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				 donne 
                  
                Tra deformazione ed eliminazione 
                  
                di Francesca Cuccarese e di Milena Scioscia 
                    
                Dall'immagine deformata e stravolta delle donne in tv e nei media in generale, all'escalation di violenza che termina col femminicidio, punta dell'iceberg di episodi sommersi e, il più delle volte, ignorati. 
Intervengono in queste pagine Francesca, impegnata nel Centro Antiviolenza La Nara (Prato) e Milena, operatrice del Centro Antiviolenza Frida Kahlo (San Miniato - Pi). 
                
                 
                 
                  donne e media 
 Una televisione del genere... 
                   
                  di Francesca Cuccarese
                 La discriminazione di genere 
                  ha carattere pressoché universale, non ha confini né 
                  tempo; è un fenomeno globale, interessa la maggior parte 
                  dei paesi del mondo, nei quali si manifesta come fenomeno complesso, 
                  eterogeneo e trasversale. Come scrive Maria Clara Donato sulla 
                  rivista Genesis “le donne ne sono investite in maniera 
                  differenziata, a seconda di come il loro essere genere femminile 
                  si intreccia con le appartenenze etniche, culturali, di classe 
                  o con la pura casualità del luogo in cui capita di nascere 
                  e vivere”. E se è vero che in occidente le donne 
                  sono riuscite nel tempo a conquistare spazi di autodeterminazione 
                  e libertà, il cammino verso una reale e concreta parità 
                  di trattamento e dignità è ancora lungo e tortuoso. 
                  In molti paesi occidentali infatti, le forme della discriminazione 
                  sono apparentemente meno nette, visibili, materiali, rispetto 
                  ad altre parti del mondo, ma ciò non rende immuni le 
                  donne da trattamenti ingiusti, prevaricatori e violenti. La 
                  discriminazione si fa più insidiosa, velata, velenosa, 
                  annidandosi e sviluppandosi in seno alla società, con 
                  devastanti conseguenze sia a livello individuale che collettivo. 
                  Veicolata da prassi istituzionali, corroborata da attitudini 
                  irresponsabili della classe politica, entra con prepotenza nel 
                  quotidiano mediante la grande macchina massmediatica, che enfatizza 
                  stereotipi e pregiudizi, innescando un circolo vizioso di legittimazione 
                  della discriminazione in cui cambiano i mezzi ma non i fini. 
                
                   
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                    |   Anni 50 . In questo annuncio per Chase & Sandborn caffè  
                  un uomo punisce così la moglie  che non gli ha comprato 
                  quel caffe  | 
                   
                 
                 
                  Basta spegnere la tv? 
                 Noi siamo il cibo che mangiamo, l'aria che respiriamo, l'acqua 
                  che beviamo. Detto ciò potremo altresì sostenere 
                  che siamo anche le parole che ascoltiamo e le immagini che vediamo. 
                  Queste nutrono e sostengono le identità individuali e 
                  collettive, orientando le nostre azioni e collocandoci nel mondo. 
                  Molti sono gli autori contemporanei che hanno fatto luce sulla 
                  natura pervasiva dei media all'interno delle nostre vite e sulle 
                  loro ricadute a livello sociale ed educativo, attraverso un 
                  approccio semiologico, cioè attraverso un'analisi di 
                  quel sistema dei segni che consente di indagare tanto il contenuto 
                  latente, quanto la dimensione simbolica dei mass media. 
                  “Il medium è il messaggio”, così il 
                  noto sociologo canadese, Marshall McLuhan, irrompeva nel testo 
                  Gli strumenti del comunicare (1999) svelandoci come “le 
                  conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè 
                  di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni 
                  introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali 
                  estensioni o da ogni nuova tecnologia”, ciò a dire 
                  che ogni mezzo tecnologico, che determina i caratteri strutturali 
                  della comunicazione, produce effetti pervasivi sull'immaginario 
                  collettivo, indipendentemente dai contenuti dell'informazione 
                  di volta in volta veicolata. 
                  Dunque è il medium che plasma e controlla e va studiato 
                  in base ai criteri strutturali secondo i quali organizza la 
                  comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa 
                  di ogni medium che lo rende non neutrale, perché essa 
                  suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e 
                  modi di pensare, portando alla formazione di una certa forma 
                  mentis. La nostra reazione convenzionale a tutti i media, secondo 
                  la quale ciò che conta è il modo in cui vengono 
                  usati, è “l'opaca posizione dell'idiota tecnologico”, 
                  come afferma McLuhan. Perché, prendendo in prestito le 
                  parole dell'autore, “il contenuto di un medium è 
                  paragonabile a un succoso pezzo di carne con il quale un ladro 
                  cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito”. 
                  Alcuni media assolvono soprattutto alla funzione di rassicurare, 
                  e uno di questi è la televisione. La televisione non 
                  crea delle novità, piuttosto è un mezzo di conferma: 
                  conforta, consola, inchioda gli spettatori in una stasi fisica 
                  (stando seduti per del tempo a guardarla) e mentale (poiché 
                  favorisce lo sviluppo di una forma mentis non interattiva, al 
                  contrario di internet e di altri ambienti comunicativi a due 
                  o più sensi). 
                  La tv dunque intrattiene, svaga, diverte, e dopo aver formato 
                  i bambini continua a formare, o comunque a influenzare gli adulti 
                  informandoli, perché è certo che la televisione 
                  è un incredibile formatore di opinione. 
                  Tra gli altri ha scritto sull'argomento Giovanni Sartori, la 
                  cui tesi, espressa nel testo Homo videns, si avvicina 
                  molto alle posizioni del filosofo austriaco Karl Popper (Cattiva 
                  maestra televisione), secondo cui i bambini guardano la 
                  televisione per ore e ore, prima di imparare a leggere e a scrivere. 
                  Il problema legato alla quantità di violenza che appare 
                  sugli schermi televisivi, centrale nella riflessione di Popper, 
                  è però per Sartori solo una parte della questione, 
                  perché quello che il bambino assorbe è non solo 
                  violenza ma anche un imprinting, uno stampo formativo tutto 
                  centrato sul vedere: il video sta trasformando l'homo sapiens, 
                  prodotto dalla cultura scritta, in homo videns nel quale 
                  la parola è spodestata dall'immagine. Tutto diventa visualizzato. 
                  “È importante dunque capire che il tele-vedere 
                  sta cambiando la natura dell'uomo e in questo processo la tv 
                  non è solo strumento di comunicazione ma anche paidèia, 
                  strumento ‘antropogenetico', un medium che genera un nuovo 
                  ànthropos, un nuovo tipo di essere umano. […] 
                  E se il video-bambino si auto realizza come video-dipendente, 
                  si traduce successivamente in un cattivo cittadino che mal sostiene 
                  la città democratica e il bene collettivo”. 
                  Oggi la tv è caratterizzata da due elementi principali: 
                  la pubblicità e l'imitazione della quotidianità. 
                  La presenza massiccia della prima orienta e determina ogni aspetto 
                  della programmazione; in termini di linguaggio, accattivante 
                  e seducente cui fine ultimo, e unico, è quello della 
                  vendita; e di contenuti, affinché si arrivi alla più 
                  ampia audience possibile, in funzione della pubblicità 
                  stessa. 
                  L'altro elemento, l'imitazione della quotidianità, avviene 
                  a livello di organizzazione del palinsesto, di generi televisivi 
                  e di stile di messa in scena, ma “essendo in realtà 
                  un'imitazione artificiosa, che tende a riprodurre modelli più 
                  che a ricercare la realtà, si finisce per rappresentare 
                  un universo affetto da una distorsione di fondo”. 
                  Ma chi è il lupo cattivo? Le responsabilità 
                  sono multiple, per il momento limitiamoci a quelle che ricadono 
                  sulla tv stessa, la quale servendo gli interessi delle imprese, 
                  le stesse che sponsorizzano senza curarsi dei bisogni del pubblico, 
                  sposa incondizionatamente la legge del profitto e della competizione. 
                  E per cosa si compete? Ovviamente per accaparrarsi i telespettatori 
                  e non certo per fini educativi, per produrre trasmissioni che 
                  insegnino ai bambini qualche genere di etica. “Questo 
                  aspetto è importante e difficile” spiega Sartori 
                  “perché l'etica si può insegnare ai bambini 
                  solo fornendo loro un ambiente attraente e buono ma, soprattutto, 
                  buoni esempi”. 
                  La tv però sembra non saper o non voler cogliere questa 
                  sua portata educativa, esimendosi dalla responsabilità 
                  di offrire un prodotto buono, proporzionale alle esigenze formative 
                  e informative della società. Ha trasformato il pubblico 
                  da soggetto a oggetto della comunicazione, che fa zapping passivamente 
                  all'interno di palinsesti scadenti. Il suo livello qualitativo, 
                  come osserva Sartori, “è sceso perché le 
                  stazioni televisive, per mantenere la loro audience, devono 
                  produrre sempre più materia scadente e sensazionale […] 
                  e difficilmente la materia sensazionale è anche buona”. 
                  I produttori continuano a giustificare quest'infima offerta 
                  televisiva rispondendo: dobbiamo offrire alla gente quello che 
                  la gente vuole, come se si potesse sapere quello che la gente 
                  preferisce dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni. 
                  Nel caso italiano, i dati raccolti da Auditel, come ci ricorda 
                  Lorella Zanardo in Il corpo delle donne, diventano l'elemento 
                  decisivo per la stesura dei palinsesti da parte delle reti, 
                  dove la semplice accensione del televisore, da parte di quelle 
                  cinquemila famiglie campione, si tramuta in un gradimento implicito. 
                  La legge dell'audience, allora, altro non è che quello 
                  che Popper formulava più familiarmente come legge 
                  dell'aggiunta di spezie che servono a far mangiare cibi 
                  senza sapore che altrimenti nessuno vorrebbe: le spezie sono 
                  il mezzo che i produttori hanno più facilmente a disposizione 
                  per aiutarsi, sono il congegno sperimentato che è sempre 
                  in grado di catturare gli ascolti. 
                  Ma allora come difenderci da questo processo di abbrutimento 
                  e omologazione? “Basta spegnere la tv!” urlano a 
                  gran voce i più culturalmente preparati o comunque coloro 
                  che sono dotati di più strumenti per farlo; ma la questione 
                  è assai più complessa. Un'analisi più attenta 
                  svela la portata culturale che si cela dietro quel gesto, apparentemente 
                  semplice, quale è premere di tasto rosso sul telecomando. 
                  Lorella Zanardo lo definisce un gesto elitario, che parte da 
                  lontano, dall'aver ricevuto un'educazione capace di fornire 
                  gli strumenti necessari a una lettura critica della realtà, 
                  capace di aver trasmesso l'interesse per le relazioni, la lettura, 
                  il cinema, il teatro, insomma aver creato i presupposti per 
                  renderci davvero in grado di scegliere in maniera libera come 
                  arricchire il nostro tempo libero e come informarci sul mondo. 
                  Ma davvero tutti abbiamo quest'opportunità di scelta? 
                  “In un paese dominato dai media”, spiega la Zanardo, 
                  “dove i giornali di pettegolezzi trasformano in idoli 
                  i personaggi televisivi, la tv rappresenta la forma di intrattenimento 
                  più diffusa e più economicamente conveniente”. 
                  E se poi consideriamo che in Italia il piccolo schermo rappresenta 
                  la principale fonte d'informazione per l'80 per cento di coloro 
                  che la guardano, il gioco è fatto. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Anni 60. Questo magazine per uomini  promette di spiegare 
                  “come far fare a tua moglie ciò che vuoi che lei 
                  faccia”  | 
                   
