dibattito violenza 
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                Violenza, politica e regno dei cieli 
                  
                di Federico Battistutta e Monica 
                  Giorgi 
                    
                 
                  È recentemente uscito un libro di Luisa Muraro con 
                    un titolo (“Dio è violent”) e un testo 
                    intriganti. E il dibattito si è subito acceso. 
                    Pubblichiamo qui le opinioni in merito di due nostri collaboratori.  
                  
                 
                 
                Fuori dagli imperativi dell'esistente
                  di Federico Battistutta
                  
                  È uscito da alcuni mesi 
                  un libriccino (qui il diminutivo si riferisce solo al numero 
                  di pagine) di Luisa Muraro, dal singolare titolo Dio è 
                  violent (edizioni Nottetempo, 2012, pagg. 75, € 6,00). 
                  L'autrice ha visto questa scritta, con l'ultima lettera cancellata, 
                  sul muro di una città. La cancellatura impedisce di definire 
                  il genere dell'aggettivo (maschile/femminile) e quindi del soggetto 
                  della frase. 
                  Da tali suggestioni Muraro, filosofa della differenza sessuale, 
                  muove le sue riflessioni, attualissime, sulla crisi del contratto 
                  sociale, sul declino della democrazia rappresentativa, sull'affacciarsi 
                  dell'antipolitica (neologismo dispregiativo, quest'ultimo, coniato 
                  proprio dai rentier della politica) e, nello specifico, 
                  sull'esercizio della violenza nella pratica politica. Lo fa 
                  pensando in grande e partendo da lontano: addirittura da Dio, 
                  appunto (e chi è Dio? Una persona, una metafora, un flatus 
                  vocis? Il testo non lo spiega, lasciando la domanda aperta 
                  alle sensibilità del lettore), per reperire vedute ampie 
                  e alte riguardo l'uso della violenza (a chi scrive viene in 
                  mente il titolo di un piccolo capolavoro della scrittrice nordamericana 
                  Flannery O'Connor: Il cielo è dei violenti – 
                  in italiano edito da Einaudi – il cui titolo, a sua volta, 
                  deriva da un passo del vangelo di Matteo). 
                  Nominare (invano?) il nome di Dio riguardo la violenza, a Muraro 
                  serve proprio per sfondare alcuni luoghi comuni del pensiero: 
                  introdurre Dio dentro ragionamenti che non lo prevedono porta 
                  a scavalcare certe divisioni fissate da un razionalismo asfittico. 
                  Pensare in grande, partire da lontano, si diceva, senza trascurare 
                  ciò che ci sta vicino, il quotidiano, il minuto, tutt'altro. 
                  Il discorso si dipana confrontandosi con alcuni autori (alla 
                  rinfusa: dal Benjamin di Per la critica della violenza, 
                  al taoista Sun Tzu; dallo psicanalista Winnicott all'elogio 
                  dell'indignazione di Hessel, sino a S. Weil, H. Arendt e alla 
                  scrittrice brasiliana Clarice Lispector, a Muraro, particolarmente 
                  cara) e con fatti della nostra stringente contemporaneità 
                  (pure qui alla rinfusa: le “guerre umanitarie” in 
                  Afghanistan, Iraq e Libia; la realizzazione della base militare 
                  USA all'aeroporto Dal Molin di Vicenza; la spettacolarizzazione 
                  del dopo-terremoto a L'Aquila per mano di Berlusconi; i black 
                  block e l'immaginario che alimentano). 
                   
