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			   interviste 
                  C'era una volta in Messico 
                  intervista a Pino Cacucci di Laura Antonella Carli e Giuditta 
  Grechi 
                    
                “Io non faccio lo storico, racconto storie”. 
  Pino Cacucci, di ritorno dal Messico, parla di letteratura, di memoria, di ribelli e, naturalmente, di America Latina. 
                
  
                 Pino Cacucci, prima ancora 
                  che uno scrittore e un traduttore, è un viaggiatore. 
                  Nel suo ultimo libro, La memoria non m'inganna, che raccoglie 
                  scritti di diverso tenore: ricordi, recensioni, piccoli racconti, 
                  dedica un breve testo a Bruce Chatwin, il “viandante impeccabile”: 
                  “Basterebbe quella foto che gli scattò lord Snowdon 
                  nell'82: scarponi appesi al collo, bisaccia in spalla, sguardo 
                  inquieto e momentaneamente distolto dal sentiero per dare un'occhiata 
                  veloce all'obiettivo, sguardo che sembra voler dire: 'Fai pure, 
                  ma io non posso fermarmi'... In quell'immagine Bruce Chatwin 
                  è l'emblema del viandante, e poco importa se stesse posando 
                  da ore o minuti, ciò che resta impresso è il senso 
                  del movimento”. 
                  Anche Pino è un viandante, solo che lui, a differenza 
                  di tanti vagabondi per vocazione, ha trovato una meta: il Messico 
                  è la sua seconda casa, ogni volta che ne parla lo fa 
                  in prima persona, dice “noi in Messico...”. 
                  Anche qui, nella sua Bologna, sembra essere di casa e di passaggio 
                  allo stesso tempo. C'è confidenza e amore per la città, 
                  ma anche l'irrequietezza, il dinamismo di chi ha pur sempre 
                  un piede al di là dell'oceano. 
                   
                  Sei da poco tornato dal Messico, dove hai anche organizzato 
                  il Festival Messico-Italia di Mahahual, quanto tempo passi nel 
                  tuo paese d'adozione? 
                  «Cerco di tornare in Messico ogni volta che posso, perché 
                  credo sia culturalmente uno dei posti più vivaci che 
                  ci siano. E sono in buona compagnia: Harold Pinter diceva che 
                  quando voleva respirare cultura, altro che Parigi o New York, 
                  andava a Città del Messico. 
                  La prima volta che mi sono spinto fino a Mahahual, l'ultimo 
                  lembo del Messico prima del Belize, ho ritrovato Luciano, una 
                  vecchio amico, ed è nata un'idea folle: un festival Italia-Messico 
                  in un paese di mille abitanti. Contro ogni previsione, anche 
                  con il sostegno delle amministrazioni locali, il progetto prende 
                  piede. Alla fine abbiamo radunato 100 invitati, 51 messicani 
                  e 49 italiani. Certo, l'affluenza di pubblico, trattandosi di 
                  un paesino così piccolo, non poteva che essere limitata. 
                  Abbiamo però avuto un'enorme attenzione da parte della 
                  stampa e soprattutto ci siamo divertiti tantissimo. Lo scopo 
                  principale – l'abbiamo chiamato apposta cruzando fronteras 
                  (attraversando le frontiere) – era quello di far vivere 
                  assieme persone, artisti, provenienti anche da realtà, 
                  non solo da paesi diversi. In questo siamo riusciti: si è 
                  creata una sorta di simbiosi, soprattutto la sera, quando i 
                  musicisti italiani e messicani suonavano insieme, si creava 
                  una vera e propria comunità anche con la gente del posto.» 
                   
                  È già in cantiere la prossima edizione? 
                  «La volontà c'è, speriamo di riuscire a 
                  realizzarla. Sarebbe un peccato se finisse tutto adesso, ci 
                  abbiamo investito molto, facendo anche dei sacrifici, e speriamo 
                  che chi ci ha fatto delle promesse – sponsor, istituzioni, 
                  eccetera – le mantenga.» 
                   
                  A proposito di rapporto Messico-Italia, tu non cerchi 
                  solo di portare, come in questo caso, l'Italia in Messico, ma 
                  anche il Messico in Italia, ad esempio attraverso la tua rassegna 
                  stampa settimanale che ha sempre un occhio di riguardo nei confronti 
                  dell'America Latina.  
                  «Sono ormai 25 anni che faccio la rassegna stampa, o “Stampa 
                  rassegnata” per Radio Città del Capo, qui a Bologna, 
                  in cui ogni tanto cito anche “A” Rivista Anarchica, 
                  e forse sono l'unico a farlo. Sicuramente sono uno dei pochi 
                  che parla di America Latina. Di certo non lo fa la stampa italiana, 
                  tutta accartocciata su se stessa, concentrata sull'Europa – 
                  che ormai non conta più niente nel mondo. È che 
                  se non vai tu su internet a cercarti la notizia e compri solo 
                  i quotidiani italiani in edicola, sembra che l'America Latina 
                  non esista.» 
                   
                  Adesso, con l'elezione di papa Bergoglio, sembra che esista 
                  almeno l'Argentina.  
                  «Il caso dell'elezione del papa è emblematico: 
                  io mi trovavo in Messico in quel periodo, e quando sono tornato 
                  mi sono reso conto che qui l'avevano già fatto santo. 
                  A Città del Messico guardavo i telegiornali, anche i 
                  più conservatori: lo hanno massacrato, hanno parlato 
                  del suo passato, gli hanno fatto un processo pubblico chiedendosi 
                  fino a che punto era stato complice della dittatura o soltanto 
                  codardo. C'è una discrepanza assoluta nella visione del 
                  mondo quando sei là e quando sei qua. Qui muore Andreotti 
                  e subito diventa quasi un sant'uomo. A Londra muore la Tatcher 
                  e i minatori fanno festa.» 
                   
