimento dell'“Emergenza Nomadi” 
                  (“A” 382, estate 2013) rispondono in parte alla 
                  mia domanda. Responsabili delle condizioni di vita dei rom sono 
                  le politiche che lo stato italiano, sia quello centrale sia 
                  quello regionale sia, spesso ma non sempre, quello comunale, 
                  ha messo in atto da quando, trent'anni fa, le loro presenze 
                  hanno cominciato a salire, come risultato dell'immigrazione 
                  dalla Jugoslavia, rendendo visibile la loro presenza sul territorio. 
                  Vita in campi autorizzati e non, e sgomberi continui, in tutta 
                  l'Italia: così si può descrivere la vita di gran 
                  parte dei rom immigrati in questi trent'anni. Scrive Francesca 
                  de Carolis: “ (...) a Roma sono stati spesi più 
                  di 62 milioni di euro. [Oggi] I villaggi attrezzati sono otto, 
                  mentre gli insediamenti a Roma sono quintuplicati, diventati 
                  più di 500 nonostante i 536 sgomberi forzati” 
                  (corsivo mio). 
                  E in tutta l'Italia? Moltiplichiamo queste cifre per le città 
                  in cui vi sono stanziamenti di rom e otterremo cifre inimmaginabili, 
                  cifre di cui solo da poco si comincia a parlare. 
                  Una ricerca delle associazioni Berenice, Compare, Lunaria e 
                  OsservAzione, appena pubblicata, dal titolo “Segregare 
                  costa: la spesa per i campi nomadi a Napoli, Roma e Milano” 
                  cerca di approfondire questo tema. Le conclusioni a cui arrivano 
                  gli autori sono riassunte nella frase finale della ricerca: 
                  “spreco di soldi pubblici”. 
                  Ma un piccolo dubbio mi ronza in testa: dopo trent'anni di questa 
                  solfa è davvero ancora il caso di parlare di spreco? 
                  O forse dovremmo aver il coraggio di dire cecità strumentale, 
                  sfruttamento dei rom e delle loro deboli possibilità 
                  di difesa per far girare soldi? 
                  Tuo 
                 Piero Colacicchi 
                  Firenze 
   
                  Con Maria, con Leonarda, con il popolo rom 
                Da giorni in Italia è in atto l'ennesima, preoccupante, 
                  campagna di odio antizigano, fomentato ad arte da trasmissioni 
                  sedicenti “di servizio pubblico”, rotocalchi di 
                  intrattenimento, telegiornali, quotidiani... 
                  Sappiamo che quando parliamo di rom, in questo paese che impedisce 
                  ai superstiti dei naufragi di Lampedusa di partecipare ai funerali, 
                  lo stato d'animo non è neutro. 
                  Questa non è una sensazione, ma una consapevolezza accertabile 
                  attraverso la frequentazione delle associazioni di solidarietà 
                  con le comunità romanés, la conoscenza e l'informazione 
                  attraverso le pubblicazioni, i testi di ricerca, le statistiche 
                  delle condizioni drammatiche nelle quali le famiglie rom sono 
                  costrette a sopravvivere a causa delle politiche istituzionali 
                  locali e nazionali, con la complicità di un razzismo 
                  popolare forse senza precedenti. 
                  Chi pretende di informare, chi si assume l'onore di fare informazione 
                  in Italia ha il doppio onere di essere informato e di trasmettere 
                  correttamente le notizie, senza allusioni o esplicite affermazioni 
                  di razzismo. È stato sostenuto, in una trasmissione televisiva 
                  della tv di stato, che la bambina sarebbe stata rapita da un 
                  network di trafficking di minori con sede in Bulgaria, e che 
                  sarebbe stata successivamente comprata dalla famiglia rom per 
                  “purificare la razza” della comunità romanés. 
                  Spesso vediamo, nell' “altro” da “noi”, 
                  lo specchio di ciò che siamo... 
                  Niente di quanto è stato sostenuto, con la presunzione 
                  e la certezza della Verità granitica, ha ancora alcun 
                  fondamento. Un'ipotesi come un'altra, ma che sembra “pesare” 
                  più di altre, scartate a priori. 
                  L'immagine di Maria e l'utilizzo del suo corpo mediatizzato 
                  e strumentalizzato secondo costruzioni comunicative che alludono, 
                  spingono a prendere parte, a parteggiare per i bravi (la polizia 
                  che l'ha “salvata” dagli “aguzzini”) 
                  contro i cattivi (la famiglia rom), denota il contrario della 
                  sensibilità dovuta in presenza della salvaguardia di 
                  un minore: le foto contrapposte della piccola con i capelli 
                  arruffati e le treccine più scure del biondo dei capelli 
                  e le manine sporche, contrapposta a quella della bambina “ripulita” 
                  dei segni del suo passato “vergognoso”, con il vestitino 
                  nuovo e i capelli completamente biondi, al sicuro nell'associazione 
                  di affidamento, quasi a voler “smacchiare” una colpa. 
                  È forse una colpa essere poveri? No, non lo è. 
                  È una condizione sociale, non una condizione dello “spirito”, 
                  né ontologica, né tantomeno “innata”, 
                  proprio come la razzista equazione che sta nuovamente passando 
                  con ciò che è conosciuto per “linea del 
                  colore”: una piccola bionda non può essere figlia 
                  di genitori rom. 
                  È talmente “normale” l'orrore della “razza” 
                  che in questi giorni stanno moltiplicandosi, in Europa, massicci 
                  controlli nei confronti di famiglie rom con minori “bianchi”. 
                  Qualcuno ha forse pensato, riflettuto sul fatto che questi controlli 
                  non sono affatto “normali”, né basati su 
                  alcunchè di scientifico? 
                  Al contrario, a seguito dell'oggettivazione del corpo di Maria 
                  – il corpo del reato – cresce l'accanimento poliziesco 
                  e razziale verso una minoranza vittima di molti olocausti, piccoli 
                  e grandi, nella storia passata e recente di una rilevante parte 
                  del mondo. 
                  Questo è l'orrore, questo ritorno del passato con gli 
                  abiti ipocriti di chi dice di voler tutelare i diritti dei più 
                  deboli, sbattendo i mostri in prima pagina: le foto di fronte 
                  e di profilo dei due rom del campo greco sulle televisioni pubbliche 
                  italiane. Foto terribilmente simili a quelle dei perseguitati 
                  del Casellario Politico fascista e dei reclusi nei campi di 
                  sterminio nazisti: in entrambi questi elenchi dell'abominio 
                  troverete volti di donne e uomini rom. Colpevoli di vivere secondo 
                  regole non scritte, colpevoli di essere poveri e di vivere in 
                  “discariche” a cielo aperto: non-luoghi nei quali 
                  le istituzioni nazionali li costringono a vivere, senza assistenza 
                  e lontani dal centro delle città, in periferie abbandonate 
                  e prive di mezzi di trasporto. 
                  I rom hanno molti doveri per lo stato italiano, ma nessun diritto. 
                  Sono in maggioranza italiani, ma sono trattati peggio che se 
                  fossero stranieri. 
                  Sappiamo che la costruzione dell'immaginario passa attraverso 
                  i corpi, e attraverso le modalità con le quali alcuni 
                  corpi contano più di altri, e vengono “raccontati” 
                  con differenti “marcature”. Così la cameretta 
                  di Maria, in ordine, pulita e ben arredata, è elemento 
                  di sospetto in una famiglia poverissima. In un mondo colmo di 
                  pregiudizi, questo è ciò che il nostro “sguardo” 
                  vuol vedere. 
                  Così la giovane e coraggiosa Leonarda, pronta a percorrere 
                  la propria strada di autodeterminazione in Francia anche contro 
                  le violenze subite in famiglia, viene obbligata a scegliere 
                  tra ciò che è ritenuta essere la “sua razza” 
                  (la sua famiglia romanés, espulsa in Kosovo) e il cosiddetto 
                  diritto/dovere di studio, magari per diventare “una brava 
                  francese”. E magari per vergognarsi, in futuro, di avere 
                  genitori “rom”. 
                  Si parla tanto di aiutare le donne a denunciare chi le stupra 
                  e molesta: lo stato francese si è reso complice della 
                  violenza contro Leonarda, spingendola a ritrattare le precedenti 
                  accuse verso il padre, a causa dell'attacco del governo francese 
                  contro la sua famiglia. Ma l'utilizzo del sessismo per politiche 
                  razziste e del razzismo per attacchi sessisti, noi, lo sappiamo 
                  riconoscere. Noi sappiamo da che parte stare. 
                  La piccola Maria non è figlia “biologica” 
                  di chi l'ha comunque accolta e nutrita, pur in povertà. 
                  I motivi per i quali la bambina è cresciuta in quella 
                  famiglia rom possono essere tantissimi. La tv di stato e quella 
                  privata hanno già decretato il verdetto. 
                  Noi stiamo con Maria, con Leonarda e con il popolo rom. 
                 Osservatorio antidiscriminazioni 
                  altra.info@yahoo.it 
                  (24 ottobre 2013) 
   