                    Fare 
                  i conti col passato
                
  Ma il pregio del libello sta nel mettere sul piatto proprio 
                  la questione della violenza, iniziando col misurare, senza infingimenti, 
                  la distanza da mitologie passate, come quelle degli anni settanta, 
                  sulla violenza rivoluzionaria (a ben vedere più vicine 
                  alle tematiche aristoteliche sulla kátharsis che 
                  alla critica politica marxiana). Sono conti, quelli riguardanti 
                  il passato prossimo, che pochissimi oggi sono disposti a fare. 
                  Rasentando a volte il ridicolo. Un esempio: un noto esponente 
                  del movimento studentesco del '68 milanese (per un certo tempo 
                  lider maximo), nel rievocare quegli anni ricorda di essere 
                  stato ammiratore e seguace di don Milani, ripudiando al contempo 
                  ogni forma di violenza; tralasciando di dire – come usavano 
                  fare le demi-vierge del Settecento rispetto ai loro trascorsi 
                  – di essere stato l'artefice della virata stalinista imposta 
                  al movimento milanese (unico caso in Italia, grazie a Dio!) 
                  con tutto quello che poi ne è conseguito: do you remember 
                  katanghesi & Co? (Stalin non era Gandhi, mentre parlava 
                  di pace e lavoro pianificava l'eliminazione dei dissidenti). 
                  Nota bene: non sono solo rimembranze di reduci attempati, quelle 
                  a cui ci si riferisce qui, né vi è la preoccupazione 
                  di salvaguardare una qualche oggettività storica. Il 
                  passato mi interessa nella misura in cui si riverbera sul presente. 
                  È il presente che mi preme. Penso, con passione e preoccupazione, 
                  ad avvenimenti a noi vicini che rinnovano la domanda: penso 
                  a quanto è successo a Genova durante il G8, alle proteste 
                  NoTav o alla manifestazione romana del 15 ottobre dell'anno 
                  passato. L'uso della violenza mi dà da pensare, anche 
                  se mi rendo conto che fatico a dipanare il bandolo del discorso. 
                  Stenta però a convincermi chi oggi dichiara (anche sulle 
                  pagine di “A”) di rigettare sine glossa (senza 
                  ascoltare, senza alcuna declinazione, senza entrare nel merito, 
                  in una parola: con uno sfondo intollerante…) qualsiasi 
                  domanda sulla coniugazione tra violenza e politica. Tutto questo 
                  mi sembra solo un grande rito esorcistico o una scorciatoia 
                  che non porta da alcuna parte. Sia chiaro: nessuno enfatizza 
                  su collere purificatrici o peggio ancora vagheggia derive lottarmatiste; 
                  cionondimeno il problema resta.
                 
                   Violenza 
                  e non violenza 
                  E in questo senso le riflessioni di Luisa Muraro non cessano 
                  di interrogare. Pur nutrendo il massimo rispetto per le opzioni 
                  nonviolente (nel libro il riferimento va soprattutto a M.L. 
                  King), ella sostiene che oggi la predicazione pacifista, pur 
                  non mancando di valore etico, resta sprovvista di «un 
                  punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l'arroganza 
                  dei potenti». Una simile affermazione può lasciare 
                  perplessi. Qualcuno potrebbe replicare citando i principi che 
                  hanno orientato figure come Gandhi (e prima di lui Tolstoj). 
                  Ma non è questo il problema. Quanti di quelli che ora 
                  propugnano scelte nonviolente, al punto da farne la leva di 
                  un processo di trasformazione sociale, si riconoscono fattivamente 
                  nella nozione forte di ahimsa (in sanscrito “non 
                  nuocere”, da cui “non resistere al male”), 
                  nell'intima convinzione che, esistendo un fondo soggiacente 
                  che abbraccia tutti gli esseri, la violenza che io esercito 
                  sull'avversario è una violenza che faccio su di me e 
                  viceversa? (Ma cosa doveva provare Gandhi quando l'esercito 
                  inglese uccise ad Amritsar centinaia di pacifici manifestanti, 
                  lasciando a terra migliaia di feriti? Per quanto sia ovvio, 
                  è bene ricordare che la mia rinuncia alla violenza non 
                  comporta medesima accettazione da parte dell'avversario). Cito 
                  ancora Muraro: «In certi contesti, a certe condizioni, 
                  è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. 
                  Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole 
                  che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia 
                  senza soccombere ad altre forze». 
                  A Genova, quando la polizia ha fatto irruzione alla Diaz i giovani 
                  che si trovavano all'interno hanno sollevato in alto le braccia 
                  tenendo le mani bene aperte: ma tutto ciò non ha impedito 
                  che lì si compisse una macelleria sudamericana. E quanti 
                  di coloro che oggi rigettano la violenza come un a priori intangibile 
                  (quindi non nei termini di una scelta tattica) hanno intrapreso 
                  quell'arduo processo di sublimazione di questa energia che ci 
                  abita e di cui non percepiamo confini e origine, o hanno scelto 
                  invece di convivere ambiguamente con essa? Come mostra bene 
                  un noto film di Peckinpah: dietro il cane di paglia (questo 
                  è il titolo della pellicola) – che noi tutti siamo 
                  – vive un essere aggressivo, regna il caos della paura 
                  e dell'orrore; e perciò non guardiamo in quella direzione, 
                  preferendo delegare ad altri tale esercizio (i soldati, la polizia, 
                  il servizio d'ordine, la security). 
                   
