Il futuro arcaico 
                  di Mary Daly 
                “Teologia in lingua materna” l'ha chiamata Luisa 
                  Muraro: vale a dire una riflessione sulle categorie del religioso 
                  che prende avvio dall'esperienza della maternità, del 
                  rapporto madre/figlio, e quindi da una scrittura in cui un'esperienza 
                  vitale si fa conoscenza e pensiero mediante la lingua che impariamo 
                  a parlare per prima, nell'ascolto della voce materna; e poi 
                  da lì dire e parlare di Dio e di tutto il resto nella 
                  prossimità con l'essere corpo, con il groviglio di emozioni 
                  e sensazioni che ci abitano. Più prosaicamente i più 
                  ne parlano in termini di “teologia femminista”. 
                  Quale sia l'espressione che si preferisce, certo è che 
                  la teologia declinata al femminile è oggi uno degli ambiti 
                  più interessanti della riflessione religiosa, insieme 
                  a pochi altri (teologia del pluralismo religioso, ecoteologia, 
                  teologia animale), non a caso poco o punto frequentati nelle 
                  facoltà pontificie. 
                  Colei che, nel nostro tempo, può essere a buon diritto 
                  considerata una delle iniziatrici di questo filone di ricerca 
                  è stata Mary Daly, figura purtroppo poco conosciuta al 
                  di fuori della classica nicchia di settore. Tratteggiamo, in 
                  breve, i momenti salienti della sua vita pubblica. Dopo aver 
                  compiuto rigorosi studi presso istituti cattolici negli Stati 
                  Uniti e a Friburgo, conseguendo i dottorati in teologia e in 
                  filosofia, iniziò a insegnare presso il Boston College, 
                  retto dai gesuiti, entrando ben presto in rotta di collisione 
                  – correva l'anno 1968! – con le autorità 
                  dell'istituto per la sua opera La Chiesa e il secondo sesso 
                  (in italiano nel 1982, presso Rizzoli). Ma il suo libro più 
                  famoso è senz'altro Al di là di Dio padre, 
                  del '73 (uscito in italiano nel 1990 per conto degli Editori 
                  Riuniti). La stessa autrice ebbe a dire in seguito che il titolo 
                  sarebbe potuto essere semplicemente Al di là di Dio; 
                  Daly mostra come la costruzione stessa di un divino trascendente 
                  crei simbolicamente una struttura piramidale in cui alcuni dominano 
                  e altri sono dominati. Non solo: con l'identificazione di Dio 
                  con il maschio tale gerarchia diviene sessuata, cosicché 
                  Mary Daly giunge a sostenere come la visione sessista della 
                  Chiesa sia connaturata alle sue premesse teologiche fondamentali. 
                  In tale saggio è contenuta la sua famosa affermazione: 
                  “se Dio è maschio, il maschio è Dio”, 
                  mostrando come la religione cristiana finisca per legittimare 
                  l'esercizio del potere maschile all'interno del nostro orizzonte 
                  sociale e culturale. Dal canto suo Mary Daly proponeva di non 
                  attribuire a Dio un'immagine fissa e oggettivante che ne ingessasse 
                  le potenzialità, bensì – distante da un 
                  Dio dalle sembianze antropomorfe – volle sempre riferirsi 
                  al divino non come a un sostantivo ma come verbo intransitivo 
                  che non ha fine, in continuo divenire, dunque fonte continua 
                  di vita e di trasformazione. 
                  Successivamente Mary Daly si convinse che non era possibile 
                  eliminare le immagini maschili dalla parola Dio poiché 
                  l'ordine simbolico del cristianesimo risultava irrimediabilmente 
                  compromesso con i dispositivi oppressivi della società 
                  patriarcale. Pertanto intraprese l'esodo dal cristianesimo, 
                  rivolgendo la sua energia all'individuazione di un “futuro 
                  arcaico”, tutto al femminile, a cui attingere. Questo 
                  è il motivo di uno dei suoi ultimi lavori. Quintessenza. 
                  Realizzare il futuro arcaico (pubblicato da Venexia, 2005). 
                  Il testo si presenta con una struttura formale a cavallo tra 
                  il saggio e il romanzo: alcune donne che vivono nell'era biofila 
                  dell'anno 2048, grazie a un'energia femminile primordiale che 
                  rende possibile lo scavalcamento delle barriere spazio-temporali, 
                  richiamano Daly dall'anno 1998, affinché racconti loro 
                  del miserevole stato in cui vivevano le donne nella precedente 
                  era necrofila, dominata dal patriarcato. Questo testo, pur collocandosi 
                  in una prospettiva dichiaratamente post cristiana presenta comunque 
                  punti di contatto con la letteratura apocalittica, con il suo 
                  corredo di visioni (il tema del viaggio spazio-temporale), con 
                  il simbolismo numerico, con il principio-speranza che alimenta 
                  un presente irrespirabile. 
                  Questa in sintesi, estrema sintesi a dir la verità, il 
                  percorso intellettuale di Mary Daly.
                 
                   
                     
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                    |   Mary Daly  | 
                   
