Prima 
                    di parlare di De André vorrei presentarti al pubblico 
                    di Rete Italia. Nato nel 53 a Milano, hai studiato violoncello 
                    ma anche composizione sperimentale ed elettronica e poi architettura. 
                    Alle spalle una lunga carriera come compositore in molti ambiti 
                    ma anche come esecutore di installazioni sonore. Chi è 
                    Piero Milesi?Quale parte della tua produzione ti definisce 
                    meglio? 
                  Quello che posso dire è che il fatto di aver avuto 
                    a che fare con attività in fondo molto diverse è 
                    stata per me sia una fortuna che una sfortuna. Sfortuna nel 
                    senso che poi è anche più difficile gestire, 
                    sia a livello professionale che artistico, una variegata possibilità 
                    di interventi. La fortuna invece è che anzitutto non 
                    mi annoio e secondo che mi rimanda sempre a vedere le cose 
                    da prospettive diverse. Questo perche, ovviamente, gli interlocutori, 
                    le committenze, sono diverse. Quindi non saprei dire con quale 
                    ambito posso identificarmi meglio. Le installazioni sonore 
                    sono nate un po’ per caso… probabilmente lì 
                    hanno inciso i miei studi di architettura. Riuscire a lavorare 
                    in grandi spazi è una cosa che col tempo ho raffinato 
                    e messo a punto e mi ha dato la possibilità di affrontare 
                    la musica, indipendentemente da quello che la musica ha in 
                    sé stessa, ma anche condizionata da dove la musica 
                    viene rappresentata. E questo è un fenomeno che era 
                    molto sviluppato in Italia, soprattutto a Milano, negli anni 
                    80. Adesso è un po’ andato nel dimenticatoio. 
                    E poi l’aspetto più direttamente musicale: pur 
                    avendo un background di studi classici, questa cosa mi ha 
                    permesso di essere piuttosto “eretico” in questo 
                    senso, per cui i miei interventi musicali si sono rivolti 
                    anche alla musica cosiddetta “leggera”, e le virgolette 
                    le metto due volte, perché in certi casi la musica 
                    leggera può essere più intelligente rispetto 
                    a certa musica cosiddetta colta, che però è 
                    tutt’altro che intelligente!
                  
                     
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                      Piero 
                          Milesi   | 
                    
                  
                  Nel 1990 arrangiamenti e direzione d’orchestra 
                    per “Le nuvole”, nel 1996 “Anime salve” 
                    anche come co-produttore e poi la produzione della tournée 
                    del 1997 nei palasport. Com’è accaduto che hai 
                    cominciato a lavorare anche con Fabrizio De André?
                  Con Fabrizio è nato perché sono stato convocato 
                    da Mauro Pagani, che era il produttore de “Le Nuvole”. 
                    Io Mauro lo conoscevo già dai tempi non sospetti, da 
                    quando lavoravo ancora insieme con Moni Ovadia e facevamo 
                    già musica chiamiamola così “etnica”, 
                    la “World Music” degli anni settanta. Noi c’eravamo 
                    già! Poi è esploso il fenomeno negli anni Ottanta. 
                    Mauro è venuto a lavorare con noi, è stato convocato 
                    in un mio disco dove lavoravo per una scrittura d’orchestra. 
                    Lui è stato chiamato in qualità di violinista. 
                    Lui poi mi ha convocato per “Le Nuvole”, per arrangiare 
                    due pezzi da orchestra sinfonica, cosa che ho fatto di buon 
                    grado ed è stato un lavoro, direi, anche piuttosto 
                    semplice, lineare. Lì ho avuto modo di conoscere Fabrizio. 
                    
                    Fabrizio evidentemente non si era dimenticato di me e nel 
                    1995, quando era ancora nella fase di pre-produzione di “Anime 
                    salve”, mi aveva convocato per la scrittura degli archi. 
                    Allora, forse lo sapete, si pensava che il disco sarebbe uscito 
                    con il doppio nome: “Fabrizio de André e Ivano 
                    Fossati”, perché tra l’altro Fossati è 
                    coautore delle canzoni. Poi lì, per vari sviluppi, 
                    che non sto ad approfondire ora più di tanto, mi sono 
                    trovato ad arrangiare tutto l’album. Fabrizio me lo 
                    aveva chiesto, prima mi aveva messo un po’ alla prova, 
                    chiedendomi di arrangiare un paio di pezzi e mi sono trovato 
                    anche ad essere co-produttore dell’album. E li è 
                    cominciata questa via crucis, chiamiamola così, insieme 
                    a Fabrizio, però che ha portato a un disco che, insomma, 
                    più o meno tutti conoscono, perlomeno tutti gli amanti 
                    di De André!
                  Nel filmato “Faber” di Bigoni e Giuffrida 
                    c’è una tua breve apparizione dove sottolinei 
                    due aspetti della personalità di De André. Uno 
                    di questi è la sua capacità di ascolto e profonda 
                    comprensione degli altri. Tu dicevi che è una qualità 
                    rara in tempi in cui tutti parlano e nessuno ha voglia di 
                    ascoltare. Questa capacità di ascolto verso chi era 
                    rivolta e come si manifestava?
                  Mi fa piacere che me l’hai fatto ricordare, perché 
                    mi ero dimenticato di averlo detto. Questa sua capacità 
                    di ascolto è verissima: Fabrizio era molto empatico 
                    con il suo circostante e con le persone con cui aveva a che 
                    fare riusciva sempre a innescare un rapporto molto profondo, 
                    non solo un rapporto positivo, ovviamente, anche negativo, 
                    perché Fabrizio non aveva un carattere accomodante, 
                    tutt’altro. Però era il suo modo di cercare di 
                    capire le persone, di cercare di coglierle, in qualche modo 
                    di radiografarle… non so.. solo il fatto che si divertiva 
                    a dare soprannomi a tutti, fin dall’inizio. Soprannomi 
                    tra l’altro estremamente appropriati ed azzeccati, molto 
                    simpatici, ovviamente, ecco: questo era un suo modo di inquadrare, 
                    definire le persone. Ma questo con tutte le persone, a tutti 
                    i livelli, dall’amico antico al collaboratore occasionale 
                    oppure, come nel mio caso, al collaboratore con cui condivideva 
                    alla fine una parte della sua vita piuttosto lunga. Questo 
                    lo vedevo… questa sua perenne curiosità nel cercare 
                    di capire… riusciva a capire addirittura le sfumature 
                    di una persona, i pensieri più reconditi… e anche 
                    nei momenti di difficoltà, purtroppo a Fabrizio non 
                    gliela si faceva! Perché in questo senso era più 
                    forte: conosceva di più l’altra persona. E questo 
                    era un aspetto che non permetteva mai di… mi vien voglia 
                    di dire che non permetteva di barare, però è 
                    un termine sbagliato. Diciamo che non permetteva mai di farla 
                    franca su qualsiasi questione. 
                    Il lato positivo era che alla fine il rapporto, pur essendo 
                    estremamente conflittuale, come è stato nel mio caso 
                    ma anche di altri suoi collaboratori che mi hanno preceduto, 
                    era comunque un rapporto molto onesto. Onesto perché 
                    evitava gli arzigogoli devianti dalle verità.
                  
