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			   in direzione 
                  ostinata e contraria 10 
                  Dentro la lingua di un popolo 
                  
                Interviste a Sandro Fresi e Paola Giua 
                di Renzo Sabatini 
				
  
                  Per poter raccontare un popolo, un'identità, bisogna saper farne propria 
  la lingua, riuscendo a coglierne anche le sfumature. 
  Esattamente come ha fatto Fabrizio con la Sardegna. 
  A colloquio con due membri del gruppo musicale sardo Iskeliu. 
                 
                   
                  Ho cercato Sandro Fresi 
                  dopo averlo ascoltato nel filmato Faber di Giuffrida 
                  e Bigoni. Una breve apparizione nella quale racconta, con una 
                  certa ritrosia e quasi la paura di mettersi in mostra, della 
                  sua ricerca musicale e dell'incontro con De André, con 
                  il sottotitolo che lo presenta come: “Capostazione di 
                  Tempio Pausania”, quasi fosse uno scherzo del regista. 
                  Ma non era uno scherzo e allora ci si chiede come mai uno che 
                  da trent'anni fa ricerche da etnomusicologo, suona strumenti 
                  antichi come la ghironda, compone musiche e ha inciso vari cd, 
                  il primo dei quali con la prefazione di Fabrizio De André, 
                  di mestiere faccia il capostazione.  
                  Non è stato facile trovare i dischi di Fresi: neanche 
                  la presentazione di De André è servita a farli 
                  arrivare sugli scaffali delle rivendite. È finita che 
                  ho dovuto farlo cercare da un amico e che lui, gentilissimo, 
                  i suoi dischi me li ha regalati.  
                  Di quella musica mi sono subito innamorato. Sandro raccoglie 
                  materiali, storie, poesie, musiche, strumenti. Gira per le campagne 
                  della Gallura a parlare con i contadini per salvare un patrimonio 
                  inestimabile di racconti e leggende. Sperimenta. Inventa nuovi 
                  linguaggi musicali, per decodificare quegli antichi messaggi 
                  e renderli accessibili ad orecchie e sensibilità moderne 
                  e urbanizzate. Nella calma inquieta di una “stazione lambita 
                  dal mare, al centro del Mediterraneo”, costruisce armonie 
                  che uniscono il suono antico delle launeddas con quello “colto” 
                  del violoncello, creando contaminazioni fresche e saporite, 
                  musiche capaci di raggiungere il fondo dell'anima, emozionare, 
                  portare in superficie sentimenti profondi, inquietudini. Capace 
                  di commuovere. E di mestiere fa il capostazione, perché 
                  quest'arte “povera” in Italia è negletta 
                  e i discografici e le istituzioni si guardano bene dal promuovere 
                  questa nostra ricchezza nazionale. 
                  Eppure i cd di Sandro sono bellissimi e consiglio a tutti 
                  di cercare di procurarseli, per provare l'emozione di conoscere 
                  la Sardegna e il Mediterraneo attraverso le sue musiche. La 
                  sua versione dell'Ave Maria della Buona Novella, 
                  cantata in gallurese, algherese e logudorese, è emozionante. 
                  Nel 2007, con il suo gruppo Iskeliu, Sandro Fresi è 
                  venuto due volte in tournée in Australia, dove ha raccolto 
                  quel successo di pubblico e quell'attenzione da parte dei media 
                  che in Italia non trova. Così ho avuto il piacere di 
                  avviare e consolidare un'amicizia profonda, perché è 
                  uno di quei casi in cui fra l'artista e l'uomo non vi è 
                  distanza. 
                  Quando, per la trasmissione, ho deciso di affrontare i temi 
                  cari a De André da Crêuza de mä in 
                  poi, con l'uso degli idiomi locali e degli strumenti del Mediterraneo, 
                  mi è sembrato normale parlarne con questo artista che 
                  ha trascorso la vita in quell'angolo di Sardegna, a pochi chilometri 
                  dallo stazzo dell'Agnata, dedicando tutti i suoi sforzi alla 
                  stessa ricerca artistica. Attraverso Sandro e altri membri di 
                  una non tanto sparuta pattuglia di resistenti della cultura 
                  popolare ho capito che, in un certo senso, anche questi artisti 
                  rientrano nel novero di quegli emarginati (ma anche di “anime 
                  salve”) che furono tanto cari a De André.  
                
                 Intervista a Sandro Fresi 
                   
                  Nel tuo caso le presentazioni sono un po' inutili perché 
                  dopo la tournée del febbraio 2007 forse sei più 
                  conosciuto in Australia che in Italia. Comunque, per gli ascoltatori 
                  più distratti, vuoi ricordare al nostro pubblico i tuoi 
                  vari impegni artistici?  
                  La tournée in Australia per noi è stata un po' 
                  una sorpresa, perché certamente ci aspettavamo il calore 
                  del pubblico ma non una partecipazione così convinta 
                  e numerosa nelle quattro capitali dove abbiamo tenuto concerti. 
                  Siamo contentissimi e viviamo ancora di questo ricordo. Rientrati 
                  nella nostra povera patria, come direbbe Battiato, non abbiamo 
                  avuto alcun riscontro mediatico mentre la tournée è 
                  stata così tanto evidenziata dai media nazionali australiani. 
                  Umilmente siamo rientrati in Sardegna e abbiamo continuato il 
                  nostro impegno qui, dando concerti anche all'interno dell'isola. 
                   
