cultura 
                  
                  
                 La 
                  ferriera 
                  occupata  
                 Che la classe operaia sia scomparsa sia da un punto di vista 
                  sociologico che politico, lo si può capire anche dalla 
                  scarsità di ricerche e pubblicazioni che le sono state 
                  dedicate in questi ultimi 20-25 anni. 
                  Alla copiosa produzione degli anni '60 e '70, si è passati 
                  alla rimozione del problema anche da un punto di vista storiografico. 
                  Lo sconquasso istituzionale, la sconfitta dei movimenti, l'egemonia 
                  culturale del capitale sui processi di ristrutturazione del 
                  sistema in tutte le sue articolazioni, hanno accompagnato la 
                  disintegrazione sociale del soggetto operaio come collettività 
                  politica capace di autorappresentazione. In questo quadro, il 
                  libro curato da Mauro Abati e Umberto Ghirardi La nave e 
                  la burrasca. Condizione operaia a Nave dal miracolo economico 
                  alla crisi della siderurgia (Comunità Montana dei 
                  Valle Trompia/Comune di Nave/Brescia, Monografic, 2012, pp. 
                  94, € 10,00) rappresenta una felice eccezione, in quanto 
                  ci ripropone questa parabola partendo da un osservatorio particolare: 
                  l'occupazione, da parte delle maestranze, di una ferriera dell'hinterland 
                  bresciano, la “Fenotti e Comini”, nei primi anni 
                  '80. 
                  Il volume è diviso in due parti: nella prima Abati ricostruisce 
                  questa vicenda all'interno di una cornice spazio temporale più 
                  ampia, mentre nella seconda, l'obiettivo fotografico di Ghirardi 
                  si concentra sull'episodio “dall'interno del movimento”. 
                  Come la ricostruzione del primo autore si avvale delle memorie 
                  di alcuni militanti sindacali “di base”, per narrare 
                  in sintesi l'ascesa e il declino di una realtà industriale 
                  geograficamente periferica ma per niente tale se la si guarda 
                  dal punto di vista delle logiche di sviluppo, culture imprenditoriali, 
                  qualità e livello del conflitto sociale, così 
                  le immagini di Ghirardi ci restituiscono in un bellissimo bianco 
                  e nero, ritratti onesti, persuasivi, in grado di riconsegnarci 
                  una storia di uomini e donne fuori da clichè estetici 
                  in voga in quegli stessi anni, in cui i soggetti ripresi diventavano 
                  spesso comparse di una esibizione sollecitata dall'esterno. 
                  Lo scatto racconta ciò che la parola scritta riesce solo 
                  ad evocare giovandosi della documentazione cartacea e testimoniale. 
                  Una storia collettiva fatta dei corpi dei suoi protagonisti 
                  in cui la “classe”, come monolite sociale e ideologico, 
                  sembra decantarsi riconsegnandoci una realtà umanamente 
                  riconoscibile nei suoi singoli ed irriducibili elementi vitali, 
                  fatta di individualità silenziose, attente, interroganti. 
                  E quando invece la parola è agita, non è più 
                  gridata, nemmeno nei cortei, non è “arma impropria” 
                  di un'indignazione generosa, ma piuttosto forma di pensieri 
                  da condividere, strumento di relazioni dialogiche, di vicinanze 
                  calde. Quei volti rubati dall'obiettivo dentro il piazzale della 
                  fabbrica occupata piuttosto che durante le manifestazioni, ci 
                  restituiscono più che altro le preoccupazioni, le attese, 
                  le domande, ma anche i sorrisi divertiti o appena accennati 
                  dei singoli, che portano l'osservatore a immaginare i loro pensieri 
                  e sentimenti. 
                  Se un senso c'è, è quello dello “stare insieme”, 
                  del condividere, prima che la storia di quella comunità 
                  operaia sconfitta, si perda nei rivoli dei destini individuali. 
                  Partiti in 280, alla fine rimarranno poche decine: i lavoratori 
                  più sindacalizzati, quelli immigrati dal Sud, gli anziani 
                  e gli invalidi. Gli altri troveranno nuove occasioni ricollocandosi 
                  nelle altre aziende della zona. Nave - questo il nome del paese 
                  al centro della ricerca - tra gli anni '50 e '70 si farà 
                  “nuova frontiera” del “miracolo economico” 
                  della provincia bresciana: da paese agricolo, nell'arco di vent'anni, 
                  diventerà la capitale delle mini acciaierie più 
                  famose nel mondo, ma anche di uno sfruttamento intensivo della 
                  forza lavoro, di un uso scriteriato del territorio, di amministrazioni 
                  locali prone alle volontà di questi particolari “padroni 
                  delle ferriere”, di leggi trasgredite e contratti non 
                  rispettati, di una catena senza fine di infortuni sul lavoro, 
                  anche mortali. E tutto ciò accompagnato da un ostentato 
                  livore antisindacale che troverà sponde politiche in 
                  un neofascismo non estraneo alla strage del 28 maggio del 1974. 
                  La solidarietà che si costruirà attorno a questa 
                  lotta, vedrà momenti alti ma anche sempre più 
                  marcate prese di distanza. Da esperienza positiva di resistenza, 
                  sarà negli anni additata a esempio negativo, usato dai 
                  padroni come ricatto e visto da alcuni settori operai come anticipazione 
                  del loro possibile destino. E così sarà. 
                  La crisi del comparto, le regole sulle “quote” produttive 
                  imposte da Bruxelles faranno il resto. La “grande guerra” 
                  dell'acciaio avrà anche in questa landa siderurgica le 
                  sue vittime, radendo al suolo aziende ed impianti, provocando 
                  come “danni collaterali” lo smantellamento di centinaia 
                  di posti di lavoro. Quello che fu il “regno del tondino” 
                  oggi è un sito di archeologa industriale: lì ci 
                  sono ancora i capannoni di quella ferriera di cui questo libro 
                  parla. Per sempre muta. 
                   
                  Roberto Cucchini 
                  
                   
                   
