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                in direzione 
                  ostinata e contraria 8 
                  Rubò sei cervi nel parco del re 
                  
                Interviste a Gianni Mungiello, Armando Xifai, Alfredo Franchini 
                di Renzo Sabatini 
				
  
                  L'impiccagione di Geordie, nell'omonima canzone di Fabrizio De André, rimanda al controverso tema della giustizia(compresa l'istituzione carceraria).  Due ex-detenuti e un giornalista dicono la loro, riflettendo sulle opere e sul pensiero del cantautore genovese. 
                
  
                Piccola, necessaria premessa 
                  Nel luglio 2007, per realizzare le puntate dedicate alle 
                  canzoni di De André sui temi della legge, mi sono dedicato 
                  alla difficile ricerca di contatti nel mondo del carcere. Ricerca 
                  lunga e infruttuosa, fino a quando ho avuto la fortuna di conoscere 
                  Angelo Aparo, psicologo appassionato del proprio lavoro e di 
                  De André. Angelo Aparo è il fondatore del Gruppo 
                  della Trasgressione1 
                  che dal 1997 opera a Milano, nel carcere di San Vittore, coinvolgendo 
                  detenuti, docenti e studenti universitari in un comune lavoro 
                  di ricerca e dibattito, che ha spesso portato i detenuti all'uscita 
                  dal tunnel della reiterazione dei reati e delle ripetute carcerazioni. 
                  Le canzoni di De André sono molto utilizzate nel lavoro 
                  del gruppo e ne rappresentano un po' la colonna sonora. Angelo 
                  Aparo mi ha messo in contatto con Gianni Mungiello e Armando 
                  Xifai, due ex detenuti2 
                  che mi hanno rilasciato le belle interviste che seguono. 
                   
                    Gianni 
                  Mungiello 
                  A un certo punto della sua vita da detenuto nel carcere 
                  di San Vittore si è incontrato con il Gruppo della Trasgressione. 
                  Che cosa ha significato per lei? 
                   
                  Sono stato spinto a partecipare dalla curiosità. Mi ha 
                  incuriosito il fatto che ragazzi provenienti dall'esterno, studenti 
                  di giurisprudenza e psicologia, venivano lì e si mettevano 
                  in gioco, si mettevano al nostro pari. Ho provato una sorta 
                  di ammirazione e così, gradualmente, ho cominciato a 
                  mettermi in gioco anch'io, aprirmi completamente, parlando delle 
                  mie esperienze e analizzando il mio passato. Io ho 57 anni e 
                  nel corso di diverse carcerazioni, di cui una di dieci anni 
                  e mezzo, ho totalizzato 23 anni di carcere. Ero, diciamo, un 
                  delinquente convinto e accettavo anche il castigo che ne derivava. 
                  Il gruppo mi ha dato la possibilità di riflettere e trovare 
                  delle alternative, per non vivere anche gli ultimi anni della 
                  mia vita in quelle condizioni. Con il gruppo ho cercato di trovare 
                  delle motivazioni che mi facessero cambiare vita. Riflettendo 
                  sul mio passato e sul presente del carcere, gradualmente, ho 
                  costruito il mio futuro. Oggi penso di essere una persona molto 
                  diversa. Il percorso, certo, è lungo. Non si cambia in 
                  poco tempo e io faccio ancora parte del gruppo, partecipo alle 
                  attività, anche se sono uscito dal carcere. Ce la sto 
                  mettendo tutta, grazie all'aiuto del gruppo, che è per 
                  me molto importante. 
                   
                  Insomma il Gruppo della Trasgressione è stato un po' 
                  la molla del cambiamento. 
                   
                  Il gruppo è stato proprio il trampolino di lancio del 
                  mio cambiamento. Se avessi incontrato il gruppo nei miei primi 
                  anni di carcere sicuramente non ne avrei fatti altri quindici 
                  dopo, perché sarei cambiato prima. Il gruppo è 
                  importante perché ti aiuta a entrare in te stesso e ad 
                  analizzare le motivazioni che ti hanno portato alla trasgressione. 
                  Se ognuno di noi arriva a commettere certi atti è perché 
                  ci sono alla base delle motivazioni, che però non ci 
                  sono chiare. Il gruppo ti conduce alla riflessione per trovare 
                  queste motivazioni, che è un po' come trovare il male. 
                  Una volta individuato, è possibile trovare la medicina 
                  per combatterlo e il gruppo ti ci porta. Io sono proprio un 
                  altro, tanto che i miei vecchi amici delinquenti si mettono 
                  le mani nei capelli quando mi sentono parlare, quando sanno 
                  che ora vado a fare dei convegni, magari proprio al tribunale. 
                   
                  Ma il suo è un caso a parte oppure anche altri, grazie 
                  al gruppo, sono cambiati? 
                   