                  Il titolo del tuo primo disco ha dato il nome anche alla 
                  tua band: Iskeliu. Quell'album è uscito con la prefazione 
                  di Fabrizio De André e tu hai detto che il motivo per 
                  cui hai chiesto proprio a lui la presentazione non aveva nulla 
                  a che fare col fatto che abitava a pochi chilometri da casa 
                  tua. Allora qual era questo motivo? 
                  C'era, da parte di questa piccola etichetta, la necessità 
                  di una presentazione di rilievo, dato che fino a quel momento 
                  avevo realizzato solo collaborazioni con altri artisti. Io in 
                  realtà ero molto titubante ma il fatto che abbia scelto 
                  proprio De André non c'entra con il fatto che abitasse 
                  vicino a Tempio Pausania ma è legato all'album Crêuza 
                  de mä con cui, nei primi anni ottanta, con l'aiuto 
                  importantissimo di Mauro Pagani, aveva utilizzato le sonorità 
                  pan-mediterranee. Quell'album ha rappresentato una svolta perché 
                  venivano utilizzate sonorità e strumenti popolari e di 
                  tradizione. Lui è stato ed è rimasto l'unico grande 
                  artista che si sia veramente interessato a questi suoni, che 
                  sono quelli che utilizziamo anche noi. 
                   
                  Quello per gli idiomi locali e gli strumenti “etnici” 
                  è un interesse che è sbocciato gradualmente in 
                  De André, sembrerebbe in parallelo con una certa insofferenza 
                  per le costrizioni dell'italiano. La prima traccia di questa 
                  svolta è una canzone proprio in lingua gallurese, Zirichiltaggia, 
                  pubblicata nel 1978 nell'album Rimini; 
                  cui ha fatto seguito nel 1980 l'Ave Maria 
                  sarda nell'album Indiano. Due gesti di 
                  riguardo verso la terra adottiva o intrusioni inopportune? 
                  Zirichiltaggia è molto simpatica, molto divertente 
                  e gioiosa e per i gallurofoni e i sardi in genere è stata 
                  un'autentica sorpresa, una piacevole rivelazione. A noi galluresi 
                  è parso un gesto di riguardo verso la terra adottiva. 
                  Fra l'altro dal punto di vista fonetico non la cantava neanche 
                  male e quindi è una cosa che è risultata subito 
                  molto partecipata, sentita e gradita in Gallura e in Sardegna. 
                  L'Ave Maria sarda è molto antica e per la sua 
                  versione De André si era ispirato a un'elaborazione di 
                  Albino Puddu, un musicista e compositore del sud della Sardegna, 
                  credo del Sulcis, che aveva fatto in realtà un album 
                  con assonanze latinoamericane. De André ha rielaborato 
                  il pezzo e questa sua versione, con un ingresso in tonalità 
                  minore, è stata talmente apprezzata e gradita che oggi 
                  è considerata alla pari della versione tradizionale che 
                  si canta da secoli in Sardegna. 
                    
                 
                L'anima pan-mediterranea 
                 
                  Il disco Crêuza de mä 
                  del 1984 è stata una sorpresa che però ha fatto 
                  anche storcere il naso ai cultori di De André. Poi col 
                  tempo questo album è diventato un classico. Ma perché 
                  Crêuza de mä è importante? 
                  Quali sono dal punto di vista della tua ricerca artistica i 
                  punti di forza di questo lavoro? 
                  Innanzitutto l'uso del genovese, anche se in una versione arcaica, 
                  considerato una lingua, un idioma locale e non un dialetto. 
                  De André non voleva più cantare in italiano o 
                  comunque aveva espresso il desiderio di cantare nella sua lingua, 
                  una lingua locale, minoritaria ma utilizzata come una sorta 
                  di linguaggio universale, o lingua franca del Mediterraneo. 
                  Poi, dal punto di vista musicale e strumentale, nel disco, nelle 
                  sonorità che esprime, c'è tutto l'universo del 
                  Mediterraneo e del vicino Oriente. È un disco che contiene 
                  proprio l'anima pan-mediterranea, con tutti gli strumenti a 
                  vento, a fiato, le percussioni, gli strumenti a pizzico utilizzati 
                  in una vasta area. Un'operazione davvero splendida. 
                   
