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               Casella 
                  Postale 
                  17120 
                 Calcio 
                  e dittatura/Quel gol a porta vuota 
                   
                  Cara Redazione, 
                  ho letto con piacere i recenti articoli “a tema calcistico” 
                  di Giovanni Cerutti e Angelo Pagliaro e ho pensato di sottoporre 
                  all'attenzione dei lettori di “A” un episodio storico 
                  ma non sufficientemente ricordato. 
                  Santiago del Cile, settembre 1973. La giunta militare del generale 
                  Pinochet con un golpe (e la complicità degli Stati Uniti) 
                  prende il potere e il presidente Salvator Allende si suicida 
                  per non consegnarsi vivo ai soldati che stanno occupando il 
                  palazzo governativo della Moneda. Nell'ultimo appello dato al 
                  suo popolo per radio, Allende aveva annunciato: “Ho fiducia 
                  nel Cile e nel suo destino [...] Non dubitate che, più 
                  prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali 
                  passa l'uomo libero per costruire una società migliore”. 
                  Con Pinochet capo di stato, inizia subito una caccia spietata 
                  a tutti gli oppositori del regime, e in poche settimane lo stadio 
                  della capitale cilena si trasforma in una sorta di lager dove 
                  vengono rinchiusi un migliaio di dissidenti e gli spogliatoi 
                  diventano camere di tortura e fucilazione. 
                  Il 21 novembre dello stesso anno, all'Estadio Nacional è 
                  previsto il ritorno del match – valido per la qualificazione 
                  ai mondiali di Germania del 1974 – Cile-Urss (0-0 il risultato 
                  dell'andata). Per l'importante evento sportivo le autorità 
                  militari si affrettano a trasferire dagli spalti ad altri “luoghi 
                  della morte” tutti i prigionieri, ma la Federazione calcio 
                  dell'Urss comunica che la propria nazionale non disputerà 
                  nessuna partita in un campo-prigione di dissidenti politici. 
                  Le autorità sportive e governative cilene invece vogliono 
                  che la loro squadra sia in campo, e nel più importante 
                  impianto calcistico del paese, anche per dare un segnale rassicurante 
                  al mondo. E così, quel giorno di novembre del 1973 all'Estadio 
                  Nacional di Santiago, davanti a circa ventimila spettatori, 
                  si consuma una delle pagine più grottesche della storia 
                  del calcio: il Cile si gioca la qualificazione al mondiale senza 
                  avere di fronte avversari. Quando l'arbitro (austriaco) fischia 
                  l'inizio, si avverte una strana atmosfera, poi la roja 
                  allenata da Luis Alamos appronta dei brevi scambi in avanti 
                  finché la palla giunge a Carlos Humberto Caszely. Il 
                  centravanti del Colo-Colo (la Juventus cilena di cui era tifoso 
                  il poeta Pablo Neruda) è tentato di gettare la sfera 
                  oltre la linea laterale in segno di protesta al regime fascista 
                  e alla pantomima a cui stava dando il suo contributo da protagonista, 
                  ma non trova il coraggio e appoggia la palla al capitano Valdés, 
                  il quale si spinge in avanti, per poi arrivare a mettere il 
                  sigillo al più fesso dei gol segnati a porta sguarnita. 
                  La partita Cile contro nessuno è durata meno di due minuti. 
                  Ai sudamericani la Fifa dà la vittoria a tavolino per 
                  2-0 e ignominiosamente stringono in pugno la qualificazione 
                  per Monaco '74. Messo a segno il gol-farsa, Valdés si 
                  rifiuta di giocare “l'amichevole di ripiego” coi 
                  brasiliani del Santos (batteranno i cileni per 5-0) e scappa 
                  negli spogliatoi dove si chiude nel bagno e vomita tutta la 
                  vergogna che si sente addosso. Vent'anni dopo Francisco Valdés 
                  ha ancora la coscienza in subbuglio: decide di mettere nero 
                  su bianco e scrivere una lettera indirizzata (simbolicamente) 
                  a Pablo Neruda. Scrive, tra l'altro: “Querido Don Pablo 
                  [...] Pochi istanti prima di andare in campo, venne il presidente 
                  della federazione cilena. Mi disse: 'Francisco, il gol lo devi 
                  segnare tu'. Mi sentii crollare il mondo addosso, schiacciato 
                  da una responsabilità che non avrei voluto sopportare. 
                  Ma non ebbi la forza di rifiutare. Stavo diventando il personaggio 
                  chiave di una farsa che avrebbe fatto il giro del mondo, me 
                  ne rendevo perfettamente conto, stavo diventando un simbolo 
                  non solo sportivo ma anche politico. Sì, perché 
                  quella partita era soprattutto politica: il regime di Pinochet 
                  voleva dimostrare la sua forza al mondo, il quale condannava 
                  la sua violenza. Ed io ero stato scelto per un gioco più 
                  grande di me.” 
                 Mimmo Mastrangelo 
                  Moliterno (Pz) 
                   