                    Quanto 
                  basta
                  Come si intuisce Muraro, nelle pagine di Dio è violent, 
                  mette in scena un corpo a corpo fra politica e psicanalisi: 
                  la violenza è un'energia immanente all'essere umano, 
                  dice, antecedente la costituzione del soggetto. Dichiarare allora 
                  che la violenza sia in sé negativa rischia di preparare 
                  «il terreno per sostenere che essa si giustifica unicamente 
                  se il suo uso viene regolato dalla legge»; ma chi regola 
                  la legge, chi decide dello stato d'eccezione, chi scioglierà 
                  i corpi speciali, il servizio d'ordine, l'armata rossa, l'esercito 
                  popolare? Si tratta insomma di affrontare il problema senza 
                  deleghe. Di più (e qui si può intuire qualcosa 
                  del rimando teologico contenuto nel titolo del libro): «Si 
                  tratta di pensare una violenza che non è strumento di 
                  nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, 
                  e che nessuno può fare sua, manifestazione di una giustizia 
                  che ci oltrepassa dalla quale, però, noi umani possiamo 
                  lasciarci usare, consapevoli del rischio inevitabile di cadere 
                  in errori ed eccessi». 
                  Senza cadere in errori ed eccessi: l'obiettivo non è 
                  l'acting out, il compimento dell'azione violenta, la 
                  quale in ultima istanza è mera disperazione, ma l'azione 
                  possibile ed efficace in grado di ricorrere allo scopo a una 
                  certa dose di violenza. “Ma quanta?”, viene pragmaticamente 
                  da chiedere. Regolandoci come usano fare le cuoche ai fornelli, 
                  risponde Muraro: “Quanto basta”; o meglio «quanto 
                  basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare 
                  senza distruggere». 
                  Qualcuno – gli sputasentenze sempreinpiedi – dirà 
                  che, dopo tanti discorsi, è poco, troppo poco: lo smarrimento 
                  dominante invoca sicurezze, punti di riferimento a tutto tondo, 
                  ecc. ecc. Lasciamoli perdere, c'è invece, pur con le 
                  difficoltà del momento, tutta una tessitura da costruire 
                  insieme, un fare (che i greci chiamavano poièin 
                  quando si alleggeriva dalle premure strettamente tecniche) che 
                  si costituisce partendo dal basso, plurale, vivo, formicolante, 
                  che racconta l'esigenza di un più di vita che non si 
                  rassegna agli imperativi dell'esistente, alle chiacchiere sulla 
                  “fine della storia” o a diktat e formule preconfezionate.
                    
                  Federico Battistutta
                  
                    
                   
                  La forza di scavare in sé 
                   
                  di Monica Giorgi
                
  
                  Prezioso libriccino uscito nella 
                  collana Gransasso, Dio è violent offre una lettura, 
                  oltre che intrigante, dirompente, pacata e distesa quanto densa 
                  di sollecitazioni. 
                  Con sensata spregiudicatezza Luisa Muraro mette in ballo una 
                  questione radicale per i tempi che corrono: quella dell'uso 
                  della forza e della violenza, avendo presente che lo sconfinamento 
                  dell'una nell'altra spesso è inevitabile. Benché 
                  forza e violenza siano tra loro ben distinte, “separarle 
                  per definizione non fa che occultare un aspetto della realtà 
                  umana”. Occorre ricordare che distanze e prossimità 
                  non si determinano verbalmente ma attivamente: “la definizione 
                  giusta la troveremo alla luce di questo agire”. 
                  La questione dell'uso della forza non viene posta in termini 
                  di violenza sì o violenza no, come se la violenza fosse 
                  un mezzo a nostra disposizione e non piuttosto viceversa. La 
                  violenza è così contemplata quale “realtà 
                  dentro cui viviamo” e per la quale i contorni tracciati 
                  dalle definizioni dei costrutti filosofici non servono ad arginare 
                  la commistione con la forza. 
                  “La misura da cercare – scrive Muraro – è 
                  nella coincidenza fra la giustezza e la giustizia dell'agire, 
                  coincidenza che va cercata non dico a tentoni, ma quasi”. 
                  L'analogia tra giustezza dei mezzi e giustizia dei fini si trova 
                  e si perde nell'azione umana, ma il tentarla si oppone al cinismo 
                  del fine che giustificherebbe i mezzi. 
                   
