  
                  
 Ascoltando Fabrizio ad Algeri 
                  
                Intervista a Amara Lakhou di Renzo Sabatini 
				
  
                  Amara Lakhous è uno scrittore algerino che vive in Italia. 
Da anni si occupa di migrazione in qualità di narratore, antropologo e reporter. 
Secondo lui bisognerebbe ascoltare De André in Oriente come in Occidente. 
Perché affronta tematiche universali e perché è un antidoto contro l'intolleranza. 
                  
                  Amara Lakhous: algerino ma vivi a Roma dal 1995. Laureato 
                  in filosofia ad Algeri e in antropologia culturale a Roma. Come 
                  giornalista hai lavorato sia per la radio nazionale algerina 
                  che per varie radio italiane. In Italia ha già pubblicato 
                  due libri1. 
                  Insomma, una vita a cavallo di due culture, una vita da migrante, 
                  come quella di tanti che in questo momento ci stanno ascoltando. 
                  Parlaci un po' di te: chi è Amara Lakhous?  
                  Io sono un viaggiatore. Vivo in Italia da circa tredici anni 
                  e sono, per così dire, alla scoperta dell'Italia del 
                  futuro. Oggi qui in Italia ci sono tantissime comunità 
                  di immigrati e qui ho conosciuto albanesi, bengalesi, senegalesi 
                  e tanti altri. Quindi oggi, in Italia, c'è questa grande 
                  opportunità di conoscere il mondo intero in un solo paese. 
                  Io faccio parte di questa bellissima, straordinaria esperienza. 
                   
                  Quindi tu hai scelto l'Italia per questa sua particolare 
                  situazione storica? 
                  Non esattamente. Sono venuto in Italia alla fine del 1995 perché 
                  in Algeria, in quel periodo c'era il terrorismo e come tanti 
                  altri intellettuali ho avuto problemi, minacce. Quando sono 
                  arrivato in Italia posso dire di aver ricominciato a vivere, 
                  dopo un'esperienza molto dura, molto difficile. È stato 
                  un po' il destino a farmi ritrovare qui, perché in quel 
                  periodo era molto difficile uscire dall'Algeria, ma ho avuto 
                  la grande fortuna di avere un amico italiano, al quale ho dedicato 
                  il mio primo romanzo italiano2. 
                  Sto parlando di Roberto De Angelis3, 
                  un antropologo e grande studioso dell'emigrazione in questo 
                  paese. Lui mi ha aiutato, mi ha mandato un invito con il quale 
                  sono riuscito a uscire dall'Algeria ed è così 
                  che sono arrivato in Italia. Avrei subito potuto scegliere di 
                  andare in Francia, come hanno fatto tanti altri, perché 
                  parlo il francese e l'Algeria ha rapporti importanti con la 
                  Francia. Ma ho preferito rimanere qui. Mi sono detto che quella 
                  dell'Italia sarebbe stata per me un'esperienza nuova mentre 
                  in Francia ci sono già un milione di algerini e quindi 
                  sarebbe stato come vivere in Algeria. Io avevo bisogno di conoscere 
                  una nuova realtà, una nuova lingua, una nuova cultura. 
                  Oggi so che ho fatto molto bene, è stata una decisione 
                  molto saggia. 
                   
                  Hai menzionato il tuo libro che, in Italia, è stato 
                  pubblicato col titolo: Scontro di civiltà 
                  per un ascensore a piazza Vittorio, ma in Algeria 
                  è invece uscito col titolo: Come farti allattare 
                  dalla lupa senza che ti morda. Tu sei riuscito a farti 
                  allattare oppure la lupa ti ha morso? 
                  È una questione aperta! Finora mi è andata molto 
                  bene. Perché io qui mi trovo molto bene, Roma è 
                  la mia città. Quando parto, addirittura quando vado ad 
                  Algeri, ho una grande nostalgia di questa città. Amo 
                  questa gente, amo la lingua, l'italiano. Per cui sono in realtà 
                  davvero felice. Direi che la lupa non mi ha morso, mi ha solo 
                  abbracciato. 
                   