                  Botta.../Che cosa mi suggerite di leggere sull'anarchia? 
                   
                  Cara redazione, 
                  sono uno studente liceale di 18 anni. Vi chiedo di indicarmi 
                  il titolo di qualche saggio, possibilmente non troppo astruso 
                  (ma se lo è, me ne farò una ragione), sulla genesi 
                  e l'evoluzione dell'anarchismo. 
                  In attesa di vostre indicazioni, vi ringrazio. 
                 Giacomo 
                  Gorgonzola (Mi) 
                   
                  ...e risposta/Ecco tre titoli, per un primo approccio. 
                   
                  Sono parecchi i testi che potrebbero rispondere alle tue esigenze, 
                  anche perché in questi ultimi tempi la pubblicistica 
                  anarchica e libertaria sta vivendo un momento felice; sono molti, 
                  infatti, i testi di carattere storico, di carattere filosofico, 
                  di storia delle idee che sono venuti ad arricchire il panorama 
                  editoriale. 
                  Fra tutti questi, ti proporrei, come approccio propedeutico 
                  all'anarchismo, alcuni lavori particolarmente appropriati, lasciando 
                  a tempi successivi l'indicazione di altri volumi. 
                  Inizierei con un agile e fortunato volumetto che permette di 
                  entrare con facilità nel pensiero e nella storia dell'anarchismo. 
                  Si tratta di L'anarchia spiegata a mia figlia, scritto 
                  da Pippo Gurrieri e pubblicato recentemente dalla Biblioteca 
                  Franco Serantini di Pisa. 
                  Una sorta di antologia è Gli anarchismi. Una breve 
                  introduzione (La Baronata, 2009) nella quale Francesco Codello 
                  ha raccolto in un lemmario esaustivo e approfondito pressoché 
                  tutte le tematiche che ci interessano. 
                  Per finire, vorrei consigliarti il libro nel quale Ruth Kinna, 
                  un'anarchica inglese, ha condensato in maniera comprensibile 
                  e non troppo “filosofica” la nascita e gli sviluppi 
                  del pensiero anarchico. Si tratta di Che cos'è l'anarchia. 
                  La guida essenziale alla teoria della libertà, pubblicato 
                  da Castelvecchi nel 2010. 
                  Come detto in precedenza, potrebbero essere molti altri i suggerimenti, 
                  ma penso che come primo contatto questi tre volumi potrebbero 
                  essere sufficienti. 
                  Buona lettura. 
                 Massimo Ortalli 
                   
