Esquel (Agentina)/  
                  Ma l'acqua vale più dell'oro 
				  
                 Tra i tanti movimenti composti da comunità che si uniscono 
                  per opporsi a un progetto di sfruttamento della natura, il movimento 
                  No a la Mina è uno tra i più vasti, determinati 
                  e organizzati. Conosciuto e sostenuto in tutta l'America Latina, 
                  il movimento è nato in Esquel, città di solo 80.000 
                  abitanti, situata ai piedi della precordigliera andina, un centro 
                  importante della selvaggia Patagonia argentina. 
                  Negli anni della crisi economica, lo stato argentino emanò 
                  una serie di leggi e agevolazioni fiscali per favorire l'industria 
                  mineraria, aprendo così i cancelli all'arrivo di compagnie 
                  straniere, che estrassero le ricchezze minerarie presenti nel 
                  territorio argentino. L'obiettivo è stato senz'altro 
                  raggiunto, visto che oggi in Argentina si contano oltre 150 
                  progetti di estrazione mineraria. 
                  A Esquel in particolare arrivò l'impresa canadese Merdian 
                  Gold, pronta ad aprire una miniera a cielo aperto per estrarre 
                  l'oro dai monti di Esquel. Se inizialmente, per disinformazione 
                  o per passività, la cosa non suscitò particolare 
                  malcontento nella città, presto le cose cambiarono. Un 
                  gruppo di attivisti riuscì a inoltrarsi in un'area controllata 
                  dalla compagnia mineraria e a filmare delle immagini incredibili: 
                  il fiume era passato dalla sua naturale colorazione azzurra 
                  a uno spaventoso colore giallo. Il video del rio amarillo 
                  (fiume giallo) fece presto il giro della città e dell'intera 
                  provincia del Chubut, e i cittadini di Esquel – per la 
                  maggior parte persone trasferitesi lì per godere la tranquillità 
                  e la salubrità della vita patagonica – aprirono 
                  gli occhi e cominciarono a organizzarsi, autoconvocando riunioni 
                  di vicinato, adottando la formula “vicini informano vicini”. 
                  Al grido “el agua vale mas que el oro” (l'acqua 
                  vale più dell'oro) tutta Esquel cominciò a informarsi 
                  e informare riguardo le spiacevoli conseguenze del progetto 
                  minerario, presto denominato dai cittadini “el saqueo” 
                  (“il saccheggio”). 
                  I motivi di maggior preoccupazione riguardavano naturalmente 
                  i danni ambientali e la salute degli abitanti. Tra i pericoli 
                  più seri, quello dei drenaggi acidi, ovvero la formazione 
                  nell'acqua di acido solforico, dovuto alla liberazione del solfuro 
                  contenuto dalla roccia: i drenaggi acidi sono altamente inquinanti 
                  e richiedono decenni o addirittura secoli prima di sparire. 
                  Simile il discorso per i metalli pesanti, anch'essi contenuti 
                  nella roccia e liberati tramite l'attività mineraria: 
                  non potendo essere smaltiti dagli esseri viventi, si accumulano 
                  nell'organismo, con effetti nocivi perfino sul sistemo nervoso. 
                  Altro grave problema ecologico è quello dovuto all'uso 
                  massivo di cianuro come mezzo per estrarre l'oro dalla roccia; 
                  viene utilizzato perché altamente economico (con una 
                  tonnellata di cianuro, costo 1.500 dollari, si possono estrarre 
                  fino a 6 kg di oro, per un valore di oltre 140.000 dollari). 
