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				 pensiero 
                 
				Guardando il mondo alla rovescia 
                  
                di Giorgio Barberis 
                    
                Una riflessione su Ivan Illich e sull'attualità del suo pensiero a dieci anni dalla morte. 
                
                La perdita dei “sensi” 
                Durante l'estate precedente la sua morte, avvenuta a Brema 
                  il 2 dicembre 2002, Ivan Illich ha lavorato alla revisione della 
                  sua ultima opera, intitolata La perdita dei sensi1, 
                  che si incentra sulla denuncia di una realtà sempre più 
                  astratta e dominata da regolamenti tecnici e dalle scelte di 
                  sedicenti esperti, che alienano la libertà di 
                  ciascun individuo e annullano la possibilità di scelta. 
                  Nell'introduzione ai saggi che compongono il volume egli scrive: 
                  “Mi batto per una rinascita delle pratiche ascetiche, 
                  allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate 
                  dallo ”show“, in mezzo a informazioni schiaccianti, 
                  a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione 
                  terapeutica, all'invasione dei consiglieri, alle cure terminali, 
                  alla velocità che toglie il respiro”. 
                  Nell'arco di gran parte della propria riflessione teorica, come 
                  vedremo, Illich sviluppa e articola un'aspra critica al processo 
                  di istituzionalizzazione, che nato dall'esigenza di rispondere 
                  a bisogni diffusi, a poco a poco li cristallizza, perpetuando 
                  un sistema di organizzazione sociale finalizzato essenzialmente 
                  a ipostatizzare strutture di potere. 
                  Nella sua introduzione a un altro testo illichiano, Disoccupazione 
                  creativa2, Roberto Mordacci 
                  osserva: “Nel sistema basato sulla professionalizzazione 
                  delle funzioni essenziali, il cittadino del mondo civilizzato 
                  è espropriato della propria capacità di fare da 
                  sé ciò che altrimenti saprebbe fare benissimo: 
                  costruirsi una casa, curare le patologie più semplici, 
                  istruirsi, gestire le proprie controversie giuridiche e politiche, 
                  muoversi da un luogo all'altro; tutte queste attività 
                  sono state requisite, sottratte all'abilità personale 
                  e monopolizzate da professionisti del settore”, contro 
                  i quali Illich polemizza costantemente3. 
                  Perfino la carità, principio fondante del cristianesimo, 
                  così come pure – più in generale – 
                  di ogni forma di relazione umana, si istituzionalizza, si pietrifica 
                  o si mercifica, dando luogo a un mondo capovolto, iniquo, perverso. 
                  Illuminanti le riflessioni di Illich, in conversazione con David 
                  Cayley, sul pervertimento del cristianesimo e sul processo di 
                  istituzionalizzazione che ha coinvolto anzitutto la Chiesa. 
                  Essa, a poco a poco, ha snaturato il messaggio originario – 
                  il dono incondizionato di sé e l'apertura totale all'altro 
                  da parte del fedele – e ha dato vita a un sistema gerarchico 
                  di potere e di controllo sociale. L'amore al di sopra della 
                  legge diviene esso stesso Legge, obbligo morale e poi giuridico, 
                  infine – estremo paradosso – strumento di limitazione 
                  della libertà, e dunque di oppressione di chi non vi 
                  si adegua. In pieno Medioevo, essenzialmente con il Dictatus 
                  Papae di Gregorio VII, la Chiesa, “società 
                  perfetta”, strutturata gerarchicamente e indipendente 
                  da ogni altra autorità, getta i semi dello stato moderno. 
                  La sovranità di Dio, la sua dichiarata onnipotenza, vengono 
                  assunte come modello di dominio dell'uomo sull'uomo e sulla 
                  natura; un dominio che non ammette limiti. La logica strumentale, 
                  di cui i “sacramenti” sono un chiaro segno, non 
                  ha più alcun argine. E quando ciò che rappresenta 
                  il meglio si corrompe, si hanno le conseguenze peggiori 
