attenzione sociale 
                    
                  a cura di Felice Accame 
                 
                    
                Critica della modernità  
                  e  critica della democrazia 
                 
                   
                  1. A quanto sembra le lamentele 
                  nei confronti della modernità si perdono nella notte 
                  dei tempi. Ricostruendone la genesi, in Un'altra modernità 
                  (Bietti Edizioni, Milano 2012), Davide Bigalli, d'accordo con 
                  Eugenio Garin, ne individua già i prodromi in Bernardo 
                  di Chartres (XIII secolo), ma è presumibile che, cercando 
                  e volendo trovare, possiamo andare ben più in là. 
                  Per esempio: che sono tutti i sospiri nostalgici delle varie 
                  età dell'oro perdute fioriti nella letteratura greca 
                  se non disapprovazione della modernità? 
                  A prima vista, contro queste lamentele ci si potrebbe accontentare 
                  di rilevare la falsità – o l'improbabilità, 
                  perlomeno, e di certo la non dimostrabilità – dei 
                  vari paradisi perduti e dire che una società umana che 
                  si rispetti e che tenda alla convivenza felice non ha bisogno 
                  di miti negativi fondativi. Tuttavia, a ben guardare – 
                  a ben guardare ciò che rimane più vicino a noi 
                  e dunque più guardabile – ci si accorge ben presto 
                  di alcuni tratti comuni, in queste tesi, che, più o meno 
                  surrettiziamente, costituiscono il quadro essenziale di una 
                  proposta in positivo. Su alcuni di questi tratti varrà 
                  allora la pena – l'espressione qui non vuol essere un 
                  modo di dire – di riflettere. 
                   