                 
                 
                  La dittatura dei corpi perfetti 
                 Il principio democratico enunciato nella nostra Costituzione 
                  all'articolo 3 secondo cui: “Tutti i cittadini hanno pari 
                  dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza 
                  distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di 
                  opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, 
                  si rivela in tutta la sua carica meramente formale se, analizzando 
                  la programmazione televisiva italiana, adottiamo un'ottica di 
                  genere. 
                  In controtendenza rispetto a tutti gli altri settori, dalla 
                  vita pubblica e politica a quella lavorativa e dirigenziale, 
                  i media promuovono a genere privilegiato quello femminile. Nella 
                  programmazione televisiva come nella pubblicità assistiamo 
                  a una ossessionante presenza della donna e a un'eccedenza nell'uso 
                  delle sua immagine e del suo corpo rispetto ai contenuti veicolati 
                  e alle necessità del prodotto venduto-rappresentato. 
                  Due interessanti ricerche svelano senza pietà quanto 
                  in questi ambiti l'Italia rappresenti un'anomalia rispetto al 
                  resto dei paesi europei, in termini di uso dell'immagine e del 
                  corpo della donna. 
                  Nel periodo compreso tra il 18 e il 28 febbraio del 2002 la 
                  professoressa Giovanna Campani svolse un'indagine sulla televisione 
                  italiana tette-culi: vennero analizzati alcuni programmi, quali 
                  quiz, satira, informazione, attualità, politica e varietà 
                  delle reti Rai, Mediaset e della allora nuova rete La7 a caccia 
                  di stereotipi di genere. Al termine del lavoro venne montato 
                  un video che già allora svelava “una sequenza di 
                  donne discinte ancheggianti, in balletti ad alto significato 
                  erotico, nonché di donne poco vestite usate come soprammobili 
                  accanto a signori in giacca e cravatta”. 
                  Come denunciato dal fotografo Ico Gasparri a proposito delle 
                  cartellonistica pubblicitaria, nella televisione italiana si 
                  assiste da tempo a un'eccedenza dell'uso, in termini quantitativi 
                  e qualitativi, dell'immagine e del corpo della donna; infatti, 
                  “le comparse delle signorine seminude non hanno niente 
                  a che vedere con i temi trattati nei programmi. Quasi sempre 
                  […] rappresentano una sorta di accompagnamento o di decorazione 
                  per gli uomini che conducono le trasmissioni”. 
                  Più recentemente, nel lasso di tempo che va dal 26 dicembre 
                  del 2008 al 31 gennaio del 2009, Lorella Zanardo, affiancata 
                  da due colleghi, Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi, 
                  hanno condotto un'altra accurata analisi dei palinsesti televisivi 
                  nostrani, da cui è nato l'ormai conosciuto documentario 
                  Il corpo delle donne, dall'omonimo testo. In ore e ore 
                  di visione televisiva emerge un quadro che ha dell'assurdo: 
                  una sequela di immagini offensive intrise di una banalità 
                  vuota e stereotipata, dove fa da denominatore comune l'erotismo 
                  e la costante allusione sessuale ai limiti della pornografia, 
                  dominate da “corpi giovani ed esposti, ammiccanti e apparentemente 
                  sempre pronti a soddisfare il desiderio maschile”. 
                  La Zanardo lo definisce un erotismo becero e infantile, fatto 
                  di immagini svilenti e grottesche, abiti dozzinali, inquadrature 
                  ginecologiche, uomini volgari, copioni banali e donne carne 
                  da macello. 
                  Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole. Ma è 
                  davvero questo ciò che il pubblico vuole? Ma davvero 
                  siamo spettatori così addomesticati da accontentarsi 
                  di così poco e brutto? 
                  Guardando la tv, intuisci fin da piccolissima che il tuo corpo 
                  sembra avere un potere enorme sugli uomini, come se il corpo 
                  divenisse unico medium delle relazioni fra i generi, come se 
                  il corpo, conforme a certi canoni di bellezza, giovinezza, erotismo, 
                  divenisse parametro, misura, orizzonte dell'esistenza. 
                  La televisione si fa propagatrice dei peggiori stereotipi di 
                  genere, proponendo un'immagine assolutamente distorta e degradante 
                  della donna e dei rapporti tra i due sessi, veicolati quasi 
                  esclusivamente da relazioni asimmetriche, giocate su un terreno 
                  dominato dal sesso e da perversi giochi di potere. 
                  Questa pratica è tristemente diffusa non solo in Italia, 
                  ma il problema, o l'anomalia come la si voglia chiamare, è 
                  che da nessun altra parte, come da noi, questo è l'unico 
                  modo in cui il modello femminile viene proposto in tv. 
                  Ma in tutto questo la donna reale dov'è? 
                  La crudeltà del messaggio coincide con la sua irrazionalità: 
                  il modello diventa una donna che non esiste. 
                  La tv da una parte ci propone una figura docile e ammiccante 
                  che incarna il sogno della ragazza della porta accanto, la ragazza 
                  soprammobile, che con la sua presenza innocente e passiva si 
                  limita a decorare la scena, quasi sempre senza parlare, se non 
                  per avvalorare le affermazioni dell'uomo; dall'altra parte, 
                  sempre più frequentemente, assistiamo a immagini di donne 
                  che, con piglio imprenditoriale e comportamenti maschili, gestiscono 
                  un corpo iperfemminile: una figura di donna ibrida, erotica 
                  e a disposizione dell'uomo (come accade da secoli), ma spesso 
                  con uno sguardo e un atteggiamento aggressivi, da schiava-padrona 
                  del desiderio maschile, mai arrendevole. 
                  Divieto di invecchiare 
                 La questione si fa ancora più spinosa quando alla variabile 
                  genere accostiamo quella anagrafica, quando cioè la questione 
                  femminile incontra l'ideologia dell'ageism, ossia la 
                  discriminazione in base all'età, così definita 
                  da William Graebner. 
                  Dunque, come sono rappresentate le donne mature, in là 
                  con l'età, quelle che Eve Ensler nel suo testo Il 
                  corpo giusto apostrofa come “l'esercito delle postmestruate”? 
                  È quasi inutile sottolineare come lo stereotipo abbondi 
                  nella quotidianità quanto nella rappresentazione massmediatica. 
                  Le cose non cambiano quando si invecchia, semmai peggiorano. 
                  Nella stragrande maggioranza dei casi le anziane italiane, nella 
                  vita reale, fanno o sono costrette a fare le nonne: come osserva 
                  Loredana Lipperini in Non è un paese per vecchie 
                  “con la fine della fertilità, il pendolo rallenta 
                  la sua oscillazione fra puttana e madonna e si ferma sulla seconda 
                  possibilità. Le vecchie sono sante e caste. Appena un 
                  po' stupide. Appena un po' invidiose delle giovani”. 
                  E se non sono nonne, tate o comunque persone preposte alla cura, 
                  le anziane sono poco interessanti. E in modo simile e più 
                  drammatico rispetto alle donne adulte, sono presenti sui media, 
                  televisione in primo luogo, non per la loro cultura o per la 
                  loro sapienza politica, ma come protagoniste della cronaca nera. 
                  Appaiono solo quando sono vittime. Morte per scippo. Morte per 