                   No Tav/ I costi della repressione 
                 La presentazione di costituzione di parte civile da parte 
                  della presidenza del consiglio dei ministri, del ministero dell'interno, 
                  del ministero della difesa e del ministero dell'economia e delle 
                  finanze nei confronti di tutti gli imputati rappresenta una 
                  precisa scelta politica volta a colpire duramente ogni forma 
                  di lotta sociale e costituisce un gravissimo precedente nella 
                  repressione del dissenso nel nostro paese. 
                  Il governo non lamenta danni patrimoniali ma solo danni d'immagine, 
                  mentre i vari ministeri presentano il conto dei costi della 
                  repressione: circa un milione e mezzo di euro per rifonderli 
                  dei costi di personale, automezzi e materiali in dotazione. 
                  In pratica dovremmo pagare allo stato la spesa dei manganelli 
                  che ci hanno spaccato in testa e del gas CS che ci hanno fatto 
                  respirare. Probabilmente, se nel 2001 ci fosse stato Monti al 
                  governo, la famiglia Giuliani avrebbe dovuto rifondere allo 
                  stato il costo del proiettile che i carabinieri hanno sparato 
                  in faccia a Carlo. 
                  È veramente ridicola l'affermazione che i “riflessi 
                  negativi registrati nell'opinione pubblica europea” nei 
                  confronti “dell'Italia intesa come Sistema-Paese” 
                  siano dovuti all'esistenza e alla combattività di un 
                  irriducibile movimento popolare che lotta strenuamente contro 
                  la devastazione ambientale del progetto Tav, e non per gli scandali 
                  politici e finanziari, per gli sprechi a vantaggio di pochi 
                  del pubblico denaro, per la connivenza tra potere politico e 
                  potere mafioso. 
                  È chiaro che ai nostri governanti (passati presenti e 
                  futuri) dell'opinione pubblica europea non gliene importi un 
                  accidente, quello che a loro interessa sono solo i potentissimi 
                  partner, governi banche imprese e investitori finanziari, a 
                  cui avevano gabellato una Valle pacificata e sottomessa dove 
                  avrebbero potuto devastare indisturbati e invece si ritrovano 
                  a scavare pochi metri di roccia assediati in un recinto di muri 
                  e filo spinato, sempre illuminato a giorno, presidiato da ingenti 
                  forze militari. 
                  La richiesta di costituzione di parte civile da parte del governo, 
                  sebbene gravissima sulla deriva repressiva che potrebbe assumere, 
                  rende di fatto onore al movimento che è riuscito (e continua) 
                  a metterlo in difficoltà. Il Movimento No Tav è 
                  la “madre di tutte le preoccupazioni”, come ha dichiarato 
                  il ministro dell'interno Cancellieri. 
                  L'accanimento della presidenza del consiglio e dei vari ministeri 
                  è quindi un sintomo evidente di quanto la Val Susa li 
                  spaventi, hanno paura della sua determinazione e dell'esempio 
                  pericoloso che il movimento No Tav costituisce per tutte le 
                  situazioni di lotta e di difesa della salute e del territorio 
                  sparse nella penisola. 
                  Per questo vogliono colpire duro. 
                  La Val Susa paura non ne ha! 
                 I No Tav sotto processo 
                  Si ringrazia Tobia Imperato (Torino) per la segnalazione 
                 
                
                   
                    |   | 
                   
                   
                    |   Arquata Scrivia (Al) - Manifestazione contro 
                  il terzo valico  | 
                   
                 
                 
                 
                Prosegue il dibattito su  
                  “Libertà senza Rivoluzione” 
                 Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione 
                  di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, 
                  Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche 
                  stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sul numero 
                  scorso (“A” 378, marzo) sono intervenuti Franco 
                  Melandri e Domenico 
                  Letizia. 
                  Ora è la volta di Luciano Lanza e Andrea Papi. Il dibattito 
                  è naturalmente aperto a chiunque intenda intervenire, 
                  con il limite delle 6.000 battute spazi compresi. 
                  Altri interventi sono già pervenuti e appariranno, sempre 
                  due alla volta, sui prossimi numeri. 
                 