                  Come è stata accolta invece la morte di Videla? 
                  «Ieri dall'Argentina mi hanno mandato una cosa molto dura 
                  e toccante, una sorta di saluto a Videla, anzi ai suoi familiari, 
                  in cui si dice: ecco, voi almeno il corpo l'avete, noi non l'abbiamo 
                  mai avuto.» 
                
                   
                     
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                    |   Pino 
                        Cacucci   | 
                   
                 
                 
                Tra storia e memoria 
                 Come mai secondo te in Italia c'è invece questa 
                  tendenza all'immediata santificazione post mortem? 
                  «Credo che la maggior parte di responsabilità ce 
                  l'abbia l'informazione. L'informazione italiana è strutturalmente 
                  ossequiosa. C'è stato un periodo in cui sembrava che 
                  lo sport preferito degli italiani fosse andare ai funerali, 
                  come quando è morto Agnelli. Nessuno che abbia detto 
                  “senza i soldi pubblici non avrebbe fatto niente, la Fiat 
                  è nata come fabbrica bellica, scoria avvelenata della 
                  grande guerra”. La colpa è della stampa, e naturalmente 
                  anche dell'ignavia di tutti noi. 
                  Alla morte della Tatcher invece Ken Loach ha detto: “Privatizzate 
                  il funerale, lei ha privatizzato tutto, ci manca che paghiamo 
                  il suo funerale con i soldi pubblici”.» 
                   
                  Invece in Italia cosa manca? 
                  «Forse è l'indole italiana: noi tendiamo a perdere 
                  la memoria. Prendi la seconda guerra mondiale: siamo l'unico 
                  paese che ha compiuto genocidi, per esempio in Africa, e che 
                  ha fatto finta che non fosse successo niente. In Germania ancora 
                  oggi i bambini alle elementari devono imparare cosa ha fatto 
                  il proprio paese. Da noi a parte Del Boca, che è rimasto 
                  inascoltato, non ci sono neanche testi che dicono che in Jugoslavia 
                  c'erano campi di sterminio italiani gestiti dall'esercito, che 
                  ha sterminato persone solo perché erano slave, non perché 
                  erano partigiani. È stato tutto cancellato in nome del 
                  cambio di sponda di Badoglio, che fino al giorno prima era un 
                  criminale di guerra – gli inglesi avevano il mandato di 
                  impiccarlo – e il giorno dopo è diventato il padre 
                  della patria. È codardia storica. Non siamo in grado 
                  di fare i conti con noi stessi, con la nostra storia. Pensiamo 
                  a come viene insegnata a scuola la prima guerra mondiale. Io 
                  credo che non sia mai esistito Enrico Toti: è un'invenzione, 
                  non è possibile che un uomo senza una gamba venga rimandato 
                  in trincea. 
                  Io ho vissuto una sorta di schizofrenia fin da bambino. Mio 
                  nonno era uno dei famosi ragazzi del '99, che a 16-17 anni vennero 
                  mandati in trincea nel Carso, poi in Africa, e mi ha raccontato 
                  delle cose che mi hanno colpito profondamente. Che so, di un 
                  alpino a cui il generale ha sparato in testa perché non 
                  si è tolto la pipa e non l'ha salutato in maniera deferente. 
                  Oppure di un compagno di trincea che, avendone passate di ogni, 
                  ha aspettato un assalto e la prima fucilata l'ha sparata nella 
                  schiena del capitano. La sua guerra mondiale era così. 
                  Nella sua campagna d'Africa i soldati che guidavano gli autocarri 
                  tiravano sotto i passanti per divertimento. 
                  Poi a scuola: Enrico Toti, Cadorna... erano tutti eroi. E io 
                  pensavo: mio nonno non è un bugiardo. E quando in prima 
                  media dovetti fare il tema “I ricordi di tuo nonno della 
                  prima guerra mondiale” scoppiò un casino: venni 
                  esposto al pubblico ludibrio della classe da parte del professore 
                  che mi tacciò di antipatriottismo. 
                  Ecco, io ho sempre avuto questa schizofrenia fra la realtà 
                  che mi veniva raccontata e quella che leggevo sui libri.» 
                   