                  Meno male! Il tuo libro è una sorta di giallo psicologico 
                  che qualcuno ha paragonato al Pasticciaccio 
                  di Gadda. La critica, mi pare di capire, lo ha accolto molto 
                  positivamente. Con il pubblico invece com'è andata? Che 
                  tipo di italiano legge il tuo libro? 
                  L'accoglienza è stata straordinaria. Io vado molto spesso 
                  nelle scuole in giro per l'Italia a parlare con i ragazzi, ho 
                  fatto vari incontri, ricevo delle mail da persone di diverse 
                  età. Insomma, mi sembra che questo libro abbia toccato 
                  un po' tutti. Proprio in questi giorni è uscita la nona 
                  ristampa a due anni dalla prima, quindi il libro continua a 
                  interessare e questa per me è una grande soddisfazione. 
                  La cosa curiosa è che adesso è uscita l'edizione 
                  francese e sotto questa veste è tornato in Algeria. Quindi 
                  l'ho scritto in arabo, l'ho riscritto in italiano, è 
                  stato tradotto in francese dall'italiano e adesso è ritornato 
                  nel mio paese dopo aver fatto questo giro, in cui l'italiano 
                  ha finito per essere la mediazione fra le diverse lingue. Di 
                  questo sono veramente felice. Presto uscirà negli Stati 
                  Uniti e in Olanda anche un film in inglese tratto dal mio libro4. 
                  Sono davvero contento. 
                   
                  E l'Australia? 
                  Magari, mi piacerebbe molto arrivare anche lì. Mi interessa 
                  molto perché è un paese di grandi migrazioni. 
                  Io considero l'immigrazione un fatto molto positivo, anzi straordinario. 
                  Ho avuto la fortuna di conoscere gli immigrati italiani in altri 
                  paesi e conoscere la comunità italiana in Australia sarebbe 
                  una bellissima esperienza5. 
                   
                  Tu ti sei occupato di immigrazione come mediatore culturale 
                  e come studioso ti sei occupato della questione della prima 
                  generazione di immigrati islamici in Italia. Questa tua esperienza 
                  di vita la ritroviamo anche nelle pagine del libro? 
                  Non c'è dubbio. Anzi, è proprio una cosa che rivendico. 
                  Il libro è frutto della mia esperienza, della ricerca, 
                  dello studio. È proprio grazie alle esperienze che ho 
                  fatto qui a Roma che ho scritto questo libro. La mia scrittura 
                  è sempre frutto di una ricerca e questo mi permette anche 
                  di dare chiavi di lettura. L'Italia sta diventando un paese 
                  di immigrazione e questo è un cambiamento epocale che 
                  avviene nel giro di pochi anni e quindi servono strumenti per 
                  analizzare e capire questa realtà e anche per poter proporre 
                  delle soluzioni perché questi cambiamenti certamente 
                  portano cose molto positive, però ci sono anche degli 
                  aspetti negativi, che sono tipici e che accompagnano sempre 
                  l'immigrazione. L'immigrazione ha un risvolto molto positivo 
                  anche in termini di sviluppo attraverso le rimesse degli immigrati. 
                  Basti pensare ai bengalesi, pakistani e marocchini che mandano 
                  molti soldi nei paesi d'origine, producendo ricchezza e sviluppo. 
                  Però c'è il risvolto negativo della criminalità 
                  e della marginalizzazione. Questi problemi vanno affrontati. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Amara Lakhous  | 
                   
                 
                 