                  Molti sostengono che Crêuza de mä 
                  ha rappresentato un punto di passaggio per la musica italiana. 
                  Però non è che in Italia mancassero, prima di 
                  De André, coloro che facevano ricerca nell'ambito della 
                  musica popolare o sperimentazione con strumenti etnici. In che 
                  modo Crêuza de mä rappresenta 
                  un punto di passaggio? 
                  Certamente già prima di Crêuza de mä 
                  e anche nello stesso periodo c'era gente che si interessava 
                  in maniera molto seria alle cosiddette musiche di confine e 
                  ai suoni tradizionali. Però il fatto che sia stato uno 
                  dei più grandi autori in lingua italiana, un grande poeta 
                  e musicista a prendere in mano questa situazione, è stato 
                  sicuramente determinante per il gradimento generale, quindi 
                  per aprire un varco nel consenso verso questi suoni che, fino 
                  a quel momento, erano ritenuti marginali, arcaici, direi quasi 
                  di colore, nell'immaginario musicale italiano. 
                   
                  È vero che Crêuza de mä 
                  ha anche spinto i giovani artisti ad interessarsi a questa musica, 
                  a comporla, a cominciare a suonare certi strumenti?  
                  Non ci sono dubbi. Come il suo modo di scrivere i testi ha influenzato 
                  molti autori nella scrittura delle liriche, così anche 
                  nel campo della musica etnica. Da allora in poi quel disco ha 
                  rappresentato un punto di riferimento che ha influenzato un 
                  certo modo di intendere la musica. È un album precursore 
                  di quella che poi oggi viene definita la “World Music” 
                  italiana.Ha indicato una direzione e ispirato molti musicisti. 
                   
                  All'inizio però il disco era stato un flop. Lo 
                  stesso De André ammise che usare il genovese era stata 
                  un po' una sfida anche nei confronti dei discografici. La genesi 
                  del disco, raccontata dai suoi autori, parla di testi scritti 
                  all'inizio in una sorta di arabo maccheronico, per poi finire 
                  in questo genovese arcaico che De André aveva definito 
                  “figlio dell'Islam”, ricco di fonemi arabi, in qualche 
                  modo rappresentativo di tutto il bacino del Mediterraneo. Che 
                  valore ha oggi questa posizione, vista la contrapposizione netta 
                  che si cerca sempre di proporre fra Europa e Islam? 
                  Gran bella domanda alla quale però è difficile 
                  rispondere in maniera esaustiva e convincente, visto che non 
                  sono un politologo! Però ti racconto un aneddoto che 
                  può servire. Abbiamo fatto qualche tempo fa un progetto 
                  di archeomusica, con i musicisti del mio gruppo Iskeliu1, 
                  allargato anche a etruscologi e a specialisti in strumenti musicali 
                  del vicino Oriente. Questo progetto è stato una specie 
                  di viaggio a ritroso per la Sardegna, la Corsica per arrivare, 
                  passando per la Tuscia e poi per le coste del Libano, fino a 
                  Ebla, in Mesopotamia, dove pare sia nata la musica circa seimila 
                  anni fa, passando per la Grecia, per l'epitaffio di Sicilo, 
                  che è un epitaffio dove, per la prima volta, si rappresenta 
                  la notazione musicale. Questo per dirti che, per chi presta 
                  attenzione a questo genere di cose, la questione non si pone. 
                  Questo antagonismo associato all'Islam è un problema 
                  che noi che facciamo questo tipo di musica neanche prendiamo 
                  in considerazione, perché la nostra musica passa dall'Islam. 
                  Prendiamo ad esempio l'oud arabo, che è uno strumento 
                  di ascendenza sumerica che si suonava già quasi seimila 
                  anni fa: noi lo utilizziamo ancora oggi nei nostri arrangiamenti. 
                  Da questo strumento poi sono derivati tutti i cistri e tutti 
                  i liuti rinascimentali, ad esempio la cetera corsa e l'aud catalano 
                  che oggi sono utilizzati comunemente nelle musiche del Mediterraneo 
                  occidentale. 
                   
                  Restando ancora su Crêuza de mä, 
                  De André disse che con questo lavoro voleva ricordare 
                  le radici mediterranee della nostra cultura in un momento in 
                  cui tutto era imitazione delle tradizioni anglosassoni e afrocubane. 
                  “La musica popolare era relegata in soffitta fra le ragnatele”, 
                  disse De André, “e io ho cercato di dare un calcio 
                  alla porta sempre chiusa”. Pensi che davvero quella porta 
                  fosse chiusa e che il Crêuza de mä 
                  sia servito ad aprirla? 
                  Per quanto riguarda le musiche del Mediterraneo, quelle popolari, 
                  sicuramente sì, perché fino a quel momento quelle 
                  musiche erano pressoché ignote al grande pubblico, che 
                  semmai le associava a una visione folcloristica. In quel periodo 
                  si viveva una sorta di revival e chi presentava i repertori 
                  lo faceva in maniera filologica. Non c'era quasi mai un utilizzo 
                  di tipo creativo di queste sonorità. Credo che da questo 
                  punto di vista lui abbia veramente sfondato questa porta ed 
                  aperto ad un pubblico molto più vasto, un pubblico nazionale 
                  che ascoltava altre cose, portandolo ad apprezzare la bellezza 
                  di queste sonorità. 
                   