                  Ciò che alle compagnie minerarie non importa però, 
                  è che il cianuro è altamente tossico: una quantità 
                  di cianuro equivalente a un chicco di mais è sufficiente 
                  per uccidere un uomo adulto. Ultimo, ma non per importanza: 
                  in un solo giorno di estrazione mineraria vengono consumati 
                  milioni di litri di acqua (senza che la compagnia mineraria 
                  debba pagare alcuna tassa per l'uso). 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Marcha del movimento No a la Mina  | 
                   
                  
                  Come se non bastassero i danni ambientali, i cittadini di Esquel 
                  si sono presto resi conto che lo sviluppo economico promesso 
                  dai fautori del progetto minerario non è reale, in quanto 
                  quasi tutta la ricchezza finisce per arricchire i già 
                  ricchi paesi stranieri; anzi, al contrario, questa attività 
                  economica non sostenibile va a danneggiare enormemente le attività 
                  economiche sostenibili che si praticano in Chubut, come l'agricoltura 
                  e l'allevamento. Attività che danno impiego a molte più 
                  persone di quelle che sarebbero impiegate nella miniera. 
                  Come il rio Chubut, che nasce nella cordillera che sovrasta 
                  Esquel e prosegue fino al Pacifico attraversando in larghezza 
                  tutta l'Argentina, così il movimento No a la Mina è 
                  presto arrivato ben oltre la città di Esquel. L'intero 
                  Chubut si è reso conto che il problema è anche 
                  loro e la solidarietà non è mai mancata, sia a 
                  livello nazionale che internazionale; oggi il sito web del movimento 
                  (noalamina.org) è uno dei principali punti di riferimento 
                  per informazioni e ricorsi contro ogni progetto di sfruttamento 
                  minerario presente al mondo. 
                  Il 4 di dicembre del 2002 la piazza principale di Esquel si 
                  riempì di cittadini che marciarono per gridare il loro 
                  “no” al progetto minerario. Da allora, ogni quarto 
                  giorno di ogni mese, Esquel scende in strada con una marcha 
                  che attraversa il centro della città a suon di tamburi, 
                  slogan cantanti, bandiere al vento, molte delle quali sono bandiere 
                  mapuche. Ogni marcha si conclude con un'assemblea, dove 
                  gli interventi sono aperti a tutti, per informare e per organizzare 
                  le prossime tappe della protesta. In più di dieci anni 
                  di lotta si sono visti anche momenti memorabili: immaginate 
                  oltre un migliaio di persone marciare sfidando il freddo e le 
                  intemperie dell'inverno patagonico. 
                  La determinazione della protesta in Esquel ha portato il governo 
                  a concedere un sondaggio ufficiale, nel quale i cittadini erano 
                  chiamati a esprimere il loro sì o il loro no al progetto 
                  minerario. Era il 23 marzo del 2003. Il risultato non lascia 
                  spazio a dubbi di alcun tipo: un netto 81 per cento ha scelto 
                  per il no. In seguito ai risultati del plebiscito, Esquel venne 
                  dichiarato “municipio non tossico e ambientalmente sostenibile”; 
                  le attività industriali e minerarie che richiedessero 
                  l'uso di sostanze tossiche vennero proibite, e le zone montagnose 
                  situate all'interno del municipio vennero dichiarate “aree 
                  paesaggistiche protette”. (ord. 33/03) 
                  Per di più una legge provinciale proibì in tutto 
                  il Chubut “l'attività metallifera nella modalità 
                  a cielo aperto e l'utilizzo di cianuro nei processi di produzione”. 
                  La vittoria del movimento No a la Mina è stata un'inequivocabile 
                  dimostrazione del potere che può esercitare il popolo: 
                  l'azione congiunta di tutta la popolazione, unita e decisa, 
                  vale di più degli interessi delle multinazionali e dei 
                  politici. 
                  Ma nonostante il plebiscito e il chiaro verdetto della città 
                  di Esquel, le compagnie minerarie continuano a cercare il modo 
                  per far partire il “saccheggio”; per questo i cittadini 
                  non hanno mai abbassato la guardia, continuano a riunirsi, a 
                  informare, anche appoggiando e collaborando con altre comunità 
                  che si trovano ad affrontare situazioni simili. 