                  Un processo aperto 
                 Nel tuo romanzo c'è una galleria di personaggi, 
                  sia italiani che stranieri. Ognuno espone la sua verità 
                  su un delitto che è stato commesso e così vengono 
                  fuori tante sfaccettature, tante versioni, però sembra 
                  sempre che la verità, nel suo senso più profondo, 
                  sfugga. Accanto alla questione della verità, che ha sempre 
                  molte facce, mi è sembrato di vedere fortissimo il tema 
                  dell'identità, che ciascuno dei personaggi sembra quasi 
                  cercare come negazione dell'identità dell'altro. La tua 
                  è un'indagine sulla verità, sull'identità 
                  o sulla condizione del migrante?  
                  La mia indagine riguarda tutti e tre questi aspetti. Il mio 
                  è un romanzo che ha tanti piani di lettura. Certamente 
                  il discorso della verità è molto presente, perché 
                  io ritengo che la verità sia un mosaico. Non basta un 
                  pezzetto per capire il tutto, quindi abbiamo bisogno di più 
                  verità. Questo mi consente di mettere in discussione 
                  i vari estremismi, perché gli estremismi rivendicano 
                  il monopolio della verità mentre io sono per la pluralità 
                  religiosa, culturale, politica: questa secondo me è la 
                  sostanza della democrazia. Poi c'è il discorso dell'identità 
                  che è veramente di grande attualità. Molto spesso 
                  c'è una banalizzazione del concetto, quando l'identità 
                  viene presentata come una ricetta gastronomica, come una cosa 
                  chiusa e statica. Io, basandomi sulla mia esperienza personale, 
                  di osservatore privilegiato (perché gli strumenti di 
                  studio che ho acquisito mi rendono privilegiato), ritengo che 
                  l'identità sia invece un processo aperto, influenzato 
                  costantemente da nuove esperienze. Questo ci dà la possibilità 
                  di studiare, approfondire, analizzare la realtà italiana 
                  odierna. Io, anche se non ho la cittadinanza italiana, mi considero 
                  italiano, o almeno in parte italiano. Per forza! Parlo, penso, 
                  amo, leggo in italiano; mangio all'italiana e frequento italiani. 
                  In questa mia vita attuale c'è ben poco di algerino, 
                  tanto che quando torno in Algeria mi sento un po' ospite, un 
                  po' straniero, mentre qui in Italia mi sento a casa. Questo 
                  è il destino del mio essere ma questo vale anche per 
                  gli altri immigrati. Chi viaggia acquisisce elementi nuovi e, 
                  per forza di cose, deve rinunciare ad alcuni elementi della 
                  sua cultura di origine. I vostri ascoltatori, gli immigrati 
                  italiani in Australia, certamente capiscono molto bene cosa 
                  intendo dire. 
                   
                  Colpiscono molto i personaggi italiani del tuo libro, 
                  tutti così diversi fra loro, colti soprattutto nei loro 
                  aspetti regionali, nei campanilismi esasperati. Sembra che tu 
                  gli italiani li abbia studiati a fondo, a differenza di altri 
                  scrittori che a volte ci identificano sulla base di stereotipi 
                  un po' tristi e scontati, che generalmente ci infastidiscono6. 
                  Tu come li vedi gli italiani? Pensi che esistano, oppure esistono 
                  più che altro i romani, i milanesi, i napoletani... tutti 
                  diversi e a volte anche ostili fra loro? 
                  In generale io considero sempre la diversità come una 
                  risorsa, non come una minaccia. Anche perché se ci assomigliassimo 
                  tutti sarebbe una noia! Certo, la diversità comporta 
                  dei rischi, come per tutte le cose della vita bisogna anche 
                  assumersi delle responsabilità, le cose vanno gestite, 
                  non vanno lasciate al caso. Per cui io questa diversità 
                  italiana la considero una grande ricchezza e proprio in questo 
                  senso vivere in Italia è una grande opportunità, 
                  perché è un paese molto ricco sul piano culturale. 
                  Il fatto che ogni paesino abbia le proprie tradizioni, la propria 
                  gastronomia, la propria lingua, anche la propria arte, per me 
                  rappresenta una ricchezza straordinaria. 
                   
