scuola 
                  
                    
                Il funerale coi fichi secchi
                 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    www.flickr.com/photos/gaia_d  | 
                   
                 
                Ho l'impressione che l'università 
                  italiana stia vivendo un momento psicotico, e io con lei. Ingabellata 
                  in debiti che non riuscirà mai ad assolvere con innumerevoli 
                  precari, condannata a uscire da una lunga, felice autoreferenzialità, 
                  fa i conti ormai da tempo con i passi di una Riforma che non 
                  cestina il vecchio ma, come l'imperatore del detto, veste abiti 
                  nuovi per nascondere le pezze. Fa i conti in senso letterale, 
                  perché soldi non ce n'è, e nell'ultima spending 
                  review, il governo vota di nuovo per l'istruzione privata. 
                  E il cambiamento vero è che il futuro della cultura non 
                  la faranno gli intellettuali ma i consigli di amministrazione. 
                  Ma noi siamo intellettuali, e non badiamo al denaro. 
                  Occupiamoci della sostanza, allora. La sostanza spessa della 
                  produzione scientifica. C'è una divaricazione indiscutibile, 
                  in questo ambito, tra le cosiddette scienze e le ben più 
                  approssimate – dicono – “humanities”. 
                  Queste ultime – e uso il termine britannico non per snobismo, 
                  ma perché in italiano si direbbe “scienze umane”, 
                  che è fuorviante – sono merce avariata, parrebbe, 
                  a giudicare da quel che circola nei corridoi del ministero. 
                  La sostanza delle scienze, parrebbe, è misurabile, mentre 
                  quella delle “humanities” no. Noi umanisti produciamo 
                  cognizioni altamente opinabili, la cui misurazione sta mettendo 
                  in gravissima difficoltà la neonata (cioè avrebbe 
                  due anni, ma continua a esser neonata) Agenzia Nazionale per 
                  la Valutazione della Sistema Universitario della Ricerca. Quest'ultima 
                  sta studiando complessi metodi per misurare quello che noi parassiti 
                  intellettuali produciamo. Così saremo assolti per aver 
                  mangiato a lungo il pane degli altri a tradimento. Perciò 
                  sono venuti alla ribalta metodi bibliometrici, Impact Factor 
                  e misurazioni complesse e articolate del valore di quel che 
                  ciascuno di noi ha prodotto. 
                  La verità vera è che, nella mia monumentale limitatezza, 
                  non capisco come possa questo sistema censire i meriti culturali. 
                  Un mio collega letterato e poeta sta perdendo la ragione per 
                  cercare di caricare su AIR (altro acronimo) quel che ha scritto 
                  e fatto negli ultimi 8 anni, infilando questa mansione manuale 
                  tra un esame e l'altro (perché è pure, per colmo 
                  di sconforto, uno che lavora tanto e crede insipientemente di 
                  dover offrire il meglio di sé agli studenti. Sempre questo 
                  mio collega ha prodotto qualcosa come una cinquantina di pubblicazioni. 
                  Se ne avesse prodotte 3, il gioco sarebbe fatto molto in fretta, 
                  ma avendo scritto molto, deve essere punito. Oggi ho temuto 
                  per la sua salute mentale: quando ho nominato l'acronimo ANVUR, 
                  l'ho visto sbiancare, cominciare a tremare, abbassare la voce 
                  e dirmi: “Chi se ne frega. Metti che mi licenziano: devasto 
                  il PC e mi metto a scrivere a mano. Credi che questo possa essere 
                  l'Impact Factor della riforma?”. 
                  Il luddismo, occorre riconoscerlo, potrebbe essere una conseguenza 
                  inevitabile di questo nostro scapicollarci verso l'efficienza. 
                  E non ci sarebbe niente di male se di efficienza effettivamente 
                  si trattasse. La mia sensazione è che invece sia una 
                  patina sottile, un sistema di rituali che si risolverà 
                  nel solito impiccio: perché la macchina non valuta. Fornisce 
                  i dati, al più, ammesso che tutti noi siamo in grado 
                  di caricarli correttamente e che i pregevoli tecnici siano in 
                  grado di controllarli. Un tecnico, domenica, era davanti al 
                  PC come me, presumo ugualmente sudato, a chiedersi perché 
                  mai stava lavorando in un giorno festivo a validare i dati che 
                  io inserivo: desidero ringraziarlo in diretta. Anche lui sa 
                  bene che, alla fine, chi valuterà sono le persone, e 
                  se quelle ai vertici non cambiano, c'è poco da emendare. 
                  I metodi bibliometrici, per quanto precisi, dipendono da fattori 
                  umani molto opinabili, soprattutto in un contesto in cui buona 
                  parte della vecchia guardia ritiene di essere pregevole non 
                  per quello che fa o per quello che scrive, ma per il mero fatto 
                  di esistere. 
                  Avete mai riflettuto sul tasso di mortalità del docente 
                  accademico in pensione? Altissimo. In parte questa altezza dipende 
                  dal fatto che fino a poco tempo fa si andava in pensione e a 
                  più o meno ottant'anni (poi ci si lamenta del fatto che 
                  l'età media degli accademici è superiore a qualunque 
                  altro luogo nel mondo), ma in parte anche dal fatto che usciti 
                  di lì, dopo essere entrati nella scuola a 6 anni e rimasti 
                  in quel recinto protetto per tutta la vita, proprio non si sa 
                  cosa fare di se stessi. Lì dentro ha conosciuto tutto 
                  quello che sa della vita, ha attraversato indenne la pubertà, 
                  si è sposato (a volte), ha messo al mondo figli (se era 
                  il caso), ha inanellato tradimenti (ogni volta che era possibile), 
                  e alla fine, uscendone, non sa cosa fare di se stesso. Cosa 
                  gli resta? Un funerale coi fichi secchi. 
                   
                  Nicoletta Vallorani 
                  |