                  Quando ho iniziato, fra studenti e detenuti eravamo una ventina. 
                  Fra i detenuti che hanno partecipato con me la maggior parte 
                  ha cambiato vita o ha intrapreso la strada verso il cambiamento. 
                  Posso fare dei nomi3, persone 
                  che avevano subito delle condanne severe. I benefici sono evidenti 
                  a tutti, anche alla magistratura di sorveglianza. Il percorso 
                  è lungo e qualcuno ha bisogno di più tempo, ma 
                  tutti alla fine ottengono un cambiamento profondo. Che poi è, 
                  in fondo, il riscoprire le piccole cose della vita, le cose 
                  semplici che avevamo dimenticato. Io, quando conducevo un certo 
                  tipo di vita non sapevo più se era giorno o notte, non 
                  vedevo più gli altri. Oggi mi emoziona una giornata di 
                  sole o mi commuove il sorriso di un bambino. 
                  A me dispiace che molti detenuti non hanno mai avuto la stessa 
                  opportunità che ho avuto io, di frequentare un gruppo 
                  così. Perché i detenuti cos'hanno? Finiscono in 
                  carcere, in una cella. Che senso ha? Quando escono sono più 
                  arrabbiati di prima. Con i detenuti bisogna lavorare. La società 
                  non deve solo costruire carceri. Va bene la punizione, è 
                  giusto che ci sia, ma bisogna anche trovare delle alternative, 
                  altrimenti i ragazzi quando escono dal carcere cosa fanno? Tornano 
                  a delinquere. E la società si ritrova delle persone che 
                  sono costrette in un circolo vizioso: commettono dei reati, 
                  mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini, tornano in 
                  carcere. Bisogna invece lavorare per responsabilizzare questi 
                  ragazzi, portarli ad essere di nuovo parte della società, 
                  a pieno titolo, con delle responsabilità.
                  Insomma, secondo lei un gruppo così dovrebbe esserci 
                  in ogni situazione carceraria? 
                   
                  Sì, dovrebbe esserci in ogni penitenziario, in ogni casa 
                  circondariale, dappertutto. In effetti io non capisco proprio 
                  perché chi di dovere non incentivi questa cosa importantissima 
                  per il recupero delle persone che finiscono in carcere. 
                   
                  Quando era ancora detenuto, nel Gruppo della Trasgressione 
                  avete fatto anche un lavoro sulla poetica di De André. 
                  Di che si tratta? 
                   
                  Noi abbiamo anche un gruppo musicale, la “Tras-Band”, 
                  di cui fanno parte detenuti e studenti e in cui si esibisce 
                  anche il dott. Aparo. La band ha un repertorio di canzoni di 
                  De André e io posso dirle soltanto che quando li sento 
                  cantare mi scappano le lacrime. Io non sono mai stato un fan 
                  di De André, anche se come persona mi è sempre 
                  stato simpatico. Ricordo che quando lo hanno rapito assieme 
                  a Dori Ghezzi mi trovavo in Sardegna e ne fui molto dispiaciuto. 
                  Negli ultimi tempi, questo è un altro cambiamento, mi 
                  sono affezionato anche alle sue canzoni, mi sono scoperto un 
                  suo simpatizzante e ho anche comprato i suoi cd! 
                  Nelle sedute del gruppo si parla molto spesso di Fabrizio De 
                  André, Angelo Aparo ci tiene molto. Abbiamo provato ad 
                  analizzare alcune sue canzoni, a coglierne il significato.
                   
                
 Angelo Aparo, infatti, mi diceva che lui insiste molto su 
                  questo tema di De André, perché nelle sue canzoni 
                  si ritrovano molti dei temi che poi vi trovate ad affrontare 
                  nel gruppo. 
                   
                  Sì, perché quelle canzoni parlano di vita reale 
                  e molto spesso di trasgressione. Ognuno di noi può rispecchiarsi 
                  in quelle canzoni, ci si può ritrovare, a volte con nostalgia, 
                  con rimpianto, anche con amarezza. Ti portano a riflettere, 
                  anche in modo semplice, tirandoti fuori quello che hai dentro, 
                  certe cose che hai fatto nell'arco della tua esistenza. 
                   
                  Alcune canzoni affrontano in maniera diretta il tema della 
                  legge e del carcere. Dal suicidio di Miché al nano che 
                  fa il giudice per rivalsa, a Geordie, impiccato per aver rubato 
                  i cervi del re. Lei si è ritrovato in qualche misura 
                  in queste canzoni? 
                   
                  A me ha colpito particolarmente Geordie. La vedo come 
                  il simbolo dell'ingiustizia del potere, di chi il potere lo 
                  detiene. Perché a volte viene comminata una condanna 
                  sproporzionata rispetto al fatto compiuto. Allora la storia 
                  di Geordie, impiccato con una corda d'oro, se la porto nella 
                  realtà di ogni giorno, la vedo così, come la rappresentazione 
                  delle condanne ingiuste, sproporzionate. Perché sappiamo 
                  che si fanno anni di carcere anche per piccole cose. Situazioni 
                  in cui non si guarda, non si approfondisce, si pensa solo a 
                  mettere dentro il trasgressore, allontanarlo dalla società 
                  per un certo periodo di tempo. 
                   
                  È diventato di moda fra i giornalisti dire che le 
                  canzoni di De André hanno restituito dignità ai 
                  reietti della società. Guardando alla sua storia personale 
                  lei sente che queste canzoni possono in qualche misura restituirle 
                  la dignità? 
                   
                  Non lo so, la storia della dignità per me è un 
                  po' complicata. La dignità la si perde facendo un certo 
                  tipo di vita e la si riconquista, passo dopo passo. Però 
                  quelle canzoni mi danno modo di soffermarmi a pensare, a ritrovarmi, 
                  ripensare alla mia vita prima dell'incontro con il gruppo. Ad 
                  ascoltarle con attenzione possono entrare nel profondo, anche 
                  perché De André canta come uno di noi, come uno 
                  del popolo, come una persona normale... canta quello che io 
                  vorrei dire, quello che ho dentro. A me non interessavano, invece 
                  adesso ad ascoltarle mi emoziono. 
                   
                  Lei ci ha raccontato che anche adesso che non è più 
                  detenuto continua a frequentare il Gruppo della Trasgressione. 
                  Si tratta di una scelta personale, per un debito di riconoscenza 
                  verso l'esperienza che l'ha aiutata a cambiare, oppure è 
                  una necessità, fa parte del lungo cammino che lei sta 
                  ancora percorrendo? 
                   