                  Ahmed, il protagonista principale del tuo libro, un algerino 
                  che tutti credono italiano, riflette su certi atteggiamenti 
                  di intolleranza subiti nella storia dagli immigrati italiani, 
                  che sono poi gli stessi atteggiamenti che oggi molto spesso 
                  subiscono gli stranieri immigrati in Italia. Il tuo protagonista 
                  conclude con questa considerazione un po' amara: “Gli 
                  italiani non hanno imparato nulla dalla loro storia”. 
                  Credi che sia una caratteristica propria degli italiani o qualcosa 
                  di più generale? In fondo anche i personaggi non italiani 
                  del tuo libro hanno tutti qualche pregiudizio. Ad esempio c'è 
                  il bengalese Iqbal che odia i pakistani.  
                  Ritengo che la questione dell'amnesia sia un problema grandissimo. 
                  Perché se uno non fa pace con se stesso, se non elabora 
                  la sua memoria, diventa difficile stabilire rapporti sereni 
                  con gli altri. Purtroppo oggi in Italia c'è questa amnesia: 
                  si tende a dimenticare che nel corso di un secolo venticinque 
                  milioni di italiani hanno lasciato questo paese. Ma si tende 
                  anche a dimenticare l'emigrazione dal meridione, che è 
                  un fatto molto recente. Ci si dimentica che ancora negli anni 
                  sessanta e settanta si potevano trovare dei luoghi con il cartello: 
                  “Non si affitta a meridionali”. Gli stessi identici 
                  annunci li troviamo oggi, diretti agli stranieri extracomunitari. 
                  In Italia ci sono difficoltà enormi per elaborare questo 
                  passato. L'Italia rispetto ad altri paesi europei avrebbe questo 
                  grande vantaggio, perché è l'unico paese che ha 
                  vissuto sulla propria pelle cosa significa emigrazione ma, purtroppo, 
                  questa esperienza non è stata ancora valorizzata e uno 
                  degli obiettivi di noi scrittori emigrati è proprio questo: 
                  cercare di fare questo lavoro sulla memoria. Se non lo fanno 
                  gli italiani, allora dobbiamo farlo noi. 
                  Recentemente ho preso parte ai lavori della Commissione Affari 
                  Costituzionali del Parlamento, che sta svolgendo un'indagine 
                  sul tema della sicurezza. Io e altri intellettuali siamo stati 
                  invitati, dopo mesi di lavori, per portare il nostro contributo. 
                  Il mio intervento si è concentrato sulla concezione della 
                  sicurezza in collegamento con la questione dell'immigrazione. 
                  Ho fatto riferimento al tragico caso della signora Reggiani7, 
                  uccisa da un immigrato rom qui a Roma, che ha dato luogo a una 
                  vera e propria caccia alle streghe, con dibattiti televisivi 
                  sulla delinquenza degli immigrati, per cui gli immigrati non 
                  diventano ma nascono delinquenti, per cui tutti i rom sono delinquenti. 
                  In quell'occasione ho recuperato un fatto di cronaca che risale 
                  al 1896, un fatto accaduto in Tunisia, durante la colonizzazione 
                  francese. In quel caso una giovane francese venne uccisa da 
                  un pescatore siciliano e all'indomani dell'omicidio si scatenò 
                  una campagna contro tutti gli italiani. Ecco che ci troviamo 
                  di fronte allo stesso meccanismo: un uomo commette un reato 
                  e invece di essere punito lui solo viene condannata tutta la 
                  comunità cui appartiene. Si tratta di un fatto estremamente 
                  negativo e grave, perché la civiltà ci insegna 
                  che la responsabilità è sempre individuale e non 
                  può mai essere collettiva. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   La copertina dell'edizione italiana  del libro di Amara Lakhous  | 
                   
                 
                 