                     
                       
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                      Milano 
                          1996 - Piero Milesi durante la realizzazione di Khorakhanè  | 
                    
                  
                  
 
                    Mettere in musica il dolore universale
                  … Ci puoi allora rivelare qual era il tuo di 
                    soprannome?
                  …beh, in realtà me ne aveva dati tantissimi! 
                    All’inizio ero Geppetto, perché avevo i capelli 
                    bianchi. Questo qui, vabbé, era il più facile. 
                    Poi “Tentenna”, perché musicalmente sono, 
                    così, un “caga dubbi”, peggio di Fabrizio, 
                    per cui ogni tanto ci preoccupavamo a vicenda perché 
                    nella nostra estrema ricerca della perfezione a volte da certe 
                    situazioni, anche banali, facevamo molta fatica ad uscire. 
                    Infatti Fabrizio in queste occasioni diceva: “Belìn, 
                    proprio da qui non ne usciamo più, andiamo bene, siamo 
                    a posto!” e probabilmente Fabrizio aveva bisogno, proprio 
                    lo richiedeva, di una figura come un sergente, un personaggio 
                    spiccio che in quattro e quattr’otto risolvesse le situazioni 
                    più delicate. Comunque ce l’abbiamo fatta, riuscendo 
                    sempre con lui a valutare, nota per nota, tutto lo sviluppo 
                    della costruzione di questo album. Poi me ne aveva dati altri 
                    di soprannomi però… beh, uno non lo dico, quello 
                    gli usciva nei momenti di cattiveria, quindi non lo dico! 
                  
                  È coperto dalla privacy! Hai appena sottolineato 
                    che avete lavorato: “nota per nota” e questo introduce 
                    l’altro aspetto che sottolineavi in quella tua testimonianza, 
                    che è più legato all’aspetto professionale. 
                    Mi riferisco al fatto che De André fosse uno che cercava 
                    di raggiungere livelli alti di perfezione nel suo lavoro e 
                    quindi, per usare le tue parole, “tormentava” 
                    i suoi collaboratori. In che modo vi tormentava?
                  Sì, nello stesso tempo penso di aver detto che, allo 
                    stesso modo, tormentava anche se stesso. Il fatto è 
                    che Fabrizio era una persona tormentata. Lui cercava sempre 
                    di raggiungere un livello estremamente alto, questo probabilmente 
                    anche per appagare, giustamente, la sua vanità, ma 
                    anche, soprattutto, per poter veicolare meglio dei messaggi 
                    che lui riteneva opportuno di lanciare. L’aspetto musicale, 
                    quindi un aspetto estetico, retorico, aiutava ovviamente la 
                    comunicazione di quello che lui voleva dire. Tormentava nel 
                    senso che molte cose lui non sapeva come dovevano essere. 
                    Lui diceva magari che delle cose dovevano essere bellissime, 
                    però senza sapere come arrivarci. Allora è difficile, 
                    specialmente quando si parla di musica. È difficile 
                    traslare dei sentimenti in note musicali. Anche perché 
                    lì interviene l’aspetto culturale, che è 
                    estremamente soggettivo, per cui un dato suono o una data 
                    sequenza di note per me potrebbe avere un significato emotivo 
                    di un certo tipo e magari per te ce n’ha un altro e 
                    in quel senso la comunicazione verbale diventava ardua. Però 
                    c’è una cosa che mi aveva molto stupito di Fabrizio: 
                    ricordo di un brano sul quale avevo riflettuto tutta la notte 
                    per capire come affrontarlo. A un certo punto decido di chiamare 
                    Fabrizio per chiedere soccorso a lui e ho chiesto a Fabrizio 
                    come lui se lo immaginasse, come lui se lo aspettasse, questo 
                    brano. Anche perché andava a toccare un momento importante 
                    dell’album. In pratica si doveva cercare di capire come 
                    mettere in musica il dolore universale! Ho chiesto aiuto a 
                    Fabrizio e mi aspettavo da lui una risposta molto ben articolata 
                    e molto ben motivata, come Fabrizio sapeva fare: era la sua 
                    specialità questa. E lui, un po’ spiazzandomi, 
                    a un certo punto mi dice: “Piero, deve essere bello!”. 
                    Ed è finita lì. Al momento mi sono detto: “beh, 
                    grazie tante, questo lo so anche io!”. Però è 
                    come se con questo mi avesse provocato una piccola illuminazione, 
                    nel senso che a questo punto sapevo che la responsabilità 
                    era tutta mia e in quel senso mi sono anche auto incoraggiato. 
                    Ho avuto da lui un incoraggiamento che mi ha innescato un 
                    auto incoraggiamento. E difatti da lì mi è arrivata 
                    l’idea che ha funzionato. Per cui la comunicazione con 
                    lui era spesse volte molto spiazzante, probabilmente anche 
                    perché a lui piaceva essere sempre fuori dalle righe. 
                    Però il discorso andava sempre su dei temi molto alti 
                    e questo voleva dire andare sempre a cercare in sé 
                    stessi le parti più profonde e riuscire a tradurle 
                    in musica, evidentemente nel modo migliore. Però che 
                    fatica!
                   A quale pezzo ti riferivi?
                  Era Disamistade, che fra l’altro, sia per 
                    me che per Fabrizio, è il pezzo che abbiamo preferito. 
                    Però questo ce lo siamo detti ad album già uscito. 
                    Erano i due brani strumentali, uno a metà e l’altro 
                    che è la coda strumentale. Disamistade l’abbiamo 
                    amata entrambi, su questo, dopo, perché l’amore 
                    per quello che abbiamo fatto l’abbiamo manifestato soltanto 
                    dopo, perché durante il viaggio, in realtà, 
                    si navigava fra i perigli. Questo brano c’è piaciuto 
                    moltissimo perché nella sua semplicità… 
                    sono quattro accordi, se vogliamo, tipicamente “deandreiani”… 
                    però siamo riusciti, musicalmente, a dargli, almeno 
                    così pensavamo noi, dargli una veste molto contemporanea. 
                    Contemporanea forse è anche un termine sbagliato, nel 
                    senso che lo limita a un tempo. Diciamo che siamo riusciti 
                    a dargli una veste così anacronistica che poteva essere 
                    contemporanea, ecco, mettiamola così.
                  