                  Molti dei tuoi personaggi sono figure dimenticate dalla 
                  storia. Questa scelta si lega al discorso che hai appena fatto? 
                  Dare memoria alle figure dimenticate, guardare la storia da 
                  un punto di vista laterale, meno istituzionale? 
                  «Certo, la spinta che ho per scrivere è soprattutto 
                  questa, una sorta di spirito di rivalsa, scavare e ritirare 
                  fuori cose dimenticate o bistrattate. Fa parte del discorso 
                  sulla memoria intesa come coltivazione del dubbio, non assuefazione 
                  alle certezze che vengono propinate. Poi, più approfondisci, 
                  più scavi e più ti accorgi che la storia non è 
                  affatto una scienza esatta: ognuno la racconta come gli pare, 
                  e non può essere obiettiva. 
                  E in quest'ottica sono molte le persone che meritano di riavere 
                  voce, a cui la voce è stata soffocata perché non 
                  faceva comodo quello che dicevano e facevano. Quindi ovviamente 
                  in tutta la storia dell'anarchismo trovo spunti all'infinito. 
                  Lo stimolo è riportare in vita queste esistenze dimenticate, 
                  sempre con la consapevolezza che non è possibile contrabbandare 
                  la verità assoluta. Io non a caso scrivo in una maniera 
                  narrativa, racconti e romanzi. 
                  Qualcuno mi critica dicendo che sono apologie, che scelgo il 
                  meglio di personaggi che sicuramente potevano avere lati oscuri. 
                  Alla presentazione presso il Germinal di Trieste del mio libro 
                  Nessuno può portarti un fiore, c'è stato 
                  un compagno – non del Germinal, lo chiarisco per correttezza 
                  – che mi ha rimproverato di fare una sorta di “buonismo”, 
                  perché secondo lui Fantazzini era molto più duro 
                  di come l'ho descritto io. E in questo caso, essendo l'unico 
                  dei personaggi citati nel libro che ho conosciuto personalmente, 
                  ho risposto che questo è il modo in cui l'ho conosciuto 
                  io. L'ho conosciuto dopo che si era fatto 33 anni di galera 
                  e mi è parsa una persona sensibile, che trasmetteva una 
                  certa bontà d'animo. Ma ribadisco: ogni critica e dibattito 
                  sono proficui. 
                  In ogni caso è ovvio che l'atteggiamento da cui parto 
                  è di condivisione: io non faccio lo storico, racconto 
                  storie. E alla base c'è sempre un trasporto, un'empatia 
                  nei confronti delle vicende che scelgo di raccontare.» 
                   
                  La condivisione è sempre così totale? Ti 
                  è mai capitato di avere dubbi su alcune vicende? 
                  «In alcune storie che ho raccontato ci sono lati che io 
                  stesso non condivido, non sono sempre in totale simbiosi. Con 
                  il libro su Tina Modotti mi sono dovuto confrontare con dubbi 
                  continui. Ho scritto un libro di dubbi, anche contro altre pubblicazioni 
                  che hanno preferito l'immagine dell'eroina della rivoluzione, 
                  l'apostola del comunismo. Io invece ho tirato fuori dettagli 
                  della sua vita che dispiacevano a me per primo, perché 
                  da parte mia c'era l'innamoramento verso la persona, ma non 
                  potevo tacere ad esempio certe implicazioni con lo stalinismo 
                  o i dubbi sul suo livello di complicità in certi eventi.» 
                   
                  Forse è solo in questo modo che si rende giustizia 
                  a un personaggio: raccontandolo in tutta la sua complessità, 
                  anche scomoda. 
                  «Dal mio punto di vista sicuramente. Prima di scrivere 
                  questo libro su Tina Modotti ne avevo scritto un altro, che 
                  ormai non è più in circolazione, in cui raccontavo 
                  me stesso alla ricerca di queste notizie, e man mano che procedo 
                  con le ricerche vedo sgretolarsi l'ideale che avevo di lei e 
                  sono costretto a fare i conti con i lati oscuri della sua vicenda, 
                  con aspetti della sua vita che, in altri libri che raccontano 
                  la sua vita, sono rimasti del tutto taciuti.» 
                   
                  È interessante il rapporto che si crea tra scrittore 
                  e personaggio, è una sorta di dialogo attraverso il tempo. 
                  «È prima di tutto una specie di innamoramento. 
                  E poi naturalmente c'è il dialogo con il fantasma del 
                  personaggio. Ogni tanto ti fermi e chiedi al fantasma: “Ma 
                  hai davvero fatto questa cosa?”. Molte vicende resteranno 
                  sempre controverse. Tutte le volte che rivedo Paco Taibo (lo 
                  scrittore Paco Ignacio Taibo II) discutiamo a proposito dell'omicidio 
                  di Julio Antonio Mella, compagno della Modotti. Secondo Paco 
                  è stato fatto uccidere dal governo messicano in combutta 
                  con il dittatore di Cuba, mentre nulla c'entravano le dispute 
                  interne tra stalinisti e trotskisti. Io sono d'altro avviso, 
                  nel mio libro infatti ho riportato alcune testimonianze che 
                  ho letto sui giornali dell'epoca e che contrastano con la versione 
                  fornita da Tina. Recentemente Paco è tornato alla carica, 
                  convinto di aver trovato nuovi documenti a favore della sua 
                  tesi. Insomma, la storia non finisce mai, non è fatta 
                  di certezze: puoi continuare a scavare tutta la vita e poi ognuno 
                  magari rimane delle sue convinzioni, l'essenziale però 
                  è continuare a discutere e non fare finta di nulla.» 
                   
                  Del tuo modo di narrare incuriosisce molto la ricostruzione 
                  di dettagli e stati d'animo profondamente personali, per cui 
                  il lavoro di ricerca e di ricostruzione storica può aiutare 
                  fino a un certo punto. Qualche volta non hai paura di interpretare 
                  troppo liberamente? 
                  «È una questione che mi sono posto, però 
                  ho fatto questa scelta: mi interessa raccontare gli stati d'animo. 
                  È la possibilità in più che ha il narratore 
                  rispetto allo storico, quella di riuscire a ridare vita alla 
                  persona anziché al personaggio. E quindi ci vogliono 
                  gli stati d'animo, ci vogliono i dialoghi, i sentimenti. Certo, 
                  io mi illudo che il mio modo di scrivere sia il risultato di 
                  ricerche, attraverso testimonianze di varia natura, che io poi 
                  trasformo in una scena in cui le persone si dicono delle cose 
                  e provano delle emozioni. E questo per forza sconfina nel romanzo. 
                  D'altra parte senza questi aspetti i personaggi sarebbero icone 
                  fredde, come nei libri di scuola. 
                  Ad esempio per il libro su Nahui Olin ho fatto anni di ricerche, 
                  ho letto testi, intervistato persone e visitato luoghi: da tutto 
                  questo magma decido di tirare fuori un romanzo, non una ricostruzione 
                  storica. E allora aggiungo delle parti in corsivo in cui lei, 
                  ormai vecchia, riflette sulle vicende. E, presentandolo in giro, 
                  mi è capitato più di una volta che dal pubblico 
                  mi chiedessero “Ma, quelle lettere di Nahui, dove le hai 
                  recuperate?” “Non sono lettere”, rispondevo, 
                  “le ho inventate io”. Da un lato è indubbiamente 
                  lusinghiero: il bravo narratore deve riuscire a calarsi nei 
                  panni degli altri, o in questo caso delle altre.» 
                   
