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                  È possibile vivere senza stato  
                  intervista a Jordi López di Andrea Staid 
                 
                  Tra il 13 e il 15 dicembre 2012 
                  ho avuto il piacere di partecipare con una relazione su le società 
                  contro lo stato all'università di Alicante, dove si è 
                  tenuto un laboratorio esplorativo sull'antropologia politica 
                  delle organizzazioni sociali non statali. Tra i relatori erano 
                  presenti alcuni antropologi molto interessanti tra i quali l'autore 
                  di Dominio e arte della resistenza James C. Scott, professore 
                  all'Università di Yale. 
                  In quei tre giorni, analizzando il potere, abbiamo capito l'importanza 
                  della non separazione tra corpo sociale e corpo politico, abbiamo 
                  compreso che dobbiamo creare delle norme per evitare la nascita 
                  e la riproduzione dei rapporti di potere coercitivo, e che solo 
                  attraverso una ridistribuzione del potere a tutti, la società 
                  può riformarsi su basi egualitarie. 
                  Il momento storico che stiamo vivendo ci offre una grande fortuna: 
                  quella di assistere al collasso del sistema capitalista; ma 
                  non possiamo stare a guardare, dobbiamo ripensarci, confrontare 
                  il nostro vissuto con quello praticato altrove – o sperimentato 
                  in passato – studiare chi prima di noi ha vissuto in modo 
                  più libero, provare ad attuare giorno per giorno la decostruzione 
                  dei rapporti di dominio, ribellarci allo stato e all'oligarchia 
                  che lo mantiene per costruire una nuova società di liberi 
                  e uguali. In questo numero di A ho deciso di riportare qualche 
                  domanda che è stata fatta su Rojo y negro di marzo 2013 
                  a uno degli organizzatori del laboratorio esplorativo, l'archeologo 
                  libertario Jordi López. 
                
                   
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                    |   Alicante, dicembre 2012. Il poster del laboratorio sull'antropologia 
                  politica delle organizzazioni sociali non statali  | 
                   
                 
                 In primo luogo, che cos'è l'antropologia politica 
                  delle organizzazioni sociali non statali e a cosa serve? 
                  «Stiamo parlando essenzialmente di una forma di conoscenza 
                  e di un oggetto; di applicare gli strumenti dell'antropologia 
                  o, in senso ampio, dello studio dei gruppi umani nelle loro 
                  società, nelle loro culture e nella loro storia, agli 
                  ordinamenti sociali che sono privi di stato. Tradizionalmente, 
                  in un effetto di etnocentrismo in gran parte comune, l'antropologia 
                  politica si è limitata ad avere come oggetto di studio 
                  lo stato, concentrando le sue ricerche ai suoi processi di formazione, 
                  e storpiando così, secondo noi, una realtà umana 
                  molto più complessa. Non solo le organizzazioni sociali 
                  non statali sono state considerate una sorta di infanzia dell'umanità, 
                  ma normalmente sono state applicate ai soli gruppi che sono 
                  privi di stato, dimenticando che nelle nostre stesse società 
                  esistono un'infinità di istituzioni che strutturano la 
                  vita sociale senza ricorrere ai meccanismi dello stato, cosa 
                  che presuppone una latenza e una potenzialità che non 
                  possono essere trascurate. 
                  Un'organizzazione sociale non statale non è per forza 
                  un gruppo tupí-guaraní o machiguenga nell'Amazzonia 
                  del XVII secolo, lo è anche una Confederazione anarcosindacalista 
                  in Spagna, una comunità contadina nelle montagne della 
                  Zomia asiatica o un gruppo parentale Bubi nell'isola di Bioko 
                  dei giorni d'oggi. E quindi serve, tanto per iniziare, per capire 
                  la realtà in un modo più olistico; per cambiare 
                  i nostri punti di vista su come è il nostro mondo. 
                  Non dobbiamo sottovalutare queste cose soprattutto in un momento 
                  come questo, in cui vogliono farci credere che la realtà 
                  non è solo univoca e incontestabile, oggettivamente costruita, 
                  ma anche che un governo può farsi scudo dietro a essa 
                  per ipotecare il futuro della nazione. 
                  Non è che la realtà non esiste, tutto il contrario: 
                  è che la realtà è più complessa 
                  e per affrontarla abbiamo bisogno di strumenti più seri 
                  del “senso comune” della nostra cultura politica.» 
                   