                  E la “guerra” non si può considerare finita, 
                  perché se a Esquel non manca la determinazione dei cittadini 
                  contro questo assurdo progetto di sfruttamento della natura, 
                  non manca nemmeno l'ostinazione del potere nel suo processo 
                  di disinformazione, false promesse e repressione. Per di più, 
                  la famosa legge anti-terrorismo emanata nel 2012 dallo stato 
                  argentino, ha di fatto trasformato in terroristi perseguibili 
                  penalmente anche questi liberi cittadini, preoccupati per la 
                  loro acqua e la loro salute. 
                  Curiose e interessanti sono le iniziative promosse dal movimento 
                  No a la Mina in Esquel, oltre alle riunioni autoconvocate di 
                  vicinato, che sono tuttora il cuore della protesta. L'assemblea 
                  mensile “ufficiale” di tutto il movimento Esquel 
                  è pubblica, aperta a tutti, e viene trasmessa integralmente 
                  in diretta da Radio Kalewche, una radio libera fondata da Asociacion 
                  Mapu, un'associazione che offre appoggio al popolo mapuche. 
                  Ognuno può ascoltare alla radio tutti gli interventi 
                  e le decisioni dell'assemblea e qualora non fosse d'accordo 
                  può telefonare o uscire di casa e andare a dire la sua. 
                  Inoltre, nel marzo 2012, durante la celebrazione dell'anniversario 
                  del plebiscito, tra le varie iniziative venne organizzato una 
                  sorta di festival, il cui fine era mostrare nella pratica tutte 
                  le attività sostenibili che sono non solo possibili ma 
                  auspicate da tutti; ciò per dire che dietro a un “no” 
                  c'è sempre un “sì” ad altre cose, 
                  ed è un “sì” consapevole e determinato 
                  tanto quanto il “no”.
                 Michele Salsi 
                 
                 
                  Cile/  
                  Quarant'anni dopo 
                
                  Siamo al quarantesimo anniversario del colpo di stato in Cile 
                  che portò al potere il dittatore Augusto Pinochet, mettendo 
                  fine al governo di Unità popolare e anche a un movimento 
                  di lavoratori, contadini, studenti e Mapuche che a loro volta 
                  avevano messo in atto un progetto autogestito e libertario. 
                  (...) 
                  Il popolo cileno, i lavoratori, gli studenti e i Mapuche avevano 
                  un'idea tutt'altro che accomodante nei confronti del capitalismo 
                  cileno, delle multinazionali e dell'imperialismo militare. In 
                  quei tre anni ci sono state organizzazioni popolari e di base 
                  che hanno portato avanti un progetto libertario e autogestito 
                  che intendeva veramente espropriare e autogestire tutti i mezzi 
                  di produzione e attuare una vera riforma agraria che consegnasse 
                  ai contadini la terra e che mettesse a disposizione di tutti 
                  i cittadini le risorse ricavate dalle materie prime (rame) contestando 
                  fortemente il programma riformista di Salvador Allende. 
                  Dall'altra parte il governo di Unità popolare dopo aver 
                  fatto credere ai cileni e all'opinione pubblica internazionale 
                  che il loro era un progetto socialista. Solo i lavoratori, i 
                  contadini, i baraccati, gli studenti e i Mapuche lottavano con 
                  convinzione e determinazione per l'interesse generale del popolo 
                  e sperimentavano in molti casi forme di lotta autogestita e 
                  libertaria occupando fabbriche, espropriando i latifondisti 
                  per una vera riforma agraria e mettendo in autogestione la distribuzione 
                  dei generi alimentari, spropriando tutte le grandi compagnie 
                  di distribuzione e di vendita di alimenti, perché questi 
                  si era fatti responsabili del mercato nero. 
                  (...) 
                  In diciassette anni abbiamo avuto 60mila morti assassinati dai 
                  militari, ventimila scomparsi, 250mila esiliati, un milione 
                  e mezzo di immigrati. Nel 1980 i militari hanno fatto la propria 
                  costituzione che è la carta costituzionale del Cile. 
                  Il Cile è l'unico paese dell'America Latina ad avere 
                  ancora oggi una costituzione militare vigente. 