                 
                 Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/3 
                   
                  Luciano Lanza/Per chi suona la campana? Per l'anarchismo 
                   
                  L'ultimo libro di Giampietro Berti è soprattutto una 
                  disamina feroce e al contempo appassionata dell'anarchismo contemporaneo. 
                  Una teoria e una pratica in profonda crisi, sostiene l'autore. 
                  Che propone anche alcune ipotesi per costruire una dimensione 
                  in assonanza-dissonanza con la realtà contemporanea del 
                  movimento anarchico: «Ora l'anarchismo, inteso come movimento 
                  storico, non rappresenta altro che se stesso». 
                  A prima vista questa frase estrapolata dall'ultimo libro di 
                  Giampietro Berti (ma tanti lo chiamano Nico) sembra suonare 
                  la campana a morto dell'anarchismo. E che in questi ultimi anni 
                  l'anarchismo e il movimento che lo rappresenta non stiano troppo 
                  bene è cosa purtroppo vera. E anche il titolo del libro 
                  non sembra incoraggiante: Libertà senza Rivoluzione. 
                  L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del 
                  capitalismo (Piero Lacaita editore, 2012). 
                  In 395 pagine Berti analizza la crisi dell'anarchismo. Crisi 
                  che daterebbe dalla sconfitta della rivoluzione nella Spagna 
                  del 1936. Perché l'anarchismo «è sempre 
                  metafisico: è questo il prezzo che paga per essere etico, 
                  e dunque antipolitico e dunque rivoluzionario». E infatti 
                  oggi «l'anarchismo è destinato a una deriva storica 
                  terribile: i rimasugli del suo rivoluzionarismo inghiottiranno 
                  fino in fondo il suo libertarismo». 
                  E poi Berti rincara la dose: «Perché gli anarchici 
                  sono incapaci di fare politica? Sono incapaci perché 
                  l'hanno sempre identificata con la logica del potere, con la 
                  dinamica del comando. Infatti, alla rivoluzione politica, hanno 
                  sempre anteposto la rivoluzione sociale. Questa, nella loro 
                  illusione, una volta posta in essere avrebbe dissolto ogni volontà 
                  e ogni possibilità autoritaria perché la forza 
                  germinativa del sociale sarebbe stata in grado di distruggere 
                  ogni divisione alienante fra società politica e società 
                  civile, rendendo superfluo il problema del politico, ovvero 
                  il problema del potere». 
                  E se non fosse sufficiente Berti aggiunge: «In conclusione 
                  l'anarchismo si trova di fronte a questo aut aut. O coltiva 
                  la sua antropologia storica, chiudendosi in una controsocietà 
                  - che comunque non ha alcun avvenire -, o abbandona ogni idea 
                  socialmente definita di emancipazione umana, con tutto ciò 
                  che questo, politicamente e ideologicamente, comporta. Tertium 
                  non datur». E se il terzo, il quarto, il quinto... invece 
                  ci fossero? 
                  Berti ha una visione «ottocentesca» o «sessantottina» 
                  della rivoluzione e per questo titola così il suo importante 
                  (nonostante le mie critiche) libro e ritiene che «il desiderio 
                  di utopia» sia fuorviante perché irragionevole. 
                  Ma non mi fermo qui: perché la rivoluzione futura (ammesso 
                  che possa realizzarsi) dovrebbe seguire i percorsi classici? 
                  Dove sta scritto che si esprimerà con barricate o sommosse? 
                  Da nessuna parte. E, ancora, dove sta scritto che la ragionevolezza 
                  sia superiore alla volontà desiderante di utopia? Da 
                  nessuna parte. 
                  E molte pagine dopo Berti picchia ancora più duro: «la 
                  Rivoluzione non può che essere intrinsecamente universalista 
                  e quindi anti-relativista, altrimenti verrebbe meno la sua ragion 
                  d'essere […] la rivoluzione non sarebbe mai la Rivoluzione 
                  e non potrebbe mai aspirare al definitivo “totalmente 
                  altro”», e, molte pagine dopo, scrive anche: «L'anarchismo 
                  deve abbandonare ogni filosofia di fine della storia; deve smettere 
                  di pensare in senso poietico; deve uscire dal mito ed entrare 
                  nella realtà; deve eliminare il principio stesso di speranza». 
                  Insomma, per Berti bisogna passare dal principio speranza (Ernst 
                  Bloch) al principio responsabilità (Hans Jonas). Ma domando: 
                  perché i due poli non possano coesistere? Perché 
                  la rivoluzione debba essere universalista e non relativista? 
                  Un dubbio che non sfiora Berti che rincara la dose: «Ecco 
                  dunque l'errore micidiale dei rivoluzionari perché un 
                  atto, qualsiasi atto, che pretenda di essere risolutore è 
                  intrinsecamente irrazionale e, di fatto, totalitario», 
                  ma, mi sembra doveroso sottolinearlo, non viviamo nell'Ottocento 
                  o nella prima metà del Novecento e non vedo in giro tanti 
                  «rivoluzionari» che vogliano compiere «l'errore 
                  micidiale». 
                  Berti, però, è sicuramente ondivago, così 
                  dopo queste affermazioni perentorie arrivano intuizioni profonde: 
                  «l'anarchismo deve sopprimere qualsiasi configurazione 
                  determinata della società futura in termini economico-sociali 
                  e, più in generale, qualsiasi configurazione “futuristica” 
                  della propria azione». Qui sta il senso del libro di Berti 
                  che viene raffermato proprio nelle ultime righe: «Sono 
                  circa vent'anni che ripeto con forza la necessità di 
                  affrontare questo problema (il problema di una scienza politica 
                  anarchica). Se veramente si pensa che la differenza tra la liberal-democrazia, 
                  le dittature, i totalitarismi, et similia sia solo una 
                  differenza di forma e non di sostanza, allora gli anarchici 
                  si mettano il cuore in pace perché resteranno sempre 
                  subalterni. Se invece vogliono ritornare a incidere sul presente, 
                  devono seriamente – molto seriamente – confrontarsi 
                  con il liberalismo e la democrazia, unico modo per far uscire 
                  l'anarchismo dalla subalternità politica che da settant'anni 
                  lo tiene relegato ai margini della storia». 
                  Insomma, questo di Berti è un libro destinato a lasciare 
                  un segno profondo nelle riflessioni sull'anarchismo di oggi 
                  e, soprattutto, di domani. Sia per chi concorda con le sue analisi 
                  sia per chi le critica più o meno aspramente e anche 
                  chi scrive questa recensione, come credo si sia capito, ha critiche, 
                  si spera non irrilevanti, da muovere alle riflessioni dell'autore, 
                  ma c'è una cosa importante da sottolineare: è 
                  grazie anche a libri come questi che l'anarchismo può 
                  rientrare nel discorso politico-sociale attuale. 
                 Luciano Lanza 
                  Milano 
                