                  Avendo raccontato anche di persone che conosci, che sono 
                  ancora in vita, ti è mai capitato che qualcuno abbia 
                  avuto delle rimostranze per come l'hai tratteggiato? Forse non 
                  Sepúlveda: ne fai un ritratto così bello che ha 
                  poco da lamentarsi... 
                  «Di Sepúlveda ho scritto cose che mi aveva raccontato 
                  lui stesso. Oltretutto lui mi ha detto: “Maledetto Pino, 
                  sei il mio dottor Freud!” perché quei fatti, la 
                  sua prigionia, non li aveva mai raccontati a nessuno in modo 
                  così dettagliato. Erano una ferita aperta che in parte 
                  resterà aperta per sempre. 
                  Rimostranze direi di no, piuttosto ho dei piccoli rimpianti. 
                  Faccio un esempio: in Ribelli c'è un capitolo 
                  su Silvio Corbari e Iris Versari. Era da tempo che volevo scrivere 
                  questa vicenda, quindi avevo già tutti i miei dati, non 
                  avevo però ancora conosciuto la famiglia di Corbari, 
                  cioè i due figli – e in particolare Giancarlo e 
                  sua moglie Iole – e Lina, la vedova, che allora era ancora 
                  viva. In quel capitolo ho dato molto spazio a Iris (compagna, 
                  amante di Silvio? Poco importa). Di fatto però ho quasi 
                  tralasciato la figura di Lina, che avendo già un figlio 
                  piccolo non poteva andare in montagna: era una di quelle donne 
                  che rischiavano la pelle per aiutare i partigiani, anche se 
                  non erano loro stesse in prima linea a combattere. E dopo averla 
                  conosciuta e apprezzata moltissimo, mi è nato il rimpianto 
                  di non averle dato il giusto rilievo a vantaggio di Iris, che 
                  a posteriori avrei ridimensionato. 
                  Quando hanno ucciso Silvio Corbari Lina era incinta, e lei diceva: 
                  “Meno male che mio figlio è sputato al padre, se 
                  no avrebbero detto che ero stata con qualcun altro, e invece 
                  mio figlio è la prova che Silvio stava ancora con me 
                  quando l'hanno ammazzato”. 
                  È sempre delicatissimo quando si parla dei vivi, anche 
                  se io sono stato fortunato, perché la famiglia Corbari 
                  poteva benissimo disconoscere il mio racconto. Ma hanno capito 
                  che l'ho fatto in buona fede, per restituire dignità 
                  e memoria alla storia di Silvio. Lina mi diceva spesso “Ah, 
                  i partigiani i partigiani: io però sono sempre stata 
                  trattata come la moglie di un bandito, non di un partigiano. 
                  Per campare ho dovuto fare i lavori più umili, perché 
                  non mi assumevano da nessuna parte, eravamo considerate mogli 
                  di ladri e banditi. Oggi si fa presto a parlare di Resistenza, 
                  ma il dopoguerra per noi è stato davvero duro. Col cavolo 
                  che ci consideravano vedove di eroi”. 
                  In ogni caso, sia con i vivi che con i morti, è necessaria 
                  un'etica del narratore, un rigore morale di cui è responsabile 
                  lui solo. Poi chi legge è libero di fare le proprie critiche.» 
                
                   
                     
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                    |   Oaxaca (Messico), manifestazione popolare  | 
                   
                 
                 