                  Dal 1990 a oggi si sono susseguiti al potere i democristiani, 
                  i socialisti e la destra, ma per i cileni non è cambiato 
                  assolutamente nulla. Tutte le risorse naturali del paese sono 
                  state privatizzate e oggi sono in mano alla borghesia cilena 
                  e alle multinazionali. La riforma agraria è stata cancellata 
                  e migliaia di contadini non hanno la terra. La terra dei Mapuche 
                  è stata data alla multinazionale della cellulosa, il 
                  loro territorio è stato militarizzato. Centinaia di Mapuche 
                  sono finiti in carcere per difendere la propria terra. Il Cile 
                  non riconosce nessun diritto ai Mapuche; nonostante la loro 
                  opposizione e la rivendicazione del proprio territorio lo stato 
                  cileno li ha cacciati in un angolo sempre più piccolo. (...) 
                 Comitato lavoratori cileni esiliati 
                 
                   
                Marocco/  
                  Il segreto per diventare un uomo libero 
                 Il Maghreb per chi vive in Europa rappresenta un mondo così 
                  vicino eppure così lontano, non solo per la natura, ma 
                  anche per il modo di vivere, e l'Africa è davvero lontana, 
                  soprattutto perché l'Africa è un posto dove si 
                  può essere ancora liberi. 
                  Dopo un paio di settimane spese sulla costa atlantica del Marocco 
                  decidiamo di perderci nell'Anti-Atlas. Attraversiamo infiniti 
                  altipiani circondati da montagne rosse, di terra arida, così 
                  arida da essere bellissima. Si annusano atmosfere da deserto, 
                  tende berbere lungo la strada, nomadi accampati con il loro 
                  gregge, e fuochi accesi per la sera. 
                  Andiamo a Tafrarout per cercare un posto dove dormire. In 4/5 
                  ore di viaggio non abbiamo incrociato nessuno, se non due vecchissimi 
                  mercedes pieni di persone, e un paio di camion tenuti insieme 
                  con lo spago. Abbiamo negli occhi il color miele del tramonto 
                  e capisco perché sono di nuovo qui in Marocco. Ci sono 
                  posti che ci chiamano, e anche se già visitati ci chiedono 
                  di ritornare. 
                  Il Marocco è uno stato dove convivono diverse etnie. 
                  In fondo quelli che noi chiamiamo marocchini non esistono, sono 
                  una costruzione di un mondo fatto di stati, e non, come mi piacerebbe, 
                  di popoli. 
                  Tra le etnie che vivono in Marocco quella che più mi 
                  affascina è quella dei berberi, uno degli ultimi popoli 
                  nomadi. Integrati con gli arabi, i berberi vivevano tra l'attuale 
                  Marocco e l'Egitto prima che gli arabi colonizzassero queste 
                  terre. 
                  I berberi parlano una loro lingua, il tamazight: nel 
                  sud del Marocco è facile incontrare persone che lo parlano 
                  come prima lingua. Nella loro lunghissima storia i berberi, 
                  o meglio gli amazigh (Il femminile, tamazight, 
                  viene appunto usato per designare la lingua berbera) non hanno 
                  mai fatto guerre di conquista, solo vittoriose resistenze. Gli 
                  amazigh sono stubborn (caparbi) come i posti dove vivono, 
                  infatti vivono camminando tra il deserto e l'oceano, e non a 
                  caso imazighen, plurale di amazigh, significa “uomini 
                  liberi”. 
                  Gli amazigh quando hanno bisogno di soldi vendono tappeti, gioielli 
                  o formaggio nei suk delle città che incontrano. 
                  Adoro i suk: si acquista cibo, vestiti, gioielli, prodotti che 
                  gli artigiani fabbricano sotto gli occhi dei clienti. Sono luoghi 
                  nei quali pulsa la vita. 
                  Quando cammini per un suk gli artigiani del luogo ti guardano 
                  da lontano, e da come sei vestito o ti comporti sanno da dove 
                  vieni, quindi che lingua devono usare. Ti studiano senza farsi 
                  capire, pensano a quale frase usare quando gli passerai vicino, 
                  sanno capire se è un buon investimento offrirti del tè. 