                   
                  2. Il primo di questi tratti 
                  concerne l'arte del governo che, almeno a partire da un certo 
                  momento in poi – chiamiamolo “illuminismo”, 
                  questo momento – comincia a prendere in considerazione 
                  la democrazia come un'alternativa possibile. L'atteggiamento 
                  degli antimoderni – da Herder a Novalis, da Joseph De 
                  Maistre a Burckhardt, da Chateaubriand a Jünger, da Nietzsche 
                  a Guénon e a Evola passando anche per la Scuola di Francoforte 
                  (per citare solo alcuni dei collezionati nel ricco catalogo 
                  di Bigalli) – nei confronti della democrazia è 
                  di esplicita insofferenza. Kant – forse anche perché 
                  non ce l'ha in casa propria – sostiene la rivoluzione 
                  francese e, al contempo, che non “non si può giudicare 
                  (...) circa la legittimità del potere vigente”, 
                  ma considera la democrazia come una forma di dispotismo, “perché 
                  fonda un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel 
                  caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso), 
                  quindi tutti che però non sono tutti”, mentre gli 
                  argomenti degli altri sono di tutt'altra natura. 
                  Flaubert giustifica la sua opposizione al suffragio universale 
                  dicendo che “la forza del braccio, il diritto del numero, 
                  il rispetto della folla sono succeduti all'autorità del 
                  nome, al diritto divino, alla supremazia dello spirito”. 
                  Forse meno beotamente, ma senza mutarne di una virgola il senso, 
                  i fratelli Goncourt nel loro Journal, contro il suffragio 
                  universale sostengono che “il diritto divino del numero, 
                  rappresenta un'enorme diminuzione dei diritti dell'intelligenza”. 
                  L'argomento è noto e lo si ritrova in varie forme in 
                  tutta la storia della nostra cultura. Per Francesco Guicciardini 
                  – nel Libro primo delle considerazioni intorno ai ‘Discorsi' 
                  del Machiavelli – “el popolo per la ignoranza 
                  sua non è capace di deliberare le cose importante” 
                  ed è morta lì. Con il passare degli anni l'argomento 
                  cambia poco: dall'impresentabile Baudelaire che associa la democrazia 
                  alla “sifilide” e dà per assodata e immodificabile 
                  una “stupidità nazionale” ai teorici più 
                  perbenino del secondo Novecento che teorizzano una democrazia 
                  “informata” per decretarne – nuove tecnologie 
                  alla mano – l'impossibilità. Così un Robert 
                  Dahl che dall'aumento del “divario tra il livello di informazione 
                  dei cittadini elettori (modesto) e il livello di conoscenza 
                  richiesto per esprimere un mandato adeguato” ricava l'idea 
                  di un “minipopulus”, ovvero di un campione di cittadini, 
                  rappresentativo – scelto con le tecniche statistiche in 
                  uso nei sondaggi della cosiddetta “opinione pubblica” 
                  -, pronto a costituirsi in “elettorato presunto” 
                  svolgendo diligentemente il compito di un organo consultivo. 
                  Così un Niklas Luhmann, secondo il quale “concepire 
                  la democrazia come la partecipazione di tutti o della maggior 
                  parte ai processi di decisione politica è prima ancora 
                  che un'utopia, un radicale nonsense”, perché ciò 
                  a suo avviso contraddirebbe la “logica sistematica delle 
                  società complesse, il cui obiettivo funzionale è 
                  ‘l'economia del consenso', ossia la supposizione o funzione 
                  istituzionale del consenso, non già la ricerca di un 
                  consenso effettivo, fondato su ‘convinzioni comuni' dei 
                  cittadini. Una tale ricerca, così come la promozione 
                  di una partecipazione politica attiva dei cittadini, non solo 
                  distoglierebbe il potenziale di attenzione disponibile da altri 
                  temi e lo esaurirebbe rapidamente, ma farebbe esplodere la dimensione 
                  temporale dei processi decisionali. Il tempo è un bene 
                  anch'esso sempre più scarso nelle società complesse“. 
                  Come dire, insomma, che, alla luce della capitalizzazione del 
                  “tempo”, non c'è istanza democratica che 
                  tenga – del consenso “effettivo” dei cittadini 
                  ci se ne deve fregare ampiamente o, più elegantemente 
                  – come fosse un bene esauribile –, se ne deve “economizzare”. 
                  Giustamente Giorgio Galli ha sottolineato come l'impostazione 
                  di Luhmann – così come quella di Lipset e di Sartori 
                  (o, perché no? quella di un Evola che definisce la democrazia 
                  come “perversione ideologica tipica del mondo moderno”) 
                  – “sia un completo capovolgimento del presupposto 
                  illuminista: il cittadino elettore non diviene sempre più 
                  colto e quindi sempre più informato ma sempre più 
                  ignorante e sempre più teledipendente, per cui non è 
                  in grado di partecipare alle scelte, ma solo di delegarle, da 
                  'subordinato'”. Il che farebbe “regredire l'idea 
                  di democrazia a una concezione arcaica” – una sentenza 
                  che, a mio avviso, avrebbe potuto anche essere espressa nei 
                  termini del Lukács de La distruzione della ragione 
                  quando osserva che la critica occidentale alla moderna democrazia 
                  borghese “è sempre legata all'irrazionalismo”. 
                   