                 
                   Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/4 
                   
                  Andrea Papi/Dall'ontologia alla sperimentazione 
                   
                  Libertà senza rivoluzione, lunga ed energica ricerca 
                  filosofica che cerca d'identificare il nesso profondo che dovrebbe 
                  dar senso e anima allo sviluppo del pensiero anarchico e libertario, 
                  è un libro molto importante, fondamentale per la tenacia 
                  con cui scava a fondo. Pur non condividendolo nella sua essenza, 
                  mi ha profondamente colpito perché ha cercato di addentrarsi 
                  e trascinarci nelle viscere del senso dell'anarchismo. Leggerlo 
                  è stato come immergersi in un viaggio dantesco negli 
                  inferi della sapienza anarchica. 
                  Purtroppo è quasi esclusivamente un'avventura intellettuale-filosofica 
                  che si nutre di pura speculazione. Non poteva che sfociare in 
                  una teoretica di tipo metafisico. Il suo problema principale 
                  è ontologico, studio e comprensione dei fondamentali. 
                  Al pari, aggiungo io, della prova ontologica dell'esistenza 
                  di dio, la ricerca del fondamento concettuale separa dalla terra 
                  e colloca in un empireo lontano. Una specie di ricerca della 
                  verità vera, supposta inoppugnabile. Metodo deduttivo, 
                  dal generale al particolare, sulla spinta del bisogno di affermare 
                  la fondatezza dell'idea, per poi eventualmente accettare nella 
                  pratica le possibilità della libertà anarchica. 
                  Così però viaggia in un iperuranio di puri concetti, 
                  una specie di mondo delle idee. Per la visione che ho delle 
                  cose un tale approccio, invece di avvicinare, non può 
                  che allontanare dall'anarchia. 
                  Alla ricerca dell'“iperuranica incontrovertibile verità”, 
                  Berti dice cose importanti e, anche se intrise di “ontologica 
                  predisposizione”, condivisibili in gran parte. a) La rivoluzione 
                  classista ha fallito e ha preso storicamente la forma del totalitarismo 
                  perché non può non generare la morte della libertà. 
                  b) Il comunismo non è solo un errore, ma anche un orrore, 
                  com'egli stesso dice «un orrore ontologico sconfitto dalla 
                  modernità». c) Agganciandosi al liberalismo che 
                  ha scelto la libertà, il capitalismo ha vinto definitivamente 
                  sul comunismo bolscevico che, agganciandosi invece alla rivoluzione, 
                  ha scelto la non libertà dell'uguaglianza pianificata. 
                  d) Ne consegue, e concordo, che «l'anarchismo va ripensato 
                  come quel pensiero che può costituire realmente una delle 
                  grandi alternative politiche della modernità». 
                  Ma sciaguratamente lo vorrebbe costringere ad un «confronto-incontro 
                  con il liberalismo e la democrazia». 
                  Un libro “fuori tempo”, ho pensato a fine lettura. 
                  Sarebbe stato dirompente qualche decennio fa, quando il problema 
                  principale era ancora l'egemonia marxista all'interno della 
                  sinistra. Mentre parla di un confronto che non si aggancia più 
                  alla dimensione percepita e immaginata della contemporaneità, 
                  nel presente siamo ben oltre le problematiche che pone. Oggi 
                  il problema non è affermare la superiorità del 
                  liberalismo sul “comunismo morto”, ma capire e denunciare 
                  il lato oscuro del liberalismo che annichilisce quella libertà 
                  che teoreticamente afferma in assoluto. 
                  Ciò che condivido cozza purtroppo con uno schema di pensiero 
                  per molti versi schematico, una teoresi che inquadra la riflessione 