                  Da quello che guardi intuiscono quali possono essere i tuoi 
                  bisogni. 
                  Sanno che ti fermerai, e tu ti fermi. Non puoi non fermarti 
                  a guardare come tessono nel loro laboratorio la lana, cuciono 
                  la pelle, modellano la ceramica, battono il ferro. I lavori 
                  artigianali sono qualcosa che mi affascina, mi incuriosisce. 
                  In una società come la nostra dove sembra che conti solo 
                  la testa, saper usare le mani per costruire qualcosa ha un che 
                  di magico. 
                  Se compri un cappellino, non acquisti solo un indumento, ma 
                  apprezzi il lavoro che ci sta dietro, la fatica per produrlo, 
                  il fatto che è un pezzo unico. E quel lavoro lo puoi 
                  vedere, si consuma nel laboratorio nel quale sei entrato. Il 
                  prezzo è una conseguenza, tanto che non ha bisogno di 
                  essere esposto, e varia in base al materiale, la lavorazione, 
                  la dimensione, le ore di lavoro, e soprattutto il cliente. Dipende 
                  da quanto sei simpatico e quanto ci sai fare. Acquistare in 
                  un suk non significa passare alla cassa, acquistare significa 
                  contrattare, è un'arte che presuppone doti recitative 
                  e capacità economiche. 
                  Se non sai quanto costa un kg di pane lascia perdere, non hai 
                  termini di confronto, rischi di farti del male. Puoi sempre 
                  applicare la teoria dell'1/3 ma non sempre ti permette di valutare 
                  correttamente un affare, e comunque puoi offendere. Quelli che 
                  odio sono i “biancovestiti”, tipicamente hanno una 
                  camicia bianca, i bermuda e indossano cappelli di paglia. Loro 
                  hanno i soldi e non contrattano, o se lo fanno è solo 
                  per far vedere agli amici quanto sono bravi. Comunque, in un 
                  modo o nell'altro, rovinano la piazza. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Tappeti in vendita nella bancarella di un suk  | 
                   
                 
                 
                  A Trafarout non volevo comprare un tappeto, l'avevo già 
                  comparato un anno fa a Fez. 
                  Ma mi aspettava e quindi: inshallah. 
                  È stata una trattativa estenuante, durata ore. Abbiamo 
                  parlato dell'Italia, del Marocco, della crisi, della politica, 
                  del Ramadan. Abbiamo bevuto due tè. Ho fatto per andarmene 
                  due volte. Ho conosciuto la moglie e i figli. Abbiamo srotolato 
                  il negozio di tappeti, ma avendone ben chiaro uno in particolare. 
                  Per Mohammed era chiaro sin dall'inizio che l'avrei preso, ma 
                  si parlava di lui parlando degli altri tappeti. Che tecnica 
                  di vendita sofisticata! Hanno perfino istituito un kindergarten 
                  (giardino d'infanzia) per tenere a bada i bambini. 
                  Nussardim, un amico marocchino che ho conosciuto a Lisbona, 
                  mi ha spiegato che prima di negoziare sul prezzo occorre che 
                  chi vende scenda almeno tre volte. 
                  Qui vale tutto, ma soprattutto occorre recitare: “Non 
                  ho soldi”, “Sono alla fine delle vacanze”... 
                  Solo dopo il terzo ribasso di chi vende è sensato fare 
                  una contro offerta. Deve essere più bassa di quello che 
                  si vuole spendere. A questo punto se il prodotto viene messo 
                  via è inutile proseguire, la cosa può avere solo 
                  due sviluppi: la trattativa si è chiusa con un niente 
                  da fare e qualche parola araba, oppure quando si farà 
                  per andare via si verrà inseguiti dicendo che va bene 
                  e il venditore fingerà di essere arrabbiato. In questo 
                  secondo caso l'affare l'ha fatto decisamente chi vende, ma ti 
                  vuole dare l'impressione di aver vinto. 