                  caduta. Morte per solitudine. Morte assassinate, anche. 
                  Ma è la pubblicità che ci svela impietosamente 
                  qualcosa di più sull'immaginario di questa fase della 
                  vita, della nostra vita. 
                  La pubblicità sui vecchi (consentiamoci di usare questo 
                  vocabolo affrancandosi dalle trappole del linguaggio politically 
                  correct) infatti, si fa portavoce del doppio stereotipo, anagrafico 
                  e di genere. 
                  Un'interessante ricerca, La rappresentazione degli anziani 
                  nella pubblicità televisiva, condotta da Ludovica 
                  Solari nel 2004 per il dipartimento di Scienze demografiche 
                  dell'università La Sapienza, prese in esame gli spot 
                  Rai e Mediaset del 2002, in cui apparivano personaggi over 50. 
                  Ebbene, pur essendo ormai datata, i dati rilevavano una situazione 
                  non troppo distante da quella attuale: gli anziani infatti, 
                  nel 42 per cento dei casi apparivano come testimonial del settore 
                  alimentare. Formaggi, olio, pasta e vino, perché l'anziano 
                  ha esperienza e conosce i sapori di una volta, facendosi garante 
                  della qualità e della bontà, basti pensare all'esplosione 
                  dei patriarchi rurali (uno su tutti Giovanni Rana) nella veste 
                  di imprenditori pensionati che, compiaciuti ed ecumenici, passano 
                  i propri saperi alle nuove generazioni. Nulla di nuovo anche 
                  nel fatto che vecchie signore imprenditrici non ce ne siano, 
                  e che le donne over 50 prevalgano invece, nel secondo settore 
                  pubblicitario più frequente: i prodotti per la casa. 
                  “Perché se l'uomo conosce la tradizione degli antichi 
                  sapori, che al suo lavoro si devono, la donna sa come fare il 
                  bucato”. Gli stereotipi di genere, insomma, non hanno 
                  età. 
                  Scrive Solari: “La donna anziana rimane legata a quei 
                  prodotti che da sempre enfatizzano il lato domestico e materno, 
                  le occupazioni servili e infermieristiche […]. Gli uomini 
                  sono prevalentemente rappresentati nel contesto lavorativo o 
                  in attività che riguardano il mondo esterno, le donne, 
                  invece, sempre in ambito familiare”; cristallizzate, dunque, 
                  in ruoli di nonne impegnate nella cura della casa, mentre è 
                  più facile trovare un nonno accanto al nipote, viaggiando 
                  la trasmissione dei saperi, in linea maschile. 
                  Loredana Lipperini in Non è un paese per vecchie svela 
                  il congegno magico degli stereotipi pubblicitari, scovando, 
                  come in un gioco di scatole cinesi, all'interno dello stereotipo 
                  di genere – interno a sua volta a quello anagrafico – 
                  uno ancora più insidioso: quello della negazione. 
                  Negazione del tempo che passa, negazione della vecchiaia come 
                  stagione della vita e condizione dell'esistenza, negazione della 
                  essenza stessa della persona. 
                  Il messaggio è velenoso e s'insidia dietro il meccanismo 
                  dello scambio madre-figlia, ricorrente nelle campagne pubblicitarie 
                  rivolte alle donne. Ti scambiano per tua figlia?: “che 
                  si tratti di creme o di prodotti dietetici, di cosmesi o di 
                  abiti, il parallelo viene ribadito impietosamente. È 
                  la versione aggiornata e consumistica della fiaba di Biancaneve, 
                  laddove a Grimilde viene proposto, non di vivere come è 
                  stata fino a quel momento e come continua ad essere, semplicemente 
                  con alcuni anni in più, ma di vendicarsi, infine e una 
                  volta per tutte, della figliastra. Non serve avvelenarla, puoi 
                  essere lei”. 
                  È facile intuire come il mondo della pubblicità 
                  si sia presto adeguato, e a sua volta abbia fatto da moltiplicatore 
                  dell'effetto, alla nuova percezione che le donne over 
                  hanno di sé: da un'indagine svolta nel 2008 da Marco 
                  Testa, presidente e amministratore delegato della grande azienda 
                  pubblicitaria Armando Testa, risulta che solo la metà 
                  del campione delle oltre sessantaquattrenni intervistate si 
                  definisce anziana. Quindi è logico che la comunicazione 
                  pubblicitaria si sia trovata costretta a de-vecchizzare il proprio 
                  linguaggio, adeguandolo a un pubblico che non si percepisce 
                  tale. Il divieto d'invecchiare si è tradotto nella necessità 
                  di identificarsi in personaggi brillanti, per i quali il tempo 
                  si è fermato, sintetizzato in figure femminili, giovani 
                  ma anziane, dall'effetto destabilizzante. 
                  Ancora una volta siamo di fronte a una donna che non esiste: 
                  figure femminili che grazie alla cosmesi e la chirurgia estetica 
                  invasiva perdono ogni autenticità, ogni ricchezza interiore 
                  psicologica, affettiva e intellettuale, aggrappate ad un fermo 
                  immagine perenne, nella vana speranza che a quell'immagine possano 
                  aderire per tutta la vita. Osserva ancora Lipperini: “Il 
                  culto esasperato dell'immagine tipico del nostro tempo tenta 
                  di esorcizzare la vecchiaia, la decadenza, la fine, attraverso 
                  la rappresentazione ossessiva di una perenne, inalterata giovinezza 
                  che sfida il tempo e dà l'illusione di una vittoria sulla 
                  morte”. 
                  La trappola del come se trae in inganno: nonostante l'età 
                  è sempre una bella donna, come se avesse sempre vent'anni. 
                  E allora, accompagnata dal nonostante, veste come se 
                  fosse giovane, fa movimento come se fosse giovane, mostra il 
                  proprio corpo, vive la propria sessualità, il proprio 
                  tempo libero, come se fosse sua figlia, appunto. 
                  Ma nella realtà è davvero così? Davvero 
                  le madri vogliono essere le proprie figlie? Esiste veramente 
                  questa agguerrita competizione tra generazioni, giocata esclusivamente 
                  a colpi di creme antirighe e glutei scolpiti? 
                  Cosa nascondono quei volti straziati dalla plastica e altri 
                  materiali? Perché le donne non possono apparire con la 
                  loro vera faccia? 
                  “Nascondendo la nostra faccia stiamo rinunciando alla 
                  nostra unicità”, commenta la Zanardo. Il volto 
                  ci mette in relazione con l'altro, in contatto diretto con il 
                  mondo, esponendoci e mettendo a nudo tutta la nostra vulnerabilità. 
                  E come restare noi stesse in un mondo in cui si è accettate 
                  solo se ferocemente invulnerabili? Invecchiando la faccia diviene 
                  portatrice del vissuto, in tutta la sua originalità e 
                  unicità. Ma allora, la parata di volti che ci vengono 
                  proposti quotidianamente nei programmi televisivi, cosa sono 
                  in grado di trasmetterci, se l'essenza più profonda di 
                  queste donne è stata soffocata sotto strati di gomma? 
                  Siamo dunque nel paese dove la giovinezza viene misurata con 
                  quello che il poeta Edoardo Sanguineti ha definito “il 
                  modello Berlusconi: catastrofico, esagerato, impermeabile alla 
                  realtà, compiaciuto della tolleranza-zero che lo sostiene”. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Anni 60. Nella pubblicità di questo ketchup dal tappo 
                  svitabile una donna si stupisce di poterlo aprire da sola, senza 
                  l'aiuto di un uomo  | 
                   
