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			   Sicilia 
              E se coltivassimo le terre confiscate? 
              di Laura Orlandini 
                 
                   
              
                  Nuove frontiere della lotta alla mafia: la proposta delle 
                    cooperative biologiche. 
                    
                 
                
                   
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                    Vigna 
                        sui terreni confiscati, Corleone - 
                        Cooperativa Lavoro e Non Solo  | 
                   
                 
                  
                  La Sicilia di questi ultimi anni 
                  sta raccogliendo la sua storia, la sua eredità di lotta, 
                  l'ha messa a piantare e l'ha trasformata in filari di vigne, 
                  in campi di pomodori. 
                  Dal composito mondo dell'antimafia sta sorgendo un fiorire di 
                  proposte, un tentativo costante di conquistare terreno, di aggrapparsi 
                  al concreto, di prendersi uno spazio e lottare per tenerlo stretto. 
                  Mattone dopo mattone, seme dopo seme, la lotta tenace e costante 
                  che ha segnato la storia dell'isola sta diventando visibile 
                  alla luce del sole, sta dando i suoi frutti. Una realtà 
                  che cerca di prendersi pezzetti di terra, di fare spazio, mentre 
                  tiene stretto il filo che la collega alla propria memoria. 
                  Corleone è il nome più famigerato della storia 
                  della mafia siciliana, patria di Provenzano e di Riina, ma soprattutto 
                  simbolo tristemente riconosciuto e pittoresco nella cinematografia 
                  americana. Andare in giro per il mondo e dire Corleone significa 
                  rievocare inevitabilmente coppole, lupare e codici d'onore. 
                  Eppure Corleone è uno dei posti dove la lotta alla mafia 
                  ha potuto piantare le sue radici più solide. 
                  È un paese di 11.000 abitanti conficcato nel mezzo dell'entroterra 
                  palermitano, appoggiato su una campagna verde e gialla di vigneti 
                  e campi di grano, di colline ondulate interrotte da picchi di 
                  roccia bruschi e aridi. A Corleone, grazie alla volontà 
                  di alcune amministrazioni illuminate che dal 1999 in poi hanno 
                  creduto in questo progetto, tutte le terre confiscate alla mafia 
                  sono state assegnate a cooperative sociali. Quello che dieci 
                  anni fa era solo un'intuizione, è ora un percorso che 
                  si porta avanti con lavoro e volontà giorno dopo giorno. 
                  Il primo a dirlo è stato Pio La Torre: per combattere 
                  la mafia bisogna andare a intaccare le sue fonti di reddito, 
                  le risorse che è in grado di controllare, la presenza 
                  territoriale di cui si vanta. Il potere mafioso si fa vedere, 
                  tiene in mano la terra e il commercio, esige un pedaggio che 
                  sancisce i confini e che stabilisce chi è che comanda. 
                  Pio La Torre, comunista e sindacalista, assassinato nel 1982 
                  dopo aver lottato per anni contro la base militare americana 
                  di Comiso, ebbe un'idea che sarebbe diventata legge: togliamo 
                  alla mafia i suoi beni, togliamole il mezzo che le permette 
                  di dominare incontrastata sul territorio, e si spaventerà: 
                  senza terra sotto i piedi inizierà a traballare. 
                  Una legge può anche perdersi tra le scartoffie, rivoltarsi 
                  come un calzino, rimanere privilegio e profitto di qualcuno. 
                  L'intuizione di Pio La Torre è diventata una consuetudine 
                  viva nel quotidiano grazie anche all'impegno dell'associazione 
                  Libera, che dal 1995 riunisce sotto il suo cappello le diverse 
                  realtà che si riconoscono nella lotta alla mafia. Nel 
                  1996 Libera raccolse oltre un milione di firme per proporre 
                  il riutilizzo sociale dei beni confiscati, perché non 
                  restassero abbandonati nelle mani di uno stato troppo spesso 
                  assente e distratto, facili prede delle famiglie di potenti 
                  che avrebbero potuto riappropriarsene passando dall'entrata 
                  posteriore. E invece no: di certo il rischio è ancora 
                  presente, i beni confiscati vanno difesi, vanno tenuti stretti 
                  (per questo, d'altronde, si lotta), ma c'è una realtà 
                  brulicante di associazioni e cooperative sociali che ha deciso 
                  di provarci e di farsi vedere. Si sono messi sotto la lente, 
                  hanno deciso di metterci la faccia, di accettare la sfida, e 
                  questo può fare ben sperare. 
                  Tre sono le cooperative attive a Corleone, tutte e tre lavorano 
                  sui terreni, perché Corleone è soprattutto campagna: 
                  la presenza mafiosa è passata sempre attraverso la terra. 
                  Tutte e tre si dedicano alla cultura biologica: una è 
                  intitolata a Pio La Torre, una a Placido Rizzotto, e la terza, 
                  la più longeva, una cooperativa dell'Arci, si chiama 
                  Lavoro e non solo e da più di un decennio collabora 
                  con il locale Centro di salute mentale per il reinserimento 
                  lavorativo di persone con disturbi psichici.
 