                L'epica del malfattore 
                 Con figure così iconiche: il bandito, il rivoluzionario, 
                  il fuorilegge un rischio forte può essere quello di cadere 
                  in una letteratura troppo romantica o apologetica. 
                  «Certo, il rischio c'è e lo corro, ma al tempo 
                  stesso sono figure che mi attraggono proprio per questi motivi. 
                  Quando ho cominciato a scrivere della banda Bonnot, e quindi 
                  dell'altra faccia della Belle époque, non ero spinto 
                  soltanto dal desiderio di riesumare fatti e persone che avevano 
                  una loro dignità, c'era anche un'altra forza che mi spingeva, 
                  anche se non dichiarata: raccontare quella storia era un po' 
                  come raccontare tante altre storie simili degli anni '70, che 
                  io ho vissuto. Volevo dire: “Attenzione, quelli che impugnano 
                  le armi non sono tutti fanatici, ci sono i fanatici, ma anche 
                  quelli che, in diverse maniere, sono stati sbattuti dalla vita 
                  con le spalle al muro”. 
                  Raccontando la storia di Bonnot ho voluto dire che tu puoi anche 
                  essere una persona sensibile, animata da buoni propositi, ma 
                  se ti va tutto storto, ti perseguitano fin da piccolo, cresci 
                  in una fonderia, tuo padre è un povero disgraziato... 
                  provi a riscattarti e tutte le volte ti risbattono nel buco, 
                  alla fine ti incazzi e dici basta, meglio una fine spaventosa 
                  di questo spavento senza fine. 
                  E allora perché devo condannare Bonnot in nome di un 
                  principio – anche di un certo anarchismo – non violento, 
                  pacifista? Il mondo nasce e vive nella violenza, puoi solo limitarla. 
                  L'ideale non violento è bellissimo, ma non applicabile 
                  in assoluto: ci sono fasi della storia in cui la gente si ribella 
                  e fa un atto di violenza. E quando non trovi una rivoluzione 
                  a disposizione fai come Bonnot, che si fa ammazzare, ma perché 
                  animato da un eccesso di sensibilità, non di crudeltà. 
                  A me interessava provare a raccontare questo punto di vista, 
                  quello di chi non solo è rimasto nella storia come un 
                  criminale, ma che mentre faceva quelle cose aveva contro quasi 
                  tutto il movimento anarchico che lo considerava un provocatore 
                  o uno che – magari in buona fede – faceva dei danni 
                  politici enormi. 
                  E anche in questo caso, come scrittore, mi sono messo su una 
                  china pericolosa, perché la critica può essere: 
                  della figura di Bonnot parli, cerchi di riscattarla, ma appartiene 
                  a inizio '900, uno che fa queste cose adesso cosa fai, non lo 
                  condanni? Io no, non lo condanno, ma neanche lo esalto. Non 
                  si tratta di proporre dei modelli, ma di raccontare cose che 
                  succedono e sono successe. Il confine è labile: non sto 
                  dicendo: “Prendete una pistola e fate come Bonnot”, 
                  anzi, raccontandovi com'è finita cerco semmai di dissuadere. 
                  Però vi dico anche che non era una carogna.» 
                   
                  Quindi ben venga anche un po' di romanticismo... 
                  «Io rivendico il romanticismo e l'epica. E sono in buona 
                  compagnia. Altri miei amici scrittori, come Paco Taibo, come 
                  Sepúlveda dicono spesso: “Romantici? Sì, 
                  cosa c'è di male? Siamo romantici perché abbiamo 
                  bisogno di sentimenti”. E io stesso non considero l'aggettivo 
                  “romantico” in maniera negativa. 
                  Allo stesso modo rivendico l'epica: da lettore mi piace sentire 
                  il coinvolgimento di una narrazione epica degli eventi, quindi 
                  cerco di perseguirla. È logico che scegliendo questa 
                  modalità narrativa, il lettore, se coinvolto, sta dalla 
                  parte per cui parteggio anch'io. Comunque dubito fortemente 
                  di essere un cattivo maestro.» 
                   
                  I più criticati saranno i ritratti di personaggi 
                  non animati da ideali politici, che pure tu inserisci nelle 
                  tue rassegne di ribelli. 
                  «Chiaro, Casaroli ad esempio, di cui ho parlato in Camminando, 
                  non era animato da ideali, era un “ribelle senza causa”, 
                  e c'è chi critica il fatto che io l'abbia inserito insieme 
                  a ritratti di partigiani, di persone fortemente connotate a 
                  livello etico e politico. A me però interessava il lato 
                  umano di un giovane che, nel dopoguerra, si ritrova come tanti 
                  altri a essere uno sbandato, senza più nulla in cui credere 
                  e la sua reazione è: “Be', non cambia niente, io 
                  non credo più in niente: mi metto a rapinare le banche”. 
                  E allora si mette insieme ad altri due, uno che da giovane era 
                  stato fascista e uno che era stato partigiano, e ne viene fuori 
                  un terzetto grottesco che, unito da questo patto di morte, comincia 
                  a rapinare per fare la bella vita. Erano gli anni '50 e in qualche 
                  modo anche loro si sono ribellati a un'Italia di buffoni.» 
                   
                  Be', tra i Ribelli hai messo anche 
                  Jim Morrison... 
                  «Certo, e mi chiedono cosa c'entri con in partigiani... 
                  c'entra: più ribelle di lui! 
                  A parte i miei gusti personali, mi interessava la vita, brevissima 
                  ma intensa, di un musicista che viene ricordato solo per le 
                  canzoni ma che è anche finito in galera perché 
                  incitava a disertare la guerra del Vietnam, a bruciare le cartoline 
                  precetto quando arrivavano. Nel suo caso non c'era solo l'autodistruzione 
                  come forma di ribellione, c'era anche il tentativo di fare qualcosa 
                  di incisivo. Il suo eccesso di sensibilità l'ha poi evidentemente 
                  portato all'autodistruzione. Anche in questo caso la critica 
                  è facile: una signora a Milano mi ha detto: “Ma 
                  era un drogato”. E io: “Be', signora, è un 
                  po' riduttivo...”.» 
                   
                  È molto forte la tendenza, sia nei confronti di 
                  persone con problemi di dipendenza sia verso chi ha commesso 
                  qualche forma di reato, a identificare totalmente l'individuo 
                  con l'azione commessa. Per questo forse è invece importante 
                  recuperare un po' di fascinazione nei confronti dell'illegalismo, 
                  come c'era ad esempio nella letteratura ottocentesca o prima 
                  ancora all'epoca dei supplizi pubblici: una sorta di “epica 
                  del malfattore”. Soprattutto ora che domina ovunque, anche 
                  a sinistra, un legalitarismo benpensante. 
                  «Il mio stimolo per continuare a scrivere è proprio 
                  andare contro questo appiattimento, fare un po' il bastian contrario. 
                  A me interessano le ragioni per cui si finisce a fare il bandito, 
                  il malfattore, eccetera. 
                  Può anche capitare che comincio a ricercare, a scandagliare 
                  e mi accorgo che il personaggio che mi interessava era proprio 
                  uno stronzo, e allora lascio stare. Anche perché in quel 
                  caso non scatta la condivisione, che è indispensabile, 
                  quindi saluto il personaggio e dico: “La tua storia la 
                  racconterà qualcun altro”.» 
                   