                    
                 L'esperienza 
                  e il pensiero 
                  di Joyce Lussu  
                 Nelle estati tra il 1984 e il 1998 ha luogo a Fano il Meeting 
                  Anticlericale. Appuntamento libertario e anticlericale organizzato 
                  dagli anarchici e dalle anarchiche del Circolo Culturale Napoleone 
                  Papini, il Meeting nasce come momento di critica radicale al 
                  potere politico della Chiesa cattolica e all'ingerenza di quest'ultima 
                  nella vita degli individui. Festa, spettacolo, dibattiti politici 
                  e culturali tingono di grande vivacità l'appuntamento, 
                  il quale, almeno dal 1991 al 1995, vede la partecipazione di 
                  un'energica Joyce Lussu. Spinta da una critica politica e morale 
                  al ruolo della Chiesa cattolica e da una grande fiducia nelle 
                  possibilità di cambiamento delle nuove generazioni, Lussu 
                  apporta con grande energia la propria esperienza di vita e il 
                  proprio pensiero in riguardo a una vasta gamma di argomenti, 
                  che spaziano dall'antimilitarismo e anticlericalismo fino al 
                  femminismo, all'etica, alla filosofia e a una lucida interpretazione 
                  della storia e dell'attualità sociale. 
                  La Chiesa e l'esercito sono descritti come delle monarchie assolute, 
                  istituzioni “basate sul principio dell'assoluta autorità 
                  e dell'assoluta obbedienza” che permettono nei secoli 
                  l'affermarsi delle oligarchie sulle maggioranze di subordinati; 
                  come “complici e addirittura promotrici di tutti i maggiori 
                  delitti contro l'umanità”, a cominciare dalla conquista 
                  dell'America nel quindicesimo secolo e dal genocidio delle sue 
                  popolazioni indigene, passando per la schiavizzazione dell'Africa, 
                  fino al nazismo e alle guerre più recenti. Altro tema 
                  che si riscontra frequentemente tra gli interventi di Joyce 
                  è quello legato alla questione della donna, collocato 
                  all'interno del più ampio discorso del progetto Osservatorio 
                  delle donne libertarie sugli integralismi, avviato all'interno 
                  del Meeting. “C'è stato un movimento femminista 
                  fino in fondo? Avete mai incontrato una contadina, un'operaia, 
                  una colonizzata che si definisse femminista?”. Questi 
                  alcuni dei quesiti posti dalle riflessioni di Lussu, cui la 
                  ex-partigiana e scrittrice cerca di rispondere con un'argomentazione 
                  che ricorda l'importanza delle donne appartenenti a movimenti 
                  che vengono dal basso e di figure come Louise Michel, “che 
                  le femministe hanno sempre snobbato”. Senza la pretesa 
                  di affermare delle verità, ma anzi con la volontà 
                  di avviare dibattiti con i numerosi giovani che partecipavano 
                  alle sue relazioni, Lussu tocca numerosi tasti dolenti della 
                  società occidentale, cercando di fare critiche che portino 
                  alla nascita di soluzioni concrete, mirate a creare una società 
                  più equa, libera da dogmi di ogni genere e caratterizzata 
                  invece da un concetto di cultura intesa come libertà 
                  di scegliere, di utilizzare la propria intelligenza per partecipare 
                  attivamente alla costruzione sociale. 
                  Al fine di evitarne la decadenza causata dal trascorrere del 
                  tempo, i numerosi interventi di Joyce Lussu al Meeting Anticlericale, 
                  registrati su audiocassette e videocassette, sono stati recentemente 
                  digitalizzati dall'Archivio-Biblioteca “Enrico Travaglini” 
                  (Un'eretica del nostro tempo. Interventi di Joyce Lussu al 
                  Meeting Anticlericale di Fano (1991-1995), a cura di Luigi 
                  Balsamini, introduzione di Mimmo Franzinelli, Gwynplaine Edizioni, 
                  Camerano, 2012). 
                  All'interno di questo volume, il curatore Luigi Balsamini li 
                  raccoglie e li trascrive, puntualizzando nella prefazione la 
                  difficoltà incontrata nel rendere per iscritto degli 
                  interventi orali, difficoltà cui ovvia ripulendo a volte 
                  i periodi, per permettere al lettore una facile lettura e comprensione. 
                  Ogni documento è introdotto da una breve premessa che 
                  lo colloca in un contesto ben definito ed è accompagnato 
                  da note che chiariscono i diversi riferimenti. Oltre all'introduzione 
                  di Mimmo Franzinelli, che ritrae la scrittrice come una figura 
                  estremamente sicura, capace di catalizzare l'interesse degli 
                  interlocutori e di fungere da elemento di stimolo e coordinazione 
                  all'interno dei dibattiti, il testo è arricchito da due 
                  “ricordi di Joyce Lussu”: il primo, Anticlericale 
                  e non solo di Donato Romito e l'altro, Nella calura d'agosto 
                  di Antonia Sani. 
                  Nei nove capitoli di cui è composto il volume emerge 
                  tutta l'energia di una donna che, nonostante l'età avanzata 
                  e i gravi problemi alla vista, ha avuto la capacità di 
                  trasmettere ai giovani che hanno partecipato ai Meeting (ma 
                  anche a chi, come me, non li ha vissuti) un'idea di giustizia 
                  e libertà da cui far partire un radicale cambiamento 
                  sociale. 
                   
                  Pamela Galassi 
                  
                   
                    
                 Per 
                  una storia 
                  del pensiero vegetariano  
                 “In nome di ciò che è sacro nelle nostre 
                  speranze per il genere umano, io scongiuro quelli che amano 
                  la felicità e la verità di fare un ragionevole 
                  esperimento del sistema vegetariano”. Queste parole di 
                  P.B. Shelley sono poste come esergo al volume Che cos'è 
                  il vegetarismo? di Edmondo Marcucci (1900-1963). La recente 
                  ripubblicazione da parte delle Edizioni dell'asino (www.gliasini.it) 
                  di questo libriccino ha un merito: quello di aver indirettamente 
                  posto la questione, in una maniera affatto originale, di una 
                  ricognizione riguardante la storia del pensiero antispecista 
                  (e vegetariano in particolare) in Italia, tutta ancora da indagare 
                  e da raccontare. Il testo in questione è apparso infatti 
                  la prima volta nel 1953 per conto della Società vegetariana 
                  italiana, organizzazione che Marcucci fondò in quegli 
                  anni insieme ad Aldo Capitini. 
                  Questa nuova edizione la troviamo arricchita da una partecipata 
                  prefazione di Goffredo Fofi e da un'altrettanto lucida postfazione 
                  di Annamaria Manzoni, nonché da un'appendice costituita 
                  da alcune pagine animaliste di Aldo Capitini e da altri materiali 
                  (la Dichiarazione universale dei diritti dell'animale e il 
                  Manifesto per un'etica antispecista) che forniscono il lettore 
                  di ulteriori elementi di riflessione sul tema. 
                  Che cos'è il vegetarismo? sviluppa, con grande 
                  anticipo rispetto ai tempi in cui vide la luce (decine di anni 
                  prima delle pubblicazioni di Peter Singer e di Tom Regan), un 
                  ampio discorso riguardante la necessità di rivedere in 
                  modo radicale il rapporto tra la specie umana e le altre, riflettendo, 
                  tra l'altro, sull'illegittimità delle sofferenze inferte 
                  dall'uomo agli altri animali. Come l'amico Capitini, il quale 
                  divenne vegetariano negli anni Trenta in segno di aperto dissenso 
                  verso la visione violenta e totalitaria del fascismo e della 
                  cultura ad esso ispirata, pure Marcucci, che nel medesimo periodo 
                  fu indotto al vegetarianesimo dalla frequentazione di Tatiana 
                  Sukhòtin Tolstoj, figlia dello scrittore russo, motivò 
                  la propria decisione come una forma di opposizione antiassolutistica. 
                  Che cos'è il vegetarismo? si presenta come un 
                  percorso articolato attraverso la letteratura, la religione, 
                  la medicina e le scienze naturali, toccando trasversalmente 
                  i temi della nonviolenza a lui cari. L'opzione vegetariana viene 
                  illustrata da Marcucci non sotto il profilo – alla fine 
                  riduttivo – del benessere salutistico, ma direttamente 
                  dal punto di un'etica antispecista, una radicale presa di distanza 
                  dal totalitarismo antropocentrico e dai suoi fondamenti filosofici 
                  e religiosi (cfr. tutto il paragrafo “Religioni e vegetarismo”). 
                  Non a caso Marcucci riflette, scavando tutti gli esiti possibili, 
                  sulla nota frase di L.Feuerbach – “L'uomo è 
                  ciò che mangia” – con cui il filosofo tedesco, 
                  ponendosi in una prospettiva radicalmente anti-hegeliana, giungeva 
                  a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò 
                  che mettiamo dentro la pancia. 
                  Rileggendole oggi, le pagine di Marcucci rimangono a distanza 
                  di anni un riferimento importante per tutti coloro che riconoscono 
                  nella sensibilità animale tracce di somiglianze con quella 
                  umana. Come afferma, in fondo lapalissianamente (ma a quanto 
                  pare c'è ancora gran bisogno di simili affermazioni…), 
                  Fofi nella prefazione: “non solo l'umanità soffre 
                  (e certi individui molto più di altri) ma anche gli animali” 
                  e, per queste ragioni, con Marcucci, ci rivolgiamo verso la 
                  “costruzione di una nuova morale”, poiché 
                  crediamo “nel vegetarismo come una delle indispensabili 
                  tappe nella lotta per la difesa della natura e per la dignità 
                  dell'uomo”. Come aveva precedentemente sostenuto Capitini, 
                  “il vegetarianesimo è in stretto rapporto con i 
                  problemi morali e religiosi, ed anzitutto con il problema dei 
                  fini e dei mezzi”. 
                  Ma chi era Edmondo Marcucci? Umbro di nascita, ma marchigiano 
                  di adozione (trascorse a Jesi gran parte della sua vita), studiò 
                  all'Università di Roma, dove conobbe Ernesto Buonaiuti 
                  (ex prete, scomunicato da Pio X, fu uno dei tredici docenti 
                  universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime 
                  fascista), di cui fu amico e seguace. Divenuto insegnante di 
                  materie letterarie nelle scuole medie, si dedicò allo 
                  studio delle religioni e della nonviolenza. 
                  Risale agli anni Quaranta l'incontro con Aldo Capitini, da cui 
                  nacque un sodalizio che segnò in maniera significativa 
                  gli ultimi venti anni della sua vita. A questo proposito, sarà 
                  interessante poter leggere la corrispondenza fra i due, che 
                  l'editore Carocci dovrebbe pubblicare entro l'anno in corso, 
                  a cura di Amoreno Martellini (centocinquanta lettere dal 1941 
                  al 1963). Marcucci collaborò fattivamente a numerose 
                  iniziative religiose e sociali promosse da Capitini: non solo 
                  all'interno della Società Vegetariana, ma anche iniziative 
                  pacifiste, come le battaglie per l'obiezione di coscienza. Furono 
                  queste attività che gli procurarono nuove amicizie, italiane 
                  e straniere, con anarchici, protestanti, quaccheri, ex-sacerdoti, 
                  nel corso di raduni e convegni nazionali e internazionali. Ricordava 
                  lo stesso Capitini: “Poteva accadere nei molti nostri 
                  convegni a Roma, a Firenze, a Perugia ed altrove di arrivare 
                  prima dell'inizio e trovare già nella sala un amico di 
                  media statura e di aspetto vigoroso che passeggiava su e giù, 
                  toccandosi i piccoli baffi che ricordavano un po' l'Ottocento 
                  e i primi decenni del secolo” (cfr. Aldo Capitini, Ricordo 
                  di Edmondo Marcucci, in AAVV, Ricordo di Edmondo Marcucci. Commemorazione 
                  tenuta nella Sala maggiore del Palazzo della Signoria, Jesi, 
                  Amministrazione civica, 1963). 
                  Oltre a Capitini, Marcucci entrò in contatto anche con 
                  Ferdinando Tartaglia (co-fondatore nel '47 con Capitini del 
                  Movimento di Religione). Viene descritto da Marcucci come una 
                  persona dall'aspetto magro e pallido, d'abito modesto, ma che 
                  era in grado di suscitare immediato entusiasmo in chi lo ascoltava. 
                  Anch'egli, come Buonaiuti, ex prete scomunicato, avvicinatosi 
                  per un breve periodo al movimento anarchico, era considerato 
                  dal mondo cattolico un pericoloso eretico, anche per la sua 
                  elevata preparazione in ambito filosofico e teologico. Così 
                  infatti dirà Marcucci di Tartaglia: “Questo scrittore, 
                  parlatore, organizzatore che non si risparmia è, naturalmente, 
                  l'oggetto dell' ‘odio teologico': in altri tempi avrebbe 
                  fatto ‘la fine della castagna' degli eretici!”. 
                  Si tratta di un mondo pochissimo conosciuto, quello costituito 
                  dagli autori qui citati, meritevole pertanto di essere riportato 
                  alla luce e degnamente apprezzato; per questo la riproposizione 
                  del libro di Marcucci rappresenta un tassello importante all'interno 
                  di questo percorso in via di costruzione. 
                   