                  Torino/Appello alla solidarietà 
                Cari compagni e compagne, 
                  siamo obbligati a fare appello alla vostra solidarietà 
                  attiva. Numerosi compagni e compagne della Federazione Anarchica 
                  Torinese sono sotto processo per la loro attività politica 
                  e sociale. Abbiamo in corso ben due maxi processi per la nostra 
                  attività antirazzista, un processo per antifascismo, 
                  uno per antimilitarismo, uno per il nostro impegno nel movimento 
                  No Tav. 
                  Banali azioni di informazione e lotta sono entrate nel mirino 
                  della magistratura. Un presidio antirazzista diventa violenza 
                  privata, una performance antimilitarista un'offesa alla sacralità 
                  dell'esercito, il buttare via un manifesto fascista danneggiamento, 
                  un'azione popolare di contrasto al Tav viene perseguita con 
                  durezza. 
                  Alcuni di noi hanno già subito nel recente passato condanne 
                  per la propria attività politica. Alcuni di noi rischiano 
                  la galera. 
                  Siamo convinti che il miglior modo per rispondere alla repressione 
                  dello Stato consista nel continuare con ancora maggior impegno 
                  le lotte nelle quali siamo impegnati. 
                  Siamo anche convinti che campagne pubbliche di appoggio ai compagni 
                  finiti nel mirino della magistratura possano riportare sul terreno 
                  della lotta le vicende che lo Stato vorrebbe relegare in un'aula 
                  di tribunale. 
                  I processi hanno anche un costo molto elevato, sia per gli avvocati 
                  che per tutte le carte che la burocrazia della repressione pretende. 
                  Ci servono urgentemente circa 10.000 euro. Non siamo in grado 
                  di farcela da soli. Il conto corrente postale cui potete inviare 
                  i vostri contributi è il numero 10 137 38 032 – 
                  intestato a Maria Margherita Matteo, Torino. 
                  codice IBAN IT35 Y076 0101 0000 0101 3738 032. Codice BIC/SWIFT 
                  BPPIITRRXXX 
                 Federazione Anarchica Torinese 
                  fat@inrete.it 
   