                  (citando Gregorio Magno, corruptio optimi pessima), come 
                  il degrado odierno mostra impietosamente4. 
                Originalità di un pensiero critico 
                 Autore straordinariamente versatile, uomo di Chiesa sempre 
                  inquieto e intellettualmente libero, Illich nelle sue opere 
                  ha tracciato percorsi innovativi per la scuola, la sanità, 
                  lo studio e la tutela dell'ambiente, la scienza, l'economia 
                  e l'analisi dei fenomeni politici, in particolare in due direzioni. 
                  Da un lato, la fondazione nel 1966 a Cuernavaca del Cidoc, un 
                  ricchissimo centro di documentazione interculturale dove vengono 
                  raccolti cospicui lavori sulle società e sulle tradizioni 
                  popolari latinoamericane e, contestualmente, documenti e materiali 
                  di approfondimento sullo sviluppo e sul funzionamento delle 
                  grandi agenzie e istituzioni globali. Dall'altro lato, l'idea 
                  di una società conviviale, che si propone come 
                  alternativa praticabile all'ideologia dello sviluppo illimitato 
                  e agli effetti perversi del capitalismo maturo, che Illich – 
                  nei suoi testi sicuramente discutibili ma sempre di grande interesse, 
                  anche nel loro approdo paradossale – ha analizzato e denunciato 
                  con mirabile lucidità e con uno stile nel contempo brillante 
                  e asciutto, un argomentare acuto e spiazzante, e la capacità 
                  – come giustamente ha scritto Filippo Trasatti5 
                  – di “guardare il mondo alla rovescia” senza 
                  alcun timore, distruggendo certezze e dando vita ad un pensiero 
                  critico, da cui in tanti hanno potuto attingere. 
                  Non soltanto il nascente ecologismo, gli ambienti terzomondisti 
                  e il movimento studentesco degli anni settanta del novecento, 
                  ma anche gran parte di quegli autori che, in opposizione al 
                  progetto di estendere la logica di mercato ad ogni possibile 
                  settore, compresi tutti i beni comuni disponibili in natura, 
                  propongono oggi di dare maggior spazio e concretezza a una politica 
                  economica ambientalista, a una società del dopo-sviluppo 
                  e della decrescita (volontaria, consapevole, felice), ispirata 
                  da criteri di equità, dalla comprensione della finitezza 
                  delle risorse naturali e da un forte senso di responsabilità 
                  nei confronti del proprio ambiente e delle generazioni presenti 
                  e future. Un'idea con alcuni tratti di ingenuità, e che 
                  richiederebbe un serio approfondimento anche genealogico6, 
                  ma certamente utile a decostruire almeno parzialmente un discorso 
                  pubblico che rimane ancorato al feticcio della crescita e del 
                  profitto ad ogni costo, e incapace di reagire alle devastanti 
                  criticità che segnano il nostro tempo, in cui, tra emergenze 
                  ecologiche, instabilità politica e socio-economica, atten-tati 
                  terroristici e guerra globale, predominano complessità 
                  e incertezza7. 
                La perversione del capitalismo maturo 
                 Ivan Illich, come detto, ha sempre aspramente criticato l'ideologia 
                  dello sviluppo senza limiti e gli effetti perversi, controproduttivi, 
                  del sovrasviluppo industriale, dimostrando la necessità 
                  di un'austerità equilibratrice e gioiosa8. 
                  Nei suoi testi più noti egli ha implacabilmente denunciato 
                  il cortocircuito del sistema produttivo del capitalismo avanzato, 
                  in cui lo strumento industriale ha da tempo superato quella 
                  soglia critica che lo rende, appunto, contro-producente. 
                  Così, in Energy and equity (1974) si mostra come 
                  la diffusione universale dei mezzi di trasporto riduca la velocità 
                  media degli spostamenti9. In 
                  Deschooling society (1971) è argomentata la tesi 
                  secondo la quale la professionalizzazione del sapere amplifica 
                  disuguaglianze ed esclusione e lo sviluppo di un sistema scolastico 
                  obbligatorio e uniforme annulla lo spirito critico e crea consumatori 