                  
                  Nel gennaio del 2010 Mary Daly è morta e nel maggio dello 
                  stesso anno, presso la facoltà valdese di teologia di 
                  Roma, si è tenuto un convegno in suo onore, con l'apporto 
                  del Coordinamento teologhe Italiane. Gli atti di questo incontro 
                  sono ora disponibili nel volume Un vulcano nel vulcano. Mary 
                  Daly e gli spostamenti della teologia (Effatà edizioni, 
                  Torino, 2012, pp. 112), curato da Letizia Tomassone. Studiose 
                  di religioni, filosofe e teologhe (fra cui Chiara Zamboni, della 
                  Comunità filosofica Diotima, Luciana Percovich, Elizabeth 
                  Green, oltre alla stessa Tomassone) riflettono e si confrontano, 
                  partendo da punti di osservazione differenti, su ciò 
                  che ha lasciato in eredità la studiosa americana e le 
                  vie di fuga che è possibile intravedere. Ma il libro 
                  si presenta bene anche come un'introduzione al pensiero della 
                  filosofa e teologa statunitense. 
                  Qui, in conclusione, desideriamo compiere una breve nota a margine 
                  sui temi trattati nel volume, in punta di piedi, quanto lo consente 
                  lo spazio di una recensione. 
                  Mary Daly in Al di là di Dio padre sosteneva che 
                  l'attuale regime sociale è opprimente non solo per le 
                  donne ma anche per gli uomini e che, di conseguenza, il cammino 
                  di liberazione riguarda entrambi i generi. Come annota E. Green 
                  nel volume, “il sistema simbolico cristiano è fonte, 
                  quindi, di una falsa coscienza femminile ma anche di una falsa 
                  coscienza maschile” (p. 41). In seguito Daly abbandonerà 
                  questo tipo di considerazioni compiendo il salto verso il separatismo 
                  femminista (verso cui alcuni degli interventi del volume collettaneo 
                  dissentono). Qui, per forza di cose, il commento è dalla 
                  parte maschile, la quale vede e sente con tutta la persona quanto 
                  vi è di insopportabile nel giogo patriarcale, ma sente 
                  al contempo come la possibilità dell'oltrepassamento 
                  si giochi in due. Non dobbiamo confondere la parte con il tutto; 
                  come scriveva a suo tempo Luce Irigaray: “la natura umana 
                  è due”, altrimenti rischiamo di ricadere in una 
                  sbrigativa visione dualistica (bene/male=femminile/maschile), 
                  del tutto simile a quella che Daly denuncia come tratto deleterio 
                  del cristianesimo. Come conclude il suo intervento la pastora 
                  e teologa Daniela Di Carlo, è bene “avere la consapevolezza 
                  che l'umanità racchiude in ciascuno dei due generi zone 
                  di ombra e di radianza” (p. 72). E da lì, provando 
                  a fare i conti, ripartire. 
                  Premesso ciò, colpisce nella produzione di Mary Daly 
                  la capacità di procedere per sfondamento di orizzonti, 
                  creando nuove prospettive e nuovi piani, anche sul piano linguistico 
                  (sarebbe auspicabile che prima o poi qualcuno si cimentasse 
                  a tradurre il suo Wickedary del 1987 – “dizionario 
                  assolutamente geniale quanto intraducibile”, afferma L. 
                  Percovich nel volume). Un esempio: Daly parla di futuro arcaico, 
                  scaturito da una fuoriuscita dal tempo lineare con la sequenza 
                  ordinata passato-presente-futuro, proponendo una diversa visione 
                  in cui nel presente possono emergere le forze del passato che 
                  a loro volta spalancano verso un futuro altro rispetto a quello 
                  previsto e prevedibile. In ciò molto simile al futuro 
                  primitivo di John Zerzan, tanto criticato anche nell'area 
                  libertaria; con la differenza che Daly attinge al passato del 
                  neolitico e dell'età del rame (l'epoca della società 
                  matrifocale e del culto della dea, quella indagata da Marija 
                  Gimbutas, per intenderci), mentre Zerzan va ancora più 
                  indietro, sino al paleolitico delle società di raccoglitori-cacciatori, 
                  laddove non è ancora sopraggiunta quella separazione 
                  dalla natura da parte dell'essere umano, da cui si origina tutta 
                  la genealogia del dominio che attraverso vari e complessi passaggi 
                  giunge a noi. Il tutto non per una pulsione regressiva, ma verso 
                  un andare avanti ben differente dall'idea di progresso dei vari 
                  pianificatori, degli esegeti della governance e dei futurologi 
                  di turno. 
                 Federico Battistutta 
                   
                   
                   Un mosaico 
                  di ricordi 
                 La 
                  prima volta che conobbi Gaetano, il principale personaggio de 
                  Il sabotatore di campane (Edizioni Spartaco, Santa Maria 
                  Capua Vetere, 2013), il testo ancora era adagiato su un comodo 
                  formato A4, tenuto insieme da una spirale blu e andava a finire 
                  in modo diverso da quel che ora leggerete nella versione definitiva. 
                  Ho avuto il piacere di poterne discutere con l'autore prima 
                  ancora che il libro prendesse la sua forma definitiva e il privilegio 
                  di seguire un processo creativo proprio sul più bello 
                  di ogni storia... ovvero su come poi andrà a finire. 
                  Già allora avevo trovato questo lavoro ambizioso, con 
                  una storia accattivante, costruita come un mosaico di ricordi, 
                  aneddoti con espliciti richiami a fatti realmente accaduti ed 
                  epoche realmente trascorse, riportati alla luce tramite il personaggio 
                  principale, ma anche sapientemente costellato di innumerevoli 
                  altre figure, archetipi e intrecci che lo rendono letterariamente 
                  avvincente oltre che di stimolante velata critica ai tempi moderni. 
                  Gaetano è figlio di un padre anarchico, cresce in un 
                  piccolo paesino ma poi si crea un vissuto intenso, ricco di 
                  incontri ed esperienze legate ad un'epoca storica ricca di eventi, 
                  di figure e di tanti dolori che fanno di lui ora un uomo con 
                  un unico obiettivo, una sorta di missione speciale: sabotare 
                  tutte le campane delle chiese, per impedire loro di suonare. 
                  Un gesto simbolico, in parte in memoria del terribile eccidio 
                  avvenuto nel '44 da parte dei fascisti, in cui solo il prete 
                  si era salvato proprio perché complice, in parte perché 
                  legato al ricordo di un maestro di pensiero e di vita, Libero. 
                  Tra i vari campanili che vorrebbe imbavagliare, quello di Roccapelata, 
                  un anonimo paesino in autentica via di estinzione, dove la gente 
                  se ne va o muore e dove non succede mai nulla di eclatante... 
                  tanto che sindaco e assessori, perfetta incarnazione del politico 
                  medio di un'Italia corrotta e sopita, si prodigano e si arrovellano 
                  da tempo sul come rianimare con un fatto sensazionale, posto 
                  poi su un piatto d'argento, l'interesse speculativo sul paesello. 
                  Nella buia notte in cui Gaetano prevede di mettere a tacere 
                  le campane di Roccapelata però qualcosa va storto; il 
                  sacerdote lo scopre e, durante l'animata discussione, scivola, 
                  batte la testa e muore. Gaetano decide di costituirsi, è 
                  vecchio e stanco; si dichiara subito colpevole. Ma il paese 
                  non vuole lasciarsi sfuggire un'occasione del genere. Un fatto 
                  di cronaca nera così grave è proprio ciò 
                  di cui ha bisogno per far parlare di sé a livello nazionale. 
                  La fame di fama è troppo acuta per essere messa a tacere 
                  con la verità scomoda e per nulla sensazionale, almeno 
                  per la stampa. Così a poco a poco tutti rivelano, chi 
                  in questura, chi direttamente ai giornali, fatti e testimonianze 
                  che, oltre alla confusione, portano la quasi totalità 
                  degli abitanti nel registro degli indagati. E finalmente il 
                  paesino riempe le sue stanze d'albergo sempre vuote con telecamere 
                  e giornalisti. Fino all'assurdo, ma che così assurdo 
                  poi non è. E l'unico, solo, vero colpevole non viene 
                  tenuto in considerazione, anzi, viene accusato di volersi fare 
                  pubblicità, voler coprire qualcuno, o essere pazzo. 
                  Paolo Pasi, già autore di diversi romanzi, giornalista 
                  e assiduo collaboratore di “A” rivista anarchica, 
                  con questo suo ultimo romanzo rende omaggio e riporta alla luce, 
                  tra le righe, tutto un mondo estremamente affascinante e al 
                  contempo ai più dimenticato o sconosciuto, ascrivibile 
                  nel portato della cultura e della storia libertaria, che rimanda 
                  a tanti personaggi anarchici e situazioni passate, a lui e a 
                  noi care che fanno magistralmente capolino fra i ricordi, i 
                  parenti e i vissuti del vecchio Gaetano, che un po' fa commuovere, 
                  un po' fa sorridere e un po', mentre ci racconta una storia 
                  anarchica, ci fa sognare, ma sopratutto ricordare. 
                