                  Il cimitero di Spoon River 
                Tutto il mondo è paese, un paese è tutto il mondo, 
                  per la stessa ragione per cui in ogni singola cellula esiste 
                  il segreto della vita; in un frammento, il dna racconta l'intero 
                  romanzo biologico e genetico di un individuo... un paese è 
                  il filamento di dna della Terra; un extra-terrestre potrebbe 
                  studiare la psicologia comportamentale dell'intero pianeta visitando 
                  Ducenta (Villanova di Bagnacavallo o il “Villaggio Anic”). 
                  Un paese è l'archetipo di ogni carattere dell'umana commedia: 
                  c'è lo scemo, ci sono i fedifraghi, gli omosessuali più 
                  o meno dichiarati, meretrici, notabili, vittime, carnefici... 
                  tutti concentrati in pochi chilometri quadrati e in un angolo, 
                  un piccolo scampolo di terra circoscritto... l'album dei ricordi: 
                  il cimitero. 
                  Un condominio di immagini e parole, dove il passato si intreccia 
                  con il presente dei parenti, degli amici sopravissuti che ancora 
                  calcano il palcoscenico della vita per continuare una rappresentazione 
                  che si ripropone sempre uguale e sempre diversa. 
                  Ho visto le immagini del cimitero di Spoon River, non è 
                  un cimitero, è la fotografia dell'immagine che tutti 
                  noi occidentali abbiamo di un cimitero: alberi che ombreggiano 
                  tombe sormontate da croci in pietra, incrostate di muschio e 
                  muffe, epitaffi consolatori incisi su lapidi, consumate dal 
                  tempo, che si affacciano su sentieri ghiaiosi, delimitati dall'erba 
                  scomposta dal vento... luogo costruito dai vivi per i vivi, 
                  dove i defunti giacciono sotto due metri di terra e i vivi si 
                  aggirano minacciosi in superficie, mistificandone il ricordo 
                  e le verità. 
                  Nemmeno la pace è concessa alla “Grande consolatrice”, 
                  non c'è perdono, consapevolezza n'è pietà 
                  o pentimento, non c'è saggezza o riposo. I vivi fanno 
                  sì che i morti portino con loro le meschinità, 
                  il desiderio di vendetta, l'astio, le recriminazioni, l'odio... 
                  e ciò, è rassicurante: c'è ancora vita, 
                  dopo la morte. 
                  E così Dante Alighieri fa in modo che il conte Ugolino 
                  mastichi la nuca dell'arcivescovo Ruggeri per l'eternità 
                  e, con quale immagine: 
                  Noi eravam partiti già da ello, 
                  ch'io vidi due ghiacciati in una buca, 
                  sì che l'un capo a l'altro era cappello;  
                  e come 'l pan per fame si manduca, 
                  così 'l sovran li denti a l'altro pose 
                  là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca 
                  (...) 
                  La bocca sollevò dal fiero pasto 
                  quel peccator, forbendola a' capelli 
                  del capo ch'elli avea di retro guasto. 
                   
                  Nessun perdono, nessuna pietà, ma l'orrore bestiale di 
                  una vendetta, lo stesso sentimento di rivalsa che ha ispirato 
                  Edgar Lee Masters nella sua poesia Il Giudice Selah Lively: 
                  Ora Jefferson Howard e Kinsey Keene 
                  e Harmon Whitney e tutti i pezzi grossi 
                  che vi avevano schernito sono costretti a stare in piedi 
                  davanti alla sbarra e pronunciare “Vostro Onore”. 
                  Be', non vi par naturale 
                  che gliel'abbia fatta pagare? 
                   
                  Astio e vendetta anche nella versione di Fabrizio De André: 
                  E allora la mia statura 
                  non dispensò più il buonumore 
                  a chi alla sbarra in piedi 
                  mi diceva “Vostro Onore”, 
                  e di affidarli al boia 
                  fu un piacere del tutto mio, 
                  prima di genuflettermi 
                  nell'ora dell'addio 
                  non conoscendo affatto 
                  la statura di Dio. 
                  Non c'è comunicazione fra i morti, tutto rimane congelato 
                  al momento in cui hanno cessato di vivere, non c'è nuova 
                  conoscenza perché fra vivi e morti non c'è relazione 
                  e non c'è nessuna comprensione nemmeno fra vivi; tutti 
                  consumano la propria vita come fossero i primi e gli ultimi... 
                  i soli: 
                  Ognuno sta solo sul cuor della terra 
                  trafitto da un raggio di sole: 
                  ed è subito sera  
                   
                  o, se preferite: 
                  Questo pensiero non vi consoli, quando si muore si muore 
                  soli. 
                 Mauro Squarzoni 
                  Prosegue il dibattito 
                  su  
                  “Libertà senza Rivoluzione” 
                 Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione 
                  di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, 
                  Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche 
                  stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri 
                  successivi sono intervenuti Franco 
                  Melandri e Domenico 
                  Letizia (“A” 378, marzo), Luciano 
                  Lanza e Andrea 
                  Papi (“A” 379, aprile), Luigi 
                  Corvaglia e Alberto Ciampi 
                  (“A” 380, maggio), Marco 
                  Cossutta e Salvo 
                  Vaccaro (“A” 381, giugno), Persio 
                  Tincani e Fabio 
                  Massimo Nicosia (“A” 382, estate), Enrico 
                  Ferri e Antonio 
                  Cardella (“A” 383, ottobre) Cosimo 
                  Scarinzi e Francesco 
                  Codello (“A” 384, novembre) e ora Claudio Venza 
                  e Lorenzo Pezzica. 
                  Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda 
                  intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi. 
                 