                   
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                    Cinisi, 
                        maggio 2012 - corteo del 
                        Forum Sociale Antimafia 2012  | 
                   
                 
                 
                    Ma quale 
                  “cultura della legalità“? 
                
  È poca cosa, sono solo fazzoletti di terra, un po' 
                  di grano e di vino, un po' di pomodori da raccogliere a mano 
                  e con fatica. La mafia che muove capitali immensi, che mette 
                  le mani nella politica e nel narcotraffico, quanto potrà 
                  infastidirsi per una vigna in meno? Per quanto si tratti di 
                  appezzamenti consistenti, sarà giusto un dispetto, una 
                  mosca sul naso, niente di più. Eppure aggressioni e minacce 
                  sono la prova che l'attività delle cooperative ha colpito 
                  nel segno, perché va a intaccare l'immagine, la presenza 
                  nel territorio. Anno dopo anno, raccolto dopo raccolto, le cooperative 
                  sono sempre più inserite nella realtà locale, 
                  il loro lavoro è riconosciuto e apprezzato, la proposta 
                  politica si mostra ogni giorno alla luce del sole. E questo 
                  non può che andare a intaccare un sistema di potere che 
                  si basava soprattutto sull'autorità indiscussa e sul 
                  silenzio. 
                  Promuovere la “cultura della legalità” può 
                  voler dire tante cose. Lavorare nelle cooperative delle terre 
                  confiscate significa dare un contenuto, un senso, una direzione 
                  all'idea di legalità, che è innanzitutto agire 
                  a viso aperto, pensare e proporre rapporti di lavoro equi, in 
                  contrasto con lo sfruttamento schiavistico e l'abbandono che 
                  prima caratterizzavano quelle stesse terre. 
                  Una delle case di proprietà di Provenzano è ora 
                  un “laboratorio della legalità”: significa 
                  che la porta è aperta, che è un soggetto vivo 
                  all'interno del paese, dove si vendono i prodotti delle cooperative 
                  e dove una rassegna di quadri di Gaetano Porcasi ripercorre 
                  la storia della mafia, delle stragi, delle lotte sociali in 
                  terra siciliana. Dalla mitraglia di Salvatore Giuliano sulle 
                  bandiere rosse di Piana degli Albanesi ai chili di tritolo esplosi 
                  sull'autostrada tra Cinisi e Palermo nel maggio del '92, si 
                  racconta una storia segnata da ferite profonde e dal sangue 
                  di molte vittime, una storia oscura fatta di rabbia e coraggio, 
                  di terribili sconfitte, carica però della volontà 
                  di trasmettere speranza. È come sovvertire un pezzo alla 
                  volta le regole che stabiliscono cosa è rispettato, cosa 
                  ha valore, cosa può lasciare il segno e fare frutti. 
                  E si tratta di una partita ancora in corso, che si sta giocando 
                  in questo momento, giorno dopo giorno. 
                  È un mondo composito e variegato quello che si trova 
                  a lavorare sulle terre confiscate. La cooperativa Lavoro 
                  e non solo raccoglie ormai da cinque anni gruppi di volontari, 
                  proponendo campi di lavoro e di studio. Sono ragazze e ragazzi 
                  che arrivano da varie regioni del continente, anche dal profondo 
                  nord, hanno diciott'anni o poco più e portano le loro 
                  voci, la loro energia, la loro curiosità tra i filari 
                  delle vigne. Fanno domande, vogliono sapere e fare, e possono 
                  vedere da vicino cosa vuol dire stare sulla terra e difenderla. 
                  Soprattutto, allacciano la memoria siciliana con la loro, fanno 
                  diventare questo percorso qualcosa di condiviso, che getta reti 
                  nel tempo.
                 