                  Se invece la trattativa continua allora occorre essere capaci 
                  di tenere il prezzo. Tipicamente chi vende prova a farti vedere 
                  quale prodotto puoi comprare al prezzo che hai proposto, oppure 
                  aggiunge merce per rendere la cifra più interessante. 
                  È qui che occorre tirare fuori le migliori doti di negoziazione. 
                  Troppo spesso bollata con disprezzo, la contrattazione è 
                  arte e rende i posti vivi. 
                  Da noi i prezzi devono essere esposti in vetrina per legge. 
                  Dietro le vetrine generalmente ci sono ragazze carine che con 
                  un sorriso ti dicono che se hai bisogno di qualcosa puoi chiamarle. 
                  Tutto è esposto su scaffali ed è a prova di cretino. 
                  Non devi nemmeno essere capace di sommare, intanto paghi il 
                  mese prossimo, devi essere capace solo di strisciare la carta 
                  di credito. 
                  Davanti a un laboratorio si rimane affascinati, come intontiti. 
                  Ci vengono mostrati i passaggi dal prodotto grezzo a quello 
                  finale. I prodotti sanno delle mani che li hanno lavorati. Gli 
                  scaffali dei nostri negozi nascondono esattamente questa meraviglia, 
                  la uccidono nelle ingiuste fabbriche del sud-est asiatico. Questa 
                  dimensione prima di essere economica è sociale. Il luogo 
                  dove si commercia è un luogo d'incontro tra persone, 
                  e noi l'abbiamo ridotto al nonluogo dei centri commerciali. 
                  Odio i centri commerciali, ogni volta che ci entro è 
                  come se uccidessi un pezzo d'umanità, quella che si nutre 
                  di relazioni tra persone. 
                  Sono a Tarfaya a riposarmi, un posto sperduto tra l'oceano e 
                  il Sahara. Per arrivarci abbiamo dovuto percorrere una strada 
                  che a tratti era coperta da dune di sabbia. Tarfaya era dove 
                  Saint-Exupery veniva a riposarsi dopo aver sorvolato il deserto 
                  con il suo biplano. Nell'unica via della città soffia 
                  il vento che alza la sabbia, muove le lamiere e rotola oggetti 
                  sulla terra. Gli abitanti del posto riposano aspettando il tramonto, 
                  quando il Ramadan gli permetterà di bere e mangiare. 
                  C'è un caffè con wifi, carico qualche foto su 
                  istagram e aggiorno i miei appunti. Navigando su internet scopro 
                  che su berberi.com hanno pubblicato una posizione: 
                  “We are looking for a guy 43 years old, he must love desert 
                  life. His duties are: goats sheppard and carpets maker. Skills 
                  required: funny stories writer. We offer the secret to become 
                  a amazigh. (Stiamo cercando un ragazzo, età 43 anni, 
                  deve amare la vita nel deserto. I suoi compiti sono: pastore 
                  di capre e artigiano dei tappeti. Capacità richieste: 
                  scrittore di storie divertenti. Offriamo il segreto per diventare 
                  un amazigh, “un uomo libero”). Ho applicato... inshallah.
                 Gianluca Luraschi 
                  gianluca.luraschi@gmail.com 
                 
                   
                Carrara/ 
                  Largo Ugo Mazzucchelli 
                 Ugo Mazzucchelli (1903-1997) è stata una delle figure 
                  più note del movimento anarchico a Carrara nello scorso 
                  secolo.  In particolare per il suo ruolo durante la lotta 
                  antifascista e nell'immediato dopoguerra. Uomo d'azione, ha 
                  legato la propria vita in quegli anni anche ad azioni clamorose 
                  (quali la fuga dal carcere di Massa), a un'intensa attività 
                  militare contro le truppe nazi-fasciste, e ricoprì tra 
                  l'altro l'incarico di “esattore”, per un prestito 
                  forzoso presso i benestanti della zona, per riscuotere i contributi 
                  risultati infine volontari, in favore della lotta partigiana. 