                    Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/15 
                   
                  Claudio Venza/Nico Berti, un critico “a-rivoluzionario e a-riformista” 
                Non è proprio l'ultimo simpatizzante giunto quasi per 
                  caso. Nico Berti è orgoglioso di essere stato uno dei 
                  pochi giovani anarchici ad avvicinarsi al movimento nei primi 
                  anni sessanta. Egli ha avuto un ruolo di primo piano nella formazione 
                  di una “vulgata” libertaria a cominciare dai primi 
                  anni settanta. Ha percorso in lungo e in largo l'Italia per 
                  animare dibattiti e convegni promossi dal Centro Studi Libertari 
                  di Milano, vere officine di cultura. Senza contare i numerosi 
                  libri di storia del pensiero e del movimento anarchici, dal 
                  “mattone” di circa mille pagine che affronta due 
                  secoli di pensiero antiautoritario (Lacaita, 1998) alle monumentali 
                  biografie di Francesco Saverio Merlino e di Errico Malatesta. 
                  Tali informazioni, forse superflue per compagni meno giovani, 
                  servono per capire lo spirito con cui è stato scritto 
                  questo ennesimo libro di analisi e di proposte attorno all'anarchismo 
                  di ieri, di oggi e di domani. Insomma è un lavoro che 
                  merita seria attenzione invece di una schematica e troppo comoda 
                  etichettatura. 
                  Questo è innanzitutto un testo di filosofia politica 
                  pieno di ragionamenti sui termini fondamentali di quella scienza 
                  che mancherebbe all'anarchismo e che qui è offerta in 
                  modo perentorio. Molte sono le asserzioni decise e senza indugi. 
                  Valga citarne alcune: “Il pensiero rivoluzionario è 
                  necessariamente un pensiero fondamentalista”, “La 
                  Rivoluzione è priva di significato e, soprattutto, è 
                  inutile”, “La Rivoluzione è autoritaria perché 
                  è impossibilitata a costruire, in breve tempo, alcunché 
                  di legittimo”. Logicamente se si parte da questi principii 
                  ne discende che l'aspirazione alla libertà, vero nocciolo 
                  duro dell'anarchismo, deve prescindere da ogni tipo di Rivoluzione 
                  che la nega alle fondamenta. Qui non si affronta, nemmeno di 
                  passaggio, la possibile esistenza di una Rivoluzione Libertaria. 
                  La stessa esperienza spagnola, a cui Nico fa spesso riferimento 
                  quale più alto esempio di tentativo libertario nell'Europa 
                  Occidentale, sarebbe stata sconfitta per una intrinseca debolezza 
                  o contraddizione: le masse spagnole non erano sufficientemente 
                  rivoluzionarie. Una simile affermazione mi pare francamente 
                  molto parziale e piuttosto autoconfermante. 
                  L'analisi bertiana del fenomeno rivoluzionario è davvero 
                  spietata e la condanna dell'anarchismo all'irrilevanza attuale 
                  è senza appello. La causa risiede nella sconfitta definitiva 
                  del comunismo che avrebbe comportato anche la fine del movimento 
                  operaio e socialista nel quale, bene o male, l'anarchismo si 
                  è riconosciuto. Dal successo del capitalismo deriva anche 
                  la fine dell'“anarchismo classico”. E come si può 
                  salvare l'anarchismo? Per il “profeta” Nico solo 
                  trovando un confronto, e una collaborazione, con l'ideologia 
                  meno lontana (e vincente) del mondo occidentale: il liberalismo 
                  democratico. 
                  Il bivio per l'anarchismo, a questo punto della storia umana, 
                  sarebbe tra il preservare la memoria del passato oppure l'“aprirsi 
                  al futuro, rinunciando a una parte – non piccola – 
                  della sua identità pregressa”. La strada maestra, 
                  per Berti, sarebbe quella della “libertà che parla 
                  a nome dell'eguaglianza” ovvero l'accettazione del fatto 
                  che “il politico è più importante del sociale”. 
                  Ancora una volta la storia spagnola dimostrerebbe che “la 
                  rivoluzione sociale non ha in sé la risoluzione di se 
                  stessa”. Altrimenti (e ciò, secondo me, è 
                  poco fondato storicamente) “gli anarchici avrebbero vinto”. 
                  Un punto forte per evitare l'emarginazione risiederebbe nella 
                  scelta del “male minore”, quello che è “il 
                  più possibile vicino a ciò che piace”. Va 
                  quindi rifiutata la sirena dell'utopia, troppo a lungo ascoltata 
                  (ma era pure uno dei punti centrali dell'attività del 
                  Centro Studi Libertari di Milano a cui egli ha dato per decenni 
                  un notevole contributo!) in quanto “orizzonte teorico-concettuale 
                  che ha drogato il pensiero anarchico”. 
                  Questo testo presenta una tranquilla (“candida” 
                  direbbe l'autore) affermazione sulla superiorità della 
                  civiltà occidentale sulle altre civiltà che “non 
                  presentano prioritariamente il valore centrale della libertà”. 
                  Così Berti risponde ad una “operazione delirante 
                  sotto il profilo epistemologico e abominevole sotto l'aspetto 
                  etico”, quella del relativismo culturale che sta affascinando 
                  vari ambienti libertari. 
                  Molto significativa, e molto discutibile, appare la stroncatura 
                  dedicata a tre militanti (e teorici) dell'anarchismo: Tomás 
                  Ibáñez, Andrea Papi e Maria Matteo. I tre esprimono 
                  convinzioni rivoluzionarie, sia pure aggiornate e rivedute, 
                  rispettivamente in base al desiderio di rottura radicale, al 
                  bisogno di una trasformazione profonda, all'urgenza dell'agire 
                  rivoluzionario. Ebbene Berti contesta queste aspirazioni ripetendo 
                  “Perché mai?”, ma trascura il fatto che tutti 
                  e tre, e non solo loro, non si rassegnano a vivere nell'attuale 
                  tipo di società basata sullo sfruttamento, l'oppressione, 
                  la gerarchia. Chissà se gli anarchici dovrebbero, per 
                  uscire dall'insignificanza storica e politica, rinunciare alla 
                  lotta antiautoritaria e sedersi a chiacchierare con i potenti 
                  di turno, i liberaldemocratici? Non penso che chi continua a 
                  dichiararsi anarchico, e che qui ha realizzato un grande sforzo 
                  intellettuale per ridefinire l'anarchismo, voglia indicare l'inutilità 
                  di ogni forma di opposizione al sistema dominante in quanto 
                  “male minore”. 
                  Forse è un dato che l'anarchismo non è in grado 
                  di giocare in proprio un ruolo importante sullo scenario complessivo. 
                  È però altrettanto vero che “insistere sui 
                  nessi che uniscono l'idea anarchica a quella liberale e a quella 
                  democratica”, come Nico propone in conclusione, non significa 
                  indicare una nuova promettente strada, bensì un triste 
                  vicolo cieco. Un vicolo piuttosto oscuro nel quale, tra l'altro, 
                  lo stato liberaldemocratico non appare per nulla disposto a 
                  giocare dalla parte della squadra libertaria. 
                 Claudio Venza 
                