 
                    Ci siamo chiusi in casa senza vedere nessuno
                  Realizzare un CD o mettere assieme una tournée 
                    non è come scrivere un libro. L’artista in questi 
                    casi deve rapportarsi con molte altre persone e il prodotto 
                    finale è il frutto di un lavoro di gruppo. De André 
                    come sceglieva di volta in volta i suoi collaboratori? Per 
                    esempio tu entri in scena come arrangiatore solo in una certa 
                    fase.
                   Non so come scegliesse i suoi collaboratori, però 
                    so che Fabrizio difendeva il nostro operato in modo egregio. 
                    Perciò in due siamo riusciti a fare l’album quasi 
                    come se fosse un libro. Nel senso che sia la casa discografica 
                    che le pressioni dall’esterno, come l’informazione 
                    e quant’altro, lui riusciva a tenerli a bada. Per cui 
                    tutta la pre-produzione di questo lavoro l’abbiamo portata 
                    avanti io e lui, e tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo 
                    ascoltato solamente io, lui e Dori Ghezzi. Lui è riuscito 
                    a proteggere questo lavoro. Perché altrimenti se avessero 
                    iniziato i discografici a dire: “no qui faremmo così” 
                    oppure: “qua questa cosa c’è il rischio 
                    che non venda”, e così via, questa cosa sarebbe 
                    stata l’inizio della fine. Invece i musicisti che poi 
                    sono intervenuti lavoravano su cose che erano non solo state 
                    scritte ma anche estremamente valutate nel dettaglio, precedentemente 
                    da me e Fabrizio. Qualcosa ovviamente, lungo la strada, è 
                    cambiato. Perché, per esempio, nel caso delle percussioni 
                    di Naco, certe proposte fatte da lui, lì per lì, 
                    io e Fabrizio le abbiamo ben accolte. Però in sostanza 
                    tutto il lavoro di pre-produzione, che è durato sei 
                    sette mesi e si è svolto a casa mia, è stato 
                    molto intenso. 
                    Ci siamo chiusi in casa per tutto questo tempo senza vedere 
                    nessuno. È stato un po’ come fare con lui un 
                    viaggio in barca, al di fuori c’era il nulla e nella 
                    barca c’eravamo solamente noi. Questo nel bene, per 
                    la produzione dell’album e a volte anche nel male, fra 
                    di noi, per il nostro rapporto, anche perché sembra 
                    che sia normale, se due persone fanno un viaggio in barca 
                    di sei sette mesi… sarebbe anormale se di tanto in tanto 
                    non si andasse a litigare anche in modo pesante. 
                  Ecco questo viaggio in barca, questa frequentazione 
                    molto intensa porta anche, come dicevi adesso, a dei momenti 
                    di conflitto. In linea generale il rapporto umano che si stabiliva 
                    con Fabrizio lavorandoci assieme come lo definiresti?
                  Estremamente conflittuale! Del resto la creatività 
                    non è altro che il frutto di un conflitto, questo in 
                    tutti i sensi anche se magari poi si potrebbe discutere sulla 
                    parola “conflitto”. Comunque conflittuale non 
                    solo per i momenti di confronto in cui ci si dice: “io 
                    la penso così, tu la vedi colà”. Lì 
                    intervengono anche gli ego. Allora uno difende non tanto la 
                    propria idea musicale, in quel momento, ma difende se stesso, 
                    difende il suo pensiero rispetto al mondo e questa cosa era 
                    inevitabile in un lavoro di questo tipo. In un lavoro più 
                    sulle righe, più leggero, su certe cose si sarebbe, 
                    ovviamente, passati sopra. Potrei definirlo così: intensamente 
                    e meravigliosamente conflittuale. Poi naturalmente ci sono 
                    stati anche momenti di grande divertimento, di lasciarsi andare, 
                    dire grandi stupidaggini, farsi le battute stupide, prendersi 
                    in giro in modo bonario, o lasciarsi andare anche a confidenze 