                   
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                    Portella 
                        della Ginestra, Piana degli Albanesi, 
                        provincia di Palermo - lapidi commemorative 
                        della strage del 1 maggio 1947  | 
                   
                 
                 La memoria è un nodo fondamentale: la storia delle 
                  lotte sindacali degli anni Quaranta, di Placido Rizzotto e degli 
                  altri sindacalisti uccisi, delle battaglie perdute per la distribuzione 
                  della terra sono il filo conduttore che collega l'attività 
                  di ora con le ferite aperte del passato. 
                  I sopravvissuti della strage di Portella della Ginestra, ormai 
                  novantenni, raccontano la loro storia e la loro sconfitta, il 
                  loro primo maggio lontano e vivo, e tendono la mano a una generazione 
                  che sta imparando appena a tirare fuori la testa dalla sabbia: 
                  è un passaggio di memoria e di eredità, di una 
                  lotta che cambia nelle forme e nelle coordinate ma passa sempre 
                  attraverso la terra, attraverso la necessità di contrastare 
                  il potere mafioso tenendo alta la testa. 
                  I soci della cooperativa sono perlopiù contadini corleonesi, 
                  abituati al lavoro duro della campagna, che hanno scelto di 
                  mettere le loro braccia in questa storia, hanno raccolto il 
                  rischio e le difficoltà di sfidare la mafia a viso aperto, 
                  nel loro stesso paese. All'inizio ha voluto dire perdere il 
                  rispetto e la fiducia della comunità, svegliarsi al mattino 
                  e trovare la vigna saccheggiata, ha voluto dire stringere i 
                  denti e tirare avanti. 
                  Col tempo, i semi piantati hanno iniziato a germogliare e la 
                  cooperativa Lavoro e non solo è ora un punto di 
                  riferimento riconosciuto, uno spazio di condivisione e confronto 
                  che si costruisce anche attraverso la fatica messa tra i filari. 
                  I contadini della cooperativa non sono più soli: anno 
                  dopo anno si è creata una massa sociale attenta, generazioni 
                  diverse e diversi percorsi che sono confluiti in quelle terre 
                  e che hanno imparato a tenerle d'occhio tornano a casa portandosi 
                  appresso un po' di questa battaglia. La mafia smette così 
                  di essere croce e condanna dei siciliani, quasi fosse un fenomeno 
                  atavico e culturale, e diventa qualcosa di concreto, che si 
                  può misurare e contrastare, destinato a perire come tutti 
                  i fenomeni umani, grazie a una lotta che può essere di 
                  tutti. 
 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Cooperativa 
                        Lavoro e Non Solo, Corleone - 
                        Soci e volontari al lavoro  | 
                   
                 
                  