                   
                  3. Nel 1993, in occasione della 
                  ripubblicazione de Le illusioni del progresso, sul “Corriere 
                  della Sera”, Riccardo Chiaberge, apparentemente preoccupato, 
                  annotava che “proprio ora che avremmo bisogno di riscoprire 
                  le radici del pensiero democratico, un editore 'progressista' 
                  non trova di meglio che propinarci il pensatore più antidemocratico 
                  e antimoderno”. Lo stesso che Andrea Casalegno, su “Il 
                  Sole 24 Ore“, definiva come “eroe del regresso” 
                  seppellendo il suo pensiero come “radicali imbecillità”. 
                  Si tratta di Georges Sorel che, nel libro di Bigalli, risulta 
                  assente ma che, in quanto ad argomentazioni antidemocratiche, 
                  non sfigura di fronte a nessuno. La sua sfiducia nell'istituzione 
                  parlamentare e in coloro che, tramite questa, vorrebbero riformare 
                  la società implica per lui la condanna della democrazia 
                  in quanto tale. è con Vico nel ritenere che “i 
                  cittadini delle democrazie non considerano nient'altro che i 
                  loro interessi particolari”, ma si dice anche convinto 
                  che “la democrazia finisce pian piano col sopprimere tutte 
                  le opposizioni” – compreso il suo “sindacalismo”, 
                  corrotto com'è dalle infiltrazioni di “intellettuali” 
                  e di “socialisti ufficiali”. Quando, in odor di 
                  conversione a destra per aver cercato sodali nell'uggia antimoderna, 
                  scriverà la dichiarazione programmatica della rivista 
                  che non verrà mai stampata, “La Cité française”, 
                  la democrazia, per lui, costituirà “il più 
                  grande pericolo sociale per tutte le classi della Cité, 
                  principalmente per le classi operaie”. E questa volta 
                  non si trattava semplicemente di imputare alla democrazia lo 
                  svuotamento delle opposizioni, parlamentari e sindacali, ma 
                  anche la “confusione delle classi”, una sorta di 
                  esito interclassista obbligato dalle pratiche democratiche, 
                  “al fine di permettere a qualche banda di politicanti, 
                  associati a dei finanzieri o dominati da essi, lo sfruttamento 
                  dei produttori”. Nel 1921, in un'amara lettera a Missiroli 
                  in cui guarda con angoscia gli sviluppi del fascismo in Italia 
                  – di quello stesso fascismo che, più tardi, al 
                  momento di farsi teoria, lo eleggerà a proprio padre 
                  se non nobile almeno alfabetizzato – e l'incapacità 
                  del socialismo di “difendere le posizioni che aveva conquistato”, 
                  crede di poter constatare, attorno a sé (“partout”), 
                  “debilità intellettuale” e “democrazia 
                  che trionfa”. 
                  