                  Il gruppo è una realtà in cui ognuno partecipa 
                  portando il suo contributo. Ora, uscito dal carcere, non ho 
                  nessun obbligo di frequentarlo, però sono affezionato 
                  a tutti, sia agli esterni che ai detenuti. Nel gruppo mi ha 
                  colpito molto il fatto di essere valorizzato. Io sono uno che 
                  ha commesso diversi reati, eppure loro non mi vedono come un 
                  delinquente, ma come una persona. Al gruppo io dialogo, esprimo 
                  giudizi, pensieri, critiche. Mi metto anche in contrapposizione. 
                  Insomma, sono uno del gruppo, alla pari con gli altri e questo 
                  mi consente di dare quello che ho dentro. Negli ultimi anni 
                  della mia vita vorrei fare qualcosa per gli altri, per i detenuti 
                  e posso farlo attraverso il gruppo. Non ho grande istruzione, 
                  ho fatto solo fino alla terza media, tutto il resto l'ho imparato 
                  in carcere. Ma tutto quello che posso dare ancora vorrei darlo. 
                  Il mio è un contributo disinteressato perché questo 
                  gruppo è importante, mi ha consentito di cambiare vita 
                  e posso ringraziare dando la mia disponibilità. 
                   
                  Lei ha cominciato con il Gruppo Trasgressione da detenuto. 
                   
                  Oggi che è una persona libera come si rapporta con 
                  i suoi ex compagni che ancora stanno scontando la loro pena 
                  e come con gli studenti, che ormai sono suoi pari? 
                   
                  Con i detenuti è rimasto un rapporto di amicizia, di 
                  fratellanza. Ci scriviamo, ci incontriamo ai convegni. Siamo 
                  partecipi della stessa causa, che è la costruzione del 
                  nostro futuro. Loro come detenuti devono lottare molto di più 
                  per avere cose semplici, come incontrare le famiglie, che è 
                  una cosa molto importante anche in una prospettiva di reinserimento. 
                  Anche con gli studenti c'è un rapporto di rispetto e 
                  amicizia. Qualcuno scherzando mi chiama: “collaboratore 
                  esterno“. È un gioco di parole ma se me lo avessero 
                  detto solo qualche anno fa l'avrei ritenuto un insulto! Ma queste 
                  persone, che sono “normali“, che fanno parte della 
                  società civile, che non hanno mai commesso reati, queste 
                  persone chiamano me, che ho commesso tanti reati, un loro “collaboratore“ 
                  e questo mi fa piacere perché mi sento di collaborare 
                  a qualcosa di importante, in cui si dà qualcosa senza 
                  aspettarsi di ricevere. 
                   
                  Voi fate anche concerti e gira voce che Angelo Aparo suoni 
                  bene la chitarra e abbia anche una bella voce... 
                   
                  Io conoscevo il dott. Aparo come psicologo del carcere e come 
                  coordinatore 
                  di questo Gruppo della Trasgressione. Quindi come può 
                  immaginare lo vedevo sotto una certa luce. Quando l'ho sentito 
                  cantare, al primo concerto che abbiamo fatto, sono rimasto senza 
                  parole. Perché lo psicologo del ministero dai carcerati 
                  è visto come una figura rigida, formale. È uno 
                  che indaga nella mente dei detenuti per vedere se effettivamente 
                  c'è stato questo cambiamento... noi le vediamo così 
                  queste persone. Quando l'ho visto sul palco, cantare, con una 
                  voce splendida e un'espressività che ti trasmette il 
                  senso di quelle canzoni, sono rimasto davvero stupito. Poi nella 
                  band c'è anche Silvia, una studentessa di psicologia, 
                  che ha una voce splendida, commovente, una voce di cui sono 
                  innamorato. Io ho fatto tante brutte cose nella vita. Non sono 
                  uno tenero. Eppure, quando l'ho sentita cantare De André, 
                  non sapevo dove andare per nascondere le lacrime. Non volevo 
                  far vedere agli altri detenuti che stavo piangendo, perché 
                  è una cosa che nel carcere non si fa, passi da debole. 
                  Però poi a un certo punto non me n'è importato 
                  più niente. 
                   
                  Concludiamo con uno sguardo rivolto al futuro... 
                   
                  Io mi auguro che chi di dovere faccia in modo che il Gruppo 
                  della Trasgressione diventi una realtà anche in altri 
                  istituti penitenziari. Non sarebbe un vantaggio solo per i detenuti 
                  ma anche per la società, perché chi passa attraverso 
                  questa esperienza viene recuperato alla società. Io sono 
                  qui: sono un'altra persona. Ero un delinquente che andava in 
                  giro armato, in auto rubate, capacissimo di fare una sparatoria. 
                  Una volta ho assaltato una macchina con due persone dentro armate 
                  fino ai denti... ero un vero delinquente! Adesso sono qui davanti 
                  al computer che cerco di impostare qualcosa per il gruppo. Io 
                  sono la prova vivente che il gruppo funziona e che chi di dovere 
                  deve prendere l'iniziativa e dare finanziamenti per fare queste 
                  cose. Perché questi ragazzi che vengono al gruppo come 
                  volontari, senza percepire nulla, lavorano per il bene della 
                  società. Vengono per convinzione, per aiutarci e qualcuno 
                  dovrebbe riconoscere questo merito a questa gente. E meno male 
                  che ci sono! Perché se io li avessi incontrati prima 
                  la società si sarebbe risparmiata un sacco di guai da 
                  parte mia!  
                 