                  Cosa hanno capito o cosa volevate che capissero per i 
                  diversi ambiti: accademia, anarchia, eccetera? 
                  «L'accademia, intesa come la costruzione della conoscenza 
                  attraverso i mezzi accademici, ha bisogno dell'anarchia. Diciamo 
                  che il punto chiave di questa frammentazione della conoscenza 
                  nello studio dei gruppi umani avviene, precisamente, perché 
                  siamo arrivati all'idea che la realtà è più 
                  complessa di quanto avevano ipotizzato le diverse scuole accademiche 
                  della prima metà del XX secolo, soprattutto nel caso 
                  della sinistra, molto condizionata dal discorso marxista. 
                  Di fronte a questa critica a proposito dell'interpretazione 
                  dei gruppi umani, la conoscenza accademica ha intrapreso sostanzialmente 
                  due strade: da un lato c'è chi nega che sia successo 
                  qualcosa, e continuano quindi a rifarsi ai modelli esplicativi 
                  semplici; dall'altro c'è chi porta la “critica 
                  contestuale” al punto del narrativismo kantiano, il classico 
                  “tutto è valido” che impedisce qualsiasi 
                  costruzione generale di conoscenza. In realtà ci sono 
                  altre possibilità postmoderniste che ri-articolano l'interpretazione 
                  sociale, culturale e storica, assumendo le puntualizzazioni 
                  fondamentali di quella critica. Una delle più riuscite 
                  è quella che, fondandosi proprio sulle tradizioni intellettuali 
                  libertarie, situa l'individuo nel suo contesto culturale e dispone 
                  una “pratica” dialogica, rizomatica, tra questi 
                  due concetti. 
                  Noi riteniamo invece che l'anarchismo, in generale, né 
                  può né deve essere estraneo alla conoscenza accademica; 
                  soprattutto per non perdere di vista la realtà e, con 
                  questa, la sua capacità di incidere in quello che viviamo 
                  o che vivremo.» 
                   
                  Dobbiamo sforzarci per farle trovare un suo spazio? E 
                  perché? 
                  «Sì, assolutamente, per quello che dicevamo prima. 
                  In ogni caso sembra che stia già accadendo: a livello 
                  internazionale c'è un bel gruppo di autori che lavora 
                  su questa linea. Comunque, per tornare a quanto stavamo dicendo, 
                  ricorderei ora l'idea anarcosindacalista di portare la nostra 
                  forma di pensare nei luoghi in cui interagiamo. In questo senso 
                  è inevitabile che noi anarchici che ci dedichiamo allo 
                  studio dei gruppi umani dall'università affrontiamo il 
                  nostro lavoro con le sfumature della nostra posizione ideologica; 
                  non è poi così strano, né nuovo, né 
                  cattivo, né buono in termini assoluti. Semplicemente 
                  non ci sono stati troppi anarchici nelle università.» 
                   
                  Nel manifesto delle giornate vediamo persone che sembrano 
                  dei coloni maltrattare degli indigeni, con il congresso dei 
                  deputati come sfondo. Cosa volevate dire con questa immagine? 
                   
                  «Abbiamo voluto introdurre una piccola strizzatina d'occhio. 
                  Abbiamo estrapolato l'immagine da un'incisione di Theodore de 
                  Bry sulla conquista dell'America nel XVI secolo, e abbiamo eliminato 
                  il paesaggio per ubicare la scena di fronte al Congresso di 
                  Madrid. L'idea era esattamente quella di cui parlavamo, con 
                  le organizzazioni sociali non statali, un tipo di fenomeni umani 
                  ricorrenti. Come dicevamo, l'antropologia politica dell'assenza 
                  di stato ha finito per concentrarsi, forse per gli studi classici 
                  di Pierre Clastres, sulle società amerindie o su ogni 
                  altra società considerata “primitiva”; ma 
                  le cariche degli antisommossa del 25-S rispondono a una situazione 
                  che può essere spiegata attraverso meccanismi abbastanza 
                  simili, o almeno dentro quello stesso campo della conoscenza 
                  delle organizzazioni sociali che non ricorrono allo stato, che 
                  non fanno appello a un sistema di potere coercitivo come base 
                  della pace sociale.» 
                   