                  Federico Battistutta 
                  
                   
                    
                Spagna '36/ 
                  Miliziano e operaio agricolo 
                 Il 30 dicembre del 1907 nasceva nella contea di Södermanland 
                  (Svezia) il futuro militante, agitatore, giornalista anarchico 
                  Nils Lätt, pure denominato Nisse Lätt, noto in Spagna 
                  come Nils el rubio o “il rosso”. A 15 anni 
                  si arruolò nella marina mercantile, si affiliò 
                  all'organizzazione anarcosindacalista Sveriges Arbetares Centralorganisation 
                  (SAC) e iniziò ad imparare l'esperanto. 
                  Durante gli anni Trenta prese diretto contatto con la CNT a 
                  Bilbao, prima e dopo l'ottobre rosso del 1934. Nel 1936 lasciò 
                  il suo paese e ottenne a Parigi un salvacondotto dal Comité 
                  Anarcho-syndicaliste pour la Défense et la Libération 
                  du Prolétariat Espagnol; all'inizio del 1937, attraversò 
                  i Pirenei con alcuni compagni e il 5 gennaio si mise al servizio 
                  del movimento libertario catalano a Barcellona: dapprima, per 
                  poco tempo, nella formazione guidata da Antonio Ortiz, successivamente 
                  nel Gruppo internazionale della colonna Durruti, che raggiunse 
                  a Pina de Ebro (Saragozza), sul fronte di guerra. A metà 
                  aprile del 1937 fu gravemente ferito dallo scoppio di una granata 
                  nella terribile battaglia di Santa Quiteria (Huesca), perdendo 
                  l'occhio sinistro. Dopo le cure ospedaliere a Tarragona, non 
                  potendo tornare a combattere, si integrò nella collettività 
                  agricola di Fabara (Saragozza). 
                  Tornato in Svezia nel 1938, raccolse immediatamente i suoi ricordi 
                  in un opuscolo: Som milisman och kollektivbonde i Spanien 
                  (Miliziano e operaio agricolo in una collettività in 
                  Spagna), che qui è presentato in versione italiana 
                  (Nils Lätt. Miliziano e operaio agricolo in una collettività 
                  in Spagna, a cura di Renato Simoni, Lugano, Edizioni la 
                  Baronata, 2012, 77 pagg). N. Lätt continuò la sua 
                  militanza nella SAC di Göteborg, distinguendosi per l'impegno 
                  nella diffusione del pensiero libertario. 
                  L'esperienza del nostro miliziano nella Spagna del 1937 si articolò 
                  in tre momenti, altrettanto significativi: la partecipazione 
                  alla guerra nella Colonna Durruti, la più nota formazione 
                  libertaria sul fronte d'Aragona, il ricovero in ospedale a Tarragona 
                  che gli permise di vivere da vicino i tragici eventi del maggio 
                  1937 in Catalogna e, ciò che risulta abbastanza eccezionale 
                  nell'esperienza dei combattenti nella guerra di Spagna, il soggiorno 
                  prolungato in una collettività rurale libertaria. 
                  Il marinaio anarchico Lätt, con questa attenta testimonianza 
                  scritta ancora a caldo, ci offre una lettura appassionata e 
                  appassionante degli eventi, di una straordinaria lucidità 
                  e ricchezza di dati, che trovano ampio riscontro nella storiografia 
                  più aggiornata. Alle nitide descrizioni degli episodi 
                  vissuti, si alternano più ampie considerazioni storiche 
                  e filosofiche che ci fanno rivivere la tragedia della guerra, 
                  ma anche le speranze suscitate dalla rivoluzione. 
                  La traduzione in lingua francese ad opera di Anita Ljungqvist 
                  ci ha permesso di accedere al testo, stimolandoci ad elaborarne 
                  una versione per il pubblico di lingua italiana. 
                  La ricerca sul periodo passato da Nils nella località 
                  aragonese di Fabara è stata facilitata dall'aiuto della 
                  maestra Lola Bielsa Masdeu; senza il suo apporto difficilmente 
                  avremmo potuto abbozzare in tempi brevi un quadro storico della 
                  borgata durante la guerra civile. Grazie alla sua generosa collaborazione 
                  ci è stato possibile intervistare alcuni testimoni dell'epoca 
                  e disporre del suo archivio privato, ricco di fotografie e di 
                  documenti, tra cui il prezioso regolamento della collettività 
                  “Renacer”. 
                  Il volume comprende pure, in appendice, un documentato articolo 
                  scritto per l'occasione da Marianne Enckell, responsabile del 
                  Centre International de Recherches sur l'Anarchisme (CIRA), 
                  dal titolo Sui volontari svedesi nella guerra di Spagna. 
                  La pubblicazione di questo lavoro va ad affiancare i ricordi 
                  di due altri miliziani libertari, Albert Minnig e Antoine Gimenez, 
                  già stampati presso La Baronata1. 
                   
                  Renato Simoni 
                1 Albert Minnig, Diario di un volontario 
                  svizzero nella guerra di Spagna, Lugano 1986. 
                  Antoine Gimenez, Amori e rivoluzione. Ricordi di un miliziano 
                  in Spagna (1936-1939), Lugano 2007. 
                  