                 
                 
                  Sex in the city 
				  Nella disputa sull'accendere o spegnere la tv, come gesto politico 
                  che si gioca tra la presa di coscienza e il boicottaggio, sicuro 
                  è che, almeno una parte dei cittadini può salvarsi 
                  dal suo potere seduttivo e di deformazione di genere, appellandosi 
                  a un pur velato atto di volontà; altresì, una 
                  rivista, o un giornale, si può decidere di strapparlo, 
                  cestinarlo,bruciarlo o quanto meno scegliere di non comprarlo. 
                  Ma c'è qualcosa da cui è veramente molto difficile 
                  salvarsi, tutelarsi: la cartellonistica pubblicitaria stradale. 
                  Poco studiata e ampiamente sottovalutata, la cartellonistica 
                  pubblicitaria risulta essere un ambito di grande interesse per 
                  un'analisi attraverso un'ottica di genere. Anche perché, 
                  a ben vedere, la quasi totalità usa l'immagine femminile, 
                  attraverso cui quotidianamente viola il nostro campo visivo 
                  e il nostro immaginario. 
                  La principale caratteristica che la denota infatti è 
                  la sua natura obbligatoria: non può negarsi alla vista 
                  di bambini, bambine, adolescenti, uomini e donne, violentate 
                  e violentatori, vittime e carnefici, insomma tutte e tutti coloro 
                  che ci passano vicino, come denuncia Ico Gasparri, fotografo, 
                  artista che si occupa di comunicazione sessista ormai da anni. 
                  In effetti, come è possibile non vedere un cartellone 
                  di 18 metri quadrati per 3 mentre si cammina su un marciapiede 
                  di 2? Spesso sostituiscono le facciate degli edifici storici 
                  centrali in ristrutturazione, foderano interi palazzi, invadono 
                  metropolitane, banchine delle stazioni, fermate degli autobus. 
                  In vent'anni Ico Gasparri ha raccolto più di 4.000 immagini, 
                  dandole alle stampe nel suo testo autoprodotto, Chi è 
                  il maestro del lupo cattivo?, che a oggi rappresenta il 
                  più vasto e articolato archivio di immagini relativo 
                  alla cartellonistica sessista, e che lo ha insignito nel 2010 
                  del premio come miglior artista italiano dedito ai diritti delle 
                  donne e alle discriminazioni di genere, decretato dalla Commissione 
                  Pari o Dispare e consegnato per mano della allora vice presidente 
                  del senato Emma Bonino. Questi scatti documentano lo schifo, 
                  come lui stesso lo definisce, con cui le nostre città 
                  (e in particolare Milano, oggetto dei suoi studi) sono state 
                  tappezzate, vestite in maniera violentemente sessista, documentando 
                  il peggioramento esponenziale di cui l'Italia si è fatta 
                  protagonista. 
                  Gli scatti mostrano un excursus che va dall'immagine della donna 
                  vestita, a parti di corpo che via via vanno scoprendosi, agendo 
                  sempre di più e sempre più apertamente il sesso, 
                  fino alla deriva nella pornografia. Esplicitato dalle immagini 
                  fotografiche e rinforzato dal linguaggio usato nel testo scritto 
                  che le accompagnano, il sesso esce sempre più dall'allusione 
                  conquistando definitivamente l'area declaratoria. 
                  Ico Gasparri sostiene che “niente è fatto per caso, 
                  c'è una precisa filosofia che guida i pubblicitari”, 
                  anche di grande aziende di fama internazionale nell'usare, per 
                  altro senza neanche tanta originalità, l'immagine della 
                  donna in maniera così mercificata e degradante. 
                  Interessante sottolineare il fatto che Gasparri parli di immagine 
                  e non solo e semplicemente di corpo della donna, ritenendo che 
                  l'attacco, l'offesa, la violenza riguardi tutto l'universo femminile, 
                  e non solo l'uso del suo corpo o di parti di esso, appunto. 
                  Tanto meglio non va quando ad essere intervistati sono i consumatori: 
                  racconta con sarcasmo che, su 50 persone intervistate, ben 48 
                  non avevano capito che il prodotto pubblicizzato su un gigantesco 
                  cartellone lungo una delle vie principali di Milano, fosse una 
                  nota marca di acqua minerale. 
                  In un interessante intervento tenuto nel novembre del 2009 presso 
                  il Coordinamento delle donne dell'Idv di Milano, presenta il 
                  suo film (così lo definisce), frutto dell'assemblaggio 
                  di tanti, tantissimi frame, foto che in anni di ricerca ha scattato 
                  e classificato in base a logiche pubblicitarie ricorrenti. Tra 
                  queste l'oggettivazione: le modelle sono spesso distese in terra 
                  o su piani di posa fotografici, come oggetti, ridicolizzate 
                  al punto da essere trasformate esse stesse in oggetto. Merce 
                  da consumare, pronta per l'uso e l'abuso. Un altro aspetto è 
                  l'apertura e la gratuita disponibilità: le donne si aprono 
                  in pose da contorsioniste, piegate, distorte, arrotolate. Poi, 
                  naturalmente, l'eterna gioventù e, particolarmente significativo, 
                  il rapporto uomo-donna: talvolta le modelle sono distese davanti 
                  a un uomo che non si vede, se non in parte, un braccio muscoloso, 
                  una schiena, non importa rappresentarlo ai fini della cattura 
                  dello sguardo del consumatore. Se l'uomo si vede, spesso è 
                  posizionato dietro, che le sovrasta o, peggio, le prende, le 
                  tiene a sé con una stretta ai limiti della violenza; 
                  mani forti, di possesso, che la cingono, la trattengono. Se 
                  invece appare da solo, l'uomo diviene essere asessuato, nelle 
                  misura in cui viene devitalizzato di tutta la sua carica erotica: 
                  vestito sobriamente, seduto in un'ambientazione di rango o comunque 
                  reale, promosso a un grado accettabile socialmente, non si specula 
                  sulla sua vita intima e sessuale; si fa persona. Ma anche il 
                  rapporto tra donna e donna fa parte dell'iconografia pubblicitaria. 
                  È ricorrente il tema dell'omosessualità femminile, 
                  tanto caro all'immaginario erotico maschile, totalmente deprivato 
                  di qualunque connotato emotivo, affettivo, relazione, ma legato 
                  unicamente alla sua dimensione sessuale. Infine: oltre la donna. 
                  Quello che la pubblicità passa spesso è “l'esistenza 
                  di un corpo diviso dall'essenza della donna”, certificandoci 
                  che la donna ha qualcosa di diverso da essa stessa, che è 
                  il corpo; un corpo logicamente perfetto secondo i canoni convenzionali 
                  di cui i media ci bombardano quotidianamente (“Il tuo 
                  corpo sarà l'unica cosa che ti piacerà indossare”, 
                  come sentenzia il testo che accompagna la pubblicità 
                  di una nota marca di acqua). 
                  La sequela di immagini montate da Ico Gasparri svela come sia 
                  cambiato nel corso degli anni il rapporto tra polis e 
                  pubblicità, portando alla ribalta il duplice meccanismo 
                  violento del quale siamo vittime. Da una parte infatti, le gigantografie 
                  pubblicitarie hanno fagocitato i nostri sguardi e le nostre 
                  strade con un torbido mix di biechi interessi economico-misogini, 
                  riducendo le nostre città a luoghi insicuri, portatori 
                  (non sani) di esplicite forme di discriminazione, verso un genere, 
                  e violenza, verso entrambi. Dall'altra, l'obbligatorietà 
                  con cui si impongono, trascende il qui e ora con l'aggravante 
                  che tutta questa paccottiglia (prendendo in prestito un termine 
                  usato da Ico Gasparri) espone senza riserve le nuove generazioni 
                  a forme di diseducazione che, anche su quelle immagini, formano 
                  i loro modelli di riferimento. L'effetto dell'esposizione a 
                  tanta materia scadente è estremamente deviante e, a lungo 
                  andare, plasma, colonizza l'immaginario dei minori, quanto degli 
                  adulti. 
                  Bombardamento quotidiano 
				  