                  di cultura docili e disciplinati10. 
                  In Medical nemesis (1976) si evidenzia come l'ipermedicalizzazione 
                  privi gli individui del controllo sulla propria salute, causando 
                  una dipendenza “patologica” da mezzi tecnici in 
                  continua evoluzione, sempre più sofisticati ma anche 
                  inefficienti11. Più in 
                  generale, le argomentazioni illichiane riescono a dimostrare 
                  come l'eccesso di produttività generi crisi economiche 
                  e il progresso tecnico isterilisca le capacità intellettuali. 
                  Particolarmente noto il testo sulla descolarizzazione della 
                  società, che ha dato luogo a un ampio e vivace dibattito, 
                  con alcune adesioni entusiastiche ma anche con molte critiche. 
                  Convinto che il sistema educativo occidentale fosse ormai al 
                  collasso, schiacciato dal peso della burocrazia, dei dati e 
                  delle statistiche insignificanti e del culto della specializzazione, 
                  Illich si schierò contro i diplomi, i certificati, le 
                  lauree, e soprattutto contro l'istituzionalizzazione e l'omologazione 
                  dell'imparare. Egli si spinse a sostenere – forse anche 
                  riflettendo sulla propria esperienza educativa – che un 
                  adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di dodici 
                  anni di scuola dell'obbligo dai programmi standardizzati in 
                  uno o due anni al massimo. 
                  Ma ormai siamo tutti parte di un “sistema” cibernetico 
                  fuori dal nostro controllo, che ci disincarna in un'eterea virtualità 
                  e ci allontana dal reale sentire il nostro prossimo. Di qui 
                  l'importanza di ricostruire una storia della conoscenza, intesa 
                  nel senso più ampio possibile, e delle sue progressive 
                  trasformazioni. Dalla consapevolezza istintiva della “conformità” 
                  delle cose a un ordine cosmico, essa si piega via via a finalità 
                  puramente strumentali e all'idea di un progresso senza limiti 
                  del tutto chimerica, per giungere infine all'attuale crollo, 
                  ancora da decodificare compiutamente. Ecco dunque l'esigenza 
                  di “prendere le distanze”, di osservare la “tecnologia 
                  culturale occidentale” con il dovuto distacco, e di volgere 
                  lo sguardo altrove, sia dal punto di vista geografico (come 
                  avveniva al Cidoc, e come Illich cercò di fare concretamente, 
                  trascorrendo lunghi periodi in India e in Estremo Oriente) sia 
                  dal punto di vista storico12. 
                Per un'autentica emancipazione umana 
                 Fondamentale per questa prospettiva critica è la capacità 
                  di guardare il mondo con gli occhi dell'altro, respingendo 
                  sia la crescente omologazione culturale e la condivisione forzata 
                  di stili di vita e di consumo imposti dal dominio commerciale, 
                  militare e ideologico dell'Occidente, sia la rivendicazione 
                  di micro-identità esclusive ed escludenti, spesso costruite 
                  in modo strumentale per sostenere un atteggiamento di chiusura, 
                  di diffidenza verso tutto ciò che è diverso. 
                  Un improbabile radicamento a luoghi, tradizioni, culti, ideologie, 
                  che risponde all'esigenza di contenere la sensazione di minaccia 
                  e disorientamento, riducendo arbitrariamente gli elementi di 
                  complessità, ma che costituisce una risposta artefatta, 
                  inefficace, deludente. Occorre, invece, interpretare correttamente 
                  la nostra epoca e comprendere che non ci sono verità 
                  assolute da difendere o da esportare con le armi in pugno, ma 
                  solo il bisogno di costruire un nuovo pensiero critico e aperto, 
                  vie originali da scoprire e per-correre insieme, spazi di discussione, 
                  condivisione, autogestione, da moltiplicare quanto più 
                  possibile. Contro il monologo dell'Occidente e contro ogni logica 
                  della purezza, la retorica dei Noi contrapposti a Loro, 
                  contro steccati e barriere, ostilità, pregiudizi e chiusure, 