                  Dopo Crêuza de mä ci sono 
                  ancora due dischi importanti, purtroppo anche gli ultimi di 
                  De André. Nelle Nuvole del 1990 
                  torna in parte a esprimersi nelle lingue locali: genovese, gallurese 
                  e napoletano. In Anime salve del 1996, 
                  oltre al genovese ci sono incursioni anche in altre lingue, 
                  il romanés e il portoghese. Ma soprattutto c'è 
                  un ruolo sempre più importante degli strumenti etnici. 
                  Come li valuti questi due lavori? 
                  Credo che fosse ormai la direzione che aveva preso con Crêuza 
                  de mä e verso cui andava. Anime salve è 
                  un percorso spirituale nell'anima del mondo. Ci sono le influenze 
                  del tropicalismo di Caetano Veloso, ma poi c'è il Mediterraneo, 
                  con influenze anche di musica balcanica. Si sentono anche molto 
                  le influenze di Pagani da un lato e di Fossati dall'altro e 
                  direi che De André ha optato per una sorta di miscellanea 
                  di queste posizioni, come se nel disco convivessero più 
                  anime. 
                
                 
                Lingue ai margini 
                 
                  In un'intervista rilasciata ad una rivista anarchica De 
                  André chiarì che nel suo lavoro cercava di non 
                  confondere musica etnica e musica folk perché: “La 
                  musica folcloristica è quella che fa il popolo per far 
                  divertire le classi sociali più elevate mentre la musica 
                  etnica è quella che fa il popolo per se stesso”. 
                  Tu cosa ne pensi? 
                  È una bellissima considerazione! Che dire di fronte a 
                  queste parole? Sono in ginocchio! Perché è la 
                  pura verità. La classe dominante ha sempre guardato alla 
                  musica folcloristica con benevola condiscendenza, con un occhio 
                  quasi compassionevole verso questa musica “povera”, 
                  fatta dal popolino. Tanto è vero che questa era la definizione 
                  che si trovava fino a pochi anni fa nei dizionari alla voce 
                  “musica folcloristica”: musica suonata dal popolino. 
                   
                  In questi lavori è centrale la riflessione sull'italiano 
                  e sulle lingue cosiddette “minori”. Una riflessione 
                  riassunta nella conclusione che, mentre la lingua nazionale 
                  è imposta dall'alto, le lingue locali sono frutto della 
                  tradizione, rappresentano il vero mezzo espressivo del popolo, 
                  un mezzo attraverso cui l'italiano si rinnova. Mi pare che questa 
                  riflessione si sposi con la tua ricerca artistica.  
                  Sicuramente sì. L'italiano da solo non ce la farebbe 
                  a sopravvivere e quindi deve continuamente attingere da questa 
                  risorsa che sono le lingue e gli idiomi locali. È conclamato 
                  nell'opera di De André come amasse queste lingue delle 
                  minoranze, queste che lui definiva lingue tagliate, che sono 
                  ai margini, magari utilizzate da poche migliaia di persone. 
                  La mia ricerca artistica si rivolge a questo stesso mondo, che 
                  è situato ai margini. 
                   
                  De André sosteneva che queste lingue si sposavano 
                  bene con i suoi personaggi marginali, che in questo modo potevano 
                  esprimersi in modo veramente popolare. Pensiamo alle prostitute 
                  di Via del Campo, che ritroviamo nella 
                  Duménega di Crêuza 
                  de mä. Pasolini del resto diceva che il dialetto 
                  è il popolo e il popolo è autenticità e 
                  De André ne deduceva che allora il dialetto è 
                  autenticità. Tu fai la stessa cosa, mi pare, facendo 
                  cantare i tuoi personaggi in gallurese, corso, sardo e così 
                  via. 
                  Sì, nella mia ricerca musicale utilizzo lingue, dialetti, 
                  codici, nella convinzione che siano il miglior veicolo per musiche 
                  suonate con strumenti popolari. Mi suonerebbe strano l'utilizzo 
                  dell'italiano in un contesto di musica di tradizione, ancorché 
                  creativa. Il binomio diventa inscindibile quando si parla di 
                  testualità e di musiche e strumenti che, accompagnando 
                  la lirica, si rifanno alla tradizione popolare. Lo stesso vale 
                  al contrario: la canzone cantata in sardo ma con riferimenti 
                  a musiche d'oltreoceano risulta in tutta la sua pochezza, quanto 
                  a originalità, quando poi uno va ad ascoltarla. Parlo 
                  del sardo per fare riferimento alla mia isola, ma potrebbe essere 
                  una canzone pop o etno beat cantata in una qualunque altra lingua 
                  locale e sarebbe lo stesso. Una canzone così non ha dentro 
                  una spinta. 
                   