                 
                   Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/16 
                   
                  Lorenzo Pezzica/La memoria contro l'oblio 
                Libertà senza rivoluzione è senza dubbio 
                  un testo importante e denso, soprattutto per il lavoro di ricerca 
                  teorica, anche se in alcuni suoi passaggi, l'eccessiva enfasi 
                  della scrittura indebolisce in parte l'analisi e la critica. 
                  Si passa dal saggio storico-filosofico al pamphlet polemico, 
                  dal linguaggio complesso e articolato ad espressioni affrettate 
                  e acritiche, a volte eccessivamente liquidatorie. 
                  Libertà senza rivoluzione lancia una sfida – 
                  storica, culturale, politica - nei confronti di chi oggi si 
                  ritiene anarchico. L'obiettivo di fondo del libro è infatti 
                  quello di affrontare il problema politico e culturale che l'anarchismo 
                  (pensiero e movimento) si trova oggi a sostenere dopo la sconfitta 
                  del comunismo e la conseguente vittoria del capitalismo. Nello 
                  spazio concesso, mi limiterò a brevi considerazioni e 
                  personali suggestioni, in ordine sparso, rispetto ai temi principali 
                  che emergono dal libro. 
                  Merita seria attenzione la spiegazione che viene proposta nei 
                  confronti del rapporto tra “rivoluzione e Rivoluzione”. 
                  Persuade l'analisi dell'esaurimento storico della Rivoluzione 
                  (con la R maiuscola) “rimasta una chimera”, meno 
                  la conseguente risoluta rinuncia ad interrogarsi rispetto un 
                  suo possibile nuovo significato (senza la R maiuscola). Convince 
                  la critica serrata del comunismo e della sua storica e inesorabile 
                  sconfitta, che del resto l'anarchismo, in tempo reale e non 
                  a posteriori, aveva già criticato e condannato. 
                  Quando però Berti affronta la questione della vittoria 
                  del capitalismo nei confronti del comunismo, fatto storico oggi 
                  evidente, affronta l'argomento senza dedicargli analoga acribia 
                  intellettuale. 
                  La vittoria del capitalismo oscilla tra la rilevazione di un 
                  fatto storico difficilmente confutabile e l'asserzione di una 
                  sua irreversibilità. Ma la vittoria a livello storico 
                  non significa per forza aver ragione in base ad una impostazione 
                  teleologica della storia, come sembra emergere dalle pagine 
                  del libro, nonostante l'autore nello stesso tempo sottolinei 
                  come la storia non abbia alcuna direzione e non abbia alcun 
                  senso. Se è così, non si capisce perché 
                  poi, nella sostanza, emerga una sorta di filosofia della storia 
                  con l'obiettivo di trovare una giustificazione a definizioni 
                  universalistiche che non lasciano spazio a confronti interpretativi. 
                  L'analisi teorica e storica della vittoria del capitalismo è 
                  affrontata senza tropo preoccuparsi di ricordare le numerose 
                  trasformazioni avvenute sin dal suo inizio ed eludendo ad alcuni 
                  tratti che hanno segnato e che segnano, in senso micidiale, 
                  la sua storia e il suo presente, se non con qualche accenno 
                  ai suoi “misfatti”, tutto sommato collaterali. L'analisi 
                  così elude alla genealogia del capitalismo, al suo “Cuore 
                  di tenebra”. Una genealogia fatta di conquiste coloniali, 
                  di imperialismi, di forza lavoro asservita e schiavizzata, di 
                  usurpazione politica e sua traduzione in principi di diritto, 
                  di guerre, che hanno segnato la forza vincente di un capitalismo 
                  difficilmente riducibile a semplice ordine “neutro” 
                  e spontaneo di forze apolitiche di mercato. Con questa omissione 
                  “genealogica” sembra difficile poter sostenere la 
                  piene libertà di scelta dell'uomo trascurando di esaminare 
                  storicamente e concretamente chi opera tale scelta e quali siano 
                  i suoi concreti margini di autonomia e le sue condizioni materiali, 
                  culturali e sociali. 
                  Ha ragione Berti quando afferma che l'anarchismo opera un ribaltamento 
                  semantico, proponendo una diversa prospettiva del rapporto politico 
                  e sociale non più in termini orizzontali di destra/sinistra, 
                  bensì verticali di alto/basso. Eppure nonostante la coppia 
                  destra/sinistra sia difficile da riconoscere nella prassi politica 
                  quotidiana e sia considerata superata dalla radicale trasformazione 
                  dello spazio politico, dalla globalizzazione e dalla crisi dello 
                  stato-nazione, penso che tale coppia conservi ancora oggi un 
                  suo senso e significato. 
                  Il libro pone una questione certamente importante, quella di 
                  “immettere nuovamente l'anima universale dell'anarchismo 
                  contro la storia ma (...) nella storia”. Argomento che 
                  meriterebbe una riflessione articolata che per ragione di spazio 
                  non è possibile condurre in questo contesto. Per rendere 
                  concreta questa possibilità l'anarchismo, sostiene Berti, 
                  deve liberarsi dell'ipoteca fallimentare della prospettiva rivoluzionaria 
                  in senso socialista che lo ha connotato nel passato come movimento 
                  inserito nel più ampio movimento operaio e affrontare 
                  “l'ineludibile confronto-incontro” con il liberalismo 
                  e la democrazia. Se l'anarchismo non riesce a realizzare questo 
                  proposito il rischio è la fuoriuscita dalla storia e 
                  la sua definitiva marginalità. 
                  Non si capisce però perché sia necessario “gettare 
                  il bambino insieme all'acqua sporca” fino a sostenere 
                  in modo perentorio che all'anarchismo oggi rimangano solo due 
                  strade: preservare i suoi contenuti storici, “coltivandoli 
                  sotto forma di memoria (impressionante [corsivo mio], 
                  e altamente significativo, questo suo guardare indietro come 
                  è dimostrato dal numero crescente di iniziative archivistiche 
                  di documentazione del passato promosse all'interno del movimento 
                  anarchico)”, o aprirsi al futuro “rinunciando a 
                  una parte – non piccola – della sua identità 
                  pregressa”. 
                  Non si capisce perché debbano essere necessariamente 
                  due strade in contrasto. 
                  Senza dubbio l'esercizio della memoria è strettamente 
                  connesso a quello dell'oblio, come sottolineava Nietzsche. Un'operazione 
                  che non è certo indolore; ma “la memoria e l'oblio”, 
                  come scrive Remo Bodei, “non rappresentano (...) terreni 
                  neutrali, ma veri e propri campi di battaglia”. La coppia 
                  memoria/oblio ha costituito un'importante posta in gioco nella 
                  lunga lotta per il potere condotta dalle forze sociali che hanno 
                  dominato e dominano le società storiche. Impadronirsene 
                  è sempre stata una delle loro massime preoccupazioni, 
                  per poi manipolare la memoria stessa e spesso sostituire ad 
                  essa un “comodo” oblio delle coscienze. E allora 
                  “la lotta dell'uomo contro il potere è la lotta 
                  della memoria contro l'oblio” (Kundera). 
                 Lorenzo Pezzica 
                 