                   
                   
                    
                 Personali 
                  e viscerali 
                  convinzioni anarchiche  
                 Il Maggio di Fabrizio De André. Un impiegato, una 
                  storia, il poeta di Claudio Sassi e Odoardo Semellini, con 
                  prefazione di Mario Capanna, con contributi di Brunetto Salvarani, 
                  Raffaele Fiore, Alberto Bazzurro, Romano Giuffrida, Giovanna 
                  Panigadi, Lucia Coccia (Edizioni Aereostella, Milano 2012) è 
                  un libro dettagliato e molto ben documentato, per far rivivere, 
                  a molte voci, la stagione della canzone d'autore, in cui i pensieri, 
                  le parole, la musica e la poesia si misurano con scelte coinvolgenti 
                  che segnano la Storia. 
                  “Storia di un impiegato” di Fabrizio de André, 
                  nella profondità e intensità del racconto, è 
                  un atto di coraggio e di onestà intellettuale, che rispecchia 
                  un periodo storico fecondo e rivoluzionario: il disco è 
                  concepito durante il pieno fermento sociale del Sessantotto. 
                  Quando comincia a scrivere questo album, Fabrizio De André 
                  vive un momento magico della personale carriera: Mina registra 
                  “La Canzone di Marinella” in 45 giri, sottraendo 
                  Faber ad un tranquillo anonimato e ad un destino inquadrato 
                  nei dettami stantii di un'esistenza borghese e decadente. La 
                  pubblicazione del disco, in un periodo storico come quello dell'Italia 
                  di metà anni '70, scatena una scia polemica, sia tra 
                  i giornalisti musicali, sia nell' area militante della sinistra. 
                  “Storia di un impiegato” è considerato l'album 
                  più controverso e tormentato di De André. È 
                  stato definito il disco più “ideologico” 
                  dell'artista genovese, che in seguito non si esprimerà 
                  più in modo così politicamente manifesto. 
                  Lasciata definitivamente alle spalle la stagione degli esordi 
                  artistici, fondata su due capisaldi spaziali e autorali, la 
                  Genova periferica e marginale e il suo maestro, ovviamente, 
                  il francese Georges Brassens, Faber mostra un'attenzione nuova 
                  al contesto sociopolitico dell'epoca e sembra alla ricerca dell'acquisizione 
                  di una consapevolezza maggiore della parola in sé 
                  e per sé, che deve rispecchiare un'enfasi rivoluzionaria, 
                  un pathos politico e sociale emergente, dove i più 
                  deboli, gli ultimi, si emancipino dalla sottomissione autoritaria, 
                  dalla demagogia del potere. 
                  “Storia di un impiegato” è un disco importante, 
                  non solo in relazione al periodo storico e sociale in cui uscì, 
                  ma soprattutto nell'ambito dell'itinerario artistico di De André, 
                  come riflessione sul presente, che dal G8 di Genova, ai recenti 
                  movimenti ispirati a Occupy Wall Street, insegna quanto sia 
                  velleitario “buttare bombe” sui parlamenti, quando 
                  il vero potere risiede in ben altre e più occulte sedi. 
                  L'album esprime un messaggio chiaro ed incisivo: è necessaria 
                  una prassi politica militante di tipo collettivo, nella partecipazione 
                  attiva, per porre al centro della comunità l'individuo 
                  e per cambiare un sistema che, adesso più che mai, sembra 
                  inesorabilmente immutabile, arroccato sull'egemonia autoritaria 
                  del potere speculativo dei mercati finanziari. Infatti, in un 
                  concetto anarchico di società, non esistono “poteri 
                  buoni”, ma solo sistemi violenti e autoritari che cercano 
                  di perpetuarsi, magari chiamando in servizio permanente effettivo 
                  i “ rivoluzionari” di ieri. 
                  È il 1973 e un'Italia postsessantottina in piena rivoluzione 
                  artistica, politica e culturale, lo sfondo su cui Fabrizio de 
                  André compone questo nuovo album: la storia di un uomo 
                  che rifiuta le proprie convenzioni borghesi e che agirà 
                  secondo personali e viscerali convinzioni anarchiche e rivoluzionarie, 
                  ma comprenderà che la ribellione ha senso solo se collettiva 
                  e partecipata, in una dimensione comunitaria dell'esistenza 
                  sociale, dove la prassi politica e militante sia volta al raggiungimento 
                  della pace come bene comune. 
                   
                  Laura Tussi 
                  
                   
                    
                 Per 
                  una storia dell'ORA 
                  (con l'accento sulla “a”)
                    
                Mi è sempre sembrato discutibile fare “storia” 
                  di esperienze i cui protagonisti sono ancora, in massima parte, 
                  vivi e vegeti e questo per ovvi motivi“ mi scrive Guido 
                  Barroero. Eppure per quanto possa apparire incredibile – 
                  alla “veneranda” età di 55 anni – ciò 
                  che si è, intensamente, vissuto in gioventù è 
                  diventato oggetto di studio e di ricerca nell'ambito della... 
                  Storia contemporanea. 
                  Ovvero con la pubblicazione della tesi di laurea (in Storia 
                  contemporanea) di Luca Lapolla (Gli anarchici di Piazza Umberto 
                  – La sinistra libertaria a Bari negli anni '70, a 
                  cura del Centro Documentazione Franco Salomone www.archiviofrancosalomone.org) 
                  in cui si descrive la nascita, lo sviluppo e l'inesorabile declino 
                  dell'ORA (ma a noi piaceva dirlo “alla francese” 
                  con l'accento sulla À) ovvero “la microstoria di 
                  poche decine di anarchici che stavano da tutte le parti, che 
                  amavano fregiarsi con grande serietà del nome di organizzazione 
                  rivoluzionaria con tanto di sezioni in tutta la Puglia – 
                  tanto per scrollarsi di dosso qualche stereotipo che vede gli 
                  anarchici sempre disorganizzati – e che se la giocavano 
                  alla pari per seguito ed influenza con le altre formazioni della 
                  sinistra extraparlamentare” (cfr. Introduzione di 
                  Donato Romito). Non entro qui nel merito dei contenuti della 
                  ricerca storica che rimangono – ahimé – circoscritti 
                  alla sola città di Bari limitandomi a formulare due considerazioni. 
                  La prima di carattere “dottrinario” la seconda 
                  di carattere storiografico. 
                  Sulla prima questione (quella dottrinaria) l'Autore privilegia 
                  la tesi cara alla (futura) Federazione dei Comunisti Anarchici 
                  della cosiddetta “responsabilità collettiva” 
                  in contrapposizione al principio tuttora vigente tra tutti 
                  i gruppi libertari di tutte le tendenze (ad es. della Federazione 
                  Anarchica Italiana) che le decisioni prese a “maggioranza” 
                  coinvolgono solo coloro (gruppi o individualità) che 
                  le hanno sostenute e non implicano, necessariamente, l'accettazione 
                  da parte della minoranza che non le condivide. Questo concetto 
                  (una vera e propria rivoluzione “copernicana” 
                  che rovescia il principio malatestiano della responsabilità 
                  soggettiva) unitamente alla, rigida, divisione tra militanti 
                  e simpatizzanti operati dall'ORÀ sono state alla 
                  base dell'uscita – nel 1978 – dell'intero gruppo 
                  (o sezione come ci si definiva all'ora) di Molfetta (di cui 
                  facevo parte) e di numerose altre individualità che non 
                  hanno mai condiviso i postulati della, cosiddetta, “Piattaforma 
                  di Archinoff” che, in seno ai gruppi archinovisti, ha 
                  portato alla fondazione (nell'81 se non ricordo male) del Partito 
                  Anarchico Italiano (sigla PAI) un'aberrazione (dal punto di 
                  vista libertario) sia teorico che... lessicale. 
                  Dal punto di visto storico, poi, probabilmente perché 
                  gran parte della documentazione cartacea è andata perduta 
                  (i volantini, ad esempio, venivano ciclostilati manualmente 
                  a seconda delle esigenze contingenti... previa preventiva colletta 
                  collettiva per comprare la matrice, la risma, l'inchiostro) 
                  manca completamente l'apporto dei molfettesi la cui sede storica 
                  – situata in pieno centro storico di fronte alla Cattedrale 
                  con a fianco la Camera del Lavoro e la sede del PSI – 
                  è stata fino all'ultimo sempre aperta a tutti per ospitare 
                  ed organizzare tutte le genuine espressioni di lotta dal basso, 
                  autogestite ed auto organizzate. Questa sua “centralità” 
                  la espose inevitabilmente anche agli attacchi, violenti dello 
                  squadrismo fascista visto che - nei tumultuosi mesi che seguirono 
                  l'omicidio di Benedetto Petrone - subì anche un attentato 
                  incendiario. Un attentato che solo per fortuna non ebbe esiti 
                  infausti dal momento che in sede, in quel momento, erano presenti 
                  2 compagni (Onofrio e Chiara) che ancora oggi ricordo con affetto. 
                  E come non ricordare, poi, la robusta contestazione al Ministro 
                  Lattanzio che – reduce dalla “fuga in valigia” 
                  di Kappler – ebbe la faccia tosta di presentarsi a Molfetta 
                  per inaugurare la prima “Festa dell'Amicizia” democristiana. 
                  Al “nostro” fu semplicemente impedito di parlare 
                  e, per evidenziare ancor più i rapporti di forza esistenti 
                  in quel momento, quel magma composito che si autodefiniva “movimento” 
                  e nel quale gli anarchici erano parte integrante improvvisò 
                  anche un corteo che attraversò tutte le principali arterie 
                  della città. 
                  A dimostrazione che “quel pugno di anarchici” 
                  era un elemento naturale della rivolta sociale in atto perché 
                  non era composto da “alieni piovuti dall'alto“ 
                  che si mettevano alla testa del movimento ma era formato - in 
                  una sorta di “simbiosi sociale” - da studenti 
                  tra studenti, donne tra donne, lavoratori tra lavoratori, residenti 
                  di quartiere tra residenti. 
                  Al di là del vissuto esperienziale e delle scelte individuali 
                  operate da ciascuno – a partire dai primi anni '80 – 
                  la pubblicazione di questo, parzialissimo, studio su quello 
                  che fu il movimento libertario in Puglia negli anni '70 rappresenta 
                  indubbiamente uno stimolo di riflessione interessante per chi 
                  – senza settarismi o ambiguità – si propone 
                  di ricostruirlo o, più prosaicamente, di studiarlo. 
                   