                  Parlando di lingue minoritarie e di personaggi deandreiani, 
                  parliamo di questa splendida versione dell'Ave Maria 
                  tratta dalla Buona Novella, che hai inserito 
                  in questo tuo bellissimo album che si chiama Zivula. 
                  Qui hai utilizzato proprio lingue e strumenti cari a De André. 
                  Parlaci di questo pezzo: perché l'hai fatto, perché 
                  l'hai scelto, come l'hai costruito?  
                  Dopo che Fabrizio è andato via ho sentito la necessità 
                  di dedicargli un omaggio. Molti hanno avvertito questa necessità, 
                  anche se alcuni lo hanno fatto con operazioni molto discutibili 
                  e altri con operazioni degne di grande rilievo. Io, più 
                  sommessamente, ho pensato di prendere un classico “minore” 
                  della produzione di De André, un pezzo che passava quasi 
                  inosservato nella Buona Novella, perché l'Ave 
                  Maria è un brano che nell'album dura poco più 
                  di un minuto e mezzo. Ho trovato le parole di una bellezza struggente, 
                  per come viene descritta la figura di Maria, in una dimensione 
                  molto umana. Ho preso in mano questa lirica con molta attenzione, 
                  con molto timore di rovinarla, in qualche modo di profanarla 
                  e ho lavorato sul testo assieme a degli specialisti di idiomi 
                  locali sardi, in modo da affrontarlo in maniera molto filologica. 
                  Ho scelto queste lingue minoritarie della Sardegna come omaggio 
                  della mia terra a un grande che, come sua residenza per vivere 
                  e comporre, aveva scelto questo lembo di Sardegna nel nord-est 
                  della Gallura montana, lontano dai clamori delle coste, in un 
                  piccolo paese di pietra e di granito. Così, per quanto 
                  riguarda il linguaggio, con questi due studiosi, Carlo De Martis 
                  per quanto riguarda l'algherese, il catalano antico di Alghero, 
                  e Piero Canu per quanto riguarda il gallurese e il sardo logudorese, 
                  si è lavorato per fare una traslazione del testo che 
                  fosse la più fedele possibile all'originale. Anche per 
                  la musica, l'arrangiamento, c'è stato un lavoro di scelta 
                  meditato. Ho pensato di utilizzare un piccolo coro gregoriano, 
                  un organo a canne, di quelli piccoli che si trovano ancora nelle 
                  cappelle o nei piccoli santuari della Gallura e che sono andato 
                  a registrare direttamente sul posto. Soprattutto ho deciso di 
                  utilizzare le benas che sono strumenti a vento, più o 
                  meno come le launeddas, anche se più piccole. Si tratta 
                  di uno strumento primordiale della Sardegna che ha almeno tremila 
                  anni di storia musicale e in questo caso si è trattato 
                  di Benas costruite apposta per questo pezzo, in tonalità 
                  minore. Questa è tutto sommato l'intelaiatura, la tessitura 
                  quasi minimale del pezzo, un'intelaiatura che è stata 
                  concepita per sottrazione rispetto all'arrangiamento originale, 
                  che era molto corposo e pieno di archi. Questo è stato 
                  un po' il ringraziamento a un maestro che aveva prestato attenzione 
                  al mio lavoro. Ho cercato con molta umiltà di utilizzare 
                  quelle lingue minoritarie e quegli strumenti che lui amava tanto. 
                
                   
                    |   | 
                   
                   
                    |   Lo stazzo, insediamento rurale caratteristico della 
                  Gallura. Ora molti di essi sono abbandonati  | 
                   
                 
                 
                Una storia sarda  
  De André ha passato una parte importante della sua vita in Gallura, 
  lo ricordavi tu stesso poco fa, e non si è fatto scoraggiare nemmeno 
  dal rapimento. Tu, oltre alla tua versione dell'Ave Maria 
  di cui abbiamo appena parlato, lo ricordi ogni anno con un'iniziativa che si 
  chiama Coriandoli a Tempio. Di che si tratta? 
  Prima di parlare di Coriandoli a Tempio ho bisogno di parlarti del contesto 
  in cui questa mia iniziativa si inserisce. Perché Tempio non ha mai dimenticato 
  questo suo illustre concittadino e da quando lui se n'è andato è 
  stato tutto un fiorire di iniziative. Io sono stato subito chiamato per la direzione 
  artistica di una rassegna musicale, perché i ragazzi dei licei scientifico 
  e artistico-musicale organizzavano un'iniziativa in teatro con giovani voci 
  che interpretavano il repertorio di De André. Poi sono stato chiamato 
  dall'amministrazione comunale per la realizzazione di un festival deandreiano 
  che si tiene ogni anno nella prima settimana di agosto. Per me, che sono stato 
  beneficiato dalla prefazione di De André al mio primo disco, questo rappresenta 
  un appuntamento al quale non posso mancare. Io faccio la direzione artistica 
  del festival veramente con spirito di immensa gratitudine nei confronti di Fabrizio 
  De André e con spirito di servizio nei confronti della mia comunità. 
  È un festival molto sentito, anche perché non si tratta di un 
  omaggio filologico, e vengono spettatori da ogni parte della Sardegna. Ho cercato 
  di privilegiare la creatività degli arrangiamenti nella proposizione 
  dei repertori, ad esempio ho fatto partecipare artisti come Kewin Dempsey, un 
  cantautore londinese che canta alla sua maniera il repertorio genovese di De 
  André; il gruppo provenzale Corou de Berra, che utilizza i particolarissimi 
  cori polifonici delle Alpi del sud; fino ad arrivare all'energia elettrica prorompente 
  degli Yo Yo Mundi. In questa cornice si inserisce anche Coriandoli a Tempio, 
  che è una mia riduzione in forma di reading musicale del romanzo che 
  De André scrisse assieme ad Alessandro Gennari, Un destino ridicolo, 
  il cui primo capitolo si intitola appunto Coriandoli a Tempio. È 
  un libro di una bellezza straordinaria, affollato di personaggi tipici dell'universo 
  deandreiano: visionari, poveri, emarginati, pastori. Abbiamo scelto di rappresentarlo 
  perché è una storia sarda, che inizia e finisce in un martedì 
  grasso in cui a Tempio Pausania impazza il carnevale. 
   