                   
                  Spagna/Ma c'è stato anche Fèlix Carrasquer 
                Mi ha sorpreso trovare su “A” 382 (estate 2013) 
                  un articolo su Francisco 
                  Carrasquer; non perchè non se lo meriti, ci mancherebbe, 
                  ma perchè in ambito libertario qui in Spagna è 
                  sicuramente più conosciuto e apprezzato il fratello maggiore, 
                  Félix, a cui non si accenna nello scritto di Javier Barreiro. 
                  Ho avuto l'occasione di conoscere Francisco Carrasquer nel 2007 
                  (e non Félix, morto nel 1993) per un'intervista nella 
                  sua casa di Tárrega (provincia di Lérida): oltre 
                  a presentarmi molti dei suoi scritti letterari, ricordava la 
                  sua guerra civile combattuta sul piano militare e sosteneva 
                  la teoria che se l'avanzata verso Saragozza non l'avesse guidata 
                  Buenaventura Durruti bensì Francisco Ascaso (aragonese 
                  che conosceva bene il territorio ma venne ucciso il 19 luglio) 
                  le cose sarebbero andate in modo diverso1. 
                  È certamente da ricordare la biografia di Francisco, 
                  che combattè la guerra civile “de punta a punta”2, 
                  subí la repressione franchista e riuscí poi a 
                  stabilirsi nei Paesi Bassi, portando avanti una lunga carriera 
                  universitaria e intellettuale. 
                  Ma credo valga anche la pena di addentrarsi nella biografia 
                  del fratello maggiore per cogliere l'entusiasmo e la portata 
                  delle trasformazioni sociali: Félix, autodidatta libertario, 
                  dedicò la sua vita a creare progetti basati sull'autogestione 
                  e l'orizzontalità, e incarna secondo me l'essenza della 
                  rivoluzione spagnola. 
                  La sua testimonianza ci permette di conoscere il lavoro preparatorio 
                  alle collettivizzazioni, di diffusione delle idee, di presa 
                  di coscienza e organizzazione. Dalla sua esperienza traspare 
                  chiaramente come l'avvicinarsi alle teorie anarchiche fosse 
                  intrinsecamente legato a una pratica di cambiamento radicale 
                  della società dell'epoca. I progetti che mette in moto 
                  negli anni '30 sono precursori di ciò che verrà 
                  organizzato durante la rivoluzione, non saranno certamente gli 
                  unici, ma ci permettono di capire come poi la risposta all'insurrezione 
                  militare del 1936 fu così estesa e organizzata. 
                   
                  Interesse per l'educazione 
                  I fratelli Carrasquer erano quattro, Félix era il maggiore 
                  e come si vedrà in questa breve biografia, il suo percorso 
                  ha influenzato la vita degli altri. Il padre era segretario 
                  comunale in un paesino aragonese (godevano quindi di una buona 
                  posizione), Félix imparò a leggere molto presto 
                  e aspettava con ansia il momento di iniziare la scuola. Il primo 
                  giorno di scuola però non fu come sperava: il maestro 
                  urlava che doveva solo obbedire, mentre lui voleva imparare... 
                  A causa anche di una forte miopia convinse il padre che quella 
                  scuola non gli sarebbe servita e si dedicò a pascolare 
                  le capre e (comunque) a leggere, attività che gli permisero 
                  di avere molto tempo per pensare e formare le proprie idee. 
                  A 14 anni decise di provare la vita in città e da Albalate 
                  si trasferì a Barcellona dove dopo vari lavori, scelse 
                  di fare il panettiere, unica attività che non gli occupava 
                  tutta la giornata (anche se parte della notte) per avere tempo 
                  libero il pomeriggio e poter coltivare la sua grande passione, 
                  la lettura. 
                  La Barcellona degli anni venti era tutto un fermento socio-politico, 
                  le esperienze viste e vissute si affiancavano quindi alla lettura 
                  dei classici pensatori nella formazione del suo carattere. La 
                  morte di sua madre e il secondo matrimonio del padre con la 
                  sorella di Felipe Alaiz, noto scrittore anarchico dell'epoca, 
                  marcarono definitivamente l'orientamento delle sue inclinazioni, 
                  incoraggiato dalla famiglia nei suoi studi. Nel 1925 si iscrisse 
                  all'Ateneu Enciclopèdic Popular, istituzione che da inizio 
                  secolo aveva svolto un ruolo paradigmatico nella diffusione 
                  della cultura come mezzo di emancipazione e che nonostante fosse 
                  in ribasso durante la dittatura di Primo de Rivera, giunse alla 
                  conclusione che senza un solida educazione non sarebbe stata 
                  possibile una rivoluzione. 
                  L'interesse di Félix per l'educazione nasceva dalla riflessione 
                  sulle cause e possibili rimedi dei problemi sociali, partendo 
                  dal fatto di non aver subìto la pressione scolastica 
                  (visto che non ha mai frequentato una scuola) ma di aver visto 
                  gli effetti nocivi di questa repressione sugli altri3. 
                  Studiava quindi con passione le opere di filosofia e di pedagogia, 
                  sviluppando un'idea orizzontale e autogestita del processo di 
                  apprendimento. 
                  Dopo un'esperienza negativa di ricerca di lavoro a Madrid, che 
                  accentuò la sua coscienza politica, tornò al suo 
                  paese dove organizzò una scuola e una biblioteca nel 
                  Centro Repubblicano. Le lezioni erano per adulti e bambini, 
                  uomini e donne; applicava il metodo Decroly per gli analfabeti 
                  e la scelta di temi su argomenti liberi per gli altri e in breve 
                  si iniziarono prove di teatro. Poi un evento esterno marcò 
                  il futuro del paese, la morte di un duca e la vendita di terreni 
                  del feudo che possedeva ad Albalate: il Gruppo Culturale si 
                  impegnò nella creazione di un'associazione di lavoratori 
                  per l'acquisto delle terre da gestire in comune. Con la proclamazione 
                  della repubblica nel 1931 il Gruppo Culturale organizzò 
                  una manifestazione che raggiunse i paesi vicini per incitarli 
                  a cambiare radicalmente il panorama sociale e in quattro mesi 
                  vennero organizzati 24 sindacati con più di 4.000 contadini 
                  iscritti. Venne celebrato il 1ºmaggio con un'opera di teatro 
                  italiana a cui partecipò tutto il paese. Dopo le elezioni 
                  sindacali vennero scelti i membri del comune in un'assemblea 
                  della Cnt (Confederación Nacional del Trabajo), e nonostante 
                  si fossero eletti dei maturi repubblicani, l'interferenza del 
                  sindacato risultò uno scandalo. Dopo solo due mesi venne 
                  chiesto a Félix di riprendere il posto di segretario, 
                  avendo visto come ad Albalate la libertà era totale e 
                  parte del paese partecipava alle assemblee come “in un'autentica 
                  democrazia”4. 
                  Mentre la vista di Félix continuava a peggiorare e venne 
                  sottoposto a un intervento antiquato con un ago rovente infilato 
                  nell'occhio, nel suo paese cominciavano gli esperimenti delle 
                  prime colletivizzazioni. Prima nei terreni del padre con dei 
                  compagni di Barcellona che comprarono il primo trattore del 
                  paese, poi nelle terre vendute dal duca. Sul terreno sindacale 
                  Félix ricorda come reagì in un'assemblea quando 
                  si accorse che si dava per scontato che le donne non avessero 
                  diritto alla parola. E per quanto riguarda il boicot 
                  agli unici proprietari di bestiame che non volevano firmare 
                  l'accordo sulle condizioni di lavoro ricorda con tristezza come 
                  molti reagirono con aria di vendetta nel momento in cui si decisero 
                  a firmare, cosa che lo fece riflettere su una naturale inclinazione 
                  dell'uomo alla vendetta. 
                  Ad Albalate quindi si anticipavano le colletivizzazioni, ma 
                  nel 1933 la Fai affermò troppo decisa che se la destra 
                  avesse vinto le elezioni, gli anarchici sarebbero scesi in strada. 
                  L'8 dicembre 1933 venne proclamato il comunismo libertario in 
                  vari paesi sparsi su tutto il territorio spagnolo. La repressione 
                  ovviamente fu immediata. La testimonianza di Félix ci 
                  ricorda come venne cancellato il lavoro degli ultimi cinque 
                  anni: chiuso il Gruppo Culturale, il sindacato, sospese le lezioni 
                  e il teatro, smantellate le sperimentazioni nelle campagne e 
                  soprattutto l'entusiasmo. Albalate non sarebbe mai tornata la 
                  stessa. 
                  I partecipanti all'insurrezione dovettero fuggire e nascondersi 
                  finchè grazie ad un'amnistia poterono tornare al paese, 
                  ormai solo per recuperare le loro cose. José, il secondo 
                  fratello, si era stabilito in un paesino dei Pirenei dove, con 
                  il titolo di maestro e grazie al materiale di Félix, 
                  aveva montato una scuola col metodo Freinet. Félix tornò 
                  a Barcellona con Francisco diciasettenne che stava finendo le 
                  superiori, ed essendo ora vegetariani provarono a guadagnarsi 
                  da vivere facendo il pane integrale, mentre Félix scriveva 
                  articoli di pedagogia per la Revista Blanca, rivista di riferimento 
                  nella diffusione culturale anarchica dell'epoca gestita dalla 
                  famiglia Urales-Montseny. 
                   