                 Il problema ruota intorno alla cristallizzazione dei ruoli 
                  e degli stereotipi legati all'uno e l'altro sesso, le forme 
                  delle relazioni tra i generi, ma anche e soprattutto alla percezione 
                  stessa della violenza. 
                  Come testimonia Ico Gasparri, riportando quanto emerge dalla 
                  sua attività di sensibilizzazione e formazione rivolta 
                  alle e agli adolescenti, l'atto violento viene distorto e minimizzato, 
                  ricondotto essenzialmente all'atto sessuale, o quanto meno a 
                  un atto colorito di sangue, urla e botte. Solo grazie a un percorso 
                  di presa di coscienza, i ragazzi e le ragazze riescono ad avere 
                  un occhio più attento, sensibile, critico, tale da smascherare 
                  quell'insidia che si cela dietro al fenomeno della “mediatizzazione 
                  del corpo femminile”, affrancandosi dall'effetto normalizzatore 
                  dovuto all'ossessiva “esposizione agli occhi di tutti 
                  di sempre maggiore carne femminile esteticamente conformata 
                  in qualsiasi attività della giornata”. 
                  È dunque attraverso i media che si forma quel senso comune 
                  plasmato, orientato, violentato dal bombardamento quotidiano 
                  di rappresentazioni distorte e discriminatorie, facendo leva 
                  su un piano simbolico in maniera così profonda da divenire 
                  mezzo di propagazione del backlash (attacco alle donne, 
                  concetto coniato dalla giornalista statunitense Susan Faludi). 
                  Il danno più grave, dunque, è riconducibile alla 
                  colonizzazione del nostro immaginario, concetto introdotto da 
                  Augè in La guerra dei sogni. Se lo scontro tra 
                  i popoli è spesso accompagnato dall'urto tra immagini, 
                  “analogamente si può sostenere che anche lo scontro/incontro 
                  fra i generi non può che giocarsi anche sul terreno delle 
                  immagini”, osserva Anna Lisa Tota in Gender e media 
                  (Molteni editore, Roma, 2008). “In tale prospettiva 
                  l'immaginario appare come magazzino simbolico a cui attingere 
                  per dare senso alle identità, per elaborare le rappresentazioni 
                  sociali con cui misurarsi nella quotidianità. I mutamenti 
                  che investono tale sfera, lungi dall'essere accessori o marginali, 
                  sono destinati ad avere ripercussioni profonde sull'assetto 
                  complessivo di un dato contesto sociale”. Questo è 
                  il vero problema: l'immaginario è faccenda davvero complicata, 
                  è granitico e infido, e i cambiamenti sono troppo lenti. 
                  Lungi dal pensare che vi sia dietro il disegno di una qualche 
                  società segreta che ci vuole tutti sessuopatici, c'è 
                  però una certa coerenza tra le rappresentazioni mediatiche, 
                  i discorsi politici e la cultura popolare italiana. 
                  Questo sodalizio tra immagini e linguaggio opera un rafforzamento 
                  simbolico dei ruoli e dei comportamenti rappresentati, facendoli 
                  apparire come comunemente condivisi e socialmente accettati 
                  e influenzando profondamente l'esistenza di tutte e di tutti, 
                  fino a sfociare nelle mille ingiustizie, discriminazioni e violenze, 
                  che le donne subiscono quotidianamente. 
                  Il grave rischio, infatti, è che la discriminazione sul 
                  piano simbolico che operano costantemente i media, ne alimenta 
                  una reale.
                  Francesca Cuccarese 
                
                   
                    Il test di Bechdel 
                         
                        Il test di Bechdel, ideato da Alison Bechdel, autrice di fumetti 
                  dedicati al mondo lesbico, sono dei requisiti che servono a 
                  valutare (secondo l'ottica del personaggio che li presentava 
                  nel fumetto) se un film valeva la pena di essere visto o meno. 
                  I requisiti sono: 
                  1. Devono esserci almeno due donne; 
                  2. Le due donne devono comunicare tra loro; 
                  3. A proposito di qualcosa che non sia un uomo. 
                  Un ulteriore requisito che si è aggiunto in seguito è 
                  che le donne abbiano un nome. 
                        In apparenza questi requisiti sembrano abbastanza facili 
                        da soddisfare, tuttavia si può vedere (bechdeltest.com) 
                        che sono moltissimi i film che non passano il test, da 
                        Pirati dei Caraibi a Fight Club, da Midnight 
                        in Paris a Shrek, e tanti altri.  | 
                   
                 
                 
                   
                