                  Pasquale Piergiovanni 
                 
                   
                   
                    
                 Sulle 
                  tracce  
                  di Ugo Fedeli  
                 “Amo la lotta e la carta stampata”. Questa la 
                  citazione in esergo opportunamente scelta da Antonio Senta per 
                  il suo libro su Ugo Fedeli e l'anarchismo internazionale 
                  (1911-1933), edito da Zero in condotta (pagg. 273, € 
                  20,00) e intitolato A testa alta!. Nonostante abbia conosciuto 
                  per lunghi anni le asperità dell'esilio, le espulsioni 
                  e la clandestinità, Ugo Fedeli ha infatti costantemente 
                  accompagnato la propria militanza anarchica con una formidabile 
                  passione per la salvaguardia delle testimonianze scritte del 
                  movimento. 
                  Alla sua morte, tramite la moglie Clelia Premoli e lo studioso 
                  Arthur Lehning, la biblioteca e l'archivio personali sono stati 
                  acquisiti dall'Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis 
                  di Amsterdam, prestigioso istituto attivo fin dagli anni Trenta 
                  nella conservazione delle carte del movimento operaio e socialista 
                  internazionale. Il fondo archivistico non è rimasto inutilizzato, 
                  ma fino a tempi recenti si presentava privo di un inventario 
                  analitico. Nel 2006 l'istituto ha affidato la redazione di questo 
                  strumento di corredo ad Antonio Senta, che ha completato il 
                  lavoro nel 2008 rendendo un apprezzabile servizio a quanti vorranno 
                  consultare tale documentazione e utilizzandola egli stesso, 
                  come fonte primaria ma non unica, per ricerche storiche culminate 
                  nella stesura di questo volume. Scorrendone l'inventario (disponibile 
                  anche online sul sito http://socialhistory.org) 
                  si percepisce subito come gli Ugo Fedeli papers rappresentino 
                  una miniera di materiali sul movimento operaio internazionale, 
                  con una copertura cronologica che si estende per quasi cent'anni, 
                  dal 1869 al 1964. 
                  La ricerca proposta da Senta procede in un'alternanza di piani, 
                  dal particolare al generale e viceversa, da una storia di vita 
                  alla rete del movimento anarchico, nel quadro del movimento 
                  operaio del primo trentennio del Novecento. Per la chiarezza 
                  espositiva e per la sintesi storica che viene complessivamente 
                  delineata il libro si inserisce tra i contributi significativi 
                  e di alto livello della produzione storiografica attenta alle 
                  tematiche del conflitto sociale. In particolare è la 
                  storia dell'anarchismo a risaltare, una storia che come puntualizza 
                  l'autore è un intreccio di idee, di movimenti, di fatti 
                  e di persone, lungo un filo conduttore da cui si dipanano mille 
                  modi diversi d'intendere la teoria e l'azione, che nella loro 
                  complessità e disomogeneità mal si prestano a 
                  rassicuranti e univoche chiavi di lettura. 
                  La ricostruzione della biografia di Fedeli accosta storia politica 
                  ed economica, con calzanti incursioni nella storia sociale e 
                  nella teoria politica dell'anarchismo. Attraverso le tappe del 
                  suo percorso biografico (Milano, la Russia, Parigi e l'Europa, 
                  l'Uruguay) Senta ne rintraccia l'attività politica e 
                  pubblicistica, ma investiga anche l'evoluzione del suo anarchismo 
                  e ripercorre le difficoltà esistenziali di una vita in 
                  esilio. Non trascura inoltre di soffermarsi sul ruolo di Clelia 
                  Premoli, compagna di Ugo, complice nella vita e nelle lotte, 
                  nonostante abbia lasciato poche tracce documentarie com'è 
                  consuetudine in un attivismo politico, anche tra gli anarchici, 
                  tradizionalmente declinato al maschile. 
                  Viene poi rivalutato il lavoro storiografico di Fedeli rispetto 
                  a giudizi forse ingenerosi sulla sua carenza di scientificità. 
                  Se il difetto di quest'ultima è difficilmente negabile, 
                  va d'altra parte valutato sulla base di alcuni decisivi fattori: 
                  il carattere pionieristico delle sue ricerche, le notevoli difficoltà 
                  nel reperimento delle fonti, il disagio nello storicizzare avvenimenti 
                  recenti e spesso vissuti in prima persona ma, soprattutto, la 
                  preoccupazione di base che muove l'autore, ovvero, quasi una 
                  missione da adempiere, la necessità di tramandare alle 
                  future generazioni la memoria storica del movimento. Pertanto, 
                  il ruolo del militante, dell'archivista conservatore, dello 
                  storico e del bibliografo si fondono senza soluzione di continuità. 
                  Fedeli nasce a Milano nel 1898 (esattamente l'8 maggio, mentre 
                  i cannoni di Bava Beccaris mettono a tacere i tumulti popolari). 
                  Giovanissimo, si avvicina al movimento anarchico tra il 1910 
                  e il 1911, in occasione dei moti pro-Ferrer e contro la guerra 
                  di Libia, subendo il primo arresto all'età di quindici 
                  anni. Nell'ambiente milanese la sua formazione politica è 
                  fortemente influenzata dalle teorie dell'anarchismo individualista, 
                  che si vanno però a intrecciare e sovrapporre alla solidarietà 
                  di classe: “la militanza anarchica è per lui il 
                  mezzo attraverso cui trova sintesi una doppia emancipazione, 
                  sociale e individuale” (p. 55). Chiamato alle armi per 
                  la Grande guerra diserta e si rifugia in Svizzera, dove constata 
                  che le autorità elvetiche non lasciavano vita facile 
                  ai disertori politici, soprattutto se quest'ultimi perseveravano 
                  nelle loro attività di propaganda e agitazione. 
                  Rientra quindi a Milano per vivere tutti gli entusiasmi e le 
                  aspettative rivoluzionarie del Biennio rosso, fino al “fattaccio” 
                  del Diana. Una serie di attacchi e sabotaggi sono in quel periodo 
                  messi a segno dagli individualisti milanesi, nell'illusione 
                  di provocare una sollevazione di massa: “tutto un complesso 
                  di cose non ci permettevano di vedere la realtà non deformata 
                  dalla passione” (p.106), scriverà più tardi 
                  Fedeli. La febbre d'azione si spinge fino al gesto inconsulto: 
                  con l'intenzione di colpire il questore, giovani compagni compiono 
                  una strage attentando al caffè-teatro Diana. Quel “maledetto 
                  Diana” segna uno spartiacque nella vita di Fedeli che, 
                  pur estraneo all'attentato, è costretto a oltrepassare 
                  la frontiera con un mandato di cattura sulle spalle. 
                  Zurigo, Berlino e poi la Russia “patria della rivoluzione”, 
                  dove si consuma rapidamente la parabola da un'iniziale simpatia 
                  non aliena da diffidenze verso i bolscevichi alla totale disillusione 
                  di fronte alle repressioni del regime. Mentre va rivalutando 
                  in positivo il ruolo dell'organizzazione anarchica, nel 1923 
                  giunge a Parigi. Qui si ricongiunge con Clelia ed è in 
                  prima fila nelle reti di solidarietà antifascista e in 
                  tutte le iniziative politiche ed editoriali del movimento. Infine, 
                  nel 1929, Ugo e Clelia s'imbarcano alla volta di Montevideo 
                  dove di nuovo Fedeli è al centro delle attività 
                  del movimento anarchico, persevera nella raccolta dei materiali, 
                  nello studio e nell'attività pubblicistica fino al 1933, 
                  quando la polizia lo arresta e consegna alle autorità 
                  italiane. Si chiude così un capitolo nella vita di Fedeli, 
                  l'ultimo analizzato in questo libro, ed è sorprendente 
                  realizzare che, arrivati a questo punto, dopo averlo seguito 
                  in una lunga biografia mai quieta, Fedeli sia ancora poco più 
                  che trentenne. 
                  A testa alta! si conclude con un accurato apparato bibliografico: 
                  generale, di e su Fedeli. Le segnalazione dei suoi articoli, 
                  che si limitano a quelli effettivamente consultati dall'autore, 
                  sono oltre trecento. D'altra parte, come scrive lo stesso Fedeli 
                  a Pietro Ferrua nel 1959 “si può dire che abbia 
                  collaborato a tutti i giornali nostri che si pubblicano e si 
                  sono pubblicati in lingua italiana da quarant'anni a questa 
                  parte” (p. 234). 
                    