                   
                    |   | 
                   
                  
                    Le 
                        locandine di due concerti della Trsg.band  | 
                   
                 
                   Armando 
                  Xifai 
                  Da detenuto, nel carcere di San Vittore, hai lavorato con 
                  il Gruppo della Trasgressione. Cosa ti ha spinto ad avviare 
                  questa esperienza?  
                   
                  All'epoca io ero un tipo abbastanza presuntuoso e per certi 
                  versi lo sono ancora. Vista l'ignoranza, la mancanza di cultura 
                  comune nelle carceri, mi sono avvicinato al gruppo più 
                  che altro pensando di fare una bella figura. Poi, man mano, 
                  ho scoperto le mie mancanze, i miei dubbi. Tutte le certezze 
                  sono crollate e a un certo punto ho cominciato a lavorare su 
                  me stesso, che è poi quello che ti spinge a fare il gruppo. 
                   
                  Ma, nel concreto, che significa: “lavorare su se stessi”? 
                   
                  Uno quando commette un reato e finisce dietro le sbarre, in 
                  un certo senso è arrabbiato col mondo e non dà 
                  molte colpe a se stesso. Le colpe più che altro le distribuisce 
                  a varie realtà: la famiglia, la società, o anche 
                  singole persone conosciute. Uno finisce per giustificarsi e 
                  non vedere le vere motivazioni per cui è finito in carcere. 
                  Col lavoro del gruppo queste autogiustificazioni, lentamente, 
                  crollano e si comincia a capire che le cose non stanno come 
                  uno ha voluto immaginarsele. Questo è il lavoro su se 
                  stessi, che porta a galla certi aspetti nascosti. 
                   
                  Adesso che non sei più detenuto continui a lavorare 
                  per il gruppo. Hai avuto per esempio un ruolo di primo piano 
                  in un recente convegno sul “Male”, organizzato a 
                  Milano. Perché questo rapporto continua? 
                   
                  Quando fai parte di questo gruppo scopri l'amore per te stesso, 
                  il rispetto. E allora cominci a produrre qualcosa, cominci un 
                  lavoro mentale importante. Quando esci dal carcere queste cose 
                  ti vengono improvvisamente a mancare, perché fuori trovi 
                  una realtà completamente diversa. Quando sono uscito 
                  dal carcere ho sentito proprio la mancanza del lavoro mentale 
                  che avevo fatto con il gruppo. Mi sono reso conto che si era 
                  formato un certo cordone ombelicale che si fa fatica a tagliare. 
                  Io vivo lontano da Milano, a quasi 900 km, però partecipo 
                  con piacere perché mi piacerebbe che di quello che ho 
                  imparato io, di quello che ho capito, ne venissero a conoscenza 
                  anche gli altri, perché, l'ho detto, sono uno presuntuoso, 
                  vorrei aiutare a cercare di cambiare le cose, un po' come nelle 
                  canzoni di De André. 
                   
                  Parlando di De André, il gruppo ha lavorato in modo 
                  specifico sulla sua poetica. Tu che sei albanese forse neanche 
                  lo conoscevi. Quanto è stato importante parlare del lavoro 
                  di questo cantautore italiano? 
                   
                  De André è stato molto importante per me e credo 
                  che potrebbe esserlo anche per gli altri. Perché io credo 
                  che De André non parlasse tanto a noi diseredati, quanto 
                  semmai agli altri, a quelli che dovrebbero capire i diseredati 
                  e magari anche occuparsene. Quello che io sento di De André 
                  è che lui ha come messo una pietra, nella speranza di 
                  costruire un mondo nuovo, un posto dove la gente capisce e viene 
                  capita. Non è un messaggio presuntuoso, De André 
                  dice semplicemente che la realtà è questa e per 
                  capirla bisogna mettersi nei panni di questa gente. Abbiamo 
                  lavorato tanto su De André, non tanto sulla musica, sulla 
                  quale magari siamo ignoranti, quanto sulle parole, su quello 
                  che dice, sul suo pensiero. De André è stato davvero 
                  molto importante per me. È vero, io sono albanese, ma 
                  il suo linguaggio per me è internazionale. È un 
                  linguaggio umano e per quello non è stato per niente 
                  difficile capirlo. Tutti possono capirlo, basta avere la voglia, 
                  la sensibilità, di sentirlo, di capirlo. 
                   
                  Vorrei approfondire questo argomento. Pensando a questa intervista 
                  ero molto incuriosito dal fatto che un albanese ascoltasse questo 
                  cantautore e mi chiedevo come poteva essere compreso De André 
                  a partire da una sensibilità e cultura diversa. Tu mi 
                  stai dicendo che quello di De André è un linguaggio 
                  che può raggiungere tutti, al di là delle barriere 
                  culturali e linguistiche? 
                   
                  Sì. Noi in Albania eravamo abituati a sentire magari 
                  Albano o qualche altro cantante italiano, di quelli che più 
                  che altro cantano la felicità. Canzoni facili da ascoltare 
                  e accettare. Un cantautore come De André, che canta il 
                  rovescio della medaglia non è facile accettarlo al primo 
                  ascolto. Bisogna approfondire, entrare nella sua musica, in 
                  quello che dice, nei sentimenti che esprime. Soprattutto bisogna 
                  entrare nel significato, perché le canzoni di De André 
                  sono ricche di conoscenza, al contrario di quelle di Albano, 
                  che magari ha degli acuti straordinari ma non dice nulla di 
                  importante. Insomma De André è un cantautore italiano 
                  ma questo ha poca importanza, poteva anche essere di un altro 
                  paese e chiamarsi Jerry, nel senso che la sua maniera di cantare 
                  è internazionale e le cose che canta sono universali. 
                  Per questo nel gruppo abbiamo analizzato i testi di De André 
                  non in quanto canzoni ma soprattutto per i concetti che esprimono, 
                  per il pensiero. Le sue canzoni comunque sono bellissime e io 
                  spesso in cella, sdraiato sulla branda, le ascoltavo, perché 
                  quelle canzoni annebbiavano un po' il nostro malessere di carcerati. 
                  Però De André per me è molto più 
                  di un cantante, è un uomo di pensiero che dice delle 
                  cose di cui la gente preferirebbe non sentir parlare, perché 
                  sono cose che ti spingono a ragionare. Canta le puttane, i detenuti, 
                  i ladri, quelli che la gente “normale” vorrebbe 
                  magari solo vedere in galera, figurati se vorrebbe vederli cantati. 
                  Per quello noi detenuti ci siamo un po' innamorati di De André. 
                   