                   
                  4. Contro queste argomentazioni 
                  ho almeno tre obiezioni. La prima concerne il presupposto tacito 
                  che le regge: l'uomo – o, al meno, l'uomo sociale – 
                  è una bestia infida o tonta. Nessuno può sperare 
                  che ne possa venire qualcosa di buono. È il tipico presupposto 
                  di uno dei versanti più frequentati dei vari sistemi 
                  di morale derivati dalla filosofia: dove il risultato di un 
                  nostro operare – con cui giudichiamo i vari comportamenti 
                  dividendoli in buoni e cattivi, ammessi e non ammessi – 
                  è spacciato come caratteristica insita nella persona 
                  che assume il comportamento in questione; dove una categoria 
                  mentale – tutta dell'osservatore – è attribuita 
                  come stigma dell'osservato considerato indipendente dall'osservatore. 
                  Chi ne usa e ne abusa, di queste argomentazioni, come minimo 
                  non si è ancora liberato da ulteriori presupposti inequivocabilmente 
                  di ordine metafisico. 
                  La seconda obiezione concerne la pratica della democrazia medesima. 
                  Posso anche condividere, posso anche farla mia, la constatazione 
                  che, nelle democrazie realizzate, qualcosa non vada per il verso 
                  giusto a proposito della formazione – e dell'informazione 
                  – dei suoi cittadini; posso anche essere pienamente d'accordo 
                  sul fatto che governi e loro strumentazione tecnologica in perenne 
                  evoluzione producano più inetti e stolidi subordinati 
                  che cittadini consapevoli e responsabili di sé e del 
                  proprio ruolo sociale. Ma ciò non lo posso affatto ritenere 
                  un argomento contro la democrazia. L'argomento è analogo 
                  a quello usato dalla borghesia faccendiera nei confronti del 
                  comunismo – che in quanto tale sarebbe da rifiutare insieme 
                  all'Unione Sovietica, a Cuba, alla Cina di Mao ed alle altre 
                  soluzioni autoritarie che si sono barricate dietro il suo nome. 
                  Se nella pratica democratica – difficile e faticosa quanto 
                  si vuole – includo il processo di formazione dei suoi 
                  attori, un processo in atto nell'autodeterminazione di darle 
                  vita e di viverla, buona parte dell'argomentazione svanisce 
                  e, alla luce del sole, ne rimane soltanto il presupposto manicheo. 
                  La terza obiezione – rivolta ad una cerchia forse più 
                  ristretta di interlocutori – concerne quanto si contrappone 
                  in positivo contro il negativo di cui ci si lamenta. Per farla 
                  breve prendo il caso di Flaubert e ci aggiungo anche quello 
                  di Jünger. Flaubert – torniamo nel clima del detestato 
                  suffragio universale – contrappone a ciò che lo 
                  opprime la “autorità del nome”, il “diritto 
                  divino” e la “supremazia dello spirito”. Solo 
                  storia alla mano – senza ancora badare al senso delle 
                  sue parole –, sarebbe il caso di appellarsi ad un Dio 
                  che ce ne scampi e liberi. Nessuno può ignorare quanto 
                  arbitrio – quanto sangue – sia alla base di qualsiasi 
                  processo storico che ha condotto un “nome” – 
                  sia di re che di suoi manutengoli – ad acquisire una “autorità”. 
                  Come nessuno può ignorare il male inferto da qualcuno 
                  – arrogatosi il ruolo di interprete, spesso unico legittimato, 
                  mediatore autorizzato – a molti altri nel nome di un “diritto 
                  divino” che, per quanto la si rigiri, rimane l'invenzione 
                  di qualcuno tradotta in rituali di finzione per complici e succubi. 
                  Che, infine, per invocare una “supremazia dello spirito” 
                  sia prima necessario dicotomizzare l'essere umano in due parti 
                  – assegnando valore positivo all'una e valore negativo 
                  all'altra – è talmente evidente che non mi sembra 
                  il caso di infierire. Voglio semplicemente dire: ammesso e non 
                  concesso che i tratti costitutivi del suffragio universale facciano 
                  schifo, i tratti costitutivi di quanto gli si oppone fanno più 
                  schifo ancora. Ci volevo aggiungere anche Jünger quando 
                  dice che “solo il poeta, il letterato, in una parola, 
                  il ribelle possono superare l'invisibile 'muro del tempo' e 
                  penetrare in quella 'dimensione altra', dove riposano le forze 
                  primordiali”. Mi chiedo come possano essergli perdonate 
                  le sue metafore e se questo straparlare possa significare qualcosa 
                  d'altro – di più, di meno – di una retorica 
                  che si è rivelata così funzionale all'idea élitaria 
                  del fascismo. 
                   
                   
                  5. Un altro tratto caratteristico 
                  di questo pensiero antimoderno è di ordine storico e, 
                  generalmente, può essere riassunto nella condanna dell'Illuminismo. 
                  In virtù di questo clima di pensiero avremmo cominciato 
                  a dubitare della provvidenza, la nostra felicità avrebbe 
                  continuato a essere differita e, per di più, sotto forma 
                  di etica del lavoro, differita sarebbe stata anche la fruizione 
                  dei suoi benefici, ci sarebbero toccate tutte le nefaste conseguenze 
                  dell'accumulazione capitalistica e infine – come ci avrebbe 
                  insegnato De Sade – avremmo dovuto fare i conti con la 
                  “catastrofica espressione del desiderio”. Avremmo 
                  scoperto a nostre spese che la “tirannia della ragione” 
                  – come diceva Georg Forster – è “la 
                  più inflessibile di tutte”. Nemmeno tanto sotto 
                  sotto, allora, viene sostenuta quella tesi del reazionario Augustin 
                  Cochin secondo la quale le rivoluzioni in un modo o nell'altro 
                  sono colpa degli intellettuali. Anche Sorel ce l'ha su con l'illuminismo 
                  – e con gli intellettuali. L'impresa di Diderot e soci 
                  gli sembra “da boudoir o da salotto” – tanto 
                  è vero, nota, che, pur con tutta la luce che pretendeva 
                  di emanare, non fa affatto sparire l'occultismo che, anzi, ringalluzzisce 
                  come non mai; tanto è vero che la sua scienza non avrebbe 
                  affatto eliminato quelle “illusioni parafisiche” 
                  che altro non sono che le deleterie “costruzioni immaginarie 
                  che noi facciamo della natura quando abbandoniamo il terreno 
                  scientifico”. Da questo punto di vista, Sorel non ha tutti 
                  i torti. Le sue argomentazioni sono ineccepibili, anche se la 
                  sua analisi è lacunosa laddove non vede come il primo 
                  fenomeno – il dilagare dell'occultismo e delle culture 
                  esoteriche in genere – sia diretta conseguenza del secondo 
                  – conti non fatti sino in fondo con la filosofia e, dunque, 
                  sua sopravvivenza malefica nelle radici del pensiero scientifico. 
                   
