cultura 
                  
                  
                 “Il 
                  Vangelo 
che medito”  
                 Sono passati vent'anni dall'incidente stradale in cui Padre 
                  Ernesto Balducci ha perso la vita, e le sue parole, i suoi scritti, 
                  la sua testimonianza di fede (e di uomo) non smettono di chiamarci 
                  in causa ed interpellarci. Questo frate scolopio, nato sui monti 
                  dell'Amiata, in un paese di minatori - Santa Sofia - può 
                  essere considerato a buon diritto un “gigante” del 
                  pensiero cristiano del Novecento e un insuperabile comunicatore. 
                  Da giovane si mosse nella Firenze dei La Pira e dei don Milani 
                  e fece del magistero del Concilio Vaticano II il crinale di 
                  una fede sempre pronta ad interloquire con la cultura e la politica. 
                  La casa editrice Chiarelettere ha raccolto gli interventi di 
                  Padre Balducci nel volumetto Siate ragionevoli chiedete l'impossibile 
                  (Chiarelettere, 2012, pagg. 156, Ä 7,00): un bel pugno 
                  di articoli usciti su diverse testate (L'Unità, Il Sole 
                  24 ore, Il Secolo XIX...) in un arco di tempo che va dagli anni 
                  ottanta a qualche settimana prima della sua tragica morte. 
                  Diviso per tematiche in undici capitoli, con la prefazione di 
                  Don Andrea Gallo, il volume riporta la parola di Padre Balducci, 
                  che ci viene incontro con la forza di una rivelazione. Per il 
                  frate - che vestiva abiti laici - era fondamentale la necessità 
                  che il Cristianesimo, ormai screditato, soccombesse del tutto, 
                  in modo da poter ritrovare un'altra “fecondità 
                  sorgiva”, rintracciabile solo nel fermento e nello slancio 
                  del Vangelo: “Non voglio che si diffonda il Cristianesimo 
                  che io conosco. Voglio che si diffonda il Vangelo che io medito, 
                  che è un'altra cosa”. Severo con la sua Chiesa, 
                  cerca invece di farsi portavoce dei dannati e degli ultimi, 
                  perché “non si può parlare a nome di Cristo 
                  senza condividere la vita dei diseredati”. Non risparmia 
                  critiche nemmeno a Papa Wojtyla, reo di non aver saputo prendere 
                  una posizione netta e inequivocabile contro guerre e conflitti, 
                  come invece suggerirebbero alcuni pronunciamenti pontifici quali 
                  “Pacem in Terris”. Secondo il nostro tutte le religioni, 
                  per ritrovare la propria indole, devono rinnovarsi, abbandonare 
                  le loro certezze e sapersi confrontare con “l'asse orizzontale 
                  del futuro dell'uomo”. E di futuro Balducci parla anche 
                  quando incrocia il tema del disagio giovanile o della ricerca 
                  del facile benessere, del razzismo o della politica, che come 
                  la fede ha per molti versi tradito il suo progetto di speranza. 
                  Perché gli uomini possano rimettersi in cammino e aprire 
                  nuovi squarci di orizzonte il frate non sa indicare che una 
                  strada: quella che porta a cercare l'impossibile perché 
                  - secondo lui - solo così si raggiunge il possibile. 
                   
                  Mimmo Mastrangelo 
                  
                   
                   