                  Angelo Aparo sostiene che l'opera di De André ha un 
                  ruolo significativo nel lavoro del gruppo perché molti 
                  dei temi delle sue canzoni sono gli stessi su cui si lavora 
                  nel gruppo. Ma quali sono questi temi comuni fra il lavoro di 
                  De André e quello del gruppo? 
                   
                  Anzitutto la questione del bene e del male. È un tema 
                  presente in modo molto sensibile in tutte le canzoni di De André. 
                  Noi nel gruppo abbiamo parlato del ritorno del figliol prodigo, 
                  nel senso di cambiare il nostro modo di pensare e di essere, 
                  ma senza per questo dover rinnegare tutto della nostra storia. 
                  Infatti De André cerca sempre di non buttare via niente 
                  delle persone, cerca semmai di far capire a chi lo ascolta che 
                  quelle persone sono così, ma potrebbero essere anche 
                  diverse. Che potrebbero essere altre. Noi abbiamo studiato attraverso 
                  De André che il bene e il male sono molto relativi. Poi 
                  ci sono molti altri temi, come quello della giustizia, per esempio 
                  analizzando una canzone come quella del giudice4, 
                  dove il tema è molto forte. Si può dire che tutti 
                  i temi che abbiamo toccato come gruppo li abbiamo ritrovati 
                  nelle canzoni di De André. 
                   
                  Ci sono molte canzoni di De André in cui il tema della 
                  giustizia e della legge è affrontato in maniera diretta 
                  e solitamente ritroviamo poco amore per chi amministra il potere 
                  e molta comprensione per chi sbaglia. Penso a quel famoso verso: 
                  “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo 
                  mondo”. Tu ti sei mai ritrovato in qualcuno di questi 
                  personaggi? 
                   
                  Io ho fatto un lavoro su La guerra di Piero. A prima 
                  vista potrebbe sembrare che De André un po' ci giustifica, 
                  ci difende, ma io penso che più che altro ci faccia riflettere. 
                  Io ero dentro per traffico e spaccio di droga ed è successo 
                  che un ragazzo di 26 anni con problemi di droga si è 
                  suicidato. Per la prima volta, allora, mi sono sentito responsabile, 
                  per il crimine che avevo commesso, per il mio delitto. Lì 
                  mi sono sentito responsabile proprio direttamente, in maniera 
                  tangibile e forte, tanto che in questo mio scritto su La 
                  Guerra di Piero mi sono autoaccusato, dicendo che questo 
                  ragazzo è morto anche per colpa mia. Se questo ragazzo 
                  è morto è colpa anche di tutti quelli che hanno 
                  fatto quello che ho fatto io. E questo l'ho capito con La 
                  guerra di Piero. Lì ho capito che in De André 
                  non c'è giustificazione ma comprensione. Lui cerca di 
                  far capire a quelli che stanno fuori dal carcere e magari fan 
                  volontariato, o magari non fanno nulla, o ci odiano e ci attaccano, 
                  che la realtà è completamente diversa da come 
                  loro la vedono, che il male che noi abbiamo tirato fuori galleggia 
                  anche dentro di loro. Che Geordie, la puttana, l'assassino e 
                  il giudice sono dentro tutti noi. Io ero un criminale, ma sarei 
                  potuto essere benissimo anche un giudice. Siamo tutti giudici 
                  in fondo. Il giudice è una figura simbolica, ma chi di 
                  noi nella vita non si è sentito almeno una volta giudice 
                  degli altri? Magari anche molto più cattivi di quelli 
                  che condannano nei tribunali a vari anni di carcere. Noi siamo 
                  i primi giudici, quelli che non pensano a quello che fanno e 
                  magari condannano sulla base di notizie giornalistiche o di 
                  voci di popolo, senza approfondire. De André invece è 
                  tutto il rovescio di questo: lui non giudica e ci offre la possibilità 
                  di conoscere quelle persone che magari a noi non piacciono, 
                  ci spinge a un momento di riflessione, non tanto per giustificarli, 
                  ma per capirli e cambiare se stessi. 
                   
                  Il gruppo ti ha aiutato quando si è suicidato quel 
                  ragazzo? 
                   