                    estremamente private. Anche se il disco incombeva sempre su 
                    di noi. Guarda, mi fai venire in mente una cosa. Finito il 
                    disco io ricordo che, proprio in occasione della presentazione 
                    dell’album, al ristorante, ho detto: “Fabrizio 
                    tu, veramente, proprio mi hai tormentato all’inverosimile!”. 
                    E lui: “Ma, Piero, certo! Io volevo che tu mantenessi 
                    sempre alta la tensione”. Perbacco, infatti l’ho 
                    mantenuta la tensione! Per cui lui aveva proprio un ragionamento 
                    logico, una strategia, proprio da Machiavelli. Però 
                    su una cosa, alla fine, eravamo veramente d’accordo: 
                    che non doveva vincere né Fabrizio De André 
                    né Piero Milesi. Doveva vincere l’arte. Doveva 
                    vincere il disco. Questa cosa ci ha permesso di andare avanti. 
                    Io non nascondo che in più di un momento ho pensato, 
                    veramente, di declinare il mio impegno e rinunciare alla produzione. 
                    Meno male che, così, anche inconsciamente, sono andato 
                    avanti.
                  Visto il mistero che aleggiava all’inizio sulla 
                    sua persona e visti i testi di certe canzoni, per anni si 
                    è pensato a un De André chiuso nella sua figura 
                    di poeta maledetto, scontroso e musone. Ma era questa davvero 
                    la sua personalità?
                  No, non è vero, perché un conto è l’immagine 
                    che lui dava di sé… sai, come capita a tutti 
                    noi personaggi pubblici, a volte si rimane come ingabbiati 
                    nell’immagine che si è deciso di dare di sé 
                    stessi. Però Fabrizio, anzitutto non era un omologato, 
                    questo è vero. Lui quello che odiava erano gli stereotipi. 
                    Che c’è anche il pericolo che adesso si faccia 
                    un po’ l’icona, l’immaginetta di Fabrizio 
                    e si stia stereotipizzando, a sua volta, l’immagine 
                    di Fabrizio De André. E questa cosa qui lo so già 
                    che gli darebbe un enorme fastidio, perché tutta la 
                    vita di Fabrizio è stata mirata a sgretolare i miti, 
                    a smantellare le sicurezze e le certezze, a detestare ciò 
                    che era omologato. La legge del branco, per intenderci. E 
                    c’è il rischio che adesso, su di lui, venga fuori 
                    questa cosa qua. Poi quella del poeta maledetto diventa un’espressione, 
                    direi, un po’ romantica che potrebbe far comodo anche 
                    ai media e ai giornalisti per scriverne. Io capisco naturalmente 
                    l’aspetto editoriale per cui certe terminologie incuriosiscono 
                    il lettore. Però Fabrizio era veramente una persona 
                    a trecentosessanta gradi e anche negli aspetti, così, 
                    bonari, o quando parlavamo di calcio e siamo andati anche 
                    allo stadio assieme, potrei raccontare delle sue manie di 
                    segnarsi nei taccuini le partite, come fanno i bambini, lui 
                    ha continuato a farlo, dando i voti ai calciatori! Uno magari 
                    rimane spiazzato quando sente queste cose. Come? Fabrizio 
                    de André che da i voti ai calciatori e si tiene il 
                    calendario delle partite dell’annata? Ma certamente 
                    anche questo fa parte del Fabrizio De André uomo e 
                    artista. Io mi stupirei del contrario. Sennò rischia 
                    di essere un politico, nella sua accezione peggiore, dove 
                    il controllo di se stesso è portato sempre agli estremi 
                    eccessi. Fabrizio tutt’altro. Anzi! Molte volte lui 
                    non si controllava.
                  … anche tu sei tifoso del Genoa?
                  No! Io son milanista! Siamo andati a vedere Milan-Genoa, 
                    me lo ricordo. Zero a zero, una partita orribile! Adesso però 
                    sono abbastanza genoano perché sto vivendo in Liguria. 
                    Sono anche un po’ genoano per quieto vivere… diciamo 
                    così!
                  