                  all'interno di schemi non flessibili. Forse troppo preso dal 
                  bisogno d'identificare la “verità” o la “soluzione 
                  concettuale giusta”, Berti spesso diventa necessitante 
                  e giudicante, stabilendo, vien da dire senza possibilità 
                  di replica, dov'è il bene e dov'è il male, quello 
                  che è necessario fare o non fare. Un ragionare che ho 
                  vissuto tutto interno ad un apparato logico-filosofico che ha 
                  perso d'attualità e si sforza di sopravvivere. I suoi 
                  paradigmi di senso fanno sempre più fatica a interpretare 
                  i movimenti del divenire in atto. 
                  Muovendosi su un piano squisitamente teoretico dentro lo schema 
                  tutto funziona perfettamente. Solo il capitalismo sul piano 
                  economico e la liberaldemocrazia su quello politico, per esempio, 
                  nella modernità avrebbero abbracciato e realizzato la 
                  libertà, ontologicamente opposti al “comunismo”, 
                  identificato (ahimé!) nella sola esperienza giacobino/bolscevica, 
                  che al contrario ha abbracciato la rivoluzione e realizzato 
                  il totalitarismo. Nell'“iperuranio bertiano” è 
                  senz'altro vero, anche se liberalismo e capitalismo, in particolare 
                  nella forma attuale della predominanza finanziaria, nel concreto 
                  ci mostrano un sostanziale costante liberticidio. Affermata 
                  sul piano giuridico, nella realtà fattuale la libertà 
                  è costantemente vilipesa e annichilita, avvilita da regolamentazioni 
                  e restrizioni economiche che rendono impossibile ogni autonomia. 
                  Il problema è che non vuole ammettere che alla prova 
                  dei fatti anche il liberalismo è fallito perché 
                  non ha realizzato le sue promesse. Al pari del comunismo si 
                  sta trasformando in un incubo, massacrando la vita di masse 
                  di persone che rende indigenti e sottomesse. 
                  Fuori da ogni “schematismo ontologico” l'approccio 
                  ermeneutico muta radicalmente. Libero da perentorietà 
                  definitorie fluttua nelle dimensioni problematiche e caotiche 
                  di un reale in costante mutazione, permettendo alle categorie 
                  concettuali di essere polisemiche, come alla fin fine sono sempre 
                  state. 
                  La libertà diventa soprattutto un'esperienza esistenziale, 
                  sentita tale da chi la vive intensamente. 
                  Il comunismo, non più solo espressione storica inchiodata 
                  all'esperienza bolscevica, si trova nel sentire condiviso di 
                  esperienze dove, comunitariamente e volontariamente, si annullano 
                  privilegi imposizioni e differenze di stato per valorizzare 
                  differenze individuali e reciprocità scambievoli. 
                  La rivoluzione esce dall'alveo costrittivo della storicizzazione 
                  per diventare possibilità di un rivolgimento radicale, 
                  dirompente ma non necessariamente violento, processo di mutazione 
                  capace di regalarci una società autenticamente libera 
                  e liberata. 
                  L'anarchismo finalmente diventa sperimentazione. Librandosi 
                  oltre ogni sistemismo si definisce innanzitutto facendosi, mentre 
                  la sua implementazione politica si traduce in un superamento 
                  degli schemi dell'usurata machiavellica modernità. 
                  Una politica della libertà, che se è tale è 
                  anarchica non liberal/giuridica, per sua natura non può 
                  inverarsi secondo gli schemi delle politiche del dominio. 
                 Andrea Papi 
                  Forlì 
                
                 
                 
                    
                  Botta.../I colonnelli anarchici? 
                   