  donne e violenza
                  Dare un nome alle cose 
                   
                  di Milena Scioscia                  
				Italia, 2012: 124 donne uccise, 
                  più 47 tentati omicidi. Dieci al mese. Una ogni tre giorni. 
                  Un paio di articoli di cronaca, ed è finita. 
                  Christine Ockrent ha pubblicato un testo dal titolo eloquente: 
                  Il libro nero della donna. Violenze, soprusi, diritti negati 
                  (Cairo Editore, Milano, 2007). Il volume presenta quasi novecento 
                  pagine di sguardi sulla condizione femminile globale, interpretati 
                  attraverso l'ottica dei cinque principi del genere umano individuati 
                  nella Carta dei diritti della Comunità Europea: sicurezza, 
                  integrità, giustizia, libertà, dignità. 
                  L'obiettivo dell'autrice è denunciare quali sono le reali 
                  condizioni delle donne in un contesto globale, al fine di poter 
                  individuare gli strumenti di lotta più efficaci e mirati 
                  a migliorarle fattivamente. Ovunque si ponga, questo sguardo 
                  sulle donne si fa cupo e inquietante: “Esse sono, molto 
                  semplicemente, inferiori. Impure. Buone soltanto a essere sottomesse, 
                  sfruttate, picchiate, violentate, comprate, ripudiate. Creature 
                  di cui si può disporre a proprio piacimento. Destinate 
                  al silenzio, all'oblio. Disprezzabili, insomma, e prive di dignità”. 
                  Il gap più desolante nella conquista di spazi di autodeterminazione 
                  e libertà è nella disparità tra sfera pubblica 
                  e privata. Il quotidiano, il vicino, il privato, sono ancora 
                  zone d'ombra; in Occidente è la sofferenza di esser nate 
                  donne ad aggravare tutte le altre, e questa realtà viene 
                  quotidianamente celata, manipolata, strumentalizzata agli occhi 
                  dell'opinione pubblica, con obiettivi propagandistici e politici. 
                  Il punto di partenza è senz'altro la consapevolezza contemporanea 
                  delle discriminazioni di cui tutte le donne al mondo sono state 
                  e sono vittime, incipit necessario per elaborare nuove concezioni 
                  politiche, interpretative, giuridiche, costruite sul binomio 
                  “uguaglianza e diversità”. 
                  Amartya Sen indica nel suo Many faces of gender inequality 
                  “le sette facce della disuguaglianza” che non permettono 
                  una vita veramente umana per le donne in molti paesi del mondo: 
                  disuguaglianza nella sopravvivenza, nella natalità, nelle 
                  opportunità di base, nella proprietà, nella distribuzione 
                  di benefici, nei carichi domestici, nella dimensione professionale. 
                  Neologismo controverso 
                 L'album fotografico che emerge dall'incrocio di queste analisi 
                  è agghiacciante: alcune tra le forme di violenza perpetrate 
                  su donne e bambine risultano essere l'infanticidio, il feticidio, 
                  lo stupro come strategia di guerra, i delitti d'onore, la lapidazione, 
                  le mutilazioni genitali, passando dalle quotidiane violenze 
                  coniugali, dalle discriminazioni in ambito lavorativo, salariale, 
                  familiare, sociale ed educativo, fino allo sconcertante fenomeno 
                  del femminicidio. 
                  “È la prima causa di morte violenta in Italia per 
                  le donne tra i 16 e i 44 anni”, dice Rashida Manjoo, la 
                  relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro 
                  le donne, citando i dati dell'Organizzazione mondiale della 
                  sanità. La prima causa di uccisione delle donne nel mondo 
                  è l'omicidio da parte di persone conosciute. La prima 
                  causa di morte delle donne. Più del cancro, più 
                  degli incidenti stradali. 
                  Femminicidio è un neologismo ed è una brutta parola: 
                  significa la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale 
                  della donna in quanto tale, in quanto donna. Avviene per fattori 
                  esclusivamente culturali: il considerare la donna una res 
                  propria può far sentire l'aguzzino legittimato a 
                  decidere sulla sua vita. 
                  L'antropologa messicana Marcela Lagarde, considerata la teorica 
                  del femminicidio, lo definisce “la forma estrema di violenza 
                  di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi 
                  diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie 
                  condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, 
                  sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, 
                  comunitaria, istituzionale – che comportano l'impunità 
                  delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto 
                  dallo stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa 
                  e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo 
                  di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta 
                  di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche 
                  e psichiche comunque evitabili, dovute all'insicurezza, al disinteresse 
                  delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia” 
                  (si veda anche l'articolo http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-femminicidio-2/). 
                  È un termine coniato ufficialmente per la prima volta 
                  nel 2009 con la sentenza Campo Algodonero, storica non solo 
                  perché per la prima volta riconosce una identità 
                  giuridica propria al concetto di femminicidio quale omicidio 
                  di una donna per motivi di genere e quale violazione dei diritti 
                  umani, ma anche perché è stata emessa quando, 
                  per la prima volta nella storia della Corte interamericana, 
                  a presiedere l'organo giudicante era una donna, la magistrata 
                  Cecilia Medina Quiroga. 
                  Con questa sentenza il Messico è stato condannato dalla 
                  Corte interamericana dei diritti umani per le donne violentate 
                  e uccise dal 1993 nella totale indifferenza delle autorità 
                  di Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua, al confine tra Messico 
                  e Stati Uniti. 
                  Qui i corpi delle donne venivano barbaramente e impunemente 
                  seviziati, torturati, assassinati, straziati, abbandonati, buttati 
                  nella spazzatura o sciolti nell'acido. 
                  Dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e 
                  più di 650 stuprate, torturate e poi uccise e abbandonate 
                  ai margini del deserto. 
                  Il tutto nel disinteresse delle istituzioni, con la complicità 
                  della politica e della criminalità organizzata, attraverso 
                  la possibilità di insabbiamento delle indagini esacerbata 
                  dalla cultura machista dominante e da leggi che non prevedevano 
                  lo stupro coniugale come reato, concedendo la non punibilità 
                  nei confronti dello stupratore che avesse sposato la donna violata. 
                  Secondo le denunce si sono macchiati di questi orrori anche 
                  uomini delle forze dell'ordine e, laddove non direttamente, 
                  attraverso quella forma di omertà che permette anche 
                  al nostro paese di mantenere un primato da guerra civile. Certo, 
                  in Italia non siamo arrivati a questi livelli. 
                  Un dato però ci pone in classifica dietro al Messico: 
                  se là il 60 per cento delle vittime di femminicidio aveva 
                  già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento, 
                  qui invece una ricerca condotta da Anna C. Baldry ha evidenziato 
                  che più del 70 per cento delle vittime di femminicidio 
                  era già nota per avere contattato le forze dell'ordine, 
                  ovvero per aver denunciato, o per aver esposto la propria situazione 
                  ai servizi sociali. 
                  Un dato che ci accomuna agli altri paesi europei: le ricerche 
                  criminologiche dimostrano che su 10 femmicidi, 7/8 sono in media 
                  preceduti da altre forme di violenza nelle relazioni di intimità. 
                  L'uccisione della donna non è che l'atto ultimo, la punta 
                  dell'iceberg di un continuum di violenza di carattere economico, 
                  psicologico, fisico. 
                  Il termine femicide (femmicidio o femicidio) era già 
                  stato coniato precedentemente dalla criminologa Dian Russell, 
                  per indicare gli omicidi della donna in quanto donna, ma anche 
                  delitti trasversali a tutte le classi sociali: omicidi basati 
                  sul genere, ovvero la maggior parte degli omicidi di donne e 
                  bambine. Non si riferisce cioè soltanto agli omicidi 
                  di donne commessi da parte di partner o ex partner, ma anche 
                  delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio 
                  che viene loro imposto, o il controllo ossessivo sulle loro 
                  vite e sulle loro scelte sessuali, delle donne uccise dall'Aids 
                  contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto 
                  con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività, 
                  delle prostitute contagiate dall'Aids e di quelle ammazzate 
                  dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche. Se 
                  vogliamo tornare indietro nel tempo, include anche tutte le 
                  donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo. 