                  La scuola autogestita Eliseo Reclus 
                  Ma l'idea di fondo era creare una scuola autogestita e dopo 
                  aver letto con Francisco tutta l'opera di Dewey, De Cousinet 
                  e di altri pedagoghi, trovarono nell'Ateneo de les Corts grande 
                  entusiasmo per realizzare la loro proposta. I tre fratelli e 
                  la sorella minore Presen nel 1935 crearono la scuola Eliseo 
                  Reclus (anche José lasciò momentaneamente l'insegnamento 
                  ufficiale e con il suo titolo permise di legalizzare la scuola) 
                  basata sull'insegnamento razionalista ma, grazie agli studi 
                  approfonditi di Félix, con un passo avanti per quanto 
                  riguarda l'autogestione e l'orizzontalità: dopo aver 
                  visitato varie scuole razionaliste Félix si trova d'accordo 
                  sui metodi utilizzati (Ferrer, Tolstoj, Freinet) ma considera 
                  che l'iniziativa deve partire dai ragazzi e non dal maestro 
                  che continuava a dirigere in qualche modo la classe. La scuola 
                  Eliseo Reclus funzionava quindi con assemblee in cui maestri 
                  e alunni avevano la stesso potere decisionale, e una cooperativa 
                  che permetteva l'autogestione a livello economico. Inoltre riuscirono 
                  a coinvolgere gran parte del quartiere nel progetto grazie ad 
                  assemblee con i genitori, e serate con gli adolescenti. 
                  La scuola venne criticata da altri maestri perché eccessivamente 
                  “politica” e mi sembra molto significativa la risposta 
                  di Félix: “se la politica è una questione 
                  del popolo, sarebbe assurdo escludere i bambini da questa dinamica 
                  fondamentale. (...) Se la pedagogia può avere un qualche 
                  valore, dovrebbe consistere nell'aiutare i giovani a uscire 
                  da un quadro tradizionale di oppressione e ingiustizia (...) 
                  Se la storia dell'uomo è una catena di lotte cruente 
                  tra dominatori e dominati, i bambini non possono ignorarlo né 
                  essere neutrali in questo eterno scontro”5. 
                  Purtroppo la scuola, come la la gran parte dei progetti dell'epoca, 
                  ebbe vita breve a causa del golpe militare. I suoi fratelli 
                  combatterono a Barcellona e poi al fronte (José morì 
                  negli scontri, Francisco combatterà tutta la guerra) 
                  e Félix, ormai cieco, venne incaricato di organizzare 
                  l'ospedale della Maternità, sempre situato nel quartiere 
                  de Les Corts, dove si volevano sgomberare le suore che lo gestivano 
                  senza avere personale preparato per sostituirle. Riuscì 
                  a organizzare assemblee con medici e infermiere, limitare la 
                  mortalità infantile dei bebè abbandonati con semplici 
                  accorgimenti di affetto e libertà di espressione. Quando 
                  l'istituzione tornò in funzione, si recò nella 
                  sua regione natale, l'Aragona, dove si stavano organizzando 
                  le collettivizzazioni in un ambiente di incredibile entusiasmo 
                  ma con poca capacità amministrativa. 
                  Decise quindi di organizzare una Escuela de militantes, con 
                  l'obiettivo di formare adolescenti capaci di portare avanti 
                  le collettività contadine aragonesi a livello contabile 
                  e di organizzazione, anche tenendo conto dell'imminente mobilitazione 
                  militare degli adulti. La Escuela de militantes era un podere-fattoria 
                  in cui i ragazzi convivevano e lavoravano oltre a fare lezione; 
                  l'armonia nata dalla libera cooperazione, e il fatto di lavorare 
                  solo tre ore al giorno per mantenere il progetto sono un altro 
                  successo della connessione tra teoria e pratica di Félix. 
                  Di nuovo l'avanzata dei fascisti tronca il progetto in corso 
                  che si sposterà verso la frontiera francese finché 
                  saranno obbligati all'esilio nel gennaio 1939. 
                   