  Gaia Raimondi  
                   
                   Contro il gigante, 
                  le micro-pratiche 
                 Più 
                  che un'introduzione per profani al post-anarchismo, una summa 
                  divulgativa: l'ultima fatica di Michel Onfray, Il post-anarchismo 
                  spiegato a mia nonna (Elèuthera, Milano, 2013, uscito 
                  in Francia nel 2012 per le Editions Galilée) è 
                  una sorta di manifesto programmatico (del post-anarchismo o 
                  di Onfray stesso?), un agile pamphlet scritto brillantemente 
                  da un comunicatore abile, ricco di asserzioni e propositi militanti, 
                  ma che non lascia spazio per analisi e approfondimenti. 
                  Il filosofo francese offre una serie di imperativi: bisogna 
                  fare piazza pulita del vittimismo, abbandonare la “sinistra 
                  del risentimento”, i pensatori mummificati, i testi ottocenteschi 
                  citati come un vangelo anarchico e mettere in discussione i 
                  dogmi della dottrina (lo stato è davvero il male 
                  assoluto? Le elezioni sono sempre delle trappole?). Più 
                  in generale, bisogna dequalificare la teoria tout court, 
                  che tenta di piegare il reale a sé anziché comprenderlo, 
                  e abbandonare la morale del principio, da Platone a Kant. “D'altronde, 
                  se il principio non funziona, poco importa: è il reale 
                  che ha torto, mai il principio”, commenta sarcasticamente 
                  Onfray. 
                  In opposizione all'anarchia del risentimento derisa da Nietzsche, 
                  vittimista e rancorosa, e all'anarchia dell'utopia, passiva 
                  e anti-pragmatica, il filosofo francese propone una post-anarchia 
                  positiva, pratica, immanente, esposta attraverso il “principio 
                  di Gulliver” (perché non di Lilliput?), ovvero: 
                  il gigante va affrontato attraverso una serie di micro-pratiche, 
                  dall'istruzione popolare alla disobbedienza civile, perché 
                  “se ci sarà la rivoluzione non arriverà 
                  dall'alto, ma dal basso, in modo immanente, contrattuale, capillare, 
                  rizomatico”. 
                  La prima parte del libello è strettamente autobiografica: 
                  la genealogia di un carattere antagonista. 
                  Secondo Onfray non si diventa anarchici con lo studio o la lettura 
                  che risveglia le coscienze, o per lo meno non in prima istanza. 
                  La condizione prima è “una ribellione istintiva 
                  nei confronti dell'autorità”, un concetto che solletica 
                  la vanità e la pancia di tanti libertari viscerali (come 
                  la sottoscritta). I toni brillanti e una scrittura mai monotona 
                  rendono estremamente piacevole la lettura di questo “autoritratto 
                  con bandiera nera”, dall'iniziazione intellettuale, avvenuta 
                  nella bottega di un barbiere “alquanto atipico” 
                  che gli fa scoprire Volin alla creazione dell'Università 
                  popolare di Caen, una delle scelte di vita pratiche e militanti 
                  (come quella di non candidarsi alle presidenziali o di non vivere 
                  a Parigi) che Onfray rivendica con orgoglio e una punta di autocelebrazione. 
                  La seconda parte è meno aneddotica e più operativa. 
                  Si inizia mettendo ordine nella biblioteca, decidendo cioè 
                  quali padri dell'anarchismo sono stati effettivamente tali e 
                  quali sono invece da destituire. Nel mare magnum del 
                  pensiero anarchico Onfray sceglie senza tentennamenti chi salvare 
                  e chi buttare agli squali. Salva Proudhon, vero padre, secondo 
                  lui, dell'anarchia positiva (riprendendo soprattutto la sua 
                  tesi contro “l'albinaggio capitalista”) e, naturalmente, 
                  Etienne de la Boétie. La prima testa a cadere è 
                  invece quella di Stirner, solipsista immorale e intransigente 
                  (al contrario di ciò che pensa Saul Newman, che lo vede 
                  come un anticipatore del post-strutturalismo – con il 
                  quale però Onfray è in sintonia per quanto riguarda 
                  la simpatia nei confronti di Nietzsche). Si prosegue poi con 
                  Bakunin, sanguinario e neo-hegeliano; Godwin, troppo messianico; 
                  Tolstoj, a cui un convinto razionalista come Onfray non può 
                  certo perdonare la fede cristiana. 
                  Se i suoi giudizi, per quanto suffragati da attente letture, 
                  ci appaiono un po' tranchant, non dobbiamo dimenticare 
                  che abbiamo a che fare con un pensatore che ama fare filosofia 
                  con l'accetta, abituato ad attaccare i nemici teoretici anche 
                  sul piano personale. Si pensi ad esempio all'invettiva anti-freudiana 
                  (in parte, a onor del vero, condivisibile) de Il crepuscolo 
                  di un idolo (2010), in cui il povero Sigmund viene definito 
                  “cocainomane”, “onanista” e “incestuoso”. 
                  Dopo essersi divertito a smontare la “chiesa anarchica” 
                  con la gioia sadica di un bambino che distrugge un castello 
                  di sabbia, Onfray torna alle proposte costruttive, legate alla 
                  dimensione del quotidiano, alla micro-politica che agisce per 
                  il qui e l'ora, oltre la critica fine a se stessa, oltre ai 
                  dogmi: un pensiero libertario contemporaneo che ha fatto i conti 
                  con Nietzsche e la French Theory. In sostanza, senza ambizione 
                  di esaustività didascalica rispetto a ciò che 
                  rappresentano il post-anarchismo e il post-strutturalismo, Onfray 
                  ha l'indubbio pregio di mantenere vivace il dibattito, facendo 
                  anche proposte interessanti, e ben rappresentando lo spirito 
                  anti dogmatico del post-anarchismo. Nel farlo però mette 
                  molta carne al fuoco, che in queste 90 pagine non ha modo di 
                  essere trattata con sufficiente profondità. Tra le questioni 
                  messe in campo, uno degli aspetti più controversi e opinabili 
                  è sicuramente l'analisi troppo sbrigativa del capitalismo: 
                  “un modo di produzione delle ricchezze” da non confondere 
                  con il liberalismo: “un modo di ripartizione delle ricchezze”. 
                  “Per questo”, sostiene Onfray, “potrebbe esistere 
                  un capitalismo libertario, proprio come c'è stato un 
                  capitalismo sovietico o come c'è un capitalismo ecologico, 
                  verso il quale sembra che ci stiamo dirigendo”. 
                  Insomma, nella stesura di questo vivace manifesto gli approfondimenti 
                  teorici sono stati delegati altrove, alla riflessione del lettore, 
                  magari. Indubbiamente si tratta di una lettura avvincente e 
                  che stimola il dibattito, ma che a mio parere lascerà 
                  la nonna di Onfray con non pochi dubbi irrisolti. 
                