  Hai citato la prefazione al tuo primo disco. Forse è giunto il 
  momento di raccontarlo questo tuo incontro con De André. Quando lui ha 
  ascoltato la cassetta con le tracce di Iskeliu poi ti ha telefonato per dirti 
  che avrebbe scritto la prefazione e tu sei andato a casa sua, all'Agnata, col 
  cuore in gola, a conoscerlo. Ti ricordi com'è andata? 
  In realtà non amo molto raccontare quell'episodio, perché non 
  vorrei dare l'impressione di menar vanto delle mie cose. Io sono profondamente 
  grato a Fabrizio De André che, quello che ha fatto, voglio sottolinearlo, 
  non l'ha fatto per amicizia. Perché lui era talmente rigoroso dal punto 
  di vista intellettuale, di un'onestà morale eccezionale, che non l'avrebbe 
  fatto solo per fare un favore a un amico, non l'avrebbe fatto se non ci avesse 
  creduto. Questo me lo ha confermato in seguito anche Dori Ghezzi. Comunque: 
  avevo fatto avere a De André il semplice riversaggio dallo studio di 
  registrazione di questo disco che non riuscivamo a pubblicare perché 
  nessuno se ne interessava. Anche se facevamo questa musica da anni nessuno voleva 
  lanciare il disco perché è una musica che non è di moda. 
  Ma io sono contento di fare musica che non è di moda e spero, con sommessa 
  vanità, che non essendo di moda possa rimanere e sopravvivere all'incalzare 
  delle mode. Quel giorno sono arrivato all'Agnata e Fabrizio mi aspettava sull'uscio 
  di casa, come facevano i contadini degli antichi stazzi galluresi. Appariva 
  sorridente, sereno. In casa c'erano degli amici e per me è stato molto 
  imbarazzante. Perché a questi amici lui ha detto: “Sapete, qui 
  mi arriva musica da tutta Italia. Io ascolto tutto. Però vi dico che 
  questo ragazzo fa una musica che mi ha davvero emozionato e non è una 
  cosa che capita spesso a un vecchio cantautore come me”. È stato 
  davvero affettuoso e io ancora adesso ogni volta che ne parlo mi emoziono. Mi 
  ha poi portato in un angolo per farmi leggere la prefazione che aveva preparato 
  e mi ha chiesto se l'avessi gradita, con quell'umiltà che hanno solo 
  i grandi. Io ero quasi con le lacrime agli occhi e lui mi ha ringraziato e abbracciato. 
  Ricordo sempre il suo sorriso sulla soglia di casa, mentre mi salutava. Dopo 
  l'ho sentito varie volte per telefono ma non è stato più possibile 
  incontrarci e quindi conservo per sempre il ricordo di quel sorriso. 
   
  Siamo un po' al sogno, all'utopia: se tu potessi incontrarlo di nuovo, 
  a distanza di qualche anno, lo inviteresti a fare un pezzo assieme al tuo gruppo? 
  O cosa gli proporresti? 
  Dalla pubblicazione di Iskeliu ritengo di aver fatto un grande salto in avanti. 
  Lui era molto convinto di quel mio lavoro, che in realtà avevo fatto 
  con l'ausilio dei campionatori. Io per una decina d'anni avevo campionato e 
  rielaborato sonorità della Sardegna e del Mediterraneo con queste macchine 
  digitali, perché mi consentivano di inserire più strumenti, in 
  mancanza di musicisti, che non avevo, perché all'epoca i musicisti in 
  genere non credevano in questo progetto. Dopo l'uscita del disco invece sono 
  riuscito a riunire un team di musicisti, ho abbandonato quasi del tutto i campionatori 
  e utilizzo strumenti acustici sia di tradizione colta, come il violoncello e 
  il sax, che popolare, come i liuti, l'oud, la fisarmonica, le launeddas e la 
  ghironda. Quindi oggi, se potessi ancora incontrare Fabrizio, mi piacerebbe 
  fargli ascoltare il risultato di questa crescita, lo stile e il gusto che cerco 
  di mettere nel mio lavoro e sono certo che, come allora, non mi negherebbe il 
  suo sostegno e il suo aiuto. Certo, il sogno sarebbe stato poter fare qualcosa 
  per lui, o insieme a lui, o avere una sua collaborazione. Ma questo ovviamente 
  è destinato a restare un sogno. 
   