                  Nel secondo dopoguerra, con la Cooperativa del Partigiano e 
                  altre iniziative, fu tra i protagonisti dell'attivismo degli 
                  anarchici locali per la ripresa della vita sociale ed economica 
                  dell'area apuana. Esponente della Federazione Anarchica Italiana, 
                  fu attivo in numerose iniziative e associazioni, tra cui quelle 
                  dei partigiani (in particolare la Federazione Italiana delle 
                  Associazioni Partigiane, Fiap). Furono dovuti alle sue iniziative, 
                  il monumento ad Alberto Meschi, a Gaetano Bresci, a Franco Serantini 
                  a Pisa e il monumento a tutte le vittime del fascismo, con la 
                  partecipazione della Fiap e il patrocinio del Comune di Carrara. 
                  Negli ultimi tempi sono state proprio le due associazioni partigiane 
                  Anpi e Fiap ad essere tra i promotori di una raccolta di firme 
                  e di altre iniziative per l'intestazione, in città, di 
                  una via o di una piazza a due comandanti partigiani, rispettivamente 
                  l'anarchico Ugo Mazzucchelli e il comunista “Memo” 
                  Alessandro Brucellaria. 
                  A Carrara, dove già ci sono via Camillo Berneri, via 
                  Gino Lucetti e piazza Sacco e Vanzetti, è stata 
                  deliberata la titolazione di un largo a Ugo Mazzucchelli con 
                  il relativo assenso da parte della prefettura, ultimo atto necessario 
                  per procedere ormai alle definitive e prossime inaugurazioni. 
                   
                 
                   
                Abbiategrasso (Mi)/  
                  In difesa del Pagiannunz 
                 Se in una domenica illuminata dal sole primaverile Milano 
                  vi sembrasse ancora troppo grigia prendete la bicicletta e percorrete 
                  l'alzaia del Naviglio Grande; strada facendo incontrereste una 
                  cittadina chiamata Abbiategrasso. A 20 km dalla Darsena, con 
                  i suoi 30.000 abitanti, è conosciuta soprattutto per 
                  il Castello Visconteo eretto nel 1382. 
                  Proprio qui tra circonvallazioni, strade provinciali e fabbriche 
                  abbandonate al degrado sorge un'area in cui la natura ha voluto 
                  prendersi gioco di provetti lottizzatori e costruttori esaltati: 
                  un luogo da cartolina, per i più romantici, un vero e 
                  proprio rifugio per la fauna selvatica. L'area è alimentata 
                  dalla roggia Cardinala, che porta acqua alle terre in questione 
                  e che a lungo andare ha creato un'area umida di grande valore 
                  ambientale, dove vivono specie protette che dovrebbero essere 
                  tutelate da direttive europee, nazionali e regionali. Tantissimi 
                  gli animali che abitano queste terre: tritoni crestati, rospi 
                  smeraldini, raganelle, orbettini, natrici dal collare, biacchi, 
                  germani reali, barbagianni, aironi rossi, cavalieri d'italia 
                  e aironi cenerini. 
                  Quest'oasi urbana è affettuosamente chiamata “Pagiannunz” 
                  (Parco Giardino dell'Annunziata, dal nome dell'antico convento 
                  che sorge alle sue spalle) dai cittadini che da un anno a questa 
                  parte stanno cercando di difenderla attraverso la creazione 
                  del Comitato per la difesa del territorio abbiatense. Infatti 
                  l'area è al centro di un grande progetto di urbanizzazione: 
                  il Pgt prevede che su quest'angolo di mondo ancora incontaminato 
                  venga edificato un centro commerciale di 19.000 mq. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Abbiategrasso (Milano). 
                  L'area umida chiamata Parco Giardino dell'Annunziata (Pagiannunz) prima dell'intervento 
                  delle ruspe  | 
                   
                 
                 Quella del Pagiannunz è una triste storia che si muove 
                  a colpi di ordinanze comunali per fermare i lavori e di conseguenti 
                  ricorsi al Tar della società “proprietaria” 
                  del terreno: l'Essedue di Bergamo; società che non ha 
                  avuto esitazioni nel bloccare l'acqua, fonte di sostentamento 
                  per l'ecosistema creatosi, e nel portare ruspe all'interno dell'area, 
                  devastandola. 