                   
                  6. Tra gli insoddisfatti della 
                  modernità indagati da Bigalli c'è anche Johann 
                  Gottfried Herder che vari decenni prima di Marx si scaglia contro 
                  il sistema commerciale: “l'antico nome di pastore dei 
                  popoli”, dice, “si è mutato in quello di 
                  monopolista” e teme il momento in cui “il turbine 
                  si scinderà in mille venti di tempesta”, allorquando, 
                  in cerca di un'improbabile salvezza, ci si dovrà rivolgere 
                  al “gran dio Mammone, di cui tutti siamo servi ormai”. 
                  Questo per dire che il nemico della modernità – 
                  nemico della democrazia – non è che straveda per 
                  il modello capitalistico, ma – a differenza di Marx che 
                  lo elegge a causa prima di tutti i nostri guai – gli contrappone 
                  soltanto metafore consolatorie come quella dell'“antico 
                  nome di pastore dei popoli” che in nessun modo può 
                  garantire di essere meno monopolizzante di ciò che gli 
                  è succeduto. 
                   
                   
                  7. Un'altra caratteristica che 
                  segna in modo imbarazzante queste lamentele è costituita 
                  dall'ingenuità dell'apparato critico con cui si guarda 
                  alla filosofia in genere e alla teoria della conoscenza in particolare. 
                  Se per Nietzsche la filosofia “deve divenire mitologica” 
                  – come se non lo fosse già abbastanza –, 
                  per Julius Evola – anche per Julius Evola, verrebbe da 
                  dire, visto che con ciò si aggiunge ad una compagnia 
                  già numerosa – la filosofia soffrirebbe di un errore 
                  commesso. Tuttavia, questo “errore” è davvero 
                  poca cosa se fosse costituito dal fatto che “a partire 
                  da Kant” si suppone che le “forme fondamentali dell'esperienza 
                  umana siano state sempre le stesse, e propriamente quelle familiari 
                  all'uomo ultimo”. Non si accorge che questa tesi è 
                  ridicolmente riduttiva rispetto perfino al mito della caverna 
                  di Platone e a tutta la filosofia scettica che l'ha seguito 
                  – e che, presumibilmente, neppure colpisce il minimo bersaglio 
                  che si propone di colpire. Così come Guénon ontologizza 
                  la “qualità” e la “quantità”, 
                  Evola ontologizza l'“ordine” (o l'“Ordine” 
                  con la maiuscola, nel suo caso), accreditando strumenti di “conoscenza” 
                  superiore come la “percezione psichica” di cose 
                  e luoghi da affiancare alla più modesta “percezione 
                  fisica” – facoltà di lusso per iniziati e 
                  facoltà banali per popolo ignorante, un'altra “illusione 
                  parafisica” nel catalogo di Sorel, metafora pestifera, 
                  per me, nella misura in cui prelude alla costituzione di una 
                  nuova aristocrazia di percettori. 
                   