                  si dovrebbe alfine comprendere che è proprio nell'incontro 
                  con l'altro, nella relazione, che si può trovare 
                  la migliore risposta al disordine globale. Una difesa del meticciato, 
                  dell'ibridazione, che diviene ancora più preziosa oggi 
                  in tempi di chiusure culturali e di mu- scolari esaltazioni 
                  del dogma, pesantemente gravati, soprattutto dopo gli attentati 
                  terroristici dell'11 settembre 2001, da ossessioni paranoiche, 
                  da un persistente e onnipervasivo senso di minaccia, da manie 
                  di persecuzione diffuse su scala mondiale e da un egoriferimento 
                  ipertrofico di opposti fondamentalismi13. 
                  Qui ci viene in soccorso ancora una volta Ivan Illich, con la 
                  sua idea di convivialità, di apertura incondizionata 
                  all'altro, che non è stata solo una proposta teorica 
                  originale, ma anche autentica pratica esistenziale. È 
                  noto, infatti, come l'aspetto conviviale fosse fortemente valorizzato 
                  da Illich, che cercava il più possibile l'incontro, lo 
                  scambio diretto con i propri interlocutori, al di fuori delle 
                  ingessate ritualità accademiche. Le conversazioni attorno 
                  alla tavola insieme a lui erano spesso il momento più 
                  alto di confronto culturale ed elaborazione teorica, in un clima 
                  di ascolto, armonia e condivisione vera, raccontato con nostalgia 
                  ed emozione da tutti coloro che ebbero la fortuna di parteciparvi14. 
                  Conversazioni e riflessioni che ci pare abbiano come tratto 
                  comune un'idea di autentica emancipazione umana e di costruzione 
                  di una vera autonomia dell'individuo all'interno di una comunità 
                  conviviale. Illich è un autore radicalmente rivoluzionario, 
                  la cui lezione in fondo ci dice questo: bisogna imparare a gestire 
                  l'incertezza e l'assenza di punti di riferimento costanti nel 
                  tempo, senza però rinunciare all'aspirazione di trasformare 
                  in profondità l'attuale assetto sociale, sottraendosi 
                  al dominio di un sistema economico che si autorappresenta come 
                  assoluto ed eterno e di un sistema politico fragile e delegittimato, 
                  riuscendo finalmente a coniugare il pieno riconoscimento dell'individualità 
                  e della singolarità con il bisogno di inter- connessione 
                  e di ricostruzione di un saldo legame sociale, e ritrovando 
                  il gusto e il senso di una libertà che sia davvero autonomia 
                  e di relazioni autentiche ispirate ai principi di cooperazione 
                  e reciprocità. 
                  Questa la speranza che ci deve muovere, significativamente l'unica 
                  condizione umana a non uscire subito dal vaso di Pandora insieme 
                  a tutti i mali in esso contenuti, e chiamata anzi a mitigarne 
                  i catastrofici effetti diffusi per ogni dove. La speranza è 
                  cosa ben diversa dall'aspettativa, che vive solo nel 
                  futuro: essa non lo nega, ma semplicemente non se ne cura, essendo 
                  chiamata a vivere il presente nella sua presenza e a non lasciare 
                  spazio alle ansie, alla paura, all'attesa di qualcosa che potrebbe 
                  non arrivare mai. L'uomo non è l'automa piegato dal processo 
                  di istituzionalizzazione, dalla cultura omologante e dalla comunicazione 
                  vuota e autoreferenziale, ma un soggetto vitale, creativo, libero 
                  nel proprio legame conviviale con la comunità e perfetto 
                  nella propria incompiutezza15. 
                  Il rimedio al senso di impotenza che l'epoca della complessità 
                  costantemente amplifica non è affatto quello di tornare 
                  a vivere nelle tenebre – come troppi detrattori di Illich 
                  e dei suoi epigoni hanno stigmatizzato –, bensì 
                  quello di “portare una candela nelle tenebre”, di 
                  essere una fiammella di luce e di speranza, di giustizia, amore 
                  e libero pensiero.
                  Giorgio Barberis
                 Note 
                 