                  Ma ancora di più, quella del Pagiannunz è una 
                  bella storia di lotta dal basso, di persone volenterose e coraggiose 
                  che non hanno voluto accettare la distruzione del proprio territorio, 
                  che non si sono piegate davanti all'illusione del falso benessere 
                  portato dal cemento e dall'urbanizzazione e che non hanno avuto 
                  paura davanti all'ennesima prepotenza del denaro. 
                  Tante le attività portate avanti dal Comitato per sensibilizzare 
                  i cittadini sul tema, ma ancora più numerose le iniziative 
                  di dissenso nei confronti dello scempio ambientale: dai concorsi 
                  per i bambini delle scuole abbiatensi ai presidi e ai cortei 
                  che più volte hanno attraversato la città. L'ultimo 
                  capitolo del Pagiannunz è stato scritto nella seconda 
                  metà di settembre. 
                  È giovedì 19 settembre: la proprietà si 
                  presenta all'alba sul “luogo del delitto” armata 
                  di avvocato e di ruspa. Le piante vengono estirpate insieme 
                  al resto della vegetazione, l'approdo degli aironi viene devastato 
                  e vengono scavati canali di scolo per fare in modo che l'area 
                  si prosciughi. È un attimo e associazioni, comitati e 
                  semplici cittadini sono pronti alla mobilitazione. Nella notte 
                  riescono a fermare la ruspa per qualche ora, ma i “lavori” 
                  proseguiranno fino alla mattina successiva. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   19 settembre. Il Pagiannunz dopo la devastazione  | 
                   
                 
                 
                  L'intervento delle autorità giunte sul luogo per controllare 
                  eventuali irregolarità è praticamente inutile, 
                  parlano di ulteriori accertamenti. Le ruspe intanto proseguono. 
                  Al sorgere del sole non si vedranno né gli aironi volare 
                  né si udirà il gracchiare di rospi e raganelle. 
                  Nel frattempo un mezzo di dimensioni molto più grosse 
                  rispetto a quelli che avevano lavorato finora nell'area giunge 
                  sul posto a dar man forte alla distruzione. 
                  Manca qualche ora a mezzogiorno e il comune emette l'ennesima 
                  ordinanza per fermare i lavori in una zona di pregio ambientale. 
                  Troppo tardi. Le scavatrici si allontanano dal Pagiannunz. 
                  L'area umida non c'è più. Ci sono alberi tagliati, 
                  piante estirpate, nidi distrutti, profondi solchi nel terreno, 
                  segni di pneumatici, rifiuti di qualche ruspista affamato e 
                  il rumore del traffico alle proprie spalle. Per la proprietà 
                  forse tutto è pronto per la costruzione di quel discusso 
                  centro commerciale che servirà a schiacciare le piccole 
                  attività dei negozianti locali, prima di vederlo fallire 
                  lasciandosi alle spalle disoccupazione e cemento. 
                  Per la proprietà forse... ma non per coloro che da sempre 
                  si sono opposti all'ennesimo scempio del territorio. 
                  Forse infatti l'ultimo capitolo della storia del Pagiannunz 
                  può ancora essere scritto: da lunedì 23 settembre, 
                  appena quattro giorni dopo quello che si pensava essere l'epilogo 
                  della vicenda, l'acqua è tornata a bagnare i terreni 
                  e qualche airone è tornato a volare sul luogo del misfatto. 
                  Quindi, se per caso in quella famosa domenica primaverile decideste 
                  di passare per Abbiategrasso, guardate i campi arati e le fabbriche 
                  dismesse e provate a immaginare che lì un tempo gli aironi 
                  volavano a pelo d'acqua e che nella notte i barbagianni cantavano 
                  alla luna. Oppure vedendo un luogo ricco di vegetazione dove 
                  gli uccelli cantano e volano a pelo d'acqua, potete giustamente 
                  pensare che la natura si è ripresa il suo spazio. 
                
                 Camilla Galbiati 
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