 
                    Non il personaggio ma la sua caricatura
                  Hai accennato a quello che è successo dopo 
                    la morte di De André: gran produzione di libri, artisti 
                    che ricantano le sue canzoni a volte in maniera discutibile, 
                    sindaci che dedicano vie e piazze… tu come la vedi questa 
                    profusione di tributi post mortem? 
                  Mah… non lo so. Da una parte sono estremamente contento 
                    perché i semi che Fabrizio aveva lanciato stanno germogliando 
                    da soli, senza bisogno di concimarli più di tanto. 
                    Ormai sono semi potenti che stanno venendo su da tutte le 
                    parti. Fabrizio evidentemente è andato a toccare, con 
                    le sue canzoni, certi argomenti che nel più profondo 
                    molte persone avevano già intuito ma che, probabilmente, 
                    molti non avevano il coraggio di esternare e Fabrizio l’ha 
                    fatto per loro, per noi. Per cui il fatto che il fenomeno 
                    (perché ormai è diventato un fenomeno) Fabrizio 
                    De André si sia sviluppato in questo modo è 
                    senz’altro positivo, soprattutto vedendolo anche all’estero. 
                    Io lo vedo, anche in questa intervista che stiamo facendo. 
                    
                    Purtroppo noi italiani all’estero siamo identificati 
                    ormai come “spaghetti-Paolo Rossi-Sofia Loren”, 
                    più o meno. E questo è ovviamente molto frustrante 
                    per noi. Allora il fatto che, specialmente anche nelle comunità 
                    straniere, il messaggio di Fabrizio sia così preso 
                    in considerazione, altro non è che il superamento dell’immagine 
                    che gli italiani hanno del proprio paese, standone fuori. 
                    E questo qui è l’aspetto estremamente importante 
                    e bello. Poi c’è l’aspetto un po’, 
                    diciamo così, esteticistico, che mi disturba un pochino. 
                    
                    Ogni tanto mi chiamano a certe manifestazioni come testimone 
                    di colui che ha lavorato con Fabrizio De André (cosa 
                    che peraltro adesso sto cercando di evitare di fare) e c’è 
                    un po’ questo aspetto del: “io tocco te, quindi 
                    tocco lui” e questa cosa mi frustra un pochino, mi fa 
                    venire in mente un po’… hai presente il film “Buffalo 
                    Bill e gli indiani” di Altman, dove alla fine quello 
                    che rimane non è il personaggio ma la sua caricatura? 
                    Ecco, questo potrebbe essere il pericolo. Però, pensando 
                    sempre che a Fabrizio, in questo senso, il suo essere famoso 
                    non gli sarebbe piaciuto, io questo aspetto cerco sempre di 
                    evitarlo. 
                  Comunque quelli che hanno scritto i libri e fatto 
                    i dischi quasi mai sono persone come te che hanno lavorato 
                    assieme a De André. Come mai, per una sorta di riservatezza, 
                    di pudore?
                  Secondo me sono questioni di business. Nel mercato il fenomeno 
                    De André è un fenomeno che tira. Fare una biografia 
                    su De André ormai, con l’informatica, con il 
                    copia/incolla, è una cosa facilissima. Ogni editore, 
                    grande o piccolo, ormai deve fare il suo libro su De André, 
                    perché comunque se ne vendono tanti. E questo qui non 
                    è molto bello, perché poi la maggior parte dei 
                    libri che vengono fuori non sono altro che riedizioni di quello 
                    che già era stato letto. Ecco, quello lì è 
                    proprio l’aspetto omologante dove poi, veramente, si 
                    rischia di fare l’immaginetta di Fabrizio. Questo qui 
                    è un fenomeno assolutamente da combattere. Una questione 
                    è l’intervista o l’incontro di approfondimento 
                    Un altro conto è… spiattello una bella foto, 
                    faccio il festival di Fabrizio De André perché 
                    so che almeno la gente ci arriva…anzi, peggio ancora! 
                    Faccio il festival su Fabrizio De André perché 
                    so che le amministrazioni mi danno il finanziamento! Per cui 
                    in pratica c’è anche una giustificazione culturale 
                    sull’operazione. 
                    Poi c’è una pletora di “cover band” 
                    che girano per tutta l’Italia… benissimo, buon 
                    per loro! Però ogni tanto mi piacerebbe sentire anche 
                    qualche canzone di Fabrizio, completamente stravolta e riarrangiata. 
                    Adesso per la verità c’è anche chi inizia 
                    a farlo così e lo preferisco piuttosto che sentirmi 
                    la fotocopia, spesse volte fatta male, di quello che Fabrizio 
                    aveva già fatto. Anzi spesse volte mi coinvolgono anche 
                    in situazioni del genere e io non nego di trovarmi in notevole 
                    imbarazzo. 
                  Al di là del lavoro che hai fatto per Le 
                    Nuvole e Anime Salve, del resto della produzione 
                    artistica di De André c’è qualcosa che 
                    ti importa in maniera particolare? Che ti piace e ti emoziona 
                    più di altre o che ti sembra più importante?
                  Si, è “La buona novella”. Ti dirò, 
                    di Fabrizio, prima di lavorare con lui sapevo poco o niente, 
                    anche perché della musica cosiddetta leggera, o dei 
                    cantautori, sapevo poco perché i miei studi erano classici 
                    per cui ascoltavo molto Beethoven, Stravinskij e Bach. Avevo 
                    però ascoltato un po’ di Fabrizio de André 
                    di sponda, perché avevo un fratello che comprava i 
                    suoi dischi. Per cui dall’altra stanza sentivo le sue 
                    canzoni e ricordo che La buona novella, allora, mi aveva veramente 
                    trapassato. Mi aveva veramente colpito. Tanto è vero 
                    che poi, dopo l’ultima produzione live di Fabrizio, 
                    si parlava con lui di recuperare La Buona Novella, 
                    perché è una tematica, veramente che, a dire 
                    attuale mi sembra anche di limitarla un po’. Però 
                    è attuale perché è veramente fuori dal 
                    tempo. Specialmente in un periodo come questo dove i Vangeli 
                    sono stati così abusati. Adesso non voglio dire cose 
                    pesanti sul sistema religioso in Italia, però un album 
                    come La buona novella è un certo modo di rimettere 
                    i puntini sulle i, rispetto a certe questioni estremamente 
                    delicate. E difatti Fabrizio l’ha ripresa, da ultimo, 
                    ne presentava alcuni brani nell’ultima tournée, 
                    fra l’altro uno glielo avevo riarrangiato io. Poi, a 
                    parte La Buona Novella, ci sono alcune canzoni qua 
                    e là che mi piacciono, forse quelle più o meno 
                    note per tutti. Comunque la cosa interessante di Fabrizio 
                    è che, se andiamo a vedere, non è che lui ha 
                    avuto un’attività estremamente prolifica come 
                    numero di canzoni. Non sono tantissime. Però una cosa 
                    è certa: quasi tutte le canzoni di Fabrizio sono state 
                    importanti. Se noi guardiamo ad altri autori del passato, 
                    per esempio Modugno, vediamo che hanno scritto tantissime 
                    canzoni, però alla fine sono stati identificati in 
                    alcune canzoni, le canzoni che conosciamo di questi autori 
                    alla fine sono quattro o cinque. Invece chi segue Fabrizio 
                    De André, al di là di Bocca di Rosa, 
                    Marinella e La guerra di Piero, ne conosce 
                    molte di più. Diciamo che ci sono almeno una quarantina 
                    di sue canzoni che ci accompagnano continuamente. 
                  
