   
           Album bianco  
                  
                di Marco Pandin 
                  
                   
                  Crisi o non crisi, non mi sono mai girate grosse cifre per le 
                  tasche, e ho sempre cercato di non esagerare con la mia passione 
                  per la musica. Sebbene mi riesca più facile restare senza 
                  mangiare che restare senza leggere e/o senza ascoltare, la mia 
                  curiosità vorace si arrende in fretta all'assalto degli 
                  scrupoli e del senso di responsabilità familiare così 
                  cerco di limitare gli acquisti. Certo, mi era già capitato 
                  di comprare due volte lo stesso disco: sapete com'è, 
                  sono un po' fissato e magari tanto tempo prima quel certo disco 
                  che avevo già preso su vinile l'ho poi ricomprato su 
                  cd. Oppure m'è capitato di mettere le mani su di una 
                  nuova versione di un cd già acquistato in precedenza, 
                  metti un'occasione fra gli usati, o uno scambio. A volte è 
                  stato proprio per errore, una dimenticanza. 
                  Qualche volta, lo ammetto, sono caduto nella trappola delle 
                  cosiddette “deluxe edition” o addirittura ho preso 
                  la fregatura della stessa musica rimessa in circolazione dentro 
                  ad una diversa copertina. Non mi era invece mai successo prima 
                  di acquistare più volte e deliberatamente una nuova versione 
                  di un libro: quest'ultima – la terza – (ed. Il Saggiatore, 
                  19,50 euro) è in giro da quasi un paio d'anni. Ne avevo 
                  preso, una dozzina d'anni fa quand'erano uscite, anche le due 
                  edizioni precedenti. La seconda differiva dalla prima, come 
                  la terza dalla seconda, per alcune aggiunte che trovavo (e trovo) 
                  significative. Ma il motivo vero era che avevo proprio voglia 
                  di rileggerlo: vabbé, si potrebbe dire che in fondo era 
                  la stessa storia raccontata dalla stessa voce, ma mi affascinavano 
                  le differenze sottili, le pause ed i respiri nuovi, qualche 
                  sorriso e qualche sospiro spostato di riga. Più calzante 
                  è però il paragone con le diverse occasioni di 
                  assistere a un concerto dal vivo di uno stesso musicista: un'esibizione 
                  di oggi non è quella offerta lo scorso anno, ed ancor 
                  meno è accostabile ad una di dieci anni fa. 
                  Il libro, dicevo, è uscito nel 2011. Non ho molte giustificazioni 
                  per non averne parlato qui prima, forse l'unica vera scusa è 
                  che trovo sia un libro piuttosto importante e temevo di non 
                  trovare le parole giuste. L'ha scritto un musicista che seguo 
                  da quand'ero un ragazzino, e che ho poi incontrato di persona 
                  più volte: potrei dire, esagerando un pochino, che in 
                  mezzo a queste pagine ho ritrovato qualche pezzettino della 
                  mia vita. Dico invece, senza esagerare, che ho respirato anch'io 
                  un po' di quell'aria e ascoltato tanta della musica che si sente 
                  qui dentro. Sì, perché questo libro “suona”. 
                  Anzi, togliamo quelle virgolette inutili: questo libro suona 
                  per davvero. L'ho preso e l'ho preso ancora perché avevo 
                  voglia di riascoltare questa musica. 
                  L'autore è Franco Fabbri degli Stormy Six, un collettivo 
                  musicale che tra il 1965 e la prima metà degli anni ottanta 
                  ha esplorato il beat per approdare agli inni di piazza e si 
                  è poi spinto ad esperimenti di musica totale dove le 
                  differenze stilistiche tra rock e jazz sono divenute del tutto 
                  prive di spessore. Non è stata, la loro, una ricerca 
                  spinta dalla necessità di adeguarsi alle sempre nuove 
                  tendenze del mercato: direi piuttosto che il loro è stato 
                  un viaggio avventuroso attraverso tempeste e fortune alterne, 
                  ben stretta in mano una bussola commercialmente inadatta di 
                  nome “coerenza”. Un viaggio ostinatamente controcorrente, 
                  le cartografie musicali di queste ultime (quasi) cinque decadi 
                  hanno riportato gli Stormy Six sempre fuori posto, sempre un 
                  po' più in là, sempre un po' troppo avanti. Troppo 
                  problematici per essere beat, troppo “popular” tra 
                  i gruppi pop, troppo impegnati tra i gruppi rock, troppo complicati 
                  tra i gruppi progressive, troppo polemici per restare a galla 
                  tra le nuove ondate. 
                
                   
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                    |   Berlino, 16 febbraio 1980 - Franco Fabbri alla Werner-Seelebinder 
                  Halle  | 
                   
                 
                 Alla metà degli anni settanta fondarono un'etichetta 
                  discografica indipendente (la cooperativa l'Orchestra) raccogliendosi 
                  con altri musicisti e contribuendo a tessere una rete di scambi 
                  e collaborazioni attiva in tutta Europa denominata Rock in Opposition: 
                  l'avessero fatto in questi anni avrebbero ricevuto dei fondi. 
                  Al tempo, per farli tacere fecero semplicemente sparire i loro 
                  dischi dai negozi. A fermarli, più che la censura bastarono 
                  le leggi del mercato: nonostante riconoscimenti e buone vendite 
                  all'estero si ritrovarono del tutto emarginati proprio in quell'Italia 
                  dove slogan pubblicitari come “il rock italiano cantato 
                  in italiano” significavano tutt'altra roba più 
                  gradita al signor padrone. 
                
                   
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                    |   Roma (data imprecisata, 1981-1982), da sinistra Giorgio Albani,  
                  Pino Martini, Franco Fabbri, Umberto Fiori, Salvatore Garau,  
                  Tommaso Leddi: la formazione di “Al volo”  | 
                   
                 
                 
                  Irriducibili, e per questo presto depredati dell'intera loro 
                  produzione discografica, tra gli anni ottanta e novanta gli 
                  Stormy Six sono stati ridotti a materiale da collezionisti. 
                  Nel 1993 un loro fortunato concerto-reunion per Radio Popolare 
                  di Milano è stato pubblicato su doppio cd, seguito da 
                  Megafono, una raccolta di vecchie registrazioni dal vivo 
                  ben restaurate da Tommaso Leddi (vedi segnalazione su “A” 
                  256, estate 1999). Sull'onda della reunion sono state fatte 
                  circolare le ristampe su cd degli album Un biglietto del 
                  tram (1975), Cliché (1976), L'apprendista 
                  (1977), Macchina maccheronica (1980) e Al volo 
                  (1982), rese disponibili da poco tramite Rhino in un unico box 
                  piuttosto economico. 
                  Il libro non serve ad approfondire, ma ad aprire la mente: è 
                  una testimonianza imprescindibile del come il paese sia cambiato 
                  raccontata attraverso i rumori di fondo, attraverso i suoni 
                  che rimbalzano da dentro le case fin sull'asfalto e finiscono 
                  in cielo. Lo raccomando agli affamati di musica, a chi non si 
                  accontenta delle spiegazioni facili, a chi resta affascinato 
                  dalle imprese possibili. 
                Rimando alla visita in rete del sito di Franco Fabbri (francofabbri.net), 
                ai contributi in argomento di Gian Paolo Ragnoli su Nazione indiana 
                (nazioneindiana.com) 
                e alla lettura della lunga intervista di Alessandro Achilli e 
                Paolo Chang pubblicata su Musiche #15 (primavera-estate 1994). 
                 Marco Pandin 
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