                  Per chi sta dentro è facile dire: si è suicidato 
                  perché non era un ragazzo forte, perché è 
                  finito dentro e non era capace di sopportare le pene dell'inferno. 
                  O che si drogava semplicemente perché gli andava di farlo, 
                  perché i problemi stavano a casa sua, o perché 
                  i problemi sono nella società. Perciò non sono 
                  io responsabile, io ho solo portato la droga in Italia, io semplicemente 
                  l'ho passata di mano, non sono stato io a iniettargli la droga 
                  nelle vene... nel Gruppo della Trasgressione ci sono state discussioni 
                  aspre su questo, io stesso ho avuto una discussione forte con 
                  un tossicodipendente, non mi sono fermato subito a riflettere. 
                  Ma quando abbiamo parlato di De André, quando ho ascoltato 
                  La guerra di Piero, allora ho riflettuto e se non ho 
                  più commesso un reato è proprio grazie a quel 
                  lavoro che abbiamo fatto con il gruppo. Il gruppo ha influito 
                  moltissimo sia sulle riflessioni che ho fatto sulla morte di 
                  quel ragazzo che sulle mie scelte di oggi. Gli amici più 
                  belli sono quelli che, quando esci, ti offrono l'opportunità 
                  di riscattarti. Invece di solito quando esci la società 
                  viene a mancare, le possibilità di riscattarti non ci 
                  sono, i giudizi che trovi fuori, ovviamente, non sono positivi, 
                  e allora provi a combattere ma, se non avessi avuto alle spalle 
                  la forza di un lavoro come quello che abbiamo fatto nel gruppo, 
                  l'amore di persone che mi hanno sostenuto (i miei familiari 
                  e quelli del gruppo) sicuramente sarei stato una preda molto 
                  più facile per la criminalità. Invece resisto. 
                  Adesso faccio il muratore, un lavoro che nella vita non avevo 
                  mai fatto e che speravo di non dover fare mai. Ma adesso lo 
                  faccio, per rispetto di me stesso, per rispetto del gruppo e 
                  del lavoro che ho fatto in tutti quegli anni di galera, che 
                  non voglio buttare via. 
                   
                  Gli altri detenuti che hai conosciuto nel carcere, soprattutto 
                  quelli del gruppo, la pensano come te?  
                   
                  Quando il gruppo organizza dei convegni in sala ci sono sempre 
                  molti ex detenuti, il che significa che il gruppo non ha conquistato 
                  solo me. Ho un amico serbo che vive a Belgrado e ogni tanto 
                  ci sentiamo e ritorniamo con i discorsi, con piacere, a tutti 
                  quelli che abbiamo conosciuto nel gruppo. Questo senza andare 
                  a dire: “io sono cambiato”, perché a nessuno 
                  di noi piace dirlo, fra ex detenuti sembra quasi un'infamia. 
                  Però quella è la realtà. Chi fa un lavoro 
                  nel gruppo cambia perché riflette sulla propria vita. 
                  Questo non vuol dire che, se uno di noi domani commette un reato, 
                  significa che il lavoro del gruppo è stato vanificato. 
                  Semmai vuol dire che c'è ancora molto da fare e le istituzioni 
                  dovrebbero darsi un po' più da fare, perché basterebbe, 
                  da quando siamo usciti dal carcere, un anno, un anno e mezzo 
                  senza aver commesso reati e senza essersi avvicinati ad attività 
                  criminogene, per indurre chi di dovere a dare importanza a questo 
                  gruppo.
                  
                
  Quanto è importante il rapporto che si stabilisce 
                  fra i detenuti e gli esterni, gli studenti e gli insegnanti 
                  che partecipano?  
                   
                  È molto importante. In Albania c'è un detto: “ci 
                  sono i ricchi, i poveri e gli studenti”. Non so se sia 
                  un detto valido anche in Italia, comunque gli studenti italiani 
                  non è che siano molto benestanti, a meno che non provengano 
                  da famiglie ricche. Allora prendo io l'iniziativa, quando posso 
                  vado a Milano a trovarli. So benissimo che ognuno di noi ha 
                  la sua vita, però quando ci incontriamo c'è fra 
                  noi un sentimento di amore molto forte. Proprio due giorni fa 
                  una ragazza del gruppo è diventata mamma: ha partorito 
                  alle 3 del mattino e alle 6 mi ha mandato un messaggio per dirmi 
                  che aveva avuto una figlia e questo penso che possa dimostrare 
                  più di ogni altra cosa il legame che si è formato 
                  tra noi. 
                   
                  De André aveva promesso una visita al gruppo poi purtroppo 
                  la malattia gli ha impedito di onorare questo impegno. Se si 
                  fosse concretizzato come sarebbe stato questo incontro con l'autore 
                  de La guerra di Piero? 
                   
                  Mi avrebbe fatto davvero piacere incontrarlo, perché 
                  persone come lui ce ne sono poche e invece ce ne vorrebbero 
                  tante. Io non sono tipo da complimenti però mi sento 
                  di dirgli anche oggi, post mortem, che i Fabrizio De 
                  André mancano a questo mondo. Però lui non manca, 
                  lui c'è perché ha parlato con le canzoni. Non 
                  era un tipo da Maurizio Costanzo Show e da tutti gli altri show 
                  dove magari vanno oggi dei cantautori, peraltro finti. 
                   
                  Mancano i Fabrizio De André e mancano anche i gruppi 
                  della Trasgressione! Non sarebbe buona cosa se l'esperienza 
                  del gruppo venisse applicata anche ad altre situazioni carcerarie, 
                  visto che funziona? 
                  Sì, ma io penso anche che il Gruppo della Trasgressione 
                  non vada fatto solo nelle carceri ma anche fuori, fra la gente 
                  comune, proprio per quello che ci dice De André. Serve 
                  una riflessione nella società, perché la società 
                  di oggi è cieca, non vede, non sente e la cultura mafiosa 
                  è proprio dentro la società. Ognuno vede solo 
                  quello che vuole vedere e sente solo quello che vuole sentire. 
                  Io del resto non sono mai mancato a un appuntamento del gruppo 
                  quando ero dentro e ora che sono fuori cerco sempre di partecipare. 
                  Quindi non è una realtà solo del carcere. 
                   