  Con intenzione popolare 
                 
                  Il tuo straordinario campionario di strumenti abbiamo 
                  avuto il piacere di averlo qui da noi, speriamo che anche in 
                  Italia si riesca ad ascoltare sempre più spesso questa 
                  tua musica così evocativa. I sardi comunque hanno trovato 
                  molto spazio nel canzoniere di De André, accanto ad altri 
                  popoli: indiani, palestinesi, rom. In particolare ha avuto questa 
                  intuizione molto originale mettendo a confronto sardi e cheyenne. 
                  Tu come vivi quel paragone, ti sembra calzante? 
                  Il paragone mi sembrerebbe eccessivo se non fosse che in Sardegna 
                  esistono in alcune zone sacche di evidente marginalità, 
                  dove il disagio sociale è molto forte e dove gli “indigeni” 
                  sono trattati in una certa maniera. Non è così 
                  ovunque, ovviamente. Lui comunque è stato talmente grande 
                  da aver perdonato persino chi gli ha fatto del male, intuendo 
                  che l'essere ricacciati continuamente nella marginalità 
                  produce questi fenomeni così negativi e pericolosi. 
                   
                  Abbiamo parlato del De André che ha affrontato 
                  con passione la musica etnica, i dialetti, quelli che tu chiami 
                  “gli strumenti e le lingue dei poveri”. Concludi 
                  tu con una tua riflessione. 
                  Questo è il mondo in cui mi riconosco, lavoro, studio, 
                  opero. Cerco di conoscere ed ascoltare anche quello che fanno 
                  gli altri, perché è giusto documentarsi. Questo 
                  tipo di musica è fatta con moduli e strumenti di antica 
                  provenienza. È fatta con strumenti popolari e soprattutto 
                  con intenzione popolare, attingendo da testi di poeti e rimatori 
                  che sono o furono pastori e contadini, ai quali prendiamo versi 
                  che utilizziamo per musicare delle nostre idee. Tutto questo 
                  materiale lo mettiamo assieme per fare musica in una forma che 
                  è contemporanea, creativa, per fare in modo che anche 
                  chi ci ascolta possa ritrovarcisi. È una musica che sta 
                  iniziando e questo sembra un paradosso. Ed è una musica 
                  reietta e quasi negletta. Questo è quello che ci lega 
                  di più all'universo deandreiano: questo amore per le 
                  musiche di confine, per le lingue minoritarie, per gli strumenti 
                  poveri e per la gente povera che li utilizza. 
                
                 Intervista a Paola Giua 
                   
                  Nel 2007 in tournée con Sandro Fresi venne in Australia 
                  anche Paola Giua: splendida voce del gruppo, capace di trasmettere 
                  emozioni fortissime, che raggiungono una vetta interpretativa 
                  proprio nell'Ave Maria della Buona Novella cantata con amore 
                  nelle lingue che compongono il mosaico sardo. Ma naturalmente 
                  neanche Paola di mestiere fa la cantante.  
                  Paola, oltre che cantante, è una ricercatrice del 
                  linguaggio e la presidentessa dell'associazione culturale “Iskeliu”, 
                  fondata con Sandro Fresi. Per questo ho voluto sentire anche 
                  la sua testimonianza, che integra e completa quella di Sandro. 
                  Quello che segue è un estratto dell'intervista che 
                  mi ha gentilmente rilasciato.  
                   
                  Nel febbraio 2007 abbiamo potuto ascoltare la tua bellissima 
                  voce come cantante del gruppo Iskeliu di Sandro Fresi, ma sappiamo 
                  che il tuo interesse per le lingue minoritarie va ben oltre 
                  i tuoi impegni artistici.  
                  I miei studi sono stati tutti orientati alle lingue minoritarie 
                  e alla sociolinguistica. Vivendo in una terra così ricca 
                  di varietà linguistiche fin da piccola ho avuto una particolare 
                  passione per questo aspetto e da sempre mi sono dedicata a scoprire 
                  le meraviglie di queste lingue, in particolare del gallurese, 
                  che è la mia lingua madre2. 
                  L'incontro con Sandro Fresi ha significato arricchire la mia 
                  ricerca linguistica con la sua ricerca, musicale e linguistica, 
                  con un grande rigore sul piano filologico. 
                   