  Laura Antonella Carli  
                   
                   Nessun genere 
                  di autorità 
                 Il 
                  nuovo libro di Luisa Muraro, Autorità (Rosemberg 
                  & Sellier, 2013, pp.128, € 9,50), è un testo 
                  che si definisce incompiuto, una sorta di bozza pittorica di 
                  un quadro da costruire. 
                  A dire il vero, l'autrice da molti anni si occupa di riflettere 
                  attorno al tema dell'autorità materna, e credo che chiunque 
                  abbia iniziato da giovane a leggere i testi del neo-femminismo 
                  italiano non possa non aver almeno sfogliato L'ordine simbolico 
                  della madre. 
                  Dunque l'autrice sembra volersi tutelare da alcune, seppur scontate, 
                  ficcanti obiezioni al tema proposto, critiche alle quali neppure 
                  questa recensione vorrà sottrarsi, tentando di evitare 
                  banalità di senso comune. 
                  Muraro cerca di riconsiderare l'opinione diffusa che vede autorità 
                  e autorevolezza come due poli non comunicanti di una radice 
                  comune, sottolineando che la caratteristica etimologica dei 
                  termini riguarda piuttosto l'autore o l'autrice, come soggetto 
                  “autorevole”. 
                  Pur comprendendo la necessità di riscrivere significati 
                  in significanti esistenti, con un legittimo ricorso a fonti 
                  scientificamente fondate quali l'etimologia, penso che Deleuze 
                  avesse ragione a sostenere che se una parola diventa oscura 
                  o obliqua, sia meglio inventarne una nuova. Autorità 
                  è un termine nato etimologicamente per significare qualcosa 
                  di diverso (quanto diverso?) dall'utilizzo odierno, tuttavia 
                  questo approccio non è sufficiente ad evitare di fare 
                  i conti storici e politici con il suo attuale significato. A 
                  voler essere precise, “autorità” è 
                  una pratica, non un mero termine o un significato. L'autorità 
                  esiste nel momento in cui essa esercita il suo ruolo dominante 
                  in relazioni asimmetriche e diseguali, condizione necessaria 
                  per la sua attivazione. 
                  Se esiste, com'è vero, un problema niente affatto banale 
                  con le prospettive egualitarie – spesso di maschi liberi 
                  ed eguali, in una fondazione escludente di donne libere ed eguali 
                  – trovo da sempre piuttosto scivolosa l'opposizione, impropria, 
                  tra differenza ed eguaglianza, poiché nella mia esperienza 
                  di donna ho visto molte, troppe volte la sua ricaduta sensibile 
                  nella diseguaglianza (l'etimologicamente più corretto 
                  contrario di eguaglianza). 
                  L'autrice, inoltre, non sembra esente da alcuni autoritarismi 
                  formali, quando gerarchizza chi conosce e chi non conosce la 
                  “verità” dell'oggetto della discussione. 
                  Un esempio, o due a riguardo: “Quando, ai luoghi comuni 
                  della nostra cultura scarsa e confusa circa il senso 
                  dell'autorità, si somma la repulsione personale, la 
                  mente deraglia”; “I ribelli per partito preso 
                  non sono le persone più temibili per i detentori del 
                  potere, non più delle persone perbene che si sentono 
                  male all'idea di trovarsi nell'illegalità. Tutti costoro, 
                  per un verso o per l'altro, che sia per trasgredire o che sia 
                  per obbedire, attribuiscono alle leggi più significato 
                  di quello che hanno e inconsapevolmente aspirano a essere 
                  comandati da un potere assoluto” (il corsivo è 
                  mio). 
                  Com'è evidente, queste frasi malcelano un chiaro esercizio 
                  di autorità e di potere, espresso in modo un pochino 
                  ipocrita: sebbene sia Muraro a voler salvare il ruolo dell'autorità 
                  nella nostra società (a scuola, nelle organizzazioni 
                  collettive e sociali, in famiglia), chi si macchia realmente 
                  della colpa – perfino inconscia! – di desiderare 
                  la sottomissione al potere assoluto sono coloro i quali lottano 
                  contro di esso con “troppa” veemenza. È un 
                  sofisma antico, perdurante in particolare nei gruppi di colonizzatori: 
                  la colpa della violenza esercitata dal gruppo dominante sul 
                  subalterno sta nell'esercizio di resistenza di quest'ultimo... 
                  come a dire, non è colpa nostra se vi uccidiamo, è 
                  colpa della vostra resistenza che ci costringe a difenderci. 
                  Et voilà, l'autorità come pratica, anche 
                  concettuale. 
                  “Penso, per i paesi occidentali, alle rivolte giovanili 
                  di mezzo secolo fa, che ebbero tanti aspetti fra i quali una 
                  definitiva contestazione dell'autorità dei padri e dei 
                  professori. Ciò non significa che allora tutto sia andato 
                  per il meglio ai fini della conoscenza e della libertà 
                  (...) sarebbe fuorviante assumere che la cancellazione dell'autorità 
                  sia come tale proficua o benefica (...) come si fa altrimenti 
                  a educare i più giovani, a insegnare, a fare un minimo 
                  di ordine nella vita associata, a organizzare un'impresa difficile?”. 
                  Potrei rispondere, brevemente e con un pizzico di sarcasmo, 
                  che molte anarchiche e anarchici di epoche passate, presenti 
                  e forse perfino future, avrebbero molto da insegnare a Luisa 
                  Muraro! 
                  E non solo in tema di pedagogia libertaria, ma di sperimentazione 
                  sociale anti-autoritaria, organizzazione collettiva senza stato, 
                  economie alternative anticapitaliste, relazioni egualitarie 
                  tra i generi (che non significa che siamo tutti uguali, con 
                  alcuni più uguali di altre), convivenze 
                  antispeciste eccetera. 
                  Mi torna alla mente la sconfitta dei Consigli di fabbrica degli 
                  anni venti del secolo passato, e Malatesta che ammoniva dall'arrestare 
                  la radicalità della lotta, pena pagare con interessi 
                  eccezionali la repressione. Fu il fascismo, all'epoca. Malatesta 
                  parlava con esperienza profonda delle connessioni di potere, 
                  evidenziando quanto l'autorità e il potere fossero esattamente 
                  il gancio al quale la feroce risposta autoritaria allacciò 
                  le sue dure catene. 
                  Negli anni settanta, per riprendere una frase anonima ma autorevole 
                  del maggio francese (senza autore e autrice, un'autorevolezza 
                  “informale”, vergata sui muri parigini), si iniziò 
                  a capitolare quando la rivolta cominciò a cedere “un 
                  poco”. È possibile chiedersi quanto abbia aiutato 
                  le donne cedere un poco all'autorità materna nelle riflessioni 
                  e pratiche di liberazione, ad esempio disperdendo il cammino 
                  indispensabile verso la sperimentazione del rifiuto delle relazioni 
                  di potere e autorità, che tanto ancora nuocciono e hanno 
                  fatto male alle relazioni tra donne. 
                  Purtroppo non si è approfittato della differenza, 
                  ma imitato l'ideatore “autoritario” maschile. 
                  Credo che sia davvero il momento di instillare un dolce nettare 
                  di anti-autoritarismo e libertà in tutte quelle prospettive 
                  di liberazione – femminile, maschile, di ogni specie o 
                  provenienza geografica – che oggi sono urgenti come l'aria 
                  da respirare. 
                  Forse, per risolvere il dilemma “autorità sì, 
                  un poco/autorità no, per niente”, si potrebbe proficuamente 
                  leggere di nuovo lo spinoziano Deleuze. Cito a memoria: “Bisognerebbe 
                  dire che ogni tristezza è un nostro difetto di potere. 
                  Non esiste 'potenza' cattiva, se è cattiva è il 
                  più basso grado di potenza, e il più basso grado 
                  di potenza è il potere. Cos'è infatti la cattiveria? 
                  È impedire a qualcuno di fare ciò che può, 
                  di realizzare la sua 'potenza', così non c'è potenza 
                  cattiva, ci sono cattivi poteri. La confusione tra potenza e 
                  potere è rovinosa perché il potere separa sempre, 
                  la gente, ogni cosa. Il potere separa la gente da ciò 
                  che essa può”. 
                