 
                    Il mio lavoro con i Rom
                  Nel percorso di questa trasmissione abbiamo intervistato 
                    soprattutto gente che potesse ritrovarsi nei personaggi delle 
                    canzoni di De André. La prostituta, la palestinese, 
                    il detenuto, il Rom e così via. Volevamo indagare su 
                    quanto De André avesse colto nel segno parlando di 
                    queste persone. Tu ti sei mai sentito in qualche modo rappresentato 
                    in qualcuna delle sue canzoni o ti senti più un osservatore 
                    del mondo cantato da De André?
                  No, mi sento anche rappresentato. Io mi sento abbastanza 
                    uno zingaro e anche Fabrizio me lo diceva, che lo ero. Non 
                    sono zingaro, non sono Rom, però mi sento molto zingaro. 
                    Ma non perché continuo a cambiare casa e mi sposto. 
                    È proprio nello spirito. Tra l’altro ultimamente 
                    sto lavorando con dei musicisti Rom. Zingari di cui sono molto 
                    amico e con cui mi trovo molto a mio agio. Tra l’altro 
                    mi invitano alle loro feste, matrimoni, battesimi…. 
                    Io mi sento zingaro nel senso che la legge che determina i 
                    comportamenti del popolo zingaro non è una legge scritta: 
                    non esistono tribunali, non esistono forze dell’ordine. 
                    Ma è una legge tutta morale. Talvolta può essere 
                    una legge estremamente discutibile, però, in questo 
                    senso mi ci ritrovo. E Fabrizio tra l’altro me lo diceva…
                  … allora abbiamo scoperto un altro dei soprannomi 
                    che ti aveva appioppato Fabrizio!
                  (ridendo) eh, sì!
                    
                    Questo tuo rapporto con il gruppo Rom ci interessa! 
                    Queste persone con cui siamo venuti a contatto, che abbiamo 
                    intervistato, ci hanno quasi sempre confermato di essersi 
                    sentite ben raccontate in queste canzoni, senza essere giudicate. 
                    Tu che sei anche stato vicino a De André hai qualche 
                    esperienza simile da raccontare? Per esempio questo gruppo 
                    Rom con cui lavori… magari conoscono Khorakhané!
                  Certamente! Difatti stiamo pensando di fare una versione 
                    di Khorakhané cantata tutta in lingua Rom 
                    e con il finale in italiano, riarrangiata da loro. Purtroppo 
                    io li ho conosciuti dopo l’esperienza con De André, 
                    altrimenti, sicuramente, li avrei coinvolti nell’album. 
                    Tra l’altro ce ne sono un paio che sono veramente dei 
                    talenti, musicalmente parlando. Generalmente gli zingari sono 
                    bravi musicalmente, cosa tra l’altro un po’ cliché 
                    da dire. Tanto quanto a noi dà fastidio essere identificati 
                    solo con Paolo Rossi e Sofia Loren, a loro dà altrettanto 
                    fastidio essere identificati con quelli che rubano e però 
                    suonano bene il violino, perché più o meno questa 
                    è l’immagine corrente. In realtà c’è 
                    un universo veramente interessante. Loro, lungo i secoli, 
                    sono portatori, dall’India e attraverso tutta l’Asia 
                    e l’Europa, di cultura. Non dimentichiamo che, ad esempio, 
                    gli strumenti che noi abbiamo adottato, dal violino allo stesso 
                    pianoforte (che in origine arriva dal cimbalom), beh, sono 
                    strumenti provenienti dall’area indiana, ed è 
                    il nomadismo che ha permesso a questi strumenti di divulgarsi 
                    in Occidente. 
                  Tornando, in coda di intervista, alla tua vicenda 
                    professionale, dopo De André ti sei trovato a lavorare 
                    con altri “big” della canzone d’autore. 
                    Come è stato questo rapporto?
                  Sì, ho fatto un paio di brani con Ligabue, tra l’altro 
                    mi è piaciuto perché sono andato a Londra, negli 
                    studi di Happy Road che è un po’ un obiettivo 
                    importante e dove ho anche avuto un incontro simpatico con 
                    Paul Mc Cartney. Quindi ho lavorato con Luciano e ho fatto 
                    anche qualche altra piccola cosa, però ho cercato di 
                    limitarmi, perché non volevo finire a fare l’arrangiatore, 
                    come lavoro. 
                    Io mi sento un compositore e non di canzoni (purtroppo, perché 
                    in realtà il portafoglio ne risente) quindi quello 
                    che mi preme e che mi urge è di continuare a scrivere, 
                    più che lavorare sui brani di altri. Certo, ogni tanto 
                    faccio qualche lavoro di arrangiamento, che non mi dispiace 
                    fare, anche perché con la crisi della discografia bisogna 
                    anche pensare, ahimè, alla pagnotta. 
                  