                   
                  8. Infine, mi soffermo brevemente 
                  su un'ultima caratteristica – non proprio comune a tutti, 
                  ma abbastanza frequente. Mi riferisco alla loro autodichiarata 
                  “rivoluzionarietà”. Reificano la metafora 
                  astronomica – quella del “giro completo” – 
                  e cavalcano una rivoluzione cui assegnano il significato di 
                  “ritorno allo stato di cose originario”. Non si 
                  accorgono di compiere un errore analogo a quello dell'idea di 
                  “progresso“ nel pensiero marxiano e marxista: dotano 
                  l'evoluzione di senso e scopo. Ma non si preoccupano della mancanza 
                  di un qualsiasi criterio in virtù del quale riconoscere 
                  questa “originarietà” eventualmente ri-raggiunta, 
                  che, pertanto – con le “forze primordiali” 
                  di Jünger e, già che ci siamo non facciamoci mancar 
                  nulla, con il “terzo occhio” di Helena Petrovna 
                  Blavatsky – si rivela un ingrediente indispensabile di 
                  uno dei minestroni più indigesti della storia delle idee 
                  umane. 
                   
                   
                  9. Il libro di Bigalli inaugura 
                  una collana intitolata all'“Archeometro”, uno strumento 
                  medievale studiato da Guénon e da Saint-Yves d'Alveydre 
                  “che serve a misurare il legame che ogni cosa mantiene 
                  con il principio”. Già l'ontologizzazione del “principio”, 
                  la misteriosità della natura del “legame” 
                  e la pretesa di “misurarlo” mi basterebbero, ma 
                  il fatto che sia “formato da una serie di cerchi concentrici, 
                  ognuno dei quali contiene il simbolo di un certo piano della 
                  realtà o una categoria di cose, tra cui i segni planetari 
                  e le lettere degli alfabeti, ma anche lo zodiaco e gli elementi 
                  chimici”, mi convincerebbe dell'urgente necessità 
                  di prendere appuntamento con l'apposita istituzione comunale 
                  per gli sgomberi e lasciarlo sul ciglio della strada alle sei 
                  di mattina. Tuttavia, non è con lo strumento che ho a 
                  che fare. Queste spiegazioni che lo riguardano sono contenute 
                  in un corposo saggio di Andrea Scarabelli che viene premesso 
                  al libro – come un incipit di qualcosa che si estenderà 
                  ben oltre il libro medesimo. Fra il tanto d'altro, ivi si può 
                  leggere che “una critica al presente” – alla 
                  modernità – “può essere integrale” 
                  solo ad una condizione: che questa critica sia “sviluppata 
                  in senso metafisico”, perché “è solo 
                  dal ricorso a questa dimensione che si può pensare di 
                  ricostruire una epoca nuova”. Qui io ritengo che Scarabelli 
                  abbia torto e vorrei convincerlo a guardare le cose in modo 
                  diverso. Gli chiedo – e mi chiedo – se di epoche 
                  solidamente costruite sulle metafisiche non ce ne siano mai 
                  state e se sì se siano state fonte di felicità 
                  (per le moltitudini, non solo per i pochi al potere). Gli chiedo 
                  – e mi chiedo – se, ed eventualmente quando, ci 
                  sarebbe toccata quella che per lui è una iattura e che 
                  per me sarebbe un'immensa fortuna di esserci liberati dalla 
                  metafisica. Non verrò mica a scoprire oggi – dopo 
                  tanta vita allora spesa invano – che i neo positivisti 
                  e magari già quelli non neo l'hanno avuto vinta? Dicendolo 
                  in quello che per me resta un malo modo – un po' troppo 
                  vago – anch'io potrei avere parecchi motivi per dolermi 
                  del mondo attuale – e, infatti, me ne dolgo spesso: lo 
                  dico, lo scrivo, a volte mi ci strazio –, ma mai lo farei 
                  in nome e per conto di un pensiero metafisico qualsiasi cosa 
                  possa ciò voler dire. Non voglio ipostatizzare alcunché, 
                  preferisco considerare ogni mia percezione, categorizzazione 
                  e semantizzazione come risultato di operazioni innanzitutto 
                  mie e, poi, constatare in che misura queste siano condivise 
                  con altri. Nel caso m'imbattessi in differenze sono disposto 
                  a negoziare, a scavare nei criteri miei e altrui, a confrontarli, 
                  a stimarne insieme l'efficacia. L'accettazione di un principio 
                  “dato” – di ordine metafisico, suppongo – 
                  so che danneggerebbe la mia relazione con gli altri. 
                   