                  A quanto pare i contenuti delle giornate non sono stati 
                  solo di tipo libertario, o vicini all'anarchismo, ma si è 
                  anche discusso di sviluppo, di metodologia, ecc… 
                  «Be', questo risponde anche un po' all'esigenza di sperimentare 
                  l'ampiezza dell'aggettivo “esplorativo”. Abbiamo 
                  suddiviso il laboratorio in tre tipi di tavoli di lavoro: da 
                  una parte i dibattiti, programmati con un ampio spazio dedicato 
                  alle domande; da un'altra i laboratori del pomeriggio, nei quali 
                  ci dividevamo tutti in gruppi più ridotti, di una decina 
                  di persone, per dibattere in base a una traccia di lavoro; e 
                  infine uno spazio finale di messa in comune, o di (in)conclusioni. 
                  La nostra intenzione era, da una parte, rompere la dinamica 
                  classica degli eventi accademici, in cui una persona parla agli 
                  altri e non c'è concretamente uno spazio per dibattere: 
                  se si trattava di esplorare il tema, avevamo bisogno che ciò 
                  avvenisse da uno scambio di opinioni. Dall'altra parte volevamo 
                  anche vedere un po' cosa succedeva, organizzare una sorta di 
                  “etnografia” del laboratorio in cui abbiamo potuto, 
                  forse a volte meno di quanto avremmo dovuto fare, riflettere 
                  sul comportamento che teniamo in queste situazioni. È 
                  stato molto interessante vedere le dinamiche che si sono generate 
                  nei diversi gruppi e nelle messe in comune; è sicuramente 
                  un approccio, una linea di lavoro, che crediamo che possa dare 
                  risultati molto buoni se continuiamo a percorrerla.» 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Brasile, foresta tropicale, gruppo di indigeni  | 
                   
                 
                 
                  Un nuovo scenario 
                 Si parla di un aumento o di un auge d'interesse per 
                  l'anarchismo, che si sta concretizzando nella crescente quantità 
                  di lavori accademici e non. Da cosa credete che dipenda? 
                  «Alcuni anni fa, precisamente sulla rivista Rojo y negro, 
                  scriveva Fernández Paniagua, editore di Germinal, che 
                  l'anarchismo ha vinto la battaglia morale. In realtà, 
                  si potrebbe far risalire al periodo 1989-1994, rispettivamente 
                  con il collasso del blocco sovietico e con la nascita pubblica 
                  della guerriglia di stampo magonista Ezln; è il periodo 
                  del “ritorno del pendolo” socialista. Il socialismo 
                  autoritario, di stato, ha perduto tutte le sue battaglie in 
                  buona parte a causa della sua ostinazione su alcuni modelli 
                  interpretativi della realtà assolutamente rigidi. Diciamo 
                  che si è soliti affermare che il discorso marxista è 
                  sfasato; be', per noi è sfasato non tanto per le forme, 
                  non perché fa continuamente appello alla classe operaia 
                  e invita alla rivolta contro il potere borghese, ma per i contenuti, 
                  perché non ha assimilato la “critica contestuale”, 
                  la “pratica dialogica”, ecc. e ha ricostruito la 
                  sua comprensione della realtà su questi concetti. In 
                  questo senso l'anarchismo si trova in una posizione di vantaggio 
                  che non dovrebbe sprecare. Infine, dopo la crisi iniziata nel 
                  2008, capiamo che si verifica un processo generalizzato di allontanamento 
                  tra la legittimità e la legalità; a questo ci 
                  riferiamo quando parliamo di crisi dello spazio politico. Ora, 
                  abbiamo una maggioranza della popolazione che inizia a dubitare 
                  molto seriamente della legittimità della legalità, 
                  e che né si sente né si può sentire identificata 
                  con il socialismo autoritario come alternativa; la cosa strana, 
                  pertanto, sarebbe stata che non si fosse nemmeno messa in pratica 
                  l'organizzazione assembleare nel 15-M. Detto questo, indubbiamente, 
                  ci si dipana un nuovo scenario, e a partire da questo momento 
                  capiamo che si tratta di collegare questa vittoria morale con 
                  una vittoria ideologica, una vittoria programmatica e una vittoria 
                  organica. Questa è un'altra storia, ma senza dubbio in 
                  tutto questo è indispensabile capire meglio i meccanismi 
                  dell'organizzazione sociale “esseri umani”.» 
                   