  Martina Guerrini  
                   
                   Lo “sguardo perso” 
                  di Simone Weil 
                 La 
                  clown di Dio. A dispetto del titolo piuttosto bizzarro e 
                  delle aspettative di ilarità dell'incipit, la lettura 
                  del breve saggio di Monica Cerutti Giorgi (Edizioni Zero in 
                  Condotta, Milano 2013, pp. 105, € 8,00), risulta piuttosto 
                  ardua. Si legge: “Divertitevi! Divertirsi è cosa 
                  molto seria; richiede abbandono e impone disciplina. È 
                  una vera passione! Spossante, non c'è che dire: non so 
                  come, tanto meno perché, ma c'è gusto”. 
                  Al termine della lettura – e concluderla è già 
                  un bel traguardo – più che divertiti, si arriva 
                  spossati. Ancora: “Qualcun altro ha esclamato: Convertitevi! 
                  No, dico: Ricreatevi e divertitevi”. Le 
                  esortazioni dell'autrice, purtroppo, non sono accompagnate da 
                  uno stile agile, accattivante, coinvolgente, intrigante. E forse 
                  questa è la grande pecca. Pertanto, sarebbe stato interessante 
                  riuscire a restituire quella leggerezza – propria di una 
                  clown di Dio – capace di trasportare su questioni serie, 
                  ma con il giusto distacco. In questo caso, il sano divertimento 
                  sarebbe stato assicurato e il pubblico di lettori potenziato 
                  e appagato. 
                  Tuttavia, con sforzo empatico si può entrare nell'orbita 
                  dell'autrice e lasciar fluire, a nostra volta, quei rimandi 
                  che la lettura stessa, comunque, suscita. Anche perché 
                  l'idea generatrice è degna di interesse. 
                  Monica Cerutti Giorgi dipinge una clown goffa, strampalata, 
                  scoordinata. Un'aria estraniata dallo sguardo perso. Maldestra 
                  e ironica verso la sua fragilità, ma permeata da una 
                  grazia intima, pura. Pensatrice poetante. Visionaria. Creatura 
                  celeste. Profeta del presente. Indomabile. Ma è ancora 
                  più curioso se in quei panni misteriosi troviamo M.lle 
                  Simone Weil. A Le Puy, quando si mette alla testa del movimento 
                  dei disoccupati, è la Vergine Rossa. Oppure per strada 
                  è l'Anticristo. Ma farebbe pensare anche a una moderna 
                  Pulzella d'Orléans. Lei è una paracadutata sulla 
                  scena del mondo da un Dio acrobata che la caccia per amore. 
                  Nella vivace colorata grafica di Mariella Bernardini, la funambola 
                  dai tondi occhialetti da miope, “in divisa scura da operaia-miliziana 
                  anarchica” rimane sospesa. I fili la trattengono, mentre 
                  dietro, nell'alone dai contorni di luce c'è ancora lei, 
                  estranea e altra da sé. E questa prospettiva inedita 
                  di Simone Weil risulta davvero accattivante. 
                  Tuttavia, la scrittura di Monica Giorgi andrebbe ulteriormente 
                  alleggerita da virtuosismi e dotata di maggior chiarezza, ritmo 
                  e colore. In tal caso, si potrebbe prestare a una riscrittura 
                  per la scena teatrale, a più voci. Ma presupporrebbe 
                  sempre un lettore-spettatore disposto a farsi agile acrobata, 
                  per seguire senza perdersi la labirintica traiettoria tempestata 
                  di concetti densi, concisi, ripresi, sospesi. Pena l'abbandono 
                  della scena. Infatti, l'autrice si accorda con lo stile da equilibrista 
                  della scrittura weiliana e ci restituisce un altro concentrato, 
                  un altro distillato puro. Da sorseggiare, con calma, a piccole 
                  dosi. Giorgi gioca con la prospettiva straniante della clown 
                  di Dio. Coglie ironia, humor, leggerezza che albergano negli 
                  scritti e nel temperamento di Simone Weil, la toccata da Dio, 
                  dalla follia d'amore. Davvero una mancanza che la scrittura 
                  del saggio non riesca a rendere questa leggerezza! 
                  L'ispirazione latente è dichiarata nelle note: “Prendere 
                  sul serio quella dose di follia che ci è riservata nelle 
                  intuizioni più felici”. Con riferimento a uno scritto 
                  freudiano, è il sottofondo che accompagna la scrittura 
                  del saggio. L'autrice individua “il tratto d'inizio alla 
                  vita simbolica” fin dai primi scritti. 
                  Ancora bambina, la trasformista clown di Dio si cuce addosso 
                  il costume di un lutin du feu, piccolo demone alla buona, 
                  scherzoso, capace di rendere ridicole le cose serie. Arma tuttavia 
                  capace di trasformare l'ingiustizia in giustizia, la follia 
                  in verità. 
                  Ma lei è anche un fruit foll, frutto bacato, umile. 
                  Tuttavia capace di una conoscenza immediata, intuitiva. La sventura, 
                  la mancanza, diventa un eccesso di ricchezza. Perché 
                  i folli hanno un bisogno distruttivo: fame e sete di giustizia. 
                  Hanno fame d'amore. Così si fa complice degli ultimi, 
                  dei diseredati e invita ad ascoltarli nella loro verità. 
                  Anche negli scritti della maturità, Giorgi coglie l'intuito 
                  profetico, e quella dose di follia che fa abbandonare lo slancio 
                  intellettualistico per fare esperienza fisica, esserci in presenza. 
                  Entrare dentro le cose. Per essere e sapersi operaia, oppure 
                  contadina, ri-orienta i fili del suo paracadute per approdare 
                  nella bellezza dell'esperienza in fabbrica e di vendemmiatrice. 
                  Non basta. 
                  Durante la crisi dei Sudeti, la filosofa militante vuole essere 
                  dentro lo scenario, paracadutata a Praga dove erano in corso 
                  scontri tra polizia e studenti. Prevalgono i doveri verso l'essere 
                  umano. Intuisce la forza dell'azione. “Parto per la Spagna”. 
                  Vuole vivere la vita, alla ricerca della verità dentro 
                  l'esistenza. L'intellettuale interventista sceglie di esserci 
                  tra gli operai e i contadini nelle loro rivolte sociali. Si 
                  arruolerà nella Colonna Durruti, sul fronte di Aragona, 
                  durante la Guerra civile spagnola. E, in seguito, in piena guerra 
                  elaborerà il “Progetto di una formazione di un 
                  corpo d'infermiere di prima linea” ispirato e agito sui 
                  dettami della più lucida delle follie: l'Amore. Servono 
                  fatti. L'arma vincente è la forza spiazzante del coraggio 
                  unito alla tenerezza materna. Le donne farebbero in campo quello 
                  che hanno da sempre saputo fare: esercitare il potere della 
                  cura. Simone Weil da donna ha saputo proporre un modello femminile 
                  di follia d'amore, come risposta alla ferocia inumana sul fronte 
                  dell'immaginario bellico maschile. 
                  La prospettiva dalla quale l'autrice guarda alla clown di Dio 
                  consente di riconsiderare la peculiarità del sentire, 
                  esserci, amare propria del femminile. Peculiarità che 
                  va accolta per l'insita potenzialità di creare le condizioni 
                  per una vita più autentica, dotata di significati profondi, 
                  la cui verità è visibile nell'operosità 
                  dell'azione. 
                  Per Mara Paltrinieri, nella sua nota conclusiva al saggio, Simone 
                  Weil, insieme a Etty Hillesum e Marìa Zambrano... obbedendo 
                  alla legge dell'amore sono le vincitrici della Seconda guerra 
                  mondiale. Si potrebbe aggiungere anche Frida Malan, figlia di 
                  un pastore evangelico valdese. Paracadutata al di qua delle 
                  Alpi, nelle Valli Valdesi sulla scena della follia della guerra, 
                  rappresenterebbe l' emblema di un passaggio di testimone anche 
                  nel dopoguerra. Come in Simone Weil il suo amore per la giustizia 
                  non è disgiunto dalla libertà. E l'azione si rende 
                  concreta nella realtà delle piccole cose, dove è 
                  racchiuso tutto il grande sentire dell'amore. Amore, contagio 
                  benefico. Motore propulsivo dell'umanità. 
                  Il saggio suscita un'altra sollecitazione. Poiché “i 
                  piani del paracadute non vanno a senso unico”, siccome 
                  alla follia della guerra si può contrapporre la follia 
                  d'amore, quale altra eredità ci viene lasciata oggi dalla 
                  clown di Dio? All'inizio del terzo millennio, il paracadute 
                  sospeso e distaccato aleggia sulla follia dell'edonismo consumistico. 
                  Ognuno è chiamato a dare il proprio libero consenso a 
                  un amore folle, capace di uscire dagli schemi precostituiti, 
                  che fagocitano tutto e tutti nel loro ingranaggio perfetto. 
                  Per tradursi in azioni concrete fatte di piccole cose, ma dalla 
                  forza straordinaria capace di grandi cambiamenti sorprendenti 
                  e incredibili, condizione per un nuovo umanesimo civile. E, 
                  per quanto possibile, con leggerezza. Proprio come tanti lutin 
                  du feu, e tanti fruit foll, sulle orme delle capriole 
                  della clown di Dio. Perché l'idea generatrice è 
                  originale e invita a sua volta a riflessioni che consentono 
                  di vedere oltre. E questo è il merito del saggio. 
                