                   
                  10. In Trockij e le orchidee 
                  selvatiche, il filosofo statunitense Richard Rorty dice 
                  che “non c'è nessun terreno comune e neutro su 
                  cui” lui e un “filosofo nazista” possano porsi 
                  “per discutere” le loro “differenze”. 
                  Tanto per cambiare, non sono d'accordo con lui. Lasciamo perdere 
                  quella “neutralità” richiesta al “terreno 
                  comune” – non so cosa sia, non so cosa possa intendere, 
                  non voglio nemmeno perderci tempo dietro. Guardiamo al resto. 
                  Rorty si sbaglia perché un “terreno comune” 
                  è costituito dalle operazioni mentali designate dalle 
                  parole che usiamo. È grazie a queste operazioni che possiamo 
                  tradurre da una lingua all'altra e, in definitiva, comunicare 
                  anche tra parlanti la medesima lingua. Si aprirà una 
                  negoziazione sui significati delle parole che usiamo? Si tratterà 
                  di un negoziato lungo, faticoso, irto di difficoltà? 
                  Certo. E senza aver innanzitutto prodotto l'uno all'altro un 
                  modello dell'operare mentale, presumibilmente, non si potrà 
                  neppure cominciare. Ma chi ha mai detto che si sarebbe trattato 
                  di un compito facile? Qui, sostengo che il compito è 
                  possibile e che, tragedia della storia umana innanzi ai nostri 
                  occhi, è doveroso provarci. Sono d'accordo, allora, con 
                  Bigalli sulla necessità di pescare anche nella pattumiera 
                  della storia delle idee e riflettere sopra quel che vi troviamo 
                  – può essere molto istruttivo. Ma a patto che la 
                  riflessione non sia monca, a responsabilità limitata. 
                  A patto che delle categorie rinvenute si faccia analisi e che 
                  non ci si trinceri dietro un insussistente camice professionale 
                  che, magari con la scusante di designare una specializzazione 
                  – una nuova forma retorica per la presunta “neutralità” 
                  –, si consegni un semilavorato buono per tutti gli usi. 
                   
                   Felice Accame 
                 In “A“ 
                  363 (giugno 2011) Felice Accame si era occupato di un altro 
                  libro dello stesso Davide Bigalli: Il ritorno del re. 
                 Nota 
                  Molte delle citazioni utilizzate in questo saggio sono tratte 
                  dal libro di Bigalli di cui si discute. Molte altre sono tratte 
                  da Il pensiero politico occidentale di Giorgio Galli 
                  (Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2010). 
                  Per Sorel, poi, cfr. P. Accame, Georges Sorel. Le mutazioni 
                  del sindacalismo rivoluzionario (Prospettiva editrice, Civitavecchia 
                  2009). 
                  Il numero del “Corriere della Sera” citato è 
                  quello del 17 marzo 1993, mentre quello del “Sole 24 Ore” 
                  è quello del 21 marzo dello stesso anno. 
                  Per il tanto che qui, per forza di cose, tralascio di dire, 
                  cfr. F. Accame, La funzione ideologica delle teorie della 
                  conoscenza (Spirali, Milano 2002). Ivi, anche per le mie 
                  obiezioni a Rorty. 
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