                    Antimafia 
                  militante 
                  La mafia è potere, nella sua forma più sfacciata 
                  e oscena, e la lotta alla mafia è, anche e soprattutto, 
                  lotta al potere. “Contro mafia i putiri c'è solu 
                  rivoluzioni”, recita uno striscione che apre le manifestazioni 
                  dell'associazione Radio Aut. Dalla Casa memoria di Cinisi, dove 
                  sono raccolti libri, fotografie e documenti sulla storia di 
                  Peppino Impastato, dove s'affaccia sul balcone la scritta “La 
                  mafia è una montagna di merda”, Radio Aut ha portato 
                  avanti in questi anni un percorso che tenta di unire memoria 
                  e conflitto nel presente. L'hanno chiamata “antimafia 
                  sociale”, per affermare la volontà di costruire 
                  una proposta politica dal basso, perché additare il potente 
                  di turno, gridare responsabilità e nomi, porta con sè 
                  anche un progetto da portare avanti, un sogno di società. 
                  Sono dodici anni che Radio Aut, a ogni anniversario dell'omicidio 
                  di Peppino, cerca di dare un nome e un contenuto a quella nuova 
                  resistenza antimafia che Felicia Impastato aveva auspicato, 
                  creando una piattaforma di confronto e discussione sulle proposte 
                  politiche e le sfide dell'oggi. Il forum antimafia “Felicia 
                  e Peppino Impastato” dell'edizione del 2012 ha dimostrato 
                  ancora una volta la volontà di non arroccarsi sulla mera 
                  celebrazione ma di prendere spunto dalla lotta di Peppino per 
                  renderne attuale il patrimonio politico. 
                  Si è discusso di crisi economica e dell'attacco antidemocratico 
                  imposto dalla dittatura delle banche, si è parlato di 
                  politiche del lavoro insieme a coloro che, in quest'ultimo anno, 
                  hanno subito la crisi e la demolizione dei diritti e stanno 
                  portando avanti percorsi di lotta: dagli operai di Termini Imerese 
                  a quelli della Dalmine di Brescia, passando per lo sfruttamento 
                  schiavistico dell'immigrazione clandestina nei campi di Rosarno. 
                  Come ricorda anche Salvo Vitale, amico e compagno di lotte di 
                  Peppino Impastato, la sfida alla mafia ha saputo esprimersi 
                  nel tentativo di difendere il territorio dai soprusi del potere, 
                  che anela al profitto anche a costo di devastare l'equilibrio 
                  ambientale e sociale esistente. Impastato che si siede davanti 
                  alle ruspe per fermare gli espropri del cantiere dell'aeroporto 
                  sta soprattutto cercando di tenere stretto uno spazio collettivo 
                  e di difenderlo da chi vuole appropriarsene con prepotenza, 
                  scavalcando diritti per il proprio guadagno. La sua battaglia 
                  non è molto diversa da quella che si sta combattendo 
                  ora in Val di Susa contro i cantieri della TAV. 
                  A Cinisi, lo scorso maggio, l'estremo nord della penisola e 
                  la punta a ponente della Sicilia hanno trovato uno spazio comune 
                  di lotta, hanno lanciato una fune che ne tiene unite le rivendicazioni 
                  e i percorsi. Così come la difesa dell'informazione libera 
                  di Telejato, televisione locale che nonostante le ripetute minacce 
                  e intimidazioni continua ogni giorno a denunciare gli affari 
                  della mafia sul territorio, passa anche attraverso la memoria 
                  delle radio libere degli anni Settanta e della controcultura 
                  che ne è stata il segno di riconoscimento. 
                  Conflitto in Val di Susa e difesa dell'acqua pubblica, diritti 
                  del lavoro e della libera informazione: la lotta si costruisce 
                  su queste basi perché l'antimafia non diventi un appiattimento 
                  passivo sull'azione della magistratura, un applaudire a ogni 
                  arresto, un fare la lista, ogni giorno, dei buoni e dei cattivi. 
                  La voce popolare vuole che anche i potenti vadano in carcere, 
                  non solo i poveri diavoli: c'è chi ha raccolto questa 
                  esigenza di giustizia rispondendovi con le armi della legge, 
                  indicando e arrestando i responsabili, dando un nome all'associazionismo 
                  mafioso che fino a trent'anni fa era giuridicamente una nebulosa 
                  inafferrabile. È necessario per la società civile 
                  fare dell'altro, pensare a quali contenuti dare al futuro, mettere 
                  le basi di un progetto che sia anche politico. In questi anni, 
                  in Sicilia, si stanno piantando i semi di una società 
                  ancora tutta da costruire: e c'è ancora un sacco di lavoro 
                  da fare. 
                    
                  Laura Orlandini  |