                  Eppure il 15-M ha perso molta forza... 
                  «Sì e no. Ritengo che sia assolutamente necessario 
                  qui fare uno sforzo di precisione, e chiedersi esattamente quale 
                  realtà di quelle che si inglobano dentro alle allusioni 
                  più o meno diffuse rispetto al 15-M ha perso molta forza. 
                  Sicuramente i 15-M organici, come istituzioni, non hanno perso 
                  molta forza, ma moltissima; indubbiamente, questa perdita di 
                  forza credo che sia meno percepita, che sia meno inaspettata 
                  o trascendente ora rispetto a quanto è avvenuto nel periodo 
                  compreso tra il 15 maggio 2012 e i due o tre mesi immediatamente 
                  successivi. Mi spiego: quando prima dicevo che sarebbe stato 
                  strano se il 15-M non avesse tentato l'assemblearismo mi riferivo 
                  a che, nella congiuntura socio-culturale dell'ultimo decennio, 
                  era più o meno prevedibile che una esplosione di indignazione 
                  popolare si esprimesse in un rifiuto della politica istituzionale 
                  e in uno spirito “orizzontalista”, anti-autoritario, 
                  libertario, ecc. 
                  Per me, pertanto, bisogna fare una grande distinzione nelle 
                  nostre analisi tra il 15-M come fenomeno sociale, circoscritto 
                  a un paio di mesi come non può essere altrimenti in questi 
                  momenti di contestazione sociale generalizzata e aperta, e il 
                  15-M come istituzione sorta da questo fenomeno. Nel senso di 
                  fenomeno sociale, ovviamente la gente non è più 
                  in strada a migliaia, ma sì, si è aperta un nuovo 
                  scenario politico in cui sono obbligati a partecipare tutti 
                  gli agenti pubblici. E bisogna distinguerli proprio con l'obiettivo 
                  di concretizzare quello a cui ci riferivamo quando parlavamo 
                  di collegare la vittoria morale del rifiuto della politica istituzionale 
                  secondo un certo spirito libertario con una vittoria ideologica, 
                  programmatica e organica che cambi effettivamente la nostra 
                  situazione politica. Immagino che a partire da ora inizi il 
                  terreno delle opinioni; personalmente ritengo che noi anarchici 
                  organizzati dovremmo riflettere molto sulla questione dell'intervento 
                  sociale, e farci attenzione, in un momento in cui c'è 
                  sempre più gente che ci ascolta e che ci presta attenzione.»
                 
                   
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                    |   Porto Seguro (Brasile), Indios Pataxós  | 
                   
                 
                 Lo stato è, in qualcuna delle sue forme, un'alternativa? 
                  «Certamente. Di fatto un'antropologia del non stato deve 
                  iniziare capendo lo stato, e lo stesso avviene con un'ideologia 
                  come l'anarchismo, anche se spesso ce lo dimentichiamo. In linea 
                  generale, lo stato è un sottoprodotto derivato dalla 
                  necessità di articolare socialmente gruppi umani più 
                  numerosi; di modo che prima sorge quella necessità demografica 
                  di integrazione, poi i meccanismi per gestirla, e infine la 
                  cattiva gestione o il fallimento delle risorse di sicurezza 
                  “democratica”, per dirlo in un modo, fanno sì 
                  che la “frattura sociale” che fino a quel momento 
                  era rimasta in stato fluido, si ossifichi. Una parte della popolazione 
                  s'impossessa del potere coercitivo e dei meccanismi di stabilizzazione 
                  sociale, della violenza legittima. In questo senso, non bisogna 
                  dimenticare che lo stato è efficace e, fino a un certo 
                  punto, auspicabile, e questo è ciò che fa sì 
                  che in un momento determinato il resto della popolazione semplicemente 
                  si astenga dall'opporsi attivamente allo stato; è molto 
                  probabile, perfino, che fino a un certo punto il passaggio verso 
                  questo tipo di organizzazione sia difficilmente percettibile 
                  fino a quando non ha preso molta forza. 
                  Lo stato è essenzialmente una soluzione politica a dei 
                  bisogni concreti di integrazione, e in questo senso è 
                  funzionale; per questo sorge in molti momenti della storia, 
                  e sempre per questo scompare in molti altri. Un'altra questione 
                  è se c'è un'alternativa auspicabile, o se ci sono 
                  altre alternative.» 
                   