                     
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                      Piero 
                          Milesi nella sua casa a Mattarana (Sp)  | 
                    
                  
                  
 
                    La notte della Taranta
                  Qui a Rete Italia ci siamo occupati a fondo della 
                    world music italiana e della rinascita della musica popolare. 
                    La tua esperienza come direttore artistico della “Notte 
                    della Taranta” rientra in questo filone. Ce ne puoi 
                    parlare?
                  Questa per me è stata una tappa estremamente importante 
                    perché sulla Notte della Taranta io ho cominciato con 
                    la seconda edizione, quando ancora non ci scommetteva nessuno. 
                    La prima edizione era stata curata da Daniele Sepe. La seconda 
                    l’ho curata io e lì ho capito che poteva essere 
                    una cosa veramente importante, più che interessante. 
                    Importante perché sulla pizzica tarantata si sapeva 
                    poco o niente. Si sapeva qualcosa di striscio, più 
                    che altro sull’aspetto terapeutico di quella musica. 
                    Ricordo che da ragazzino avevo ascoltato delle trasmissioni 
                    radiofoniche di Diego Carpitella sui “tarantati”, 
                    e mi ero anche piuttosto spaventato! Circa quarant’anni 
                    dopo sono stato coinvolto in questa attività e mi si 
                    sono risvegliate le parti più recondite della coscienza. 
                    È stato molto interessante, in primo luogo perché 
                    c’è un fermento musicale impressionante nel Salento, 
                    probabilmente dovuto anche al fatto che, pur essendo sempre 
                    stato tagliato via dalle comunicazioni importanti, soprattutto 
                    per motivazioni geografiche (il “tacco” dell’Italia 
                    era proprio fuori dal mondo, si può dire), però 
                    nello stesso tempo è riuscito a conservare una propria 
                    identità molto forte. 
                    L’esclusione è diventato un aspetto positivo. 
                    Per me è stato importante perché scoprire un 
                    mondo musicale con una identità così forte… 
                    basti pensare che ad ogni concerto della Taranta… adesso 
                    ormai, all’ultima edizione c’erano oltre centomila 
                    persone di cui tantissimi erano ragazzi, tutti armati di tamburello 
                    a suonare assieme. E suonato bene, non suonato in modo pasticciato. 
                    E questa cosa qui non fa che riempirmi di gioia. Ovviamente 
                    anche lì il fenomeno di quella musica, nello stile, 
                    nel modo di suonare, è soggetto a mutamenti. Ma questo 
                    è normale perché vuol dire che il linguaggio 
                    di quella musica è un linguaggio vivo, quindi in continuo 
                    movimento. Altrimenti non sarebbe altro che una riproduzione 
                    congelata e filologica di quello che c’era un tempo 
                    e adesso non c’è più, un po’ come 
                    i giorni dell’addio. 
                    E questo della taranta è un fenomeno che ormai è 
                    esploso in Italia e presto esploderà anche fuori, e 
                    io sono anche un pochino orgoglioso di averci creduto e di 
                    avere lavorato molto su questo per alcuni anni ed è 
                    molto importante che questo fenomeno esploda nei suoi termini 
                    più positivi. 
                    Mi fai venire in mente, tra l’altro, che, quando stavo 
                    arrangiando Anime Salve con Fabrizio, come sai abbiamo usato 
                    tantissimi strumenti particolari, cosiddetti etnici e fra 
                    questi, allora, che eravamo ancora in tempi non sospetti, 
                    io pensavo di usare anche il Didjeridoo, che è uno 
                    strumento tipicamente vostro, dei nativi australiani. Avevo 
                    dei campioni che avevo recuperato da qualche parte e questo 
                    suono estremamente ammiccante ci intrigava molto. Il problema 
                    era trovare allora chi lo suonasse, per cui è stato 
                    scartato per motivi più che altro tecnici, perché 
                    venire in Australia diventava una cosa un po’ complicata. 
                    Però è quasi stato un bene, perché quello 
                    strumento è stato usato adesso in tutte le salse e 
                    forse, purtroppo, rischia di essere un po’ snaturato 
                    nel suo aspetto semantico, proprio di significato. Perché 
                    uno strumento che ha, come quello, una tradizione così 
                    radicata, rivisto ad esempio nella pubblicità di un 
                    detersivo, devo ammettere, mi sciocca un pochino. 
                  Vuoi dire che è diventata una cosa quasi folcloristica?
                  Esatto, folcloristica è la parola giusta. Mi viene 
                    in mente che sulla differenza fra musica etnica e musica folcloristica 
                    Fabrizio aveva dato una definizione bellissima: “la 
                    musica folcloristica è quella che i musicisti suonano 
                    per gli altri, mentre la musica etnica è quella che 
                    i musicisti suonano per se stessi”. Questo rende molto 
                    l’idea. Per gli altri, nel senso che è per i 
                    turisti, insomma.
                  I tuoi progetti per il futuro? Il violoncello è 
                    solo un ricordo oppure lo suoni ancora?
                  Mah, lo sto un po’ riprendendo però io l’ho 
                    lasciato da tempo. A un certo punto della mia vita ho deciso 
                    di fare il compositore per cui l’ho abbandonato. Ultimamente 
                    lo sto riprendendo, lo sto ristudiando, sto facendo anche 
                    qualche piccola registrazione, però non mi sento di 
                    essere un vero violoncellista. L’ho lasciato per troppo 
                    tempo a dormire. Progetti, se riesco a vincere le mie pigrizie 
                    e le mie paure, vorrei andare avanti sul mio nuovo album, 
                    quello sì. Che poi, dopo l’esperienza con De 
                    André e con la Notte della Taranta, ovviamente molti 
                    parametri in me sono cambiati. E dal momento in cui cambiano 
                    i parametri, per me è molto difficile ricostruirmi 
                    delle regole. 
                  Infatti, tu nasci come musicista classico, come ci 
                    ricordavi all’inizio. Però queste esperienze 
                    ti avranno influenzato in qualche misura.
                  Sicuramente, anche se, ti dirò, io sono un musicista 
                    classico però Jimi Hendrix da ragazzino lo ascoltavo. 
                    Anzi, quando avevo quattordici anni avevo una band e facevamo 
                    Hendrix e i Led Zeppelin. Nella mia cameretta avevo due manifesti: 
                    quello di Beethoven e quello di Jimi Hendrix!
                  Si assomigliano anche!
                  Sì, nella capigliatura si assomigliano! Ma sicuramente 
                    si assomigliano anche nel loro modo di sconquassare certe 
                    regole di comunicazione musicale che a loro erano diventate 
                    estremamente ingombranti e nello stesso tempo anche insufficienti.
                   