                  Dal particolare all'universale 
                 I tuoi personaggi, spesso trascinati dagli eventi, un 
                  po' inconsapevoli e un po' incolpevoli, ricordano da vicino 
                  i personaggi delle canzoni di De André, specie quelli 
                  della Città vecchia, che: “Se 
                  non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. 
                  Difatti tu De André lo hai citato più volte nel 
                  tuo libro. Come mai a uno scrittore algerino viene in mente, 
                  nel suo primo romanzo noir in italiano, di citare proprio il 
                  cantautore genovese? 
                  Definire Fabrizio De André come un cantante lo trovo 
                  riduttivo. Per me è un grande poeta che ha cantato la 
                  libertà e mi trovo molto d'accordo con lui rispetto alle 
                  tematiche su cui insiste, sul suo cantare gli emarginati, i 
                  ribelli. Poi c'è tutto il lavoro che ha fatto sugli idiomi 
                  locali, che mi interessa molto perché la lingua è 
                  un contenitore importantissimo di creatività. In fondo 
                  è la stessa cosa che ho cercato di fare io nel mio romanzo, 
                  lavorando su tre idiomi, napoletano, romanesco e milanese. 
                   
                  Per questa trasmissione mi è capitato di intervistare 
                  un albanese che ha avuto guai con la giustizia italiana e che 
                  ne è uscito anche grazie alle canzoni di De André8. 
                  Lui ci raccontava che De André può benissimo essere 
                  ascoltato da un albanese perché i suoi temi e i suoi 
                  personaggi sono universali. Condividi questo punto di vista? 
                  La poetica di De André può essere apprezzata anche 
                  nel Maghreb? 
                  Non ho dubbi in merito perché la grande arte consiste 
                  proprio in questo: nasce in un ambito locale ma diventa universale. 
                  Come nel caso di Fabrizio De André. Le sue canzoni affrontano 
                  temi che hanno a che vedere con l'umanità, hanno il carattere 
                  dell'universalità. Per cui non mi stupisce questo miracolo 
                  di De André con il ragazzo albanese. 
                   
                  Ma anche se affronta tematiche universali non potrebbe 
                  essere che lo faccia da un punto di vista troppo locale? Non 
                  potrebbe essere “troppo italiano”, oppure “troppo 
                  occidentale”, per essere apprezzato pienamente da culture 
                  molto diverse? 
                  No, Fabrizio De André era un grande artista e i grandi 
                  artisti superano i confini della propria cultura. L'etichetta 
                  nazionale diventa riduttiva. Noi diciamo che era italiano solo 
                  per semplificare. Però in realtà appartiene al 
                  mondo. Oppure potremmo dire che appartiene a tutti quelli che 
                  lo ascoltano e che lo amano, a prescindere dalla cultura. Questa 
                  in fondo è l'arte, detto in termini semplici. 
                   
                  Si usa dire che De André ha restituito dignità 
                  alle prostitute, ai drogati e così via. Secondo Stefano 
                  Benni le canzoni di De André sono un antidoto contro 
                  ogni genere di intolleranza. Tu pensi di poter condividere questo 
                  pensiero?  
                  Certamente. Oggi purtroppo una parte dell'immigrazione in Italia 
                  è legata alla prostituzione. Se cammini a Roma la sera 
                  lungo la via Salaria o lungo la via Cristoforo Colombo, vedi 
                  ragazze giovanissime, spesso minorenni, svestite, al freddo, 
                  costrette a prostituirsi. De André aveva già da 
                  molto tempo annunciato la sua solidarietà. Come anche 
                  io sono solidale con queste ragazze che sono costrette a subire 
                  la prostituzione e sono solidale con tutti coloro che subiscono 
                  un'ingiustizia. 
                   