                    
                 È 
                  nato prima lo stato 
o la guerra?  
                 È possibile che un libro scritto quasi trent'anni fa, 
                  in piena guerra fredda, sia ancora oggi attuale? Sì, 
                  se parliamo del testo Lo stato e la guerra. L'insensatezza 
                  delle politiche di potenza (Gandhi Edizioni, Pisa, 2008, 
                  pagg. 352, € 30,00) dello storico tedesco Ekkehart Krippendorff, 
                  che in esso ricostruisce la genealogia dei legami tra eserciti, 
                  stati e guerre, attraverso un'analisi storico-politica che parte 
                  dall'antichità e arriva agli anni '80 del '900, passando 
                  per l'epoca medioevale. “Sono così arrivato necessariamente 
                  al vero oggetto della questione sulla guerra (corsivo 
                  dell'autore), vale a dire il potere nato dalla violenza e tutelato 
                  militarmente, con il monopolio dell'uso della forza, lo stato”1. 
                  Questa è la conclusione finale dell'autore, il quale 
                  pur non partendo da una prospettiva di ricerca anarchica, approda 
                  ad essa nel corso del suo lavoro. 
                  Krippendorff, avvalendosi non solo delle sue competenze di storico 
                  ma utilizzando anche le riflessioni di letterati e filosofi, 
                  tra cui Tolstoj, Nietzsche e Goethe, sostiene la tesi per cui 
                  l'esistenza degli Stati, ma più in generale di ogni forma 
                  di dominio politico strutturale e permanente, dipende dalla 
                  presenza di forze militari istituzionalizzate, e non viceversa. 
                  L'atto di violenza originaria insomma, genera gerarchia e dominio, 
                  che a loro volta rigenerano sé stesse attraverso la guerra 
                  e le svariate forme che essa assume. 
                  E se queste considerazioni sono ovvie per molti libertari e 
                  anarchici, non è invece di poco conto che questa prospettiva 
                  entri a far parte del dibattito “accademico” delle 
                  relazioni internazionali, solitamente imbevute di realpolitik 
                  hegeliana-weberiana. Ma torniamo al libro. 
                  Nei primi capitoli, incentrati sul XIX e sul XX secolo, vengono 
                  analizzate la politica di potenza e la ragion di stato, interpretate 
                  come politiche astratte, senza fini definiti o precisi, o peggio 
                  con fini di conquista, realizzate continuamente a discapito 
                  della popolazione. E a tal proposito, sebbene Krippendorff prediliga 
                  una analisi strutturalista, viene pure evidenziato l'ordine 
                  simbolico e culturale che le sorregge e reifica. 
                  Successivamente l'autore si sofferma sul ruolo delle forze armate 
                  in alcuni dei principali momenti di cambiamento politico dello 
                  scenario internazionale dell'epoca moderna: la rivoluzione statunitense 
                  e quella russa. In esse ravvisa come le forze armate, da rivoluzionarie 
                  che erano per pratiche e idee, diventino reazionarie e repressive 
                  quando le briglie dello stato le fagocitano e le istituzionalizzano, 
                  attraverso un complesso procedimento giuridico-istituzionale 
                  e culturale, che ne svilisce lo slancio sociale di liberazione. 
                  I capitoli seguenti procedendo a ritroso nella storia, considerano 
                  lo stesso tipo di dinamiche, calate in contesti antecedenti: 
                  l'impero romano, il medioevo e il periodo successivo all'accordo 
                  di Westfalia. Viene ricostruita quindi, con le debite differenze 
                  inerenti ai vari momenti storici, l'evoluzione della violenza 
                  da affare privato da vendere al miglior offerente (si pensi 
                  ai mercenari, ai lanzichenecchi, etc.) a violenza statalizzata 
                  al servizio dei governi. 
                  Per chiudere, non si può non sottolineare la fervida 
                  ironia, ai limiti del sarcasmo, con cui l'autore ricostruisce, 
                  nel corso delle quasi 400 pagine del libro, l'idiozia e la ridicolaggine 
                  di alcuni personaggi e momenti storici ritenuti “intoccabili 
                  e mitici” dalla storiografia classica delle relazioni 
                  internazionali. Da Bismarck, che giudica le persone secondo 
                  la reazione del suo cane, alla sgangherata banda della Mano 
                  Nera, che riuscì ad uccidere l'arciduca Francesco Ferdinando 
                  dopo mille buffe disavventure: finalmente abbiamo una storiografia 
                  che smonta la pretesa grandezza e ragionevolezza della ragion 
                  di stato e della politica estera di potenza. Un valore aggiunto 
                  insomma per un libro che si presenta come un classico del pensiero 
                  pacifista e che si caratterizza per il tentativo di detronizzare 
                  la storia internazionale per come ce l'hanno raccontata sino 
                  ad ora. 
                   
                  Tommaso Regazzo 
                1. Ekkehart Krippendorff, Lo 
                  stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza, 
                  Gandhi Edizioni, Pisa, 2008, pp. 19, 20. 
                  
                 
                 
                    
                La presenza libertaria dentro i 
sindacati “ufficiali” 
                 “Uno dei fenomeni che si verificano durante le più 
                  acute crisi storiche, nel campo intellettuale, è il ritorno 
                  agli autori del passato, specialmente ad alcuni che nei momenti 
                  di quiete erano più trascurati e dimenticati...” 
                  (Luigi Fabbri) 
                   