                  Salve, 
                  leggendo la storia sulla resistenza antifascista di stampo anarchico 
                  e su altri eventi rivoluzionari (come la rivoluzione spagnola 
                  del 1936), mi è sembrato di trovare alcuni elementi secondo 
                  me abbastanza contraddittori e incoerenti sul nostro mondo, 
                  come il ruolo di comandanti o colonnelli anarchici nelle varie 
                  brigate o comunque movimenti rivoluzionari. Lo segnalo senza 
                  nessuna polemica ma solo per documentarmi meglio. 
                  Ecco la mia curiosità e il mio desiderio di informazione 
                  sta nel fatto di ottenere un chiarimento in merito a questa 
                  vicenda e capire se queste persone e queste situazioni possono 
                  ritenersi anarchiche o meno. 
                  Anticipatamente grazie per le risposte che riceverò. 
                 Alberto anarchico siculo 
                   
                   ...e risposta/Grazie agli anticorpi libertari 
                   
                  Le contingenze della storia, si sa, possono portare ad effetti 
                  imprevedibili, tali da sovvertire la coerenza di opinioni, credenze, 
                  comportamenti che sembravano profondamente sedimentati. 
                  Come nel caso dei cosiddetti generali anarchici, uomini dediti 
                  alla causa della libertà, dell'antimilitarismo e dell'umanità, 
                  che per forza di cose dovettero trasformarsi, seppur senza gradi 
                  né mostrine, in comandanti militari, in strateghi attenti 
                  alle fredde regole della guerra, in impietosi nemici del fronte 
                  avverso. Ma le regole del gioco, dettate ed imposte da situazioni 
                  eccezionali, non avrebbero potuto essere modificate. Pena danni 
                  materiali e morali ben peggiori. 
                  Non sono poche le vicende che hanno visto anarchici a tutto 
                  tondo diventare comandanti di uomini. E sono tutte vicende di 
                  grande importanza storica, così come furono di grande 
                  importanza storica le figure di questi anarchici. Basterà 
                  citare Nestor Machno, il combattente contadino ucraino che arrivò 
                  a comandare un'intera armata di contadini come lui, combattendo 
                  ora contro la reazione bianca che voleva soffocare la rivoluzione 
                  proletaria, ora contro la reazione bolscevica che pure voleva 
                  soffocare, anche se con altri obiettivi, quella rivoluzione. 
                  E poi Buenaventura Durruti e gli altri anarchici comandanti 
                  di colonne, di brigate, di centurie che, pur avendo assunto, 
                  nel fuoco della guerra spagnola, funzioni militari, riuscirono 
                  a portare i principi e la metodologia anarchica anche sui fronti 
                  di guerra. E i comandanti partigiani che dal 1943 al 1945, rientrati 
                  dall'esilio o usciti dalle galere, divennero dirigenti militari 
                  di grandi capacità tattiche e di altrettanto grandi potenzialità 
                  umane. Basti pensare a Emilio Canzi che fu a capo dell'intero 
                  partigianato piacentino, conquistandosi il rispetto di tutti 
                  i suoi uomini. 
                  E questi sono, anche se fra i più famosi, solo alcuni 
                  esempi. Esempi di come sia possibile, in determinate circostanze 
                  che impongono scelte senza alternative, soprassedere alle proprie 
                  convinzioni e alla propria storia personale. 
                  Certo si potrebbe pensare che una volta accettate contraddizioni 
                  così sostanziali sarebbe potuta iniziare una deriva inarrestabile, 
                  una deroga ai principi, quale si è verificata in altri 
                  campi e in altre circostanze: leaders rivoluzionari trasformati 
                  in autoritari dittatori, organizzazioni sovversive mutate in 
                  cinghia di trasmissione del potere, apostoli dell'idea diventati 
                  pontefici della reazione. Ma così non fu nel caso dei 
                  nostri, e per due motivi: la loro grandezza etica e morale e 
                  il controllo dal basso esercitato da chi era stato da loro comandato 
                  militarmente. Coerenza etica che faceva rifiutare spontaneamente 
                  il principio della delega, e quindi del comando, nel momento 
                  stesso in cui ciò diventava possibile, e volontà 
                  dei “subalterni” a limitare i “danni” 
                  e non essere più tali cessate le esigenze belliche. 
                  Evidentemente, nonostante si fossero accettate o subite scelte 
                  così contraddittorie, gli anticorpi libertari seppero 
                  far fronte all'infezione del militarismo. Senza bisogno di cure 
                  radicali. 
                 Massimo Ortalli 
                         