  Claudia Piccinelli  
                   
                   Sindacalismo rivoluzionario 
                  a Torino, un secolo fa 
                 Mi 
                  fa piacere segnalare il bel libro Il sogno nelle mani. 
                  Torino 1909-1922 che, come recita il sottotitolo, raccoglie 
                  passioni e lotte rivoluzionarie nei ricordi di Maurizio Garino, 
                  edito da Zero in Condotta (Milano, 2011, pp. 261, e 15,00). 
                  Frammentariamente pubblicate e utilizzate, le memorie di Garino 
                  (1892-1977) che venne intervistato da Marco Revelli nel 1975, 
                  ci riportano con vivace immediatezza ad un periodo cruciale 
                  della storia del movimento operaio italiano del quale Garino 
                  stesso, come sindacalista e anarchico, fu protagonista e testimone 
                  di primo piano, attraversando tempi di rivoluzione, riformismo 
                  e reazione. 
                  Appare fuor di dubbio che, come ha osservato Marc Bloch, è 
                  necessario sempre tenere di conto la “plasticità 
                  della memoria”, in quanto questa agisce da meccanismo 
                  potente in grado di rielaborare e potare i ricordi; ma, non 
                  di meno, “la storiografia – riprendendo Carlo Ginzburg 
                  – può alimentarsi nella memoria, perché 
                  le memorie sono un documento storico, nel momento in cui vengono 
                  trascritte oppure registrate al magnetofono, dalla persona in 
                  questione oppure da un terzo. E la memoria può trarre 
                  alimento dalla storiografia: si legge un libro di storia e magari 
                  si integrano in maniera consapevole o inconsapevole i propri 
                  ricordi”. 
                  Quella “vecchia” intervista tra Garino e Revelli, 
                  ossia tra chi aveva fatto la storia e chi cercava di recuperarla, 
                  conferma proprio questa reciprocità, a sua volta integrata, 
                  precisata e sviluppata da ulteriori documenti, riflessioni e 
                  ricerche a cura di Tobia Imperato, dedicatosi per anni a questo 
                  progetto, nonché di Guido Barroero, Maurizio Antonioli, 
                  Cosimo Scarinzi. Inoltre vi è stato aggiunto un ormai 
                  raro contributo di Pier Carlo Masini su anarchici e comunisti 
                  nel movimento dei Consigli a Torino. 
                  Gli avvenimenti, le persone, le questioni e i conflitti che 
                  emergono dal racconto di Garino, anche se circoscritti ad un 
                  periodo limitato e per lo più relativi al contesto torinese, 
                  sono innumerevoli e in grado di aprire utili porte per quanti 
                  studiano quel decisivo passaggio della storia sociale; ma, a 
                  mio avviso, quella più stimolante – anche per coloro 
                  che di solito non si appassionano alle vicende passate della 
                  lotta di classe – riguarda la quotidianità vissuta 
                  da Garino assieme a migliaia di compagni di lavoro e di rivolta 
                  nei luoghi di socialità e aggregazione nei quartieri 
                  proletari: luoghi non meno importanti, per implicazioni e sviluppi, 
                  dello spazio della fabbrica, allo stesso tempo coagulo di antagonismo 
                  ma anche di alienazione. 
                  E anche Cosimo Scarinzi sottolinea, da parte sua l'importanza 
                  di questa “ricostruzione dell'intreccio fra formarsi di 
                  una generazione militante, lotte di fabbrica, comunità 
                  operaia e proletaria sul territorio, dialettica fra culture 
                  politiche” in questi luoghi, fossero i Circoli socialisti, 
                  quelli libertari di Studi sociali o le Case del popolo: tutti 
                  accomunati da frequentazioni simili, trasversali ai “partiti 
                  sovversivi”, e in grado di produrre sia relazioni personali 
                  che, attraverso strutture di autoformazione come la Scuola Moderna, 
                  saperi da condividere in modo orizzontale e consapevolezze di 
                  un'altra condizione umana. 
                  Le descrizioni di questi ambienti che Garino ci offre, valgono 
                  più di ogni attuale astruso dibattito sull'identità 
                  perduta della sinistra e meritano d'essere parzialmente anticipate: 
                  “fondai con altri giovani compagni, tra cui il povero 
                  Ferrero, il Circolo di Studi Sociali, cioè la Scuola 
                  Moderna [...] il programma delineato in quei tre punti: lotta 
                  sindacale, lotta politica e lotta culturale... erano tre temi 
                  che spingevano avanti per far crescere la coscienza socialista 
                  negli operai [...]. Allora c'era quel tipo di operaio lì, 
                  che dopo dieci ore di lavoro aveva ancora la forza di venire 
                  al Circolo a discutere di Marx, di Bakunin, di Stirner. Su cento 
                  ne troviamo cinque che erano così, che sapevano perché 
                  Stirner era in disaccordo col comunismo, e con tutte le altre 
                  forme di collettività. Ma c'erano! Io questo problema 
                  me lo sono posto varie volte; secondo me era la sostanza che 
                  derivava dalle lotte mazziniane fatte nel secolo precedente, 
                  che rimaneva ancora [...]. Credo che questa parola, volontarismo, 
                  spieghi tante cose. Ecco perché “Quello sa questa 
                  cosa, io non la so! E allora mi faccio avanti”. E uno 
                  con l'altro ci si formava una coscienza. Naturalmente molti 
                  operai andavano a giocare alle bocce [...]. Noi ci occupavamo 
                  anche di poesia, si declamava”. 
                  E, all'interno di questi luoghi, punto di riferimento per i 
                  lavoratori torinesi, ma anche immigrati dal resto della regione 
                  e non solo (come la consistente comunità operaia proveniente 
                  da Piombino), si andarono maturando scelte radicali individuali 
                  e collettive in grado di mettere ripetutamente in crisi il potere 
                  politico ed economico, attraverso pratiche di lotta portate 
                  avanti in prima persona dai lavoratori che si sentivano in grado 
                  di soppiantare in tutto e per tutto il padronato e i governanti, 
                  occupando fabbriche e dando vita a scioperi insurrezionali. 
                  Non casualmente, a Torino, il sindacalismo rivoluzionario si 
                  dimostrò a lungo forte, ben oltre la sua rilevanza numerica, 
                  tanto da influenzare e condizionare pure altre tendenze (basti 
                  pensare a Gramsci che ebbe a definirlo come “l'espressione 
                  istintiva, elementare, primitiva, ma sana della reazione operaia 
                  contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini”); 
                  emblematica a proposito l'ammissione di Garino che pur era stato 
                  un dirigente della Fiom: “Noi eravamo per l'azione diretta, 
                  eravamo un pochettino soreliani, in sostanza. Non tanto, eh!”. 
                