                  Aparo ci ha raccontato che nei vostri incontri c'è 
                  anche occasione di divertimento: si mangia, si canta tutti assieme... 
                  anche questo è un aspetto importante del vostro lavoro? 
                   
                  Sì, ma anche triste allo stesso tempo perché dimostra 
                  a noi detenuti ed ex detenuti che in fondo ci vuole poco per 
                  star bene in mezzo alla gente, senza andare a cercare chissà 
                  quali altre cose. Quando ci incontravamo si cantava qualche 
                  canzone, si rideva, si scherzava e si stava da dio. Cose semplicissime, 
                  però cose che ti mancano quando sei detenuto. 
                   
                  Mi fai pensare all'esperienza del rapimento, quando De André 
                  e Dori Ghezzi furono costretti in una grotta per alcuni mesi. 
                  De André disse che quel periodo di detenzione gli aveva 
                  fatto capire quanto fossero importanti le piccole cose, quelle 
                  di cui a volte ci scordiamo quando la vita va bene. Avete in 
                  comune anche questa sensazione.  
                   
                  Sì, le piccole cose. Mentre ero in carcere è nato 
                  il figlio di mia sorella e oggi mi manca molto mio nipote, mi 
                  mancano gli amici del gruppo. Oggi sento quanto è bello 
                  far colazione al mattino, leggere il giornale, leggere un libro. 
                  Non ho la tv in casa, per scelta, perché preferisco vivere 
                  in modo un po' spartano e spero che questa voglia di vivere 
                  così mi duri, con l'attenzione alle piccole cose, come 
                  ha capito De André quando è stato sequestrato 
                  e come ho scoperto io quando sono stato in carcere. 
                   
                  Dando uno sguardo al futuro, ti vedi più in Italia, 
                  nonostante i problemi del passato, o pensi di più al 
                  tuo paese? 
                   
                  Ma io questa possibilità di pensare “qui o lì” 
                  non c'è l'ho per adesso. Io cerco di tirare avanti e 
                  costruire pian piano il mio futuro, ma non ho idee precise. 
                  Potrebbe essere in Italia, in Albania o in qualunque altro paese, 
                  perché il mio paese è il mondo e le radici si 
                  possono mettere dovunque ci siano acqua e sole.
                   
                  
                Seconda, necessaria premessa 
                  De André aveva promesso di andare a trovare il Gruppo 
                  della Trasgressione nel carcere di San Vittore, Ma quell'incontro 
                  non si è mai tenuto. Mi sono chiesto come sarebbe andata, 
                  se la malattia non avesse impedito questa bella occasione. Per 
                  avere una risposta ne ho parlato con il giornalista Alfredo 
                  Franchini, amico di De André, che nel 1991 era stato 
                  promotore e testimone di qualcosa di molto simile, presso la 
                  colonia penale di Is Arenas... 
                   
                    Alfredo 
                  Franchini 
                 In questa trasmissione siamo arrivati ad occuparci delle 
                  canzoni di De André che hanno a che vedere con il carcere, 
                  la giustizia, la legge. Tu hai raccontato un episodio5 
                  al quale De André non aveva dato pubblicità, una 
                  sua visita ai detenuti della colonia penale di Is Arenas, in 
                  Sardegna. Puoi raccontarci i fatti?  
                   
                  Fabrizio non pubblicizzava mai queste cose, le faceva con discrezione. 
                  Il carcere di Is Arenas è una piccola colonia penale, 
                  molto frequentata da giovani, generalmente tossicodipendenti 
                  o comunque ragazzi condannati per reati minori. Nel 1991 questi 
                  giovani, grazie ad un insegnante del carcere, fecero una sorta 
                  di studio sulle canzoni di Fabrizio, pubblicato sulla rivista 
                  del carcere, ed espressero il desiderio di conoscerlo. Io gli 
                  mandai queste pagine che i detenuti avevano scritto sulle sue 
                  canzoni e lui, dopo aver preso contatti solo con il direttore 
                  del carcere, una mattina, senza dir niente a nessuno, si incontrò 
                  con i detenuti, i quali gli fecero una vera e propria intervista, 
                  bellissima perché spontanea. Molti di loro si intrattennero 
                  su aspetti anche molto personali, chiedendo ad esempio notizie 
                  del sequestro di cui era stato vittima. Molti parlavano di aspetti 
                  vicini ai loro problemi: della droga, della prostituzione. Fabrizio 
                  rispose a tutto, senza sottrarsi. Raccontando del sequestro 
                  spiegò perché aveva comunque deciso di restare 
                  a vivere in Sardegna e perché non si era costituito parte 
                  civile nel processo contro i suoi rapitori. Parlando della droga 
                  il suo racconto fu molto importante perché i ragazzi, 
                  molti dei quali tossicodipendenti, gli chiesero delle droghe 
                  dei suoi tempi e lui rispose: “sono stato drogato anch'io, 
                  perché ho bevuto alcol dai 18 ai 45 anni”. Qualcuno 
                  gli chiese se era stato difficile smettere e lui rispose: “non 
                  è stato difficile, non ho più assaggiato whisky 
                  dalla morte di mio padre”. Raccontò infatti che 
                  il padre gli chiese in punto di morte di non bere più 
                  e Fabrizio, che era un uomo di grandi principi, smise di bere. 
                  Tutte queste cose colpirono quei ragazzi molto più di 
                  tante lezioni cattedratiche. 
                   
                  Tu scrivi che quei detenuti, che poi lui aveva incontrato, 
                  avevano scoperto la libertà ascoltando le canzoni di 
                  De André. Che cosa avevano scoperto in quelle canzoni? 
                   