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Rino Quartieri (Zorlesco 
                            – Lo) in memoria degli anarchici uccisi dal 
                            nazifascismo, 20,00; Piera Codazzi (Calderara di Reno 
                            – Bo) 10,00; Paolo Sabatini (Firenze) 20,00: 
                            Giacomo Dara (Certaldo – Fi) 20,00; Aurora e 
                            Paolo (Milano) ricordando Pio Turroni 31 anni dopo 
                            la sua morte (7 aprile 1982), 500,00; Claudio Venza 
                            (Trieste) saluti a Fulvio Gamerini, cardiologo grande 
                            e solidale, 100,00; Gennaro Gadaleta Caldarola (Molfetta 
                            – Ba) 10,00; Antonello Cossi (Sondalo – 
                            So) 20,00; Nicola Antonio Totaro (Conversano – 
                            Ba) 5,00; Dimo Delcaro (San Francesco al Campo – 
                            To) 20,00; Pietro Mambretti (Lecco) 50,00; Benedetto 
                            Valdesalici (Villa Minozzo – Re) 20,00; Libreria 
                            San Benedetto (Genova) 13,50; Rosanna Ambrogetti e 
                            Franco Melandri (Forlì) 30,00; Salvatore Pappalardo 
                            (Venezia-Marghera – Ve) 50,00; A.L. Pala (Amsterdam 
                            – Olanda) 10,00; Mario Alberto Botta (Ayamavilles 
                            – Ao) 10,00; Romeo Muratori (Rimini) 10,00; 
                            Giorgio Franchi (Ferrara) 10,00; Gianpiero Bottinelli 
                            (Massagno – Svizzera) 10,00; Santi Rosa (Novara) 
                            5,00; Anita Pandolfi (Castel Bolognese – Ra) 
                            20,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Roberto Angelini 
                            (Spoleto – Pg) 60,00; Pino Fabiano (Cotronei 
                            – Kr) ricordando Spartaco, 10,00; Aldo Curziotti 
                            (Sant'Andrea Bagni – Pr) 20,00; Giorgio Franchi 
                            (Codigoro – Fe) 10,00; Angelo Pizzarotti (Borsano 
                            di Calestano – Pr) 20,00: Giglio Frigerio (Lecco) 
                            “Giglio, Marco e Marina uniti da un pensiero 
                            comune”, 15,00; Donata Martegani (Milano) “in 
                            ricordo della mia mamma”, 100,00; Camilla Galbiati 
                            (Robecco sul Naviglio – Mi) 50,00; Luciana Caruso 
                            (Roma) 10,00. Totale € 1.278,50. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Sergio 
                            Loise (Cosenza); Oreste Roseo (Savona) ricordando 
                            Umberto Marzocchi, Ugo Mazzucchelli, Isaac Barba Garcia 
                            e Gaspare Mancuso; Giacomo Ajmone (Milano); Giovanni 
                            Satta (Genova); Gianni Alioti (Genova); Maurizio Guastini 
                            (Carrara – Ms) 200,00; Francesco Martinelli 
                            (Castel del Piano – Gr); Fernando Ainsa (Zaragoza 
                            – Spagna); Massimo Locatelli (Inverigo – 
                            Co); Pietro Masiello (Roma) ricordando Armando Galieti 
                            di Genzano di Roma; Roberto Panzeri (Valgreghentino 
                            – Lc); Andrea Albertini (Merano – Bz) 
                            150,00; Fantasio Piscopo (Milano); Roberto Tozzi (Mercatale 
                            Vernio – Po) 120,00; Matteo Gandolfi (Genova); 
                            Margherita e Giulio (Castano Primo - Mi). Totale 
                            € 1.770,00 
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