                  De André era molto interessato alla cultura e alla 
                  musica dell'altra sponda del Mediterraneo e fece alcuni viaggi 
                  nel Maghreb per approfondire alcuni aspetti. Nel disco Crêuza 
                  de mä, cantato in un genovese antico, sostiene 
                  di utilizzare una lingua “figlia dell'Islam”, perché 
                  contiene migliaia di vocaboli di origine araba. Nell'ultima 
                  tournée, presentando i pezzi della Buona novella, parlava 
                  del rispetto con cui l'Islam guarda a Gesù, in opposizione 
                  al disprezzo con cui i cattolici spesso guardano al profeta 
                  dell'Islam. Tu come vedi questi atteggiamenti, in questi tempi 
                  in cui si parla sempre di contrapposizione netta fra Occidente 
                  e Islam?  
                  Quello di De André è un punto di vista, una lettura 
                  della realtà estremamente originale che si pone anche 
                  decisamente controcorrente. Per me quindi De André, quando 
                  dice queste cose e quando canta certe cose, diviene come un 
                  ponte fra le culture, un ponte che noi dobbiamo assolutamente 
                  rivendicare. Sarebbe bello farlo conoscere anche nel mondo arabo. 
                  Perché noi sappiamo che molto spesso oggi si parla di 
                  scontro di civiltà, di incompatibilità fra le 
                  due sponde del Mediterraneo, tra due mondi opposti, tra Islam 
                  e Occidente. De André invece è un testimone straordinario 
                  che ci ricorda che i punti in comune ci sono, c'è una 
                  storia comune. Certo, c'è la diversità, ma la 
                  diversità è una ricchezza e la ricerca di De André 
                  sul piano musicale e artistico lo dimostra ed è una grande 
                  lezione. 
                   
                  Insomma sarebbe potuto diventare una specie di ambasciatore 
                  del dialogo fra Islam e Italia? 
                  Lo è. Lo dobbiamo solo promuovere. Invece di concentrarci 
                  sulle divergenze, sui problemi, dovremmo concentrarci su quello 
                  che ci accomuna. De André è un esempio e sarebbe 
                  bello farlo conoscere nel mondo arabo, organizzare degli incontri, 
                  tradurre i suoi testi. Questo sarebbe molto importante. 
                   
                  Ecco, supponiamo che tu ti trovassi un giorno a tradurre 
                  De André in arabo per un cantante algerino: quali canzoni 
                  si adatterebbero meglio? Pensi che servirebbe una traduzione 
                  letterale oppure ci sarebbe bisogno di utilizzare parole diverse 
                  per esprimere gli stessi concetti nella tua cultura? 
                  Certamente non sarebbe facile tradurre quelle canzoni, anche 
                  perché sono testi complessi, che hanno alla base tutta 
                  una serie di esperienze, di ricerche. Comunque io punterei molto 
                  sulle canzoni che affrontano tematiche universali. Quelle canzoni 
                  che affrontano temi che, quando le ascolti, non puoi fare a 
                  meno di dire: “Mi riguardano”. La vita, la morte, 
                  il dolore... ma anche le canzoni in cui si parla di prostitute, 
                  perché anche la prostituzione è un tema universale. 
                  Libera circolazione 
                 In appunti personali che sono stati pubblicati postumi, 
                  De André ha scritto: “l'aspetto più inumano 
                  della nostra società è che gli uomini valgono 
                  meno delle monete. Il mercato del denaro è libero, gli 
                  uomini invece no: prima di presentarsi ai punti di imbarco devono 
                  attraversare oceani di carte bollate. Ma chi produce questa 
                  ricchezza? Gli uomini! Che però si dividono in due categorie: 
                  quelli che approfittano del denaro e quelli che devono restare 
                  fermi e controllati”. Mi sembra che in questa considerazione 
                  si esprima molta vicinanza ai problemi degli immigrati, di cui 
                  si parlava prima. Ancora oggi molti lavoratori stranieri sono 
                  costretti a restare irregolari perché non hanno potuto 
                  fare le carte bollate di cui parla De André. Che ne pensi? 
                  È una bellissima constatazione e poi io ci sono passato... 
                  Sono molto d'accordo con lui e mi rammarico del fatto che queste 
                  cose che ha detto De André purtroppo non trovano spazio 
                  nei media e che quindi si tenda a dimenticarle. In realtà 
                  questa frase è una fotografia esatta della realtà 
                  odierna in cui gli uomini sono trattati esattamente così 
                  e il denaro purtroppo, molto spesso, vale assai più di 
                  un uomo. 
                   