                  Iskeliu non è solo un gruppo musicale ma anche 
                  un'associazione culturale di cui sei presidentessa.  
                  L'associazione nasce da un gruppo che ha fatto un percorso di 
                  tipo etnografico e musicale. Cerchiamo di ritrovare le strade 
                  della tradizione della Sardegna e della Gallura in particolare. 
                  È una terra che, trovandosi al centro del Mediterraneo, 
                  ha assorbito e rielaborato influenze di vari popoli e noi cerchiamo 
                  di recuperare, a livello musicale ma non solo, queste tradizioni, 
                  per valorizzarle e farle conoscere. 
                   
                  Da attenta studiosa delle lingue sarde come valuti le 
                  liriche che De André ha cantato proprio in queste lingue? 
                  Ho vissuto molto bene quelle canzoni. Quando noi galluresi ascoltiamo, 
                  ad esempio, Zirichiltaggia (parola che contiene peraltro 
                  un fonema impronunciabile per chi non è nato qui) sentiamo 
                  una persona che è riuscita ad entrare completamente nel 
                  nostro modo di vivere, di essere, di sentire, lo sentiamo come 
                  uno di noi. Perché De André non ha fatto una semplice 
                  traduzione di un testo, è proprio entrato nella testa, 
                  nel modo di pensare del pastore sardo che litiga col fratello, 
                  utilizzando una serie di frasi idiomatiche tipiche della nostra 
                  zona e cogliendo anche il senso dell'umorismo tipico di questo 
                  territorio. Poi c'è l'Ave Maria sarda che è 
                  un pezzo tradizionale a cui tutti i sardi sono affezionati. 
                  Lui ne ha fatta una rivisitazione che lascia tutti senza fiato, 
                  sardi e non. Noi quindi, come sardi, siamo orgogliosi di aver 
                  avuto questa attenzione da parte di un artista così importante. 
                  Vorrei dire però che sono stata molto colpita anche dall'attenzione 
                  che ha dedicato al popolo rom in Khorakhané. Mi 
                  ha colpito perché è un'attenzione così 
                  vicina, così vissuta dal di dentro. Proprio come era 
                  stato per il popolo sardo, verso cui ha avuto un graduale avvicinamento 
                  fino quasi al volersi fondere, conoscere fino in fondo una minoranza, 
                  una cultura altra, un essere altro da sé. 
                   
                  Genovese antico e moderno, gallurese e sardo, napoletano, 
                  portoghese e romanés... com'è l'uso degli idiomi 
                  in De André? 
                  Apparentemente spontaneo ma in realtà particolarmente 
                  e attentamente studiato, nel senso che De André entra 
                  dentro quelle lingue per cogliere il lato più vero delle 
                  culture alle quali vuole avvicinarsi. Perché una lingua 
                  non è solo un modo di parlare ma diventa proprio il modo 
                  di esprimere il pensiero in una determinata cultura e questo 
                  significa che per poter raccontare un popolo, un'identità, 
                  è necessario entrare dentro la lingua di quel popolo. 
                  E questo è proprio quello che fa De André, riuscendo 
                  a cogliere sfumature di realtà molto lontane dalla sua. 
                   
                  Come ti sembra la Sardegna tratteggiata da canzoni come 
                  il Canto del servo pastore o Disamistade? 
                   
                  Anche dopo l'episodio del rapimento lui ha continuato ad amare 
                  i sardi e il Canto del servo pastore coglie con grande 
                  sensibilità alcuni degli aspetti più intimi del 
                  nostro modo di sentire, gli aspetti più teneri del nostro 
                  modo di vivere la nostra terra. Questa figura del pastore io 
                  la sento particolarmente vicina. 
                 Renzo Sabatini 
                 Note
 
                  - www.iskeliu.it 
                    – iskeliu@tiscali.it 
                  
 - Lingua romanza derivante dal corso, parlata in Gallura, regione 
                  nord-orientale della Sardegna.
  
                  
                (interviste realizzate via telefono nel novembre e dicembre 
                2007. Registrate presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. 
                Andate in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: 
                “In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi 
                delle canzoni di Fabrizio De André). 
                  
                   
                    |   In 
                        direzione ostinata e contraria  
                       Con 
                        queste due interviste, prosegue la pubblicazione su “A” 
                        di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche 
                        realizzate da Renzo Sabatini e andate 
                        in onda in Australia nel programma “In direzione 
                        ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia 
                        fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si 
                        è trattato di sessanta puntate (ciascuna della 
                        durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 
                        40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state 
                        trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni 
                        di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più 
                        lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al 
                        cantautore genovese. 
                       Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria. 
                       Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012)); Paolo 
                        Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); 
                        Gianni Mungiello, 
                        Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 
                        377, febbraio 2013); Giulio Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, 
                  marzo 2013). 
                       la redazione di “A”  | 
                   
                 
                
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