                  La violenza di genere è un fenomeno trasversale. Le vittime 
                  della violenza, così come gli autori della violenza, 
                  sono di tutte le età e di tutte le professioni, e gran 
                  parte della violenza avviene in famiglia, per mano di un partner 
                  o marito, spesso dinanzi ai figli. 
                  È un errore pensare che la violenza alle donne si verifichi 
                  solo in ambienti in cui ci sia qualche disagio sociale, o povertà 
                  culturale. Nessuna società o cultura ne è immune. 
                  La violenza colpisce le donne in ogni parte del mondo, nella 
                  sfera pubblica come in quella privata, in tempo di pace o durante 
                  i conflitti. Esiste una dimensione sociale della violenza alle 
                  donne perché essa attiene a profonde motivazioni culturali 
                  e ai modelli di relazione tra generi: la violenza altro non 
                  è che un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente 
                  dominante, a cui sono da sempre stati concessi privilegi. 
                  Un modo per riappropriarsi di un potere. 
                  “Il termine femminicidio viene adottato da subito con 
                  un preciso significato politico, per indicare le violenze 
                  di stampo misogino o sessista degli uomini e delle istituzioni 
                  maschili sulle donne: un nome nuovo per una storia vecchia quanto 
                  il patriarcato” spiega Barbara Spinelli, autrice di Femminicidio. 
                  Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale 
                  (Franco Angeli editore, Milano, 2008). 
                  Marcela Lagarde sostiene che la cultura rafforza in mille modi 
                  la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è 
                  qualcosa di naturale: attraverso una proiezione permanente di 
                  immagini, dossier, spiegazioni che la legittimano, ci troviamo 
                  educati ad una violenza illegale ma legittima. Questo è 
                  uno dei punti chiave del femminicidio. 
                  Il femminicidio secondo Marcela Lagarde è quindi un problema 
                  strutturale, che va al di là degli omicidi delle donne, 
                  e riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere 
                  che sono in grado di annullare la donna nella sua identità 
                  e libertà; non soltanto fisicamente, ma anche nella loro 
                  dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione 
                  alla vita pubblica. 
                  Ogni qualvolta le donne reclamano il riconoscimento di diritti, 
                  sociali, politici, lavorativi, riproduttivi, a questa richiesta 
                  corrisponde una maggiore negazione di libertà e di autodeterminazione 
                  da parte di chi esercita il potere, fino a una escalation di 
                  violenza atta a conservare e a ricondurre la donna nella sua 
                  dimensione “naturale”, di soggetto controllabile. 
                  A un mese di distanza dall'assassinio della difensora dei diritti 
                  umani Marisela Escobado, un altro femminicidio ha insanguinato 
                  la città di Juarez: il brutale omicidio della poeta e 
                  attivista Susana Chávez, ideatrice negli anni '90 del 
                  progetto Ni una muerta más, in difesa delle donne di 
                  Ciudad Júarez. Il femminicidio di Susana Chávez, 
                  il primo dall'inizio dell'anno, si aggiunge ai 466 omicidi di 
                  donne del 2010. 
                  Dal privato al politico 
                 In Europa si parla di femminicidio ignorando l'elaborazione 
                  teorica e politica, le pratiche cioè del movimento delle 
                  donne che hanno fatto di questo neologismo uno strumento di 
                  interpretazione del reale e di decostruzione del patriarcato 
                  in America Latina, rendendolo categoria di analisi della discriminazione 
                  contro le donne in chiave sessuata. 
                  Qui inizia la storia sconosciuta ai più. 
                  Le donne messicane, attiviste, femministe, accademiche, giornaliste, 
                  grazie alla loro attività di denuncia della responsabilità 
                  istituzionale per il perdurare di questi crimini e di tutte 
                  le violazioni dei diritti umani subite dalle donne che continuavano 
                  a restare impunite, sono riuscite a far eleggere Marcela Lagarde 
                  parlamentare. 
                  Le categorie di analisi proprie delle donne per interpretare 
                  la realtà (sociale, politica, scientifica) nascono con 
                  la categoria di analisi del genere. Sono quindi proprio 
                  queste categorie a descrivere le relazioni tra uomini e donne, 
                  non in termini di differenza sessuale, ma di potere gerarchico, 
                  sociale e politico, così come la storia del movimento 
                  femminista italiano ci spiega bene. 
                  Con il termine “femminicidio” intendiamo quindi 
                  ogni esercizio di potere sulla psiche o sul corpo di una donna 
                  volto ad annientarla perché non assomiglia a quello che 
                  l'uomo o la società vorrebbero che fosse, perché 
                  la donna esercita la sua libera determinazione “rompendo 
                  gli schemi”, ribellandosi al ruolo sociale di moglie, 
                  figlia, amante, suora, puttana, ruolo attribuitole dagli uomini 
                  “a loro immagine” in una società patriarcale. 
                  Ed è stato l'emergere dal privato al pubblico, e di conseguenza 
                  al politico, ad aver reso possibile l'accomunare questi fatti 
                  di violenza tanto diversi, dal Messico all'Italia, sotto uno 
                  stesso nome. 
                  Alcune femministe in Italia sono contrarie all'uso del termine 
                  politico femminicidio, poiché sostengono che inchioda 
                  “l'intero genere femminile al ruolo di vittima sacrificale”. 
                  Una ulteriore violenza sottile, invisibile, si reitera quando 
                  su molti articoli, saggi, pubblicazioni, interpellanze a cura 
                  di ministre, vengono poste numerose virgolette intorno al termine 
                  femminicidio, e si preferisce l'uso di parole altre, debitamente 
                  virgolettate: “strage delle innocenti” (Barbara 
                  Pollastrini), “ginocidio”, “emergenza per 
                  le donne”, “mattanza”, quasi che il termine 
                  fosse “l'ultima moda femminista”. L'appiattimento 
                  semantico e il capriccio linguistico sviliscono così 
                  un dibattito complesso, un ragionamento critico femminista sul 
                  fatto che le donne non muoiono per caso, generando la negazione 
                  di una nuova prospettiva di analisi di genere del fenomeno. 
                  Non è solo l'uomo a uccidere: è l'ideologia patriarcale 
                  che uccide, riprodotta da donne, uomini, istituzioni. 
                  Parlare di femminicidio implica riconoscere le nuove forme di 
                  patriarcato, specialmente in un paese in cui si riscontra un'assoluta 
                  mancanza di dati in proposito. 
                  Anche in Italia, il 18 marzo 2008 si è parlato di femminicidio 
                  in un'aula di tribunale. A presidiare c'erano le donne del movimento 
                  femminista locale (Rete delle donne umbre e Sommovimento femminista 
                  di Perugia) e nazionale (Rete nazionale femministe e lesbiche), 
                  che rivendicavano la matrice culturale del femminicidio di Barbara 
                  Cicioni, donna giovane e autonoma, imprenditrice e madre di 
                  due bambini, strangolata dal marito all'ottavo mese di gravidanza. 
                  Al processo sono state ammesse come parti civili ben cinque 
                  associazioni, di cui due per la difesa dei diritti umani. 
                  Per la prima volta in Italia il femminicidio viene riconosciuto 
                  come violazione dei diritti umani: la violenza domestica e l'uccisione 
                  finale di Barbara Cicioni, e quindi di una donna, costituiscono 
                  non più un fatto privato, né un fatto di donne, 
                  bensì una ferita per la società tutta che, nel 
                  momento in cui alla donna non viene riconosciuta la sua dignità 
                  di essere umano e di persona, e per questo viene discriminata, 
                  violata, uccisa, è collettivamente responsabile dell'eliminazione 
                  della cultura e degli stereotipi che ne minano l'autodeterminazione, 
                  la libertà, la vita stessa. 
                  Parlare dunque di vittime di femminicidio con una certa riluttanza 
                  è sintomo di una perdurante difficoltà della società 
                  italiana ad affrontare la questione? È un'altra tattica 
                  di occultamento? 
                  La sororidad, il termine di sorellanza usato dalle femministe 
                  latino-americane, c'è solo se c'è un atto politico, 
                  una pratica di lotte, dove si può essere vittime di femminicidio 
                  in un contesto politico che non teme di nominarti, che ti riconosce 
                  in quanto tale, che ti sostiene. 
                  Dare un nome alle cose è essenziale per comprenderle 
                  e per evitare che si trasformino in pericolosi tabù; 
                  dare un nome a un problema significa riconoscerlo come tale, 
                  divenire consapevoli della sua esistenza, scegliere di agire 
                  per contrastarlo. 
                  Violenza di genere 
                 Con il termine violenza, l'antropologa francese Françoise 
                  Héritier intende “ogni costrizione di natura fisica, 
                  o psichica, che porti con sé il terrore, la fuga, la 
                  disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o 
                  ancora, qualunque atto intrusivo che abbia come effetto volontario 