                  - I. Illich, La perte des sens, Fayard, Paris 2004, tr. 
                  it., La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, 
                  Firenze 2009.
                  
 - I. Illich, The Right to Useful Unemployment and its Profesional 
                  Enemies, Boyars, London 1978, tr. it., Disoccupazione 
                  creativa, Boroli, Milano 2005.
                  
 - Si veda ad esempio I. Illich et. al., Disabling Professions, 
                  Boyars, New York 1977, tr. it., Esperti di troppo, Ercikson, 
                  Gardolo (tn) 2008.
                  
 - I. Illich, The Corruption of Christianity, Canadian 
                  Broadcasting Corporation, 2000, tr. it., Pervertimento del 
                  cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, 
                  Modernità, Quodlibet, Macerata 2008.
                  
 - Trasatti ha curato un approfondimento 
                    monografico su Ivan Illich nel n.294 di «A rivista 
                    anarchica» [anno 33, novembre 2003], con i contributi 
                    di Paolo Perticari, Francesco Scotti, Pietro M. Toesca. 
                  
 - Che cosa significa e come si articola in concreto il concetto 
                  di «decrescita»? Qual è la sua origine 
                  e come si può realmente declinare? In tal senso, la lettura 
                  illichiana è un punto di riferimento imprescindibile. 
                  Serge Latouche, che della decrescita è uno dei massimi 
                  teorici contemporanei, non esita a riconoscere come tale idea 
                  «sia nata in seno alla critica dello sviluppo e della 
                  crescita condotta da una piccola internazionale di pensatori 
                  raccolti attorno a Ivan Illich; pensatori del Sud, oppure che 
                  avevano un'esperienza concreta della sconfitta dello sviluppo 
                  nei Paesi dell'Africa o dell'America latina»; S. Latouche, 
                  La planète uniforme (2000), tr. it., La fine 
                  del sogno occidentale, Elèuthera, Milano 2010, p.185.
                  
 - Convincente la celebre definizione di Ulrich Beck, che da 
                  decenni parla di società del rischio. Si veda 
                  ad esempio U. Beck, Risikogesellschaft: Auf dem Weg in eine 
                  andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, tr. it., 
                  La società del rischio. Verso una seconda modernità, 
                  Carocci, Roma 2000. Oggi la politica, l'economia, il mondo sociale 
                  e culturale sono accomunati da grandi trasformazioni che mettono 
                  fortemente in discussione le più diffuse categorie interpretative 
                  e riferimenti culturali a lungo condivisi. Per un'analisi specifica, 
                  seppur sintetica, di ciascuno di questi aspetti mi permetto 
                  di rimandare al volume di M. Revelli, G. Barberis, Sulla 
                  fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, 
                  Guerini e Associati, Milano 2005.
                  
 - Si veda in particolare I. Illich, Tools for Conviviality, 
                  Harper & Row, New York 1973, tr. it, La convivialità, 
                  Boroli, Milano 2005.
                  
 - I. Illich, Energy and Equity, Calder & Boyars, 
                  London 1974, tr. it., Energia, velocità e giustizia 
                  sociale, Feltrinelli, Milano 1974. A Illich dobbiamo anche 
                  questo inquietante calcolo: «L'americano tipo dedica più 
                  di 1500 ore all'anno alla sua automobile: ci sta seduto dentro, 
                  fermo o in moto, lavora per comprarla e mantenerla, per pagare 
                  la benzina, i pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni 
                  e le imposte. Dedica cioè 4 ore al giorno alla sua auto, 
                  sia che se ne serva, se ne occupi o lavori per lei. E non consideriamo 
                  tutti gli altri suoi impegni di tempo regolati dal trasporto: 
                  il tempo passato in ospedale, in garage o in tribunale, il tempo 
                  consumato a guardare la televisione e la pubblicità delle 
                  automobili, il tempo speso a guadagnare il denaro necessario 
                  per viaggiare durante le vacanze, eccetera. A questo americano 
                  occorrono dunque 1500 ore per percorrere 10.000 km di strada: 
                  6 km gli prendono più di un'ora» [La convivialità, 
                  cit., p.25].
                  