  Marco Rossi  
                   
                   Ripensare il cibo 
                  (pensando ai bambini) 
                 Cake 
                  book (traduzione italiana: Il libro delle torte, 
                  pp. 28, euro 14,00) è la settima uscita del catalano 
                  Martí Guixè per la casa editrice mantovana Corraini 
                  Edizioni, che propone libri e opere grafiche di artisti e designer 
                  contemporanei (tra cui Bruno Munari), nonché narrativa 
                  e libri educativi per bambini. Cake book si situa in 
                  una terra di nessuno, dove l'età ha a che fare più 
                  che altro con lo sguardo. Con una radicalità di approccio 
                  agli oggetti. Qui, a chiedere di essere ripensato tout court, 
                  non importa se da un bambino o da un adulto, è il food. 
                  Ventotto pagine in brossura per un “draw here” (“crea 
                  qui” in senso lato) che non ha niente a che vedere con 
                  i classici albi da colorare destinati ai più piccini. 
                  In realtà Cake book è una bella sfida: 
                  difficile per i piccoli, quasi impossibile per i grandi. E tuttavia 
                  una sfida intrigante, ironica, raffinatissima, che vale la pena 
                  di cogliere. Una sfida utile, che fa appello all'originalità 
                  oltre i condizionamenti. 
                  “Ex-designer” per sua stessa definizione, Martí 
                  Guixè (classe 1964) ha studiato interior design a Barcellona 
                  e industrial design al Politecnico di Milano ed è uno 
                  dei più interessanti critici dello styling contemporaneo. 
                  Si ostina infatti a credere che l'oggetto non sia una funzione 
                  e basta, ma possa e debba farsi nostro attraverso “brillanti 
                  e semplici idee di una curiosa serietà”. Una specie 
                  di rivoluzione, insomma. Che presuppone consapevolezze elitarie. 
                  Di gente libera, ben distante dagli intruppamenti odierni. 
                  Il tema del cibo rientra negli interessi di Guixè dal 
                  1995 e la sua, a mio modo di vedere, è una scelta di 
                  campo molto opportuna, di un eccezionale portato simbolico. 
                  Si pensi soltanto, per esempio, al dibattito tuttora in corso 
                  sugli ogm. Ma anche, per restare in un ambito legato all'infanzia, 
                  al problema del sovrappeso dei bambini e degli adolescenti. 
                  Cos'è il cibo? Qual è l'immaginario che vi associamo? 
                  Di più: esiste in merito la possibilità di un 
                  immaginario “altro”? Guixè parte per il suo 
                  viaggio con bagaglio leggero e antenne speciali, e sfoglia l'argomento 
                  con acume e gentilezza. In Cake book il suo tratto sembra 
                  dire: “Coraggio, perché non tiri fuori qualcosa 
                  di te? Divertiti!”. 
                  Un imperativo davvero molto impegnativo, perché se Cake 
                  book richiede una partecipazione attiva da parte dei fruitori 
                  (un'idea ormai consolidata nell'editoria per bambini), gli spunti 
                  proposti – numerose varietà di dessert, tovaglioli, 
                  alzatine, bicchieri privi di qualsiasi connotazione – 
                  possono perfino dare il panico. 
                