 
                    In questo mondo di furbi
                  A proposito del tuo ultimo album… i tuoi dischi 
                    sono soprattutto sul mercato americano e non su quello italiano. 
                    Come mai?
                  Io i miei dischi li faccio là, perché qua non 
                    me li facevano fare. Quando ho fatto il primo album ho girato 
                    per due anni tutte le case discografiche italiane e più 
                    che qualche pacca sulla spalla non ho trovato. Poi ho provato 
                    a mandarlo in Inghilterra e subito, immediatamente, ho avuto 
                    due contratti. Per cui il primo l’ho fatto in Inghilterra. 
                    Poi da lì, una casa discografica americana (evidentemente 
                    gli americani ascoltano le musiche un po’ di tutto il 
                    mondo), beh, mi è arrivata questa lettera dove mi proponevano 
                    di fare un disco. Io non avevo neanche risposto perché 
                    pensavo che fosse uno scherzo di qualcuno. Poi mi è 
                    arrivato un sollecito e ho cominciato a preoccuparmi perché 
                    lo scherzo stava diventando pesante. E poi ho capito che non 
                    era uno scherzo. Quindi, in quel caso lì, ho faticato 
                    tanto in Italia per trovare una casa discografica e non ho 
                    fatto nulla per trovarne una negli Stati Uniti. E ricordo 
                    anche il motivo. In Italia i discografici non potevano prendere 
                    la mia musica perché dicevano di non sapere come classificarla, 
                    come promuoverla e quindi come venderla. Le edizioni di musica 
                    classica mi rimandavano a quelle di musica leggera e pop, 
                    quelle di pop mi rimandavano a quelle di classica e io stavo 
                    impazzendo in questo girare a vuoto. Ricordo invece che in 
                    Inghilterra mi dissero: “ci piace perché questa 
                    cosa non l’abbiamo mai sentita”. E questa cosa 
                    mi ha fatto ovviamente un enorme piacere. Ci ho messo tre 
                    minuti a firmare il contratto! Prima l’ho firmato e 
                    poi l’ho letto. 
                  Questa tua storia la dice lunga sulla salute del 
                    mercato discografico italiano. Ti va di salutare gli ascoltatori 
                    con un tuo ultimo commento su Fabrizio De André uomo 
                    e artista? O un tuo ultimo ricordo, se preferisci.
                  Guarda ne ho talmente tanti che non saprei da dove cominciare. 
                    Posso dire questo, quello che mi viene in mente adesso: Fabrizio 
                    non sapeva per niente nascondere le sue emozioni, era come 
                    un bambino. Nei momenti in cui era incazzato (scusate il termine, 
                    non so se si possono dire le parolacce per radio!), proprio 
                    trapelava da tutti i pori. Così anche nei momenti in 
                    cui era buono, affettuoso. Era estremamente trasparente in 
                    questo senso qui, estremamente aperto, e sicuramente questo 
                    aspetto non può essere disgiunto da quella che poi 
                    è stata la sua produzione artistica, che comunque era 
                    estremamente aperta. Fabrizio non aveva assolutamente paura 
                    di quello che non conosceva. Io ricordo che Fabrizio lo diceva 
                    spesso: ogni persona generalmente abbraccia le tipologie di 
                    persone con cui si è in confidenza, a cui assomiglia. 
                    Per cui si formano le mandrie, i greggi, e c’è 
                    grande diffidenza rispetto a chi è diverso da noi. 
                    Fabrizio in questa trappola non ci cascava mai. Il suo essere 
                    aperto, il suo modo di essere letto da un certo punto di vista 
                    era, credo, anche un po’ la sua dannazione, perché 
                    poi gli creava dei problemi anche nei rapporti di lavoro. 
                    Insomma è un mondo pieno di furbi e il cosiddetto furbo 
                    sa bene come nascondere le proprie carte.
                  Piero, ti ringraziamo di questa tua testimonianza.
                  Vi ringrazio io! Mi ha fatto piacere ed ho anche avuto modo 
                    di fare un ripasso su quello che è stato un pezzo importante 
                    della mia vita.
                   
                (Intervista realizzata via telefono nel settembre 2007. Registrata 
                  presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in 
                  onda nell’ottobre 2007 nell’ambito della trasmissione 
                  settimanale: “In direzione ostinata e contraria”, 
                  dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André). 
                
                Grazie per le foto di Piero Milesi a Walter Pistarini dal sito 
                  viadelcampo.com.