                  Nello scegliere di raccontare determinate storie, quanto 
                  c'è di politico e quanto di viscerale? 
                  «Credo che la mia passione politica sia viscerale. Io 
                  però preferisco parlare di passione sociale, visto che 
                  in troppi si sono prodigati per trasformare la parola “politica” 
                  in una parolaccia. Tutto in fondo è politica. Bisognerebbe 
                  riportare la politica alla sua accezione originaria di preoccupazione 
                  per l'altro, condivisione comunitaria di un problema, farsene 
                  carico anche per altruismo e generosità e non per interesse 
                  personale... insomma, l'esatto contrario di quello a cui assistiamo 
                  oggi, per cui la politica è essenzialmente una carriera. 
                  Io vorrei invecchiare un po' anche nello spirito, non solo nel 
                  corpo: vorrei incazzarmi di meno, dare una tregua al fegato. 
                  Certo, molte cose non le vedo più con lo sturm und 
                  drang dei 18 anni, l'età ti insegna a stare più 
                  zitto e ascoltare di più. Però c'è sempre 
                  una brace che si rinfiamma.» 
                   
                  Tornando a Sepúlveda, a proposito di reazioni viscerali, 
                  alla Fiera del libro di Torino... (scoppia a ridere 
                  e finisce la frase: “Quando ha detto che il Cile è 
                  un paese di merda!”) «Ecco, questo è uno 
                  dei motivi per cui siamo così amici...» 
                   
                  Dopo la sua dichiarazione Oscar Godoy, l'ambasciatore 
                  cileno in Italia, gli ha rimproverato di essere troppo concentrato 
                  sul passato del paese, di non riuscire ad accorgersi dei cambiamenti 
                  in atto.  
                  «Non si può pensare di passare attraverso l'inferno 
                  e rimanerne indenni. Ciò non vuol dire che sia legato 
                  al passato: ha sì scritto libri di memoria, ma tanti 
                  dei suoi testi sono scritti per l'attualità e per il 
                  futuro, ad esempio quando dice che essenzialmente la differenza 
                  tra destra e sinistra è che la destra tende a semplificare 
                  tutto, e da qui il razzismo, mentre essere di sinistra vuol 
                  dire faticosissimamente accettare l'estrema complessità 
                  del mondo e farsene carico e non pensare alle scorciatoie, perché 
                  non esistono.» 
                   
                  Una volta, proprio sulle 
                  pagine di “A” hai scritto: “il mondo è 
                  troppo complesso per non essere anarchici”. 
                  «Il concetto è esattamente quello! Le scorciatoie 
                  sono facili e così si va avanti per certezze assolute, 
                  che fanno i danni che sappiamo. 
                  Insomma, Lucho (Luis Sepúlveda) prende la vita in maniera 
                  sanguigna, ma è una delle persone di maggior bontà 
                  d'animo che io conosca. A volte è proprio chi è 
                  più generoso nei confronti degli altri che sente l'affronto 
                  e si incazza di più. Lui, proprio perché sempre 
                  animato dal bisogno di accettare la complessità del mondo, 
                  non è un estremista: è sempre disposto ad approfondire 
                  le situazioni cogliendo anche le ragioni degli altri. 
                  Poi, dopo tutto quello che ha passato, ora in Cile è 
                  tornata la destra al governo: è ovvio che sia furibondo. 
                  E lì, come in Italia in fondo, è anche colpa di 
                  una sinistra che non si fa votare, che delude talmente tanto, 
                  che poi a votare ci vanno solamente gli altri.» 
                
                   
                     
  | 
                   
                   
                    |   Pino Cacucci sul vulcano Paricutín, nello stato messicano 
                  di Michoacán  | 
                   
                 
                 