                    Un “racconto 
                  inventato”
                
  La domanda da cui Muraro prende le mosse evidenzia una radicalità 
                  necessaria, proprio ora, quando il messaggio salvifico del contratto 
                  sociale è diventato indegno di credito. Se mai l'ha avuto 
                  e se mai è stato all'origine della convivenza umana. 
                  “La scienza storica - si legge - insegna che il contratto 
                  sociale è un racconto inventato all'inizio dell'età 
                  moderna [...] per giustificare lo stato dei rapporti di forza 
                  tra donne e uomini, ricchi e poveri, stranieri e cittadini”. 
                  Dio è violent non manca di spregiudicatezza. Sia 
                  nell'affrontare il campo del divino, sia perché, di fronte 
                  alla dilagante predicazione antiviolenta, il testo di Muraro 
                  schiva la genericità insita in questa predicazione e 
                  riguadagna il senso vivo delle mediazioni, sempre da 'inventare' 
                  sulla base di un sapere radicato nell'esperienza. Esperienza 
                  che, per farsi sapere condivisibile, richiede di necessità 
                  il lavorio silente dell'ascolto. 
                  Dodici scansioni, introdotte da un'ampia premessa che racconta, 
                  tra l'altro, le circostanze in cui una scritta murale, ripresa 
                  in titolo, parve all'autrice “scritta da me in sogno”, 
                  liberano i molti pensieri in discorso ragionante di chi mette 
                  nero su bianco senza perdere la relazione con il procedere di 
                  chi legge. 
                  I succosi passaggi tra le guerre in corso e la storia che ha 
                  voltato pagina, ricongiungono il movente dello scrivere di Muraro 
                  a un “invito a non lasciare che il significato e il valore 
                  delle nostre vite, come acqua preziosa messa in un secchio bucato 
                  dalla ruggine, siano risucchiate nell'agonia di forme politiche 
                  senza anima”. L'intento a non disprezzare la buona volontà 
                  di nessuno, perché “la buona volontà sicuramente 
                  non basta, ma ci vuole” dà slancio per il salto 
                  sul racconto già cominciato di chi scrive e “ha 
                  visto con i suoi occhi aprirsi l'orizzonte e alzarsi il 
                  cielo – per sé, per le altre e gli altri – 
                  grazie alla nascita di una libertà che non passa per 
                  la mediazione del potere alle sue condizioni”. 
                  L'impossibilità di evitare una precisa domanda – 
                  “perché ragiono e parlo come se fosse il ricorso 
                  alla violenza (quello effettivo che ne fa il potere e quello 
                  al quale noi privati cittadini dovremmo rinunciare per principio) 
                  l'incrinatura maggiore e il crinale decisivo nei rapporti politici, 
                  oggi?” – si distende sul piano del processo storico 
                  che ha portato alla morte della responsabilità politica, 
                  fatta risalire allo scoppio della prima guerra mondiale, quando 
                  “la potenza produttiva e lo sviluppo tecnologico avevano 
                  raggiunto un tale livello per cui, da strumenti al servizio 
                  degli esseri umani, stavano diventando padroni delle loro vite”.
                   
                   
                    Tocca 
                  alle donne 
                
  Il molto ancora da indagare sulla virilità, “alimentata 
                  e sfruttata dal potere politico, oggi come ieri” richiama 
                  l'insistenza di Muraro sul punto di vista femminile: “in 
                  pratica voglio dire che tocca alle donne riformulare la questione 
                  della violenza e sollevarla pubblicamente, essendo le donne 
                  in posizione per sapere tutta la parte di frode che c'è 
                  nel racconto moderno del contratto sociale e nel principio del 
                  monopolio statale della violenza” e avendo l'autorità 
                  che deriva loro dall'essere fuori-dentro quel patto e 
                  dalla frequentazione intima della violenza sessuale. 
                  L'atto di pensiero che anima Dio è violent è 
                  una mossa non faziosa. Nasce “dal bisogno, che è 
                  generale, di correggere l'eredità politica, filosofica, 
                  religiosa segnata dal maschile e dalla soggezione femminile 
                  al maschile”, con l'intento dichiarato di promuovere l'indipendenza 
                  simbolica con tutta la forza necessaria, secondo la formula 
                  che dice: “quanto basta per combattere senza odiare, quanto 
                  serve per disfare senza distruggere”. 
                  Formula né troppo magica, e neppure conclusiva. Nutriente 
                  e delicata, in verità. Sollecita obiezioni, porta a incontrare 
                  certezze inaspettate, semina domande che hanno la forza di scavare 
                  in sé e fuori di sé qualcosa di autentico.
                    
                  Monica Giorgi  |