                  Luigi Balsamini 
                  
                    
                 Un 
                  gagè  
                  in un campo Rom  
                 Si è affacciato di recente, con timidezza, sul panorama 
                  editoriale italiano un piccolo libro che affronta la difficile 
                  tematica del rapporto tra rom e gagè. Vicini distanti. 
                  Cronache da via Idro (Ligera edizioni, collana Idee, Milano 
                  2012, pagg. 128, € 14,00) è una sorta di diario, 
                  una cronistoria apertamente partigiana della vita del campo 
                  comunale di via Idro, al limitare di via Padova, aperto nel 
                  1989 e ospitante circa 130 rom harvati. 
                  L'autore, Fabrizio Casavola, è un gagè e, prima 
                  ancora di essere un attivissimo blogger specializzato in cultura 
                  rom e sinta, è un comune cittadino che, per ragioni occasionali 
                  e personali, è entrato in contatto con questo microcosmo 
                  e non l'ha più abbandonato. Dalla sua esperienza, basata 
                  su una lunga e assidua frequentazione del campo e un dialogo 
                  diretto con i suoi abitanti è nato un blog (www.sivola.net/dblog/) 
                  e successivamente un libro, che della scrittura in rete conserva 
                  molte forme e stilemi. L'autore, che apprezza la peculiare bellezza 
                  della cultura orale, è anche consapevole di quanto quest'ultima 
                  non fornisca gli strumenti per fronteggiare una “società 
                  esterna molto più numerosa, organizzata e strutturata” 
                  – di qui la scelta di mettere per iscritto i frutti di 
                  anni di conoscenza reciproca, maturata “sul campo”. 
                  La struttura del lavoro è piuttosto eterogenea, non a 
                  caso il nome dell'autore è riportato con la dicitura 
                  “a cura di”, perché ospita interventi e contenuti 
                  provenienti da voci diverse: mediatrici culturali, insegnanti, 
                  giornalisti; nonché differenti forme testuali, dalla 
                  piccola fiaba al comunicato stampa fino alla lettera – 
                  ancora in attesa di risposta – spedita dagli abitanti 
                  di via Idro alla nuova giunta cittadina. Si tratta di una sorta 
                  di collage, tenuto insieme dal commento asciutto e allo stesso 
                  tempo appassionato di Casavola, che non a caso si autodefinisce 
                  un “collezionista di notizie”. 
                  La stessa scansione temporale degli avvenimenti non segue un 
                  lineare andamento cronologico ma procede attraverso rimandi 
                  di natura tematica: una scelta precisa che richiede al lettore 
                  uno sforzo in più per approssimarsi ad una dimensione 
                  del tempo più vicina a quella percepita dal popolo rom. 
                  Nei vari quadri tematici che si susseguono – infanzia, 
                  scuola, lavoro... – trovano quindi spazio, tra i ritagli 
                  di giornale e gli interventi più tecnici, anche frammenti 
                  dal taglio più intimista e poetico. 
                  Ne è un esempio il capitolo denominato “Spazio 
                  bambini” che offre due brevi storielle incentrate sul 
                  rapporto tra i rom e l'animale a cui forse più di tutti 
                  questo popolo è legato: il cavallo. Il primo è 
                  una favola della buona notte per i più piccoli, il secondo 
                  – un “raccontino per i più grandi” 
                  – attraverso una storia amara di evoluzioni urbanistiche 
                  e vecchi mestieri divenuti obsoleti, apre timidamente una riflessione 
                  niente affatto banale, auspicando un'accezione di cultura che 
                  non si limiti alla cosiddetta 'cultura alta' delle opere d'arte, 
                  o peggio, sia ricondotta, con uno sguardo di sufficienza dentro 
                  le griglie del folclore, ma tenga conto del lavoro dell'uomo 
                  e dei suoi riti quotidiani: “quando si parla di cultura 
                  e di possibilità di esprimersi, pensiamo alla musica, 
                  alla poesia, ma lo è anche una vita di lavoro passata 
                  ad allevare i cavalli”. 
                  Sicuramente personali sono anche l'apertura – una sorta 
                  di presentazione e dichiarazione di intenti – e l'epilogo 
                  del libro, che chiude il cerchio con il racconto della mattina 
                  del 1 gennaio 2012, in cui ha preso forma l'idea di scrivere 
                  questo resoconto: “è la storia di una sbronza mancata”, 
                  spiega con ironia Casavola durante le presentazioni del libro, 
                  “ve la racconto, così potete dire di averlo letto 
                  anche se non lo farete – lo so bene che in Italia ci sono 
                  più scrittori che lettori...”. E personale lo è 
                  il libro in genere: Casavola non è né uno studioso 
                  di antropologia né tanto meno un professionista del sociale; 
                  può essere considerato una sorta di testimone che parla 
                  solo di ciò che conosce direttamente e lo fa con umiltà 
                  ironica ma anche con intento militante, invitando al dialogo 
                  e alla conoscenza reciproca, da milanese fermamente convinto 
                  che “se Milano dovesse campare dei soli milanesi, sarebbe 
                  ancora uno sperduto villaggio celtico.”. 
                   