 - I. Illich, Deschooling Society, Harper & Row, 
                  New York 1971, tr. it., Descolarizzare la società, 
                  Mondadori, Milano 1972, ripubblicato da Mimesis, Milano-Udine 
                  2010.
                  
 - I. Illich, Medical Nemesis. The Expropriation of Health, 
                  Pantheon, New York 1976, tr. it., Nemesi medica. L'espropriazione 
                  della salute, Mondadori, Milano 1977, ripubblicato da Boroli, 
                  Milano 2005.
                  
 - Lo straordinario commento al Didascalicon di Ugo di 
                  San Vittore che troviamo Nella vigna del testo - libro 
                  colto e affascinante, il quale si presenta come “una storia 
                  sull'arte di leggere” nei suoi passaggi fondamentali 
                  - è un importante tassello di questo percorso; I. Illich, 
                  In the Vineyard of the Text. A Commentary to Hugh's Didascalicon, 
                  1993, tr. it., Nella vigna del testo. Per una etologia della 
                  scrittura, Raffaello Cortina, Milano 1994.
                  
 - Sul rapporto complesso ma per molti aspetti innegabile tra 
                  paranoia e politica si veda la raccolta di saggi curata da Marco 
                  Revelli e Simona Forti, intitolata appunto Paranoia e politica, 
                  Bollati Boringhieri, Torino 2007.
                  
 - Per fare solo due esempi tra i mille possibili, citiamo Giuseppina 
                  Ciuffreda che, nel necrologio pubblicato sul quotidiano «il 
                  Manifesto» [04/12/2002, Il rovescio del progresso], 
                  ricordando l'incontro con Illich ad Assisi nel novembre del 
                  1985, scrive: «Un seminario con lui era un'esperienza 
                  totale», e Franco La Cecla, il quale ebbe a scrivere: 
                  «Il suo metodo di lavoro è più simile a 
                  una stoà dell'antica Atene che a una vita accademica: 
                  un gruppo di fedeli giovani ricercatori, di adulti studiosi 
                  e di vecchi amici lo ricordano e lo seguono» [«Libertaria», 
                  n. 4, 2001].
                  
 - Occorre prendere atto - sostiene Illich - dei propri limiti 
                  strutturali, rinunciando alle chimere e alle false promesse 
                  di una modernità sclerotizzata, e ritornare invece alla 
                  «conspiratio» originaria, all'amore come 
                  dono gratuito di sé, alla comunità di sentire 
                  nella gioia e nel dolore. Sul concetto di conspiratio, 
                  il bacio con cui i fedeli nelle prime comunità cristiane 
                  «mescolavano il loro spirito e suggellavano la loro reciproca 
                  comunione», si vedano in particolare I. Illich, Pervertimento 
                  del cristianesimo, cit., pp.93-96 e The Rivers North 
                  of the Future. The Testament of Ivan Illich as told to David 
                  Cayley, Toronto 2005, tr. it., I fiumi a nord del futuro. 
                  Quodlibet, Macerata 2009, pp.214-218.
                  
  
                  
                 
                 
                
                   
                    |   Da 
                        Vienna a Brema, via New York, Cuernavaca, ecc.  
                         