                Le vene aperte dell'America Latina 
                 Ricordavi che in Cile è tornata al governo la 
                  destra, ma in molti altri paesi latinoamericani non è 
                  così, anzi, in alcuni casi – Argentina, Venezuela, 
                  Bolivia – la sinistra, magari non sempre limpidamente, 
                  vince le elezioni da dieci, quindici, vent'anni.  
                  «Be', negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni interessantissimi, 
                  che hanno fatto dell'America Latina anche una sorta di fucina 
                  per nuove maniere di intendere la sinistra al governo. Certo, 
                  a conti fatti l'esperienza di Lula in Brasile ricorda un po' 
                  quella di Mandela. Però non ne nascono tanti di personaggi 
                  che dal carcere e dalle lotte, in alcuni casi dalla guerriglia 
                  – come il presidente dell'Uruguay – arrivano al 
                  governo. Il neoliberismo devasta ogni società, però 
                  il Brasile dimostra che da un lato si può progredire 
                  secondo i canoni imposti dall'esterno, con le quotazioni in 
                  borsa, la finanza e tutto l'orrore che sappiamo, ma al tempo 
                  stesso riducendo sempre più la povertà. Poi non 
                  bisogna dimenticare che queste situazioni sono sempre i risultati 
                  di grandi movimenti, non di un uomo della provvidenza. Nel caso 
                  di Chavéz, è criticabile l'uomo, con il suo modo 
                  di fare troppo istrionico, facilone, superficiale in certe scelte 
                  – gli piaceva farsi vedere con Ahmadinejad – ma 
                  il Venezuela ora ha una coscienza di sé che prima non 
                  aveva, non è più solo il paese da cui si estrae 
                  petrolio, con la corruzione dilagante, la fame, la povertà. 
                  Quindi forse questo tentativo ha gettato le basi per costruire 
                  qualcosa anche senza di lui... chissà. 
                  Però tutta l'America Latina in questi anni ha dimostrato 
                  come si possa attraversare un passato di dittature, di situazioni 
                  estreme e nonostante tutto risollevarsi. D'altra parte in America 
                  Latina le dittature sono state in larga misura imposte dall'esterno, 
                  da minoranze, da oligarchie sostenute da un capitale e da un 
                  certo sistema economico. Per esempio, ?Pinochet ha fatto da 
                  apripista per il neoliberismo: tutti i chicago boys che 
                  hanno partorito quello che stiamo vivendo, l'hanno partorito 
                  a Chicago, ma il campo di prova è stato il Cile di Pinochet. 
                  In America Latina ci sono situazioni che meriterebbero sicuramente 
                  più attenzione, non il silenzio assoluto dei nostri mezzi 
                  di informazione. Dovrebbe essere il nostro referente principale: 
                  non possiamo avere come referente la Cina, che in sostanza ha 
                  realizzato il capitalismo perfetto, dove c'è una dittatura 
                  che schiavizza il lavoro.» 
                   
                  Qual è invece la situazione del Messico? 
                  «Il Messico è ancora un altro discorso, tant'è 
                  che geograficamente è ancora in Nord America, ma al tempo 
                  stesso è un paese latino, che si ritrova a difendere 
                  la latinità. Con tutte queste ventate di sinistra al 
                  governo, si è sperato che anche il Messico cambiasse, 
                  ma alla fine anche López Obrador non ce l'ha fatta. 
                  Poi naturalmente in Messico la questione principale è 
                  la guerra al narcotraffico: un'assurdità, perché 
                  non puoi dichiarare una guerra sapendo di averla persa in partenza. 
                  Ce lo insegna il mercato: finché c'è domanda, 
                  c'è anche l'offerta. Finché ci sono gli Stati 
                  Uniti che consumano la cocaina, ci sarà qualcuno che 
                  la produce – Colombia, Perù – e qualcun altro, 
                  il Messico, che la commercializza. Questa è una realtà 
                  che non si può cancellare con l'esercito, men che meno 
                  con la corruttibilissima polizia. In questi giorni sto leggendo 
                  il libro di Saviano, che è un personaggio su cui ho molte 
                  riserve, ma che sulla questione sembra essersi documentato e 
                  di cui condivido l'idea, perché la penso da tempo, che 
                  oggi la cocaina regoli i destini dell'umanità. Ha anche 
                  sostituito il petrolio come principale stimolo economico. 
                  È stato Bush (padre) – e prima Reagan – a 
                  suggerire al Messico di dichiarare guerra al narcotraffico, 
                  ma nella maniera più falsa che si possa immaginare, perché 
                  contemporaneamente – prima per diventare capo della Cia, 
                  poi per la presidenza – si è fatto finanziare dai 
                  narcotrafficanti dell'eroina del Sudest asiatico. Bush è 
                  un uomo dei narcotrafficanti: allora la guerra non è 
                  contro il narcotraffico, ma solo contro alcuni narcotrafficanti. 
                  Per giunta, una volta dichiarata la guerra, gli Stati Uniti 
                  hanno lasciato il Messico da solo a combatterla: non ci sono 
                  mai campagne di arresti o scontri a fuoco di là della 
                  frontiera. “Non è la nostra guerra ma sono nostri 
                  i morti” dicono gli striscioni nelle manifestazioni messicane. 
                  Il Messico non ha problemi così ingenti di consumo di 
                  droga come gli Stati Uniti. Per sconfiggere il narcotraffico 
                  bisognerebbe arrivare alle banche, perché è lì 
                  che il denaro si ferma, ma gli Stati Uniti, che si sono appena 
                  ripresi dal tracollo, non andrebbero mai a toccare le banche. 
                  Poi se giri per il Messico non hai la sensazione di girare in 
                  un paese in guerra civile, anche se qui arrivano solo le notizie 
                  dei morti ammazzati. I problemi stanno soprattutto nella zona 
                  frontaliera. 
                  E forse è proprio questa la ragione del mancato cambiamento: 
                  in fondo, se al governo andasse un partito disposto a trattare 
                  con i narcos, magari la carneficina finirebbe. È chiaro 
                  che sembra un discorso un po' cinico, ma anche molto materialista: 
                  hanno scelto il male minore. 
                  Anche i narcotrafficanti non sono tutti uguali: i gruppi più 
                  recenti, gli Zeta, sono di una ferocia mai vista. Sono tutti 
                  ex militari, corpi speciali dell'esercito messicano mandati 
                  negli Usa ad addestrarsi. Sono delle macchine da guerra, e hanno 
                  assoldato anche i kaibiles, i corpi speciali guatemaltechi 
                  responsabili del genocidio dei maya in Guatemala, specializzati 
                  in torture. Il vecchio narcotraffico, quello alla Chapo Guzmán, 
                  era diverso. Non dico si possa parlare di etica, ma per loro 
                  era impensabile ammazzare un bambino o una donna. 
                  Alla fine sembra che il Messico abbia perso l'ultimo autobus 
                  per il rinnovamento, ma essendo anche così variegato, 
                  avendo al suo interno così tante realtà, ha una 
                  coscienza di sé molto forte, che è sempre stata 
                  più sviluppata rispetto al resto dell'America Latina. 
                  Non a caso ha fatto la prima rivoluzione sociale del '900. 
                  È un paese pieno di paradossi: Città del Messico 
                  è una delle città più tranquille del mondo. 
                  Pur tenendo conto che ha 25 milioni di abitanti, ogni anno calano 
                  i dati su criminalità e microcriminalità. Qualche 
                  anno fa era facile essere rapinati in taxi, magari con la compiacenza 
                  del tassista. Ma sono ormai tre mandati che Città del 
                  Messico, prima con Obrador e poi con i successori, ha amministratori 
                  fondamentalmente onesti, non corrotti, che hanno a cuore la 
                  cosa pubblica. E ci sono state delle conquiste sociali e di 
                  laicità impensabili per il resto del Messico e per buona 
                  parte dell'America Latina. A Città del Messico l'aborto 
                  è assistito, le coppie di fatto hanno delle garanzie, 
                  si celebrano matrimoni gay già da anni. Sembra di fare 
                  il confronto con la Scandinavia e l'Olanda. E a me piace pensare 
                  che queste conquiste siano anche l'eredità di quelle 
                  donne straordinarie che tanto hanno lottato, da Frida a Nahui 
                  a Tina, e tutte le altre. 
                  Sono un po' di ore che chiacchieriamo... quale argomento abbiamo 
                  dimenticato?» 
                   