                  Laura Antonella Carli 
                  
                 
                  
                
                   
                      
                        Dove 
                          Milano muore 
                           
                          Laggiù in fondo, laggiù in fondo alla 
                          via 
                          Ci sono posti poetici a prescindere 
                          Altri lo diventano per qualche 
                          ragione personale 
                          Altri non lo sono e non lo saranno mai 
                          Ma laggiù, in fondo a via Padova la poesia 
                          c'è 
                          L'acqua della martesana scorre veloce, 
                          ma non troppo 
                          Insomma scorre 
                          E poi una anatra e un bambino rom 
                          Dove Milano, Sesto San Giovanni 
                          e Cologno Monzese si scontrano 
                          in quel punto Milano muore, o meglio vive. 
                         Federico 
                          Riccardo Chendi 
                        | 
                   
                 
                 
                   
                   
                    
                 La 
                  depressione post-parto 
                  delle donne (forzate) madonne  
                 Ho visto Maternity Blues, il bene dal male di Fabrizio 
                  Cattani all'arena di Faenza, la sera del 28 giugno. Era spiazzante 
                  ascoltare urla e trombette dalle case vicine, poi i clacson 
                  per strada, mentre scorrevano le immagini di un film assolutamente 
                  diverso da ogni altro, per il tema scelto e per la sensibilità 
                  del regista. 
                  A vederlo non eravamo poche e pochi a vederlo ma - ancor più 
                  del solito – è importante precisare il maschile 
                  e il femminile invece di rifugiarsi nell'ingannevole neutro. 
                  Quattro o cinque uomini per 50-60 donne: per il tema (l'infanticidio) 
                  e per la concomitanza con la partita di calcio, sport “maschio”? 
                  A mio avviso due bugie – che la maternità sia affare 
                  di femmine e gli sport roba virile – sia pure con un grande 
                  e convinto seguito. 
                  Dopo il film abbiamo – intendo noi 50/60 più 4/5 
                  – a lungo chiacchierato con il regista. Fuori cresceva 
                  “la festa” coprendo spesso le nostre parole. 
                  A me è sembrato uno dei film italiani più belli 
                  di sempre: per il coraggio, per la direzione delle attrici (e 
                  di due bravi attori), per il rifiuto degli effetti – e 
                  dei giudizi – facili. Dagli applausi, dalla gran voglia 
                  di parlare con il regista, mi è parso che quasi tutte 
                  le persone lì abbiano avuto la stessa impressione: di 
                  avere assistito a un evento eccezionale, sorprendente in tempi 
                  come questi (di ignoranza e di totale conformismo). 
                  È probabile che, anche se il cinema vi appassiona, non 
                  abbiate sentito parlare di «Maternity Blues». 
                  Gira poco, nonostante lo distribuisca Fandango. E i media ovviamente 
                  non possono/vogliono informare su un film che affronta un tema 
                  rimosso, ma soprattutto che evita di dare giudizi, che non colloca 
                  il bene tutto da una parte e il male tutto dall'altra. Prima 
                  di incontrare la pièce teatrale («From Medea» 
                  di Grazia Verasani che continua a girare nei teatri ma si può 
                  leggere anche nel libro pubblicato da Sironi) che lo ha ispirato, 
                  il regista era uno di quelli con le idee chiare; pensando di 
                  fare un film «ho voluto capire di più, incontrare 
                  alcune di queste donne». Le sue certezze sono sparite 
                  strada facendo. In modo sommesso ma profondo (è il suo 
                  stile nel parlare come nel far cinema) Fabrizio Cattani ha ricordato 
                  quanto sia pesante sulle madri, soprattutto nei Paesi cattolici, 
                  l'obbligo di essere madonne, sante per forza. Qualunque cosa 
                  succeda loro, quale sia la loro età e il contesto, molto 
                  spesso le concrete, fragili donne credute “madonne” 
                  restano sole: se la depressione post partum (che viene 
                  appunto definita maternity blues oppure baby blues) si protrae, 
                  se per mille motivi non reggono, se intorno a loro crolla tutto... 
                  si ritrovano senza aiuti, magari con vicino tante e tanti capaci 
                  solo di pontificare, a garantire che l'istinto della maternità 
                  risolverà ogni cosa, che “le creature” sono 
                  sempre e solo una benedizione. 
                  
                   
                  Ho rivolto tre domande a Fabrizio Cattani. Eccole con le sue 
                  risposte. 
                   
                  Dicevi a Faenza di avere certezze che si sono sgretolate. 
                  Come è accaduto? Quanto ha pesato il testo di Grazia 
                  Verasani e quanto gli incontri successivi con le donne? 
                  «Su questo tema anche io, come molti, mi limitavo al giudizio 
                  nei confronti di queste donne: non concepivo il fatto che una 
                  madre potesse arrivare a uccidere un figlio e quindi la condannavo 
                  a priori. Attraverso il testo di Grazia e poi nell'incontro 
                  con queste donne e soprattutto con il dottor Calogero che le 
                  cura da molti anni, questo mio senso di giudizio veniva sempre 
                  meno, lasciando spazio a una sensazione di pietas, quel sentimento 
                  che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si 
                  inizia a cercare di comprendere. Ho capito che spesso una donna 
                  arriva a tanto anche per un “concorso di colpa”, 
                  in situazioni familiari disastrose o per infanzie violente; 
                  ho capito che se la depressione post partum non viene curata 
                  può portare a una psicosi e quindi a gesti estremi». 
                   
                  È sempre l'Italia delle donne-madonne ma lasciate 
                  sole oppure qualcosa sta cambiando?  
                  «Purtroppo si fa ancora troppo poco per le donne, in generale. 
                  Nulla si fa a esempio contro la violenza nei loro confronti. 
                  Sono le istituzioni italiane che, nonostante più volte 
                  sollecitate, non hanno ancora firmato la “Convenzione 
                  Europea per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le 
                  donne” approvata l'anno scorso a Istanbul. Questo vale 
                  anche per la maternità: si accompagnano le madri, magari 
                  amorevolmente, fino al momento del parto per poi abbandonarle 
                  a loro stesse una volta partorito. Se alcune hanno un compagno 
                  che è presente o familiari che stanno loro vicino sono 
                  fortunate. Ma spesso accade che non abbiano nessuno e loro stesse 
                  si vergognano di ammettere che sono in difficoltà, di 
                  chiedere aiuto per la vergogna, che deriva appunto da una nostra 
                  cultura dove la madre deve essere perfetta. Ma fortunatamente 
                  stanno nascendo centri in Italia, ancora troppo pochi, che aiutano 
                  queste madri: mi vengono in mente Ca' Maman a Genova o Il Melograno 
                  ad Arezzo, dove psicologhe e psichiatre visitano gratuitamente 
                  a casa queste madri in difficoltà, aiutandole e sostenendole 
                  psicologicamente». 
                   
                  Cosa racconta e cosa tace il cinema italiano di oggi? Ti 
                  va di dirlo da regista e da spettatore-cittadino?  
                  «Se uno vuole fortunatamente ha la possibilità 
                  di raccontare in un film ciò che magari in altri tempi 
                  non era possibile. Magari ha difficoltà a trovare una 
                  produzione o una distribuzione visto che per lo più sono 
                  interessate solo al riscontro economico. Non è tanto 
                  l'impossibilità di parlare attraverso il cinema di temi 
                  tabù quanto di trovare chi, con te, ci crede. Certi argomenti 
                  purtroppo non hanno un grosso seguito di pubblico e di conseguenza 
                  i produttori non vogliono esporsi. Oggi chiedono solo commedie, 
                  divertimento e spensieratezza possibilmente al limite dell'idiozia. 
                  Adesso, dopo il successo del film francese “Quasi amici”, 
                  vorrebbero tutti la commedia divertente e commovente con sfondo 
                  sociale, ma solo perché hanno riscontrato che ha avuto 
                  un grande successo di botteghino. Mi auguro che i nostri giovani 
                  autori, perseguano invece ciò in cui credono, al di là 
                  delle leggi di mercato. È l'unico modo per fare un cinema 
                  di qualità in Italia». 
                  
                  Daniele Barbieri 
                 Se volete sapere di più 
                  andate sul sito cioè http://www.maternityblues.it/film 
                  che indica anche le prossime proiezioni e i dibattiti con il 
                  regista. È importante che un film così circoli, 
                  sia discusso. Dà speranza un film così. 
                  