                  Prima ancora di leggere l'interessante volume di Giorgio Sacchetti 
                  Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel 
                  sindacalismo italiano (1944-1969) (Aracne Editrice, Roma, 
                  2012, pagg. 376, € 21,00) ho pensato che ci è voluto 
                  del coraggio nell'affrontare non la ricostruzione di una fase 
                  “alta” della lotta di classe e del movimento libertario, 
                  ma la disamina di una deriva difficile e complicata, come difficili 
                  e complicate sono sempre le vicende di correnti rivoluzionarie 
                  in un'epoca di controrivoluzione o, se si preferisce, di rivoluzione 
                  capitalistica dall'alto. 
                  Eppure, proprio la scelta di studiare l'azione di coloro che 
                  “contre vents et marées” hanno tentato di 
                  mantenere viva una presenza libertaria nel movimento di classe 
                  costituisce il fascino del libro e, almeno per me, il principale 
                  motivo di interesse che lo caratterizza. 
                  Su quest'epoca, la recente edizione del bel libro di Gaetano 
                  e Giovanna Gervasio Un operaio semplice. Storia di un sindacalista 
                  rivoluzionario anarchico (1886-1964) (edizioni Zero in Condotta, 
                  Milano, 2012) ha fornito un materiale di grande interesse documentario 
                  e, non a caso, lo stesso Giorgio Sacchetti lo utilizza per la 
                  sua ricostruzione. 
                  Credo che una disamina dettagliata di molteplici percorsi ed 
                  esperienze quale quella che Giorgio ci propone meriti una lettura 
                  attenta. Da parte mia, porrò l'accento su un aspetto 
                  del libro che ritengo non solo importante ma in qualche misura 
                  singolarmente e, lo ammetto, preoccupantemente, attuale. 
                  Il libro, come si è detto, ricostruisce l'attività 
                  e il dibattito di compagni impegnanti nel movimento operaio 
                  in anni difficili. In particolare rende conto di due scelte 
                  - mi rendo conto che opero una semplificazione, ma ritengo sia 
                  accettabile. La prima è quella dei compagni che ritennero 
                  possibile la ricostituzione dell'Unione Sindacale Italiana, 
                  e cioè di un sindacato esplicitamente rivoluzionario 
                  e libertario; la seconda è quella dei compagni che ritennero 
                  fosse più praticabile - e più adeguata alla situazione 
                  - la scelta di operare come componente autonoma - ma necessariamente 
                  di estrema minoranza - dapprima nella CGIL “unitaria” 
                  e in seguito, dopo la scissione ad opera di CISL e UIL, nella 
                  CGIL egemonizzata da PCI e PSI. 
                  Entrambe le scelte, come è noto, si esaurirono senza 
                  pervenire a significativi risultati, al punto che, quando negli 
                  anni '60 del secolo scorso il conflitto industriale riprese 
                  vigore, non vi era una corrente operaia libertaria degna di 
                  nota e i compagni che entrarono allora in campo - chi scrive 
                  è fra questi - dovettero in qualche misura “ripartire 
                  dalle aste”. 
                  Si potrebbe sostenere, e gli amanti delle polemiche ad estenuazione 
                  lo hanno sovente fatto, che se “tutti” i compagni 
                  avessero fatto una scelta o l'altra i risultati sarebbero stati 
                  significativamente diversi e che, di conseguenza, vi fu una 
                  carenza della soggettività anarchica o meglio della soggettività 
                  degli anarchici che fecero la scelta “sbagliata”. 
                  Per parte mia, ritengo che porre l'accento su “errori” 
                  degli uni o degli altri non porti da nessuna parte, e anzi conduca 
                  a perdere di vista le effettive ragioni di quanto è avvenuto 
                  che, schematizzando, sono a mio avviso tre. 
                  In primo luogo il fatto che, dopo la seconda guerra mondiale 
                  e la sconfitta della rivoluzione spagnola, si era in un'epoca 
                  di rilancio del capitalismo occidentale, l'età d'oro 
                  del capitalismo per un verso e dall'altro di egemonia sui settori 
                  marginali del movimento operaio occidentale, quale quella operata 
                  dallo stalinisno in Italia. 
                  In seconda istanza, come lo stesso libro rileva bene, in questa 
                  fase non si formano nuove generazioni rivoluzionarie. I quadri 
                  storici sindacalisti libertari, per lo più uomini di 
                  grandissima capacità, generosità, sincerità 
                  - penso, per fare un altro esempio oltre a quello di Giovanni 
                  Gervasio, ad Attilio Sassi, sul quale si può leggere 
                  l'eccellente libro di Tomaso Marabini, dello stesso Giorgio 
                  Sacchetti e di Roberto Zani Attilio Sassi detto bestione. 
                  Autobiografia di un sindacalista libertario (edizioni Zero 
                  in Condotta, Milano, 2008) - sono troppo spesso aquile solitarie, 
                  circondate dalla stima dei militanti sindacali anche di altro 
                  orientamento, ma privi di un'area politico/sindacale di riferimento 
                  in grado di dare loro sostegno e, soprattutto, prospettive nel 
                  medio lungo periodo. 
                  Infine, pur rendendomi conto che con questa affermazione urterò 
                  qualche suscettibilità, ritengo che per molti abbia pesato 
                  il rifiuto, o se vogliamo la difficoltà, a ripensare 
                  categorie interpretative, forme di azione, modalità organizzative 
                  a fronte di relazioni sociali capitalistiche che, piacesse o 
                  meno, disegnavano scenari nuovi che non potevano essere semplicemente 
                  rifiutati, almeno da parte di chi voleva stare in campo aperto. 
                  Se dovessi citare un libro - peraltro di gradevolissima lettura, 
                  come altri del medesimo autore - indicherei Mezzo secolo 
                  di anarchia (1898-1945) di Armando Borghi (Edizioni Scientifiche 
                  Italiane, Napoli, 1954). Non credo che una diversa attitudine 
                  avrebbe dato frutti straordinari ma certo a molti la salvaguardia 
                  dell'identità e della tradizione parve il primo se non 
                  l'unico obiettivo meritevole di perseguimento. 
                  Oggi, a mio avviso, sembra che alcune delle domande e delle 
                  contraddizioni che percorrono il libro di Sacchetti siano perfettamente 
                  attuali e a maggior ragione dialogare, attraverso questo volume, 
                  con i compagni nostri di allora è esercizio utilissimo. 
                   
                  Cosimo Scarinzi 
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