                  È possibile vivere senza stato? 
                  «Certamente. La maggior parte dell'umanità nel 
                  nostro divenire storico ha vissuto senza stato e, aggiungerebbe 
                  Clastres, con tutte le ragioni del mondo, contro lo stato. Come 
                  dicevamo, lo stato è una soluzione politica a dei bisogni 
                  sociali determinati in gran parte dall'aumento della pressione 
                  demografica; in questi contesti noi esseri umani abbiamo bisogno 
                  di stabilizzare l'integrazione oltre alla nostra comunità 
                  immediata e generiamo risorse di concentrazione del potere. 
                  Il potere esiste in tutte le società umane, con o senza 
                  stato, e l'importante è vedere di quale tipo di potere 
                  si tratta; il problema è che nello stato si esercita 
                  un potere coercitivo che si sorregge in primo luogo sulla legittimità, 
                  ma infine sulla gestione della violenza. 
                  La domanda, pertanto, sarebbe piuttosto in quali circostanze 
                  si può vivere senza stato. Questa è la vera questione, 
                  secondo me. L'anarchismo organizzato corre un enorme rischio 
                  se non parte da questa domanda, perché deve contestualizzare 
                  le risposte che diamo e far sì che non solo possano risultare 
                  effettive in qualche luogo, ma che siano anche serie e convincenti. 
                  Ad esempio, potremmo rispondere che un gruppo di cacciatori 
                  di una ventina o trentina di persone disperse in un territorio 
                  enorme e con un livello tecnologico basicamente paleolitico 
                  può vivere senza stato, come anche un villaggio di un 
                  centinaio di persone che praticano un'agricoltura di sussistenza 
                  e che sono permanentemente in guerra con il villaggio vicino. 
                  Ebbene, potremmo vivere tutti noi spagnoli come cacciatori o 
                  in eco-villaggi? Ovviamente no. Il nostro compito è pertanto 
                  costruire un'alternativa allo stato che sia allo stesso tempo 
                  valida per quello a cui è servito lo stato a suo tempo: 
                  stabilizzare l'integrazione di milioni di persone. Si tratta 
                  di porre la questione in tutta la sua ampiezza, e non di concentrarsi 
                  solo su alternative individuali o estrapolate dal contesto: 
                  correnti come il primitivismo, il movimento della decrescita, 
                  determinati ecologismi, eccetera, ovviano a fattori fondamentali 
                  dell'equazione sociale. È davvero paradossale e quasi 
                  preoccupante che istituzioni come le Confederazioni anarcosindacaliste 
                  non si siano pronunciante organicamente discutendo queste posizioni, 
                  quanto piuttosto appoggiandole, proprio quando l'assemblearismo 
                  confederale, l'organizzazione della società in assemblee 
                  di produttori e consumatori confederate, rappresenta, a nostro 
                  modo di vedere, probabilmente l'alternativa più sensata 
                  al problema della sostituzione dello stato senza tornare alle 
                  condizioni di vita dell'età del bronzo europea. È 
                  un dibattito aperto.» 
                   
                  A cosa ti riferisci quando dici che il primitivismo, la 
                  decrescita o determinati ecologismi ovviano a fattori fondamentali 
                  dell'equazione sociale? Sono posizioni che rivendicano temi 
                  molto coerenti... 
                  «Forse la prima cosa per iniziare a rispondere è 
                  indicare che la coerenza discorsiva, la logica, non corrisponde 
                  necessariamente alla realtà. Uno può sbagliarsi 
                  ed essere perfettamente logico e coerente. Ad esempio, e limitandomi 
                  alla tua domanda, chiunque a cui piaccia la campagna e vada 
                  con una relativa frequenza in montagna sa perfettamente quale 
                  era il confine delle coltivazioni uno o due secoli fa, e pertanto, 
                  che in Spagna oggi c'è più bosco e terreno non 
                  coltivato di allora. Questo, in generale, è una manifestazione 
                  in più di un dato che si tende a ovviare in questi discorsi: 
                  siamo la cultura la cui tecnologia, per individuo, genera il 
                  minor impatto sul medio ambiente; ma siamo molti individui. 
                  Indipendentemente dal livello di vita, che è una costruzione 
                  culturale, ogni attività che pianifichi una decrescita 
                  tecnologica dovrebbe essere sufficientemente sincera da riconoscere 
                  che per il suo modello c'è troppa gente. 
                  A oggi semplicemente non si può mantenere tutta la popolazione, 
                  ad esempio, di una città come Alicante, senza agricoltura 
                  industriale e senza un'integrazione economica a livello internazionale. 
                  Questo, ovviamente, non vuol dire che non ci sia un problema 
                  ecologico, ma semplicemente che abbiamo più possibilità 
                  di risolverlo completamente pianificando modelli di autogestione 
                  economica in cui, scomparso lo stato e le corporazioni economiche, 
                  siano le stesse assemblee di produttori e consumatori confederate 
                  a razionalizzare la produzione. Questo, inoltre, si collega 
                  a quello che dicevamo di un anarchismo di integrazione sociale, 
                  in cui il discorso non si percepisce come un'aggressione agli 
                  interessi della maggioranza della popolazione ma come un'alternativa 
                  reale, tangibile, per coordinare questi interessi. Ma questo 
                  è tuttora in corso di dibattito.» 
                  Andrea Staid 
                  andreastaid@gmail.com
  
                  traduzione di Arianna Fiore e Carmela Oliviero  |