                        Ivan Illich 
                        nacque a Vienna il 4 settembre 1926 da Ivan Peter, cattolico 
                        di nobili origini dalmate, e da Ellen Rose Regenstreif-Ortlieb, 
                        di famiglia ebrea sefardita. Cosmopolita per origine e 
                        vocazione, poliglotta, straordinariamente curioso e intellettualmente 
                        aperto, fu teologo, storico, sociologo, linguista, filosofo, 
                        antropologo, economista, e molto altro ancora (è 
                        stato anche definito un profeta fuori tempo). Nel 
                        1941 dovette lasciare l'Austria a causa delle leggi razziali. 
                        Fu a Firenze e poi a Roma, dove seguì i corsi alla 
                        Pontificia università gregoriana. Laureatosi nel 
                        1951, fu ordinato sacerdote e assegnato alla diocesi di 
                        New York, divenendo viceparroco in una comunità 
                        portoricana. Ottenne qui i primi riconoscimenti, e iniziò 
                        a sviluppare e consolidare la sua vastissima rete di conoscenze 
                        e amicizie. Nel 1956 divenne prorettore dell'Universidad 
                        católica di Ponce, a Porto Rico, ma nel 1960 lasciò 
                        l'isola anche per la sua opposizione a un modello di Chiesa 
                        troppo condizionata dalle spinte imperialistiche statunitensi. 
                        Dopo un lungo peregrinare per il continente latino-americano, 
                        scelse Cuernavaca come luogo da cui organizzare la resistenza 
                        ai processi di omologazione culturale di un Occidente 
                        completamente asservito alla logica di uno sviluppo senza 
                        limiti. In Messico fondò il Cidoc, un centro di 
                        documentazione sulle tradizioni indigene e sullo sviluppo 
                        delle grandi istituzioni mondiali nel campo dell'educazione, 
                        della salute, dell'economia. In opere divenute celebri, 
                        Illich mostrò gli effetti controproducenti e le 
                        profonde antinomie del capitalismo maturo e di una società 
                        dei consumi dominata da presunti esperti, ossia 
                        tecnocrazie non elettive ch'egli definiva senza mezzi 
                        termini “fascismo manageriale”, e delineò 
                        un modello di “società conviviale”, 
                        insieme austera e gioiosa, che diverrà punto di 
                        riferimento costante per una parte essenziale del pensiero 
                        critico novecentesco. 
                        Negli ultimi anni di vita insegnò regolarmente 
                        a Brema e in Pennsylvania, ma continuò a viaggiare 
                        e ad avere amici e seguaci ovunque. Sempre pronto all'incontro 
                        e al dialogo, coerente con i propri alti ideali, intellettualmente 
                        vivacissimo e spiazzante nella sua genialità, Illich 
                        si spense a Brema il 2 dicembre 2002, non a causa del 
                        tumore al volto che gli tormentò il nervo trigemino 
                        per quasi vent'anni, ma in conseguenza di un arresto cardiaco.  | 
                   
                 
                   
                
                   
                    |   Illich 
                        dixit 
                         
                        Rivoluzionare le istituzioni 
                        Da 
                        Celebration of Awareness (1970), tr. it., Rivoluzionare 
                        le istituzioni, Mimesis, Milano - Udine 2012, 
                         
                        p.11: «Ciascun capitolo di questo volume è 
                        il segno d'un mio tentativo di mettere in discussione 
                        la natura di qualche certezza acquisita. Ognuno di essi, 
                        quindi, denuncia un inganno, l'inganno insito in questa 
                        o in quella istituzione. Sono le istituzioni che creano 
                        certezza e quando vengono prese sul serio queste certezze 
                        rendono il cuore insensibile e imprigionano l'immaginazione. 
                        Ho sempre sperato e ancora spero che i miei giudizi, frutto 
                        di rabbia o di passione, razionalmente costruiti o spontanei, 
                        possano anche riuscire a far sorridere qualcuno e, con 
                        questo sorriso, portare una nuova libertà, sebbene 
                        la libertà non giunga mai senza un prezzo doloroso». 
                         
                         
                        La convivialità 
                        Da Tools for Conviviality (1973), tr. it, La 
                        convivialità, Boroli, Milano 2005, 
                         