                  o involontario l'espropriazione dell'altro, il danno o la distruzione 
                  di oggetti inanimati”. 
                  Si tratta di imporre la propria volontà all'altro, di 
                  dominarlo usando una serie di mezzi quali molestie, umiliazioni, 
                  svalorizzazioni, fino alla capitolazione e alla sottomissione 
                  della vittima. Volontaria o meno, la violenza si costituisce 
                  come atto consapevole e intenzionale, volto a dominare 
                  l'altro con una moltitudine di mezzi, in un rapporto di forza, 
                  in una relazione asimmetrica. 
                  Il termine violenza di genere è usato da molto 
                  tempo dalle persone che fanno parte di associazioni di donne 
                  e che lavorano nel settore, poiché delinea una forma 
                  di violenza esercitata specificatamente contro il genere femminile 
                  da parte del genere maschile, con gli obiettivi di mantenere 
                  e perpetrare una cultura patriarcale millenaria, fondata su 
                  una storica disuguaglianza tra i sessi, attraverso atti discriminatori 
                  e di prevaricazione, che affondano le proprie radici di giustificazione 
                  sociale nel senso del possesso. 
                  Molto prima che il termine femminicidio venisse comunemente 
                  (ma non sempre consapevolmente) utilizzato dai mass media, la 
                  violenza di genere già lo includeva. 
                  Acclude forme di violenza molto diversificate: la violenza che 
                  si consuma quotidianamente tra le mura domestiche ai danni di 
                  mogli (e figli, testimoni e quindi anch'essi vittime della stessa 
                  violenza), la lapidazione come pena di morte prevista per il 
                  reato di adulterio nella Shari'a, le mutilazioni genitali 
                  femminili, largamente compiute e accettate da intere comunità, 
                  il turismo sessuale minorile, a cui si aggiungono i danni di 
                  dipendenza e malattia causati dall'uso di steroidi finalizzati 
                  a rendere più appetibili e carnose le bambine, i delitti 
                  d'onore e quelli perpetrati per dote, lo stupro come arma 
                  di guerra, la morte per hiv delle donne africane, strette 
                  e costrette tra abusi sessuali, violenze domestiche e il ripudio 
                  dopo il contagio, il “suicidio” delle vedove indù 
                  nella pira funebre del marito, l'infanticidio femminile per 
                  cui il premio Nobel Amartia Sen denunciò nel 1990 l'assenza 
                  all'appello di circa 100 milioni di donne nella sola Asia. Stime 
                  più recenti ne hanno aggiunti altri 17 milioni. 
                  Il termine è attualmente adottato a livello istituzionale, 
                  e nelle conferenze mondiali sui diritti umani è stato 
                  riconosciuto in qualità di violazione a tali diritti 
                  fondamentali. La pratica della violenza contro le donne riflette 
                  un modello basato su un'idea della virilità in cui l'elemento 
                  fondamentale è l'esercizio della forza fisica, della 
                  volontà/diritto dell'affermazione di sé, della 
                  superiorità da raggiungere. 
                  Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una presa di posizione 
                  precisa da parte degli organismi internazionali nei confronti 
                  del tema della violenza sulle donne e da tutti i documenti emerge 
                  chiaramente che il concetto di violenza è un'espressione 
                  culturale figlia della storica relazione di potere tra il genere 
                  maschile e femminile. La violenza di genere è la violenza 
                  contro le donne in quanto rappresentanti di uno status 
                  subordinato nella società. La violenza contro le donne 
                  non è solo il frutto di un'aggressione individuale; la 
                  dimensione sociale della violenza sulle donne attiene a profonde 
                  motivazioni culturali: essa è la modalità maschile 
                  per riappropriarsi di un ruolo a cui sono stati da sempre concessi 
                  privilegi, è lo strumento utilizzato per riaffermare 
                  con forza la supremazia di un genere sull'altro. 
                  La violenza di genere include violenza fisica, psicologica e 
                  sessuale, come nella violenza domestica, nello stupro e nell'abuso 
                  intrafamiliare, nella gravidanza forzata, nell'aborto selettivo, 
                  nella disparità nell'accesso a cibo, a cure mediche o 
                  all'educazione, nella schiavitù sessuale, o in pratiche 
                  tradizionali che danneggiano la donna, come ucciderla nel nome 
                  dell'onore, acidificarla, mutilarla, oppure nella prostituzione 
                  coatta, nei matrimoni combinati, nelle aggressioni sessuali, 
                  nelle intimidazioni sul posto di lavoro. Perfino la sfera normativa, 
                  politica e civile hanno giustificato a lungo la supremazia dell'uomo 
                  e quindi l'idea della donna quale “oggetto di proprietà”, 
                  o soggetto di diritto subordinato alla volontà del padre 
                  prima e del marito dopo. Tuttavia, pur essendo cambiate le leggi, 
                  i tempi di mutamento dei modi di pensare sono ben più 
                  lunghi, anche in Italia. 
                  La violenza contro le donne che diventa rivendicazione del controllo 
                  da parte degli uomini trova tra le mura domestiche lo spazio 
                  ideale per attuare tale strategia. Essa assume diverse forme, 
                  a seconda delle società e delle culture, ma la sua esistenza 
                  è un fenomeno, un fatto sociale che è presente 
                  in modo trasversale in tutte le classi sociali, le culture, 
                  le religioni, le situazioni geopolitiche. 
                  La violenza di genere riguarda però la sfera pubblica, 
                  oltre a quella privata; essa può infatti avvenire nella 
                  comunità, oltre ché in famiglia. Nella sfera pubblica 
                  ci sono dei fattori di rischio che in un certo senso sostengono 
                  la violenza contro le donne a vari livelli nella comunità: 
                  a livello politico, a livello legislativo, a livello culturale, 
                  a livello economico. 
                  A livello politico, il fattore di rischio più evidente 
                  è l'impossibilità o la scarsa possibilità 
                  di partecipazione delle donne nei sistemi politici organizzati; 
                  oppure una scarsa rappresentanza femminile nei mezzi di informazione, 
                  nelle professioni mediche e giuridiche. Anche la visione tradizionalista 
                  della famiglia come dimensione privata fuori dal controllo dello 
                  stato è un grave fattore di rischio per la violenza di 
                  genere. 
                  A livello legislativo, i fattori di rischio sono la mancanza 
                  di leggi eque sul divorzio, l'affidamento dei figli o l'eredità, 
                  la non conoscenza dei propri diritti da parte delle donne. Inoltre, 
                  in molti paesi, le donne vivono ancora uno stato giuridico inferiore 
                  rispetto agli uomini e in alcuni paesi non esistono ancora norme 
                  che tutelino le donne dalla violenza domestica, dallo stupro 
                  e da altri reati contro di esse. 
                  A livello culturale inoltre un fattore di rischio molto pericoloso 
                  è quello di ammettere la violenza contro le donne come 
                  modalità per risolvere i conflitti, così come 
                  approvare la netta definizione di ruoli culturali, o sostenere 
                  la credenza che l'uomo abbia il diritto ad una certa proprietà 
                  sulla propria partner, o diffondere messaggi denigratori 
                  e svilenti sul ruolo e sul corpo della donna. 
                  A livello economico infine uno dei fattori di rischio più 
                  gravi è la dipendenza economica delle donne dagli uomini 
                  attraverso forme di restrizione e di scarso accesso alla formazione, 
                  all'occupazione e alla vita politica e sociale, nonché 
                  la presenza di leggi discriminatorie a proposito di diritto 
                  alla dote o all'eredità. 
                  Nonostante l'ampiezza e la gravità del fenomeno, nella 
                  stragrande maggioranza dei paesi lo stato e la società 
                  non riconoscono realmente la violenza contro le donne 
                  come una violazione dei diritti umani, e per questo non attuano 
                  strategie adeguate per contrastarla. 
                 Milena Scioscia 
                
                   
                    Una su tre 
                         
                        Secondo l'unica ricerca nazionale sul fenomeno, fatta dall'Istat 
                  nel 2007 prendendo in considerazione i dati dell'anno precedente 
                  sono 6,743 milioni le donne tra i 16 e i 70 che, almeno una 
                  volta nella vita, sono state vittime di violenza, fisica o sessuale; 
                  ovvero il 31,9% della popolazione femminile: una donna su tre. 
                  Le donne uccise nel 2006 sono state 101; 
                  nel 2007 107; 
                  nel 2008 118; 
                  nel 2009 119; 
                  nel 2010 127; 
                  nel 2011 137 
                  Secondo l'Osservatorio nazionale sullo stalking circa il 10% 
                  degli omicidi avvenuti in Italia dal 2002 al 2008 ha avuto come 
                  prologo atti di stalking. L'80% delle vittime è di sesso 
                  femminile e la durata media delle molestie insistenti è 
                  di circa un anno e mezzo.  | 
                   
                 
                
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