                  La traduzione! 
                  «Certo, la mia attività principale! Passo più 
                  tempo a tradurre che a scrivere i miei libri. E sono fortunato 
                  ad aver fatto di una lingua e una cultura la passione di una 
                  vita. Con la passione puoi anche superare degli ostacoli tecnici, 
                  perché non ho mai studiato accademicamente lo spagnolo, 
                  l'ho imparato per strada. L'essenziale è trasmettere 
                  quello che intuisci nella tua lingua: devi conoscere i meccanismi 
                  della tua lingua, soprattutto per tradurre narrativa, perché 
                  richiede la capacità di trovare il modo di rendere le 
                  stesse emozioni che ha reso l'autore, ma in una lingua diversa. 
                  È qui che tornano i famosi stati d'animo. 
                  Poi, quando traduco, cerco di farmi aiutare anche dall'autore: 
                  cerco di instaurare un rapporto d'amicizia. Finora mi è 
                  andata bene, e ho avuto la fortuna di trovare autori che capivano 
                  l'importanza di avere un rapporto con il proprio traduttore. 
                  Nessuno può avere la presunzione di conoscere un'altra 
                  lingua alla perfezione. E non può neanche esserci una 
                  corrispondenza perfetta tra le lingue. Non so come traducano 
                  Camilleri in spagnolo, ma già è difficile per 
                  un italiano che non sia siciliano capire tutto.» 
                   
                  Quanti titoli hai tradotto? 
                  «Più o meno sono arrivato a 90 titoli e in totale 
                  a una cinquantina di autori, e spero che in ognuno ci sia il 
                  linguaggio degli autori, non il mio. Poi è chiaro che 
                  traducendo un minimo di libertà te la devi prendere, 
                  ma cercando sempre di mantenere questo impalpabile equilibrio 
                  tra la tua libertà e il rispetto per la scrittura dell'altro.» 
                   
                  E tu invece sei mai stato tradotto male? 
                  «In realtà, quando è successo, me l'ha fatto 
                  notare Paco. Ad esempio San Isidro Futból è 
                  stato tradotto tutto nello spagnolo castigliano di Madrid, e 
                  quindi è andato perso quello che io avevo cercato di 
                  costruire, anche con il linguaggio, per rendere l'atmosfera 
                  del Messico. Tant'è vero che Paco adesso lo vuole ripubblicare. 
                  Lui e sua moglie hanno messo in piedi queste brigate per la 
                  lettura (brigadas para leer en libertad), per diffondere 
                  la lettura anche nei posti più sperduti del paese, e 
                  sta avendo un grande successo, a dimostrazione che se alla gente 
                  porti i libri gratis o quasi, legge. Qualche testo, di cui riescono 
                  ad avere gratis i diritti, lo pubblicano loro direttamente ed 
                  è quello che intendono fare con San Isidro Futból, 
                  questa volta rispettandone gli accorgimenti linguistici. Insomma, 
                  alle volte anche una semplice traduzione può diventare 
                  un atto di arroganza coloniale.»
                  Laura Antonella Carli 
                  Giuditta Grechi
                 
                   
                    I libri citati in queste pagine 
                         
                        I fuochi le ombre il silenzio: la fragil vida di Tina Modotti 
                  negli anni delle certezze assolute, Agalev, 1988 
                  Tina, Interno giallo 1991, Feltrinelli, 2005 
                  San Isidro Futból, Granata Press, 1991; Feltrinelli, 
                  1996 
                  In ogni caso nessun rimorso, Longanesi, 1994; Feltrinelli, 
                  2001 
                  Caminando. Incontri di un viandante, Feltrinelli, 1996 
                  Ribelli!, Feltrinelli, 2001 
                  Nahui, Feltrinelli, 2005 
                  ¡Viva la vida!, Feltrinelli, 2010 
                  Nessuno può portarti un fiore, Feltrinelli, 2012 
                  La memoria non m'inganna, Feltrinelli, 2013.  | 
                   
                 
                
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