                  Nel tuo libro il protagonista, Ahmed, cita un verso di 
                  De André tratto dal Cantico dei drogati: 
                  “Come potrò dire a mia madre che ho paura”. 
                  Perché hai scelto proprio questo verso? Ti serviva in 
                  quella particolare costruzione narrativa oppure è perché 
                  è un verso che ti è caro? 
                  Sono vere entrambe le cose. Perché in questo verso c'è 
                  il rapporto con la madre e c'è la paura. E molto spesso 
                  la madre è un rifugio dalle nostre paure. È un 
                  verso stupendo, veramente stupendo. 
                   
                  Ma in definitiva qual è la canzone che preferisci 
                  di De André? 
                  C'è solo l'imbarazzo della scelta. Se proprio devo dare 
                  una indicazione di preferenza direi La guerra di Piero. 
                   
                  Proviamo a fare un po' di fantagiornalismo. Lo scrittore 
                  Lakhous vince un premio letterario e alla premiazione si trova 
                  seduto proprio a fianco di De André che è venuto 
                  ad assistere. Lui ovviamente si è letto il tuo libro 
                  e ti fa i complimenti. Tu che cosa gli rispondi? 
                  L'unica parola che gli direi è: grazie. E poi mi piacerebbe 
                  ascoltarlo. 
                   
                  Ahmed detto Amedeo, ovvero l'algerino che tutti scambiano 
                  per italiano, quanto ti somiglia? 
                  Be', un poco mi somiglia, ci sono dei punti in comune. Però 
                  non è un personaggio autobiografico. Il romanzo resta 
                  comunque un incontro tra realtà e finzione e c'è 
                  molta immaginazione. 
                   
                  C'è invece un personaggio di De André nel 
                  quale ti potresti in qualche modo riconoscere? 
                  Prima accennavo alla Guerra di Piero. Il rapporto con 
                  un personaggio può essere di identificazione, di immedesimazione; 
                  ma può essere anche un rapporto di rifiuto, nel senso 
                  che certi personaggi è meglio evitarli. Io condivido 
                  lo spirito pacifista di quella canzone. 
                   
                  Il tuo libro ha qualcosa a che vedere con l'Orchestra 
                  di piazza Vittorio9? 
                  Non esattamente, ma conosco bene l'orchestra, sono persone che 
                  stimo molto. Diciamo che l'Orchestra di piazza Vittorio ha qualcosa 
                  in comune con il mio romanzo nel senso che sia il romanzo che 
                  l'orchestra sono espressioni di un'Italia nuova, che cambia; 
                  un'Italia positiva. Il romanzo è ambientato a piazza 
                  Vittorio, cuore di un quartiere di Roma, a cinque minuti dalla 
                  stazione Termini. È un quartiere che rappresenta il futuro 
                  nel senso che in quel quartiere ci troviamo di fronte ai due 
                  grandi possibili scenari del futuro dell'Italia. Il primo scenario 
                  è quello rappresentato dall'Orchestra di piazza Vittorio, 
                  dove musicisti italiani e stranieri si mettono assieme e valorizzano 
                  la diversità attraverso la musica, l'arte, la cultura. 
                  Il secondo scenario rappresenta l'Italia dei ghetti, l'Italia 
                  fatta di immigrati che a distanza di cinque o sei anni dal loro 
                  arrivo ancora non parlano l'italiano; dove ci sono i negozi 
                  cinesi con le scritte solo in cinese, che vendono prodotti cinesi 
                  solo ai cinesi. Questa è piazza Vittorio. È una 
                  piazza che rappresenta entrambi gli scenari. Sono due strade 
                  e noi dobbiamo sceglierne una. Io credo che si debba scegliere 
                  la strada aperta dall'Orchestra di piazza Vittorio.
                  Renzo Sabatini
                 Note 
                 
                  - La lista dei libri pubblicati da Lakhous si è allungata. 
                  Si consiglia una visita al sito www.amaralakhous.com oppure, 
                  meglio, in libreria.
                  
 - Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. 
                  Edizioni e/o, 2006.
                  
 - Antropologo, insegna sociologia urbana e metodi di osservazione 
                  etnografica all'università di Roma La Sapienza. Sin dagli 
                  anni '70 ha svolto ricerche sul campo in ambito urbano, sulle 
                  migrazioni, sulle controculture, sugli insediamenti di autocostruzione 
                  e altre forme di ghetti abitati da migranti, rom e sinti.
                  
 - Nel 2010 è uscito un film anche in Italia, con la regia 
                  di Isotta Toso.
                  
 - Il progetto di far arrivare Lakhous in Australia come esponente 
                  della nuova letteratura italiana “migrante” è 
                  nato subito dopo questa intervista. Lo scrittore è stato 
                  in seguito invitato in questa veste all'importante festival 
                  degli scrittori di Sydney (Sydney Writers Festival) nel 2011. 
                  Nel 2012 ha partecipato a una serie di conferenze organizzate 
                  dagli istituti italiani di cultura in Australia.
                  
 - Nel mondo anglosassone è diffusa una letteratura da 
                  viaggio di questo genere. Pensavo qui al libro The World 
                  From Italy (Harper Collins, 2001) di George Negus, giornalista 
                  e presentatore televisivo australiano molto famoso e apprezzato. 
                  Lui, come giornalista, è decisamente in gamba, ma il 
                  libro, frutto di un anno sabbatico trascorso in Toscana, è 
                  un superficiale e irritante elenco di stereotipi.
                  
 - L'episodio è del novembre 2007.
                  
 - Vedi “A” 
                    n. 377, febbraio 2013. 
                  
 - L'orchestra è nata nel 2002 da un progetto sostenuto 
                    da artisti, intellettuali e operatori culturali che hanno 
                    voluto valorizzare il carattere multietnico assunto negli 
                    anni dal rione Esquilino nel cuore di Roma, in contrasto con 
                    chi voleva creare allarme sociale attorno al fenomeno migratorio 
                    che stava cambiando il volto del quartiere. L'orchestra, oggi 
                    composta da 18 musicisti di 10 paesi diversi, tutti residenti 
                    all'Esquilino, è molto conosciuta e apprezzata anche 
                    all'estero. Per maggiori informazioni si può consultare 
                    il sito: www.orchestrapiazzavittorio.it. 
                
  
                  (intervista realizzata via telefono nel febbraio 2008. Registrata 
                  presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in 
                  onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: 
                  “In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai 
                  personaggi delle canzoni di Fabrizio De André). 
                   
               
                   
                    |   In 
                        direzione ostinata e contraria  
                       Con 
                        questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” 
                        di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche 
                        realizzate da Renzo Sabatini e andate 
                        in onda in Australia nel programma “In direzione 
                        ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia 
                        fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si 
                        è trattato di sessanta puntate (ciascuna della 
                        durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 
                        40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state 
                        trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni 
                        di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più 
                        lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al 
                        cantautore genovese. 
                       Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria. 
                       Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012)); Paolo 
                        Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); 
                        Gianni Mungiello, 
                        Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 
                        377, febbraio 2013); Giulio 
                        Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 
                        2013); Sandro 
                        Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013); 
                        Luca Nulchis 
                        (“A” 380, maggio 2013); don 
                        Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo 
                        Finzi (“A” 382, estate 2013); Gabriella 
                        Gagliardo (“A” 383, ottobre 2013). 
                       la redazione di “A”  | 
                   
                 
                
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