                        p.13: «La società, una volta raggiunto 
                        lo stadio avanzato della produzione di massa, produce 
                        la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, 
                        castrato nella sua creatività, l'uomo è 
                        rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività 
                        è governata dal gioco combinato di una polverizzazione 
                        estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa 
                        ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del 
                        tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da 
                        escludere ogni ricorso ai precedenti come guida 
                        per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale 
                        riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. 
                        E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco 
                        importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: 
                        la disgregazione della natura, la distruzione dei legami 
                        sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai 
                        servire a uno scopo sociale». 
                        p.30: «Alla minaccia di un'apocalisse tecnocratica, 
                        io oppongo la visione di una società conviviale. 
                        La società conviviale riposerà su contratti 
                        sociali che garantiscano a ognuno il più ampio 
                        e libero accesso agli strumenti della comunità, 
                        alla sola condizione di non ledere l'eguale libertà 
                        altrui». 
                        p.67: «La popolazione è educata meglio, 
                        curata meglio, trasportata meglio, divertita e spesso 
                        nutrita meglio, ma a condizione che, per ogni unità 
                        di misura di questo meglio, si accettino docilmente 
                        sia i criteri sia gli obiettivi fissati dagli esperti. 
                        Una società conviviale può instaurarsi solo 
                        se riconosce il carattere arbitrario di queste misure 
                        e la distruttività dell'imperialismo politico, 
                        economico e tecnico che si nasconde dietro di esse». 
                        p.130: «L'avvento del fascismo tecnoburocratico 
                        non è scritto negli astri. Esiste un'altra possibilità: 
                        un processo politico che permetta alla popolazione di 
                        stabilire il massimo che ciascuno può 
                        esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate; 
                        un processo che porti a concordare entro quali limiti 
                        va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che 
                        incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che 
                        un numero crescente di persone possa fare di più 
                        con sempre meno. Un programma del genere può 
                        ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si 
                        lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto 
                        di un realismo estremo». 
                         
                         
                        Nemesi medica 
                        Da Medical Nemesis (1976), tr. it., Nemesi medica. 
                        L'espropriazione della salute, Boroli, Milano 2005, 
                         
                        p.20: «Studiando l'evoluzione della struttura 
                        della morbosità si ha la prova che durante l'ultimo 
                        secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura 
                        non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche 
                        precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate 
                        da entrambi ma non impressionate né dagli uni né 
                        dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati 
                        nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero 
                        dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari. Una 
                        discussione sul futuro dell'istituzione sanitaria potrebbe 
                        utilmente partire dal riconoscimento di questo fatto». 
                         
                         
                        Nello specchio del passato 
                        Da In the Mirror of the Past (1992), tr. it., Nello 
                        specchio del passato, Boroli, Milano 2005, 
                         
                        p.35: «Il tema che intendo affrontare è 
                        quello delle “benedizioni” di cui tuttora 
                        godiamo, nonostante la crescita economica; della riscoperta 
                        del presente quando si allontana dall'ombra che il futuro 
                        vi ha proiettato sopra nel corso di tre decenni all'insegna 
                        dello sviluppo. Penso sia giunto il momento di promuovere 
                        la ricerca del dono non economico, che possiamo maggiormente 
                        apprezzare se nutriamo la speranza in ulteriori riduzioni 
                        del cosiddetto sviluppo. 
                        Parlo intenzionalmente di benedizioni e doni quando 
                        mi riferisco alla riscoperta del camminare e pedalare 
                        in alternativa all'essere trasportarti; dell'abitare in 
                        spazi autogenerati in luogo della rivendicazione del diritto 
                        all'alloggio; del coltivare pomodori sul balcone e incontrarsi 
                        in bar privi di radio e televisione; della capacità 
                        di far fronte al dolore senza terapie e del preferire 
                        l'attività intransitiva del morire al medicidio 
                        monitorizzato. 
                        Non intendo usare la parola “valore”: questo 
                        termine economico ha subito recentemente uno slittamento 
                        di senso nei nostri discorsi, così da rimpiazzare 
                        il “bene”. Tuttavia, riconosco il pericolo 
                        insito nel tentativo di mantenere la nozione di bene: 
                        oggi il termine designa specificamente delle forme di 
                        Management, il professionale “per il vostro 
                        bene” sulle labbra di insegnanti, medici e ideologi. 
                        Proprio per questo tento di recuperare le vecchie idee 
                        di benedizione e dono per parlare della riscoperta dell'arte 
                        di gioire di affrontare il dolore, che ho potuto osservare, 
                        nei Paesi ricchi come in quelli poveri, allorché 
                        è crollata l'aspettativa di vantaggi e sicurezze 
                        garantiti dal mercato». 
                       
                        Ivan Illich  | 
                   
                 
                
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