                  Dodici anni in carcere, tanti in esilio 
                  Vennero accolti in un campo in un paese vicino alla frontiera 
                  svizzera dove organizzarono una scuola, e Félix ebbe 
                  occasione di conoscere Piaget e altri importanti pedagoghi durante 
                  un viaggio a Ginevra, prima di essere trasferito al campo di 
                  concentramento di Argelès-sur-Mer. Nonostante il trasferimento 
                  in diversi campi, continuava a organizzare un ambiente di autogestione 
                  e collaborazione finché non evase alla fine del 1943 
                  e rientrò in Spagna attraversando i Pirenei all'inizio 
                  del 1944. Riprese il contatto con i compagni e partecipò 
                  alla lotta antifranchista con la pubblicazione di volantini 
                  e mantenendo in piedi la struttura della Cnt. Venne imprigionato 
                  più volte, passando dodici anni in carcere, castigo reso 
                  ancora più duro dall'impossibilità di leggere 
                  a causa della sua cecità. 
                  Nel 1959 tornò in libertà ma con il divieto di 
                  vivere a Barcellona, decise quindi di trasferirsi in Francia 
                  dove propose un progetto di Escuela de Militantes; anche se 
                  l'accoglienza del progetto fu poco ottimista, vennero organizzati 
                  dei corsi estivi nella fattoria di Thil e pubblicati dei brevi 
                  testi che contribuirono alla formazione di Gruppi di Solidarietà. 
                  Nel 1971 tornò in Spagna dove realizzò innumerevoli 
                  dibattitti sulle necessità del paese e sulla pedagogia 
                  libertaria ma la transizione distrusse gran parte del lavoro 
                  che i rimanenti affiliati alla Cnt stavano portando avanti. 
                  Di molte sue opere di teatro e poesia scritte prima e durante 
                  la guerra e negli anni di carcere non è rimasta nessuna 
                  copia, ma solo il racconto vibrante delle sue parole; le sue 
                  pubblicazioni sulle esperienze autogestite ci permettono di 
                  condividere il suo punto di vista e il travolgente sentimento 
                  libertario che lo ha guidato. 
                 Valeria Giacomoni 
                  Barcellona (Spagna) 
                Note 
				 
                  - Francisco Carrasquer: Zaragoza y Ascaso. Dos pérdidas: 
                  la pérdida, Alcavarán Ediciones, Zaragoza, 
                  2003
                  
 - Intervista a Francisco Carrasquer, Tárrega, 25 luglio 
                  2007
                  
 - Alejandro Tiana Ferrer: “El itinerario pedagógico 
                  de Félix Carrasquer” en Monografia dedicata 
                  a Félix Carrasquer sulla revista Anthropos, novembre 
                  1988, Nº. 90, pp. 42-50
                  
 - Félix Carrasquer: “Autopercepción intelectual 
                  de un proceso histórico. Notas autobiográficas” 
                  en Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla revista 
                  Anthropos, novembre 1988, Nº. 90, pp.13-30
                  
 - A. Tiana Ferrer, op. cit.
                  
  
                
                   
                    |   Per 
                        saperne di più 
                      
                        Félix 
                          Carrasquer: La Escuela de Militantes de Aragón. 
                          Una experiencia de autogestión educativa y económica, 
                          Barcelona, Foil, 1978, 178 pp. 
                           
                          Félix Carrasquer: Una experiencia de educación 
                          autogestionada. Escuela Eliseo Reclus, calle Vallespir 
                          184, Barcelona años 1935-1936, Barcelona, 
                          edición del Autor, 1981, 189 pp. 
                           
                          Félix Carrasquer: Las colectividades de Aragón. 
                          Un vivir autogestionado, promesa de futuro, Barcelona, 
                          Laia, 1986, 295 pp. 
                           
                          Monografia dedicata a Félix Carrasquer sulla 
                          revista Anthropos, novembre de 1988, Nº90 
                        | 
                   
                 
                 
                     
                
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Claudio Neri (Roma) 10,00; 
                            Samuele Grassi (Firenze) 10,00; a/m Toni, circolo 
                            Berneri (Bologna) ricordando Francesco “Franz” 
                            Lo Duca, 60,00; Davide Foschi (Gambettola – 
                            Fc) 10,00; Beppe Chierici (Todi – Pg) 30,00; 
                            a/m Fabio Santin, Maolo Records, 10,00; a/m Musica 
                            per “A,” Gianfranco Medde (Carmagnola 
                            – To) 11,00; Libreria San Benedetto (Genova) 
                            28,30; Francesco D'Alessandro (Sesto San Giovanni 
                            – Mi) 370,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Giuseppe Pinelli, 500,00; Massimiliano Bonacci (Bologna) 
                            10,00; Davide Foschi (Gambettola – Fc) 10,00; 
                            Matteo Dispenza (Torino) 30,00; Daniele Del Freo (Carrara 
                            – Ms) 10,00; Pino Fabiano (Cotronei – 
                            Kr) ricordando Spartaco (2008-2013), 10,00; William 
                            Cattivelli (Cremona), 10,00; Dario Fariello (Napoli) 
                            5,00. Totale € 1.114,30. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Arnaldo 
                            Androni (Bacedasco Basso – Pc); Stefano Stofella 
                            (Rovereto – Tn); Andrea Ridolfi (Castiglione 
                            di Cervia- Ra); Fernando Ferretti (San Giovanni Valdarno 
                            – Ar) 150,00. Totale € 450,00. 
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