                   
                  Ti rispondo con un aneddoto. Durante una presentazione del libro, 
                  a Milano, mi è capitato di incontrare un disabile in 
                  carrozzella, il quale mi disse: “quando ascoltavo le canzoni 
                  di De André io, per la prima volta, mi sentivo uno normale”. 
                  Fabrizio, quando lo avevi di fronte ti faceva una specie di 
                  radiografia: ti capiva a fondo, capiva i tuoi problemi e queste 
                  cose le trasferiva nella canzoni. È chiaro che un malato 
                  può riconoscersi nello stato d'animo del protagonista 
                  di Un malato di cuore. La stessa cosa è accaduta 
                  a chi si è drogato. Nel 1970 non era ancora morto Jimi 
                  Hendrix e noi ragazzini non sapevamo cosa fosse la droga, eppure 
                  lui, in quegli anni, scriveva il Cantico dei drogati. 
                  Noi non la capivamo, ma chi si trovava già in quella 
                  condizione la capiva. I ragazzi del carcere ci si sono riconosciuti 
                  perché lui è riuscito nelle sue canzoni a disegnare 
                  così bene degli stati d'animo nei quali ci si può 
                  riconoscere. 
                   
                  Hai presentato il tuo libro anche nel carcere di Alghero 
                  dove c'è una biblioteca dedicata a De André. 
                   
                  Nella biblioteca c'è una targa con i versi finali di 
                  Via del Campo: “dai diamanti non nasce niente, dal 
                  letame nascono i fior”, una cosa meravigliosa all'interno 
                  di un carcere. 
                  Il carcere di Alghero ospita molti detenuti per droga e moltissimi 
                  extracomunitari. Lì ho incontrato un uomo, condannato 
                  per uxoricidio. Era uno che non conosceva l'opera di De André, 
                  che ne ha sentito parlare per la prima volta quel giorno e dopo 
                  siamo rimasti in contatto, con tutti i limiti imposti dalle 
                  severe leggi carcerarie, perché lui sta facendo uno studio 
                  su De André in quanto si è riconosciuto in quelle 
                  canzoni. 
                   
                  A De André che cosa aveva portato quell'incontro nel 
                  carcere di Is Arenas?
                  Fabrizio era poco attratto da quelli che hanno la vita programmata, 
                  lui preferiva stare vicino alle persone che non hanno la vita 
                  facile. Conosceva bene anche gli ambienti cosiddetti “alti”, 
                  ma non gli piacevano perché li trovava pieni di ipocrisia, 
                  di falsità, tanto che in Sardegna non frequentava mai 
                  i posti dove si ritrovavano i cosiddetti vip, stava meglio con 
                  i contadini. 
                  Ogni volta che faceva incontri di questo tipo Fabrizio sentiva 
                  semplicemente di aver fatto il proprio dovere, perché 
                  aveva un grandissimo senso del dovere ed essendo mosso dall'ansia 
                  di giustizia, sentiva come un dovere il poter aiutare in qualche 
                  modo delle persone in difficoltà. Tanto è vero 
                  che aiutava in tutti i modi, anche sul piano economico: ogni 
                  tanto staccava anche qualche assegno. Ognuno di questi incontri 
                  poi, sebbene lui fosse un grande intellettuale e un grande artista, 
                  era sempre alla pari. Infatti i ragazzi del carcere si aspettavano 
                  di veder arrivare una star e invece si son trovati di fronte 
                  un uomo, come succedeva sempre quando c'era di mezzo Fabrizio.
                    
                  Renzo Sabatini 
                Note 
                 
                  - www.trasgressione.net. 
                  
 - Avrei voluto intervistare non solo ex detenuti, ma anche 
                    detenuti. Purtroppo la complessità delle leggi carcerarie 
                    è insormontabile per una radio situata a migliaia di 
                    km di distanza. Per lo stesso motivo non ho potuto raccogliere 
                    testimonianze femminili: alcune detenute hanno iniziato un 
                    percorso nel Gruppo della Trasgressione ma si trattava all'epoca 
                    di una esperienza nuova e nessuna di queste donne aveva ancora 
                    del tutto scontato la sua condanna. 
                  
 - I nomi citati dall'intervistato sono stati qui omessi per 
                    ovvie ragioni di riservatezza degli interessati. 
                  
 - Un Giudice, dall'album: “Non al denaro, non 
                    all'amore né al cielo“ (1971), frutto di un lavoro 
                    sull'Antologia di Spoon River (1915), del poeta americano 
                    Edgard Lee Masters (1868-1950). 
                  
 - Il racconto è nel libro di Alfredo Franchini: “Uomini 
                    e donne di Fabrizio De André”, edito nel 1997. 
                    
 
                  
                (interviste realizzate via telefono fra luglio e settembre 
                  2007; registrate presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. 
                  Andate in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: 
                  “In direzione ostinata e contraria“, dedicata ai 
                  personaggi delle canzoni di Fabrizio De André) 
                  
                
                   
                    |   In 
                        direzione ostinata e contraria  
                       Con 
                        questa triplice intervista, prosegue la pubblicazione 
                        su “A” di una parte significativa delle 27 
                        interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini 
                        e andate in onda in Australia nel programma “In 
                        direzione ostinata e contraria” sulle frequenze 
                        di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. 
                        In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna 
                        della durata di circa quaranta minuti, per un totale di 
                        quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono 
                        state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte 
                        le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque 
                        della più lunga e dettagliata serie radiofonica 
                        mai dedicata al cantautore genovese. 
                       Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria. 
                       Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012)); Paolo 
                        Solari (“A“ 376, dicembre-gennaio 2012-2013). 
                        
                        la redazione di “A” | 
                   
                 
                
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