  Emanuela Scuccato  
                   
                   Cinema/ 
                  Nero su bianco 
                 Analizziamo 
                  l'ultimo film di Quentin Tarantino, il western (anzi, southern) 
                  Django Unchained, ovvero l'epopea di uno schiavo nero 
                  nell'America pre-guerra civile che viene liberato da un cacciatore 
                  di taglie bianco contrario alla schiavitù, il quale diventa 
                  il suo mentore e lo aiuta a liberare la moglie ancora in catene. 
                  È possibile considerarlo un film del filone “black 
                  image in protective custody”? È questo il titolo 
                  di un saggio del critico americano Ed Guerrero, in cui, riferendosi 
                  ad una serie di buddy movies degli anni ottanta – 
                  film con protagonista una coppia solitamente mal assortita, 
                  ad esempio poliziotto e criminale che gli deve dare una mano 
                  o poliziotto serio e poliziotto scapestrato – egli analizza 
                  l'immagine del personaggio di colore di volta in volta protagonista 
                  di questi film. Per citarne due su tutti, enormi successi commerciali 
                  di Eddie Murphy di inizio ottanta: 48 ore e Beverly 
                  Hills Cop. In queste pellicole il protagonista nero è 
                  sempre “accompagnato” da dei bianchi. Nel primo 
                  caso, il rude poliziotto Nick Nolte che costringe il galeotto 
                  Murphy ad aiutarlo in una caccia all'uomo; nel secondo, i simpatici 
                  e un po' pasticcioni poliziotti di Beverly Hills Reinhold e 
                  Ashton che devono controllare le mosse di uno spericolato detective 
                  di Detroit – sempre Murphy. 
                  In questi film, sostiene Guerrero, il personaggio nero è 
                  inserito in un discorso narrativo che ne consente l'emersione 
                  come “eroe” (o anti-eroe che però aiuta l'eroe 
                  [48 ore]) solo a patto di essere la spalla o avere come 
                  spalla dei bianchi che rappresentano il sistema. Questi sono 
                  infatti poliziotti, e anche se rudi come il Nolte di 48 ore 
                  sono comunque la Legge – “il bene” – 
                  che dà la caccia ai fuorilegge –“il male”. 
                  Quando anche Murphy è un poliziotto, lui è lo 
                  sregolato e tocca ai pazienti cops bianchi stargli dietro 
                  come babysitter. È come se questi film dicessero: “ti 
                  lascio emergere, ma decido io dove collocarti e ti tengo d'occhio”. 
                  Dei discendenti, se vogliamo, del capostipite del genere blaxploitation, 
                  Shaft il detective, nel quale il protagonista Richard 
                  Roundtree, un investigatore privato di colore, si destreggia 
                  tra poliziotti bianchi che se lo tengono buono per sapere cosa 
                  succede nel ghetto e mafiosi neri che lo vogliono assoldare 
                  per una missione. Il poliziotto bianco Charles Cioffi è 
                  qui un italoamericano bonaccione che “vuole impedire un 
                  bagno di sangue ad Harlem”, e alla fine, pur facendo a 
                  modo suo, Shaft gli dà la dritta su dove trovare i criminali 
                  (o quel che ne resta) da lui cercati. In altre parole, collabora 
                  con l'autorità. Ancora una volta l'outsider nero 
                  in realtà non mette in discussione veramente le regole 
                  del sistema. 
                  È possibile inserire Django Unchained all'interno 
                  di questo filone ideologico? A mio avviso, no. 
                  In Django la spalla bianca dell'eroe è il raffinato 
                  quanto letale cacciatore di taglie Cristoph Waltz. 
                  Tedesco, emigrato in America dopo aver abbandonato la sua professione 
                  di dentista per cercare fortuna come bounty hunter, il 
                  dottor King Schultz – questo il nome del personaggio di 
                  Waltz, con richiamo immediato a Martin Luther King – dall'inizio 
                  alla fine del film uccide schiavisti bianchi, libera schiavi 
                  neri (tra cui Django, interpretato da Jamie Foxx) e impartisce 
                  lezioni di classe (e cultura) a feroci e ignoranti proprietari 
                  di piantagioni. Quanto di più lontano dai poliziotti 
                  che cercano di contenere e “normalizzare” i blacks 
                  con cui hanno a che fare visti all'interno delle pellicole precedenti. 
                  Il dottor Schultz libera, acquistandolo, Django, ma contestualmente 
                  uccide anche i suoi padroni bianchi. La conquista della libertà 
                  è battezzata nel sangue, e sangue continuerà a 
                  essere versato per tutta la durata del film dall'eroe nero e 
                  dal suo mentore bianco. Sangue di schiavisti ma anche di “semplici” 
                  fuorilegge, perché il dottor Schultz, e poi lo stesso 
                  Django quando si unirà a lui come aiutante, in quanto 
                  cacciatore di taglie è un “rappresentante del sistema 
                  penale degli Stati Uniti d'America”. Anche lui quindi, 
                  come i poliziotti bianchi trattati in precedenza, è un 
                  pezzo del sistema e, culmine del paradosso, lo stesso ex schiavo 
                  nero Django lo diventerà (come l'Eddie Murphy poliziotto 
                  di Beverly Hills Cop). Ma, a differenza dei buddy 
                  movies degli anni ottanta, o di Shaft, qui il bianco 
                  che rappresenta la Legge offre al nero la possibilità 
                  di farsi una coscienza sulla canna del fucile, e di prendersi 
                  qualche bella rivincita sui suoi oppressori. 
                  Schultz non controlla e non contiene Django, anzi, gli permette 
                  finalmente di esplodere e scatenare la sua giusta ira. 
                  La prima esecuzione di Schultz che vediamo è inoltre 
                  quella di uno sceriffo. Tarantino qui impallina il western classico 
                  e “all american” alla John Wayne e si mette decisamente 
                  dalla parte degli anti eroi, tutti bastardi che non cercano 
                  gloria, di leoniana memoria, da Per un pugno di dollari 
                  a Giù la testa. 
                  Quando poi Schultz, discutendo con Django le sue prospettive 
                  future, gli dice che per l'ex schiavo, “libero o no”, 
                  sarebbe comunque troppo pericoloso andare in Mississippi, ci 
                  troviamo di fronte a un'aperta critica al sistema, che pure 
                  viene “usato” da Schultz. L'emancipazione formale 
                  offerta dalla legge attraverso l'acquisto monetario della libertà 
                  è in realtà ben poca cosa rispetto alle condizioni 
                  reali del contesto sociale in cui Django si muove, e in cui 
                  il razzismo è endemico e strutturale, perché a 
                  fondamento dello stesso modo di produzione di quell'epoca – 
                  e cioè a fondamento della fortuna economica dell'America 
                  stessa, che le permetterà di affermarsi come superpotenza 
                  di lì a qualche decennio. Un pezzo di carta attestante 
                  il proprio status di “uomo libero” non protegge 
                  certo dalle pallottole dei razzisti bianchi. 
                  In una sequenza molto divertente, membri del Ku Klux Klan vengono 
                  raffigurati come bambini scemi e capricciosi. Questa sequenza 
                  avrà certo sollevato critiche da parte degli adepti del 
                  politically correct, per i quali sarebbe stata probabilmente 
                  più corretta una rappresentazione disumanizzante dei 
                  membri del Kkk, ma in realtà essa coglie nel segno, perché 
                  ci mostra benissimo i tratti caratteristici dell'atteggiamento 
                  razzista, stupidità e ignoranza, e li mette alla berlina. 
                  E alla berlina, in Django, viene messo l'intero sistema 
                  socio-economico-culturale basato sullo schiavismo. Non solo 
                  i bianchi, ma anche i neri collaborazionisti. Dagli Head 
                  house nigger – il personaggio di Steven interpretato 
                  da uno strepitoso Samuel Jackson, più fedele di un cane 
                  al suo padrone, e infatti sarà lui a smascherare Schultz 
                  e Django penetrati in incognito a Candyland, la piantagione 
                  dell'orrendo schiavista Di Caprio – ai negrieri neri, 
                  come il personaggio che Django deve interpretare per intrufolarsi 
                  a Candyland dove è tenuta ancora in catene la sua amata. 
                  È tutto il sistema che deve saltare, compresi e forse 
                  in primis quei neri che lo fanno funzionare seppellendo la propria 
                  coscienza e vendendosi al padrone bianco per un piatto di lenticchie 
                  un po' più grosso di quello che viene dato agli altri. 
                  E infatti alla fine Django, pur avendo già liberato la 
                  moglie, torna a Candyland per uccidere tutti, e in modo più 
                  doloroso degli altri Steven, e far saltare in aria tutta la 
                  baracca. 
                  Anni luce di distanza, quindi, dagli stereotipati e innocui 
                  buddy movies degli anni ottanta, o da quello Shaft 
                  in cui un nero apparentemente supercool semplicemente 
                  manipola ma non sovverte le regole di quel gioco che lo vuole 
                  comunque subalterno al potere bianco. 
                  E infine, anche la critica a Tarantino da parte del regista 
                  black Spike Lee, autonominatosi portavoce dei neri con una coscienza, 
                  secondo cui Django Unchained sarebbe insultante nei confronti 
                  della “sua” gente perché la schiavitù 
                  fu un olocausto e non uno spaghetti western, non regge. Perché 
                  è una critica ancora tutta interna al politically correct 
                  e alle rappresentazioni cinematografiche che evidentemente, 
                  secondo Lee, dovrebbero esserne imbevute, mentre Tarantino se 
                  ne frega come se ne è sempre fregato, intuendo che, forse, 
                  ammantare di “correttezza politica” la rappresentazione 
                  della violenza del sistema è il miglior modo per nasconderne 
                  le contraddizioni e, quindi, perpetuarlo. 
                
  Michele Lembo
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