                   
                    
                Intervista a Felice D'Agostino 
                  Fare film (e politica) in Calabria 
                 Fanno un cinema radicalmente politico, autarchico (e anarchico). 
                  Con materiali d'archivio e gente comune, girano nella propria 
                  regione (la Calabria) e in estrema povertà docu-film 
                  che, cozzando contro il muro dei casi irrisolti della storia 
                  d'Italia, codificano una poetica che chiede a chi guarda lo 
                  sforzo di interpretare. Felice D'Agostino e Arturo Lavorato 
                  sono cugini e al momento hanno all'attivo un pugno di opere, 
                  tra cui “Il canto dei nuovi emigranti” (2005) e 
                  “In attesa dell'avvento” (2011). 
                  Grazie al primo, un omaggio al conterraneo poeta Franco Costabile, 
                  sono stati premiati al Festival di Torino e Bellaria, mentre 
                  con il secondo, firmando un breve e corrosivo trattato sulla 
                  retorica del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, si sono 
                  aggiudicati lo scorso anno al Festival di Venezia il primo premio 
                  nella sezione cortometraggi. Del loro lavoro, della loro ricerca 
                  documentaristica sulla Calabria e il Meridione e di quella tensione 
                  artistica e politica che vuol essere pure rilancio del conflitto 
                  sociale, abbiamo parlato con Felice D'Agostino. 
                   
                  Quando è iniziato il sodalizio cinematografico D'Agostino-Lavorato? 
                  Io ed Arturo è da un bel po' di anni che facciamo cinema 
                  insieme, entrambi autodidatti abbiamo iniziato ad appropriarci 
                  del mezzo audiovisivo lavorando per il cinema e la televisione. 
                  Io vengo da una passione prematura per la fotografia, mentre 
                  Arturo ha coltivato un impegno politico negli anni dell'università, 
                  creando pure una cooperativa di produzione di documentari. La 
                  molla di avvicinamento all'audiovisivo è stata (e rimane 
                  ancora oggi) la necessità di raccontarci come individui 
                  e come calabresi. Se non ci fossimo imbattuti in questo linguaggio 
                  sicuramente avremmo cercato in qualche modo di cantare la nostra 
                  terra con altri strumenti. 
                   
                  “Il canto dei nuovi emigranti” e “Prima 
                  dell'avvento” sono i film che vi hanno fatto conoscere 
                  a livello nazionale, ma prima ci sono state altre opere… 
                  Insieme ad Angelo Maggio, fotografo e animatore culturale calabrese, 
                  per anni abbiamo portato avanti un progetto di documentazione 
                  audiovisiva delle feste popolari calabresi. Questa è 
                  stata la nostra vera “palestra cinema”. E mentre 
                  archiviavamo, abbiamo realizzato un paio di documentari etnografici 
                  che sono stati proiettati in ambienti accademici. 
                   
                  Le vostre due opere più importanti sono state molto 
                  apprezzate. Oltre che per rassegne e festival, dove hanno circuitato? 
                  “Il canto dei nuovi emigranti” e “In attesa 
                  dell'avvento” sono stati proiettati durante molte iniziative 
                  politiche. Non affermo niente di nuovo se dico delle reali carenze 
                  distributive presenti nel nostro paese. Se poi si pensa che 
                  registi come Tonino De Bernardi e Fabrizio Ferraro trovano difficoltà 
                  a far entrare i loro film in sala, non credo che ci si debba 
                  stupirsi più di tanto se i nostri film gravitano solo 
                  intorno a festival e rassegne. Ora, possa piacere o meno, questi 
                  contenitori sono l'unico canale alternativo per vedere un certo 
                  tipo di cinema. 
                   
                  In questo momento a cosa state lavorando? 
                  Stiamo preparando un lungometraggio di cui “In attesa 
                  dell'avvento” costituisce un piccolo studio iniziale. 
                  Un film sull'Unità… un film contro il Risorgimento: 
                  vogliamo far vedere l'Unità d'Italia dalla parte delle 
                  periferie più lontane del Regno, raccontare come si è 
                  generato un ulteriore processo di colonizzazione del Meridione. 
                   
                  Verso quali registi e cinematografie si rivolge in particolare 
                  la vostra attenzione? 
                  Tra i nostri “sguardi preferiti” ci sono sicuramente 
                  Godard, Straub-Huillet e Rocha, ma anche Tarkovskij, Anghelopulos, 
                  Bela Tarr, De Oliveira, Herzok, Rouch, Jarman, Marker, Bresson. 
                  Insomma, siamo attratti da un certo cinema autoriale e d'impegno. 
                   
                  Fate un cinema politico, ma di là della macchina cinema 
                  come manifestate la militanza politica e civile? 
                  Il nostro cinema è un prolungamento del nostro fare politica 
                  in Calabria. Raccontare l'emigrazione meridionale, ricercare 
                  una lingua che ci aiutasse contemporaneamente ad esprimerci 
                  e a riconoscerci comunità ci ha portato a confrontarci 
                  con la storia. E da qui che siamo stati sollecitati altresì 
                  a sostenere in Calabria battaglie contro discutibili mega-investimenti 
                  come l'inceneritore di Gioia Tauro, la Turbogas di Rizziconi 
                  e il Ponte sullo stretto. Da un anno e mezzo io e Arturo abbiamo 
                  contribuito alla nascita e alla crescita di una sorta di consorzio/movimento, 
                  Equosud, che agevoli i piccoli produttori della nostra terra 
                  a bypassare la grande distribuzione, vero cappio al collo della 
                  nostra economia agricola e causa di molte tensioni, come quella 
                  che sfociò nella rivolta di Rosarno. Inoltre, per la 
                  vicinanza nei confronti di chi ha sempre lottato per la nostra 
                  terra, abbiamo voluto dedicare “In attesa dell'avvento” 
                  all'economista marxista e meridionalista Nicola Zitara e a Ciccio 
                  Svelo, avvocato di movimento e compagno di tante battaglie, 
                  purtroppo prematuramente scomparso lo scorso anno. 
                   
                  Dei partiti e dell'attuale governo cosa pensate? 
                  Noi siamo comunisti libertari. E come tali non abbiamo mai creduto 
                  alla forma partito e nemmeno nel voto come espressione di partecipazione 
                  alla vita politica. Crediamo che la politica si faccia nelle 
                  strade, nelle piazze e non nelle sedi partito. A proposito di 
                  forma di partito, voglio ricordare che su questo tema Weil ha 
                  scritto un bellissimo pamphlet (Manifesto per la soppressione 
                  dei partiti politici, ndr) consiglio a tanti di leggere. 
                   
                  Mimmo Mastrangelo 
                 
                   
                    
                 Tra 
                  i minatori 
                  disoccupati  
                 Wigan Pier, cittadina mineraria dell'Inghilterra settentrionale, 
                  costituisce il punto di partenza e il simbolo dell'indagine 
                  politica e sociologica condotta da George Orwell nelle pagine 
                  di questo libro-documento pubblicato nel marzo del 1937; il 
                  viaggio che l'autore compie nell'inferno delle miniere rappresenta, 
                  infatti, un tentativo di entrare nel mondo della classe operaia 
                  per scoprirne sofferenze e valori. Opera commovente, tragica 
                  e attualissima. 
                   
                  Potrete leggere passaggi come questi:
                   
                  -  (...) in breve il treno raggiunse l'aperta campagna, 
                  e ciò parve strano, quasi innaturale, quasi che l'aperta 
                  campagna fosse stata una specie di parco; ché nelle zone 
                  industriali si ha sempre la sensazione precisa che fumo e sporcizia 
                  debbano continuare per sempre e nessuna parte della superficie 
                  della terra debba sfuggire loro.
                  
 -  (...) tutte le specie di lavori manuali ci tengono 
                  in vita e noi dimentichiamo che esistono. Più di ogni 
                  altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo 
                  del lavoratore manuale.
                  
 -  Questa faccenda di meschini disagi e mancanze di decoro, 
                  di essere tenuti ad aspettare in piedi, di dover fare ogni cosa 
                  secondo il comodo altrui è implicita nella vita della 
                  classe operaia. Mille influenze costringono di continuo l'operaio 
                  in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l'azione altrui. 
                  Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è 
                  fermamente convinto che “quelli” non gli permetteranno 
                  mai di fare questo, quello o quell'altro.
                  
 -  (...) la gente ha cessato di scalciare sotto 
                  le frustate.
                  
 -  (...) lo sviluppo postbellico di generi voluttuari 
                  a buon mercato è stato una fortuna per i nostri governanti. 
                  È molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze 
                  di seta, salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici (...), 
                  il cinematografo, la radio, il tè forte e i Football 
                  Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così 
                  che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è 
                  un'astuta manovra della classe dirigente (...) per tenere 
                  a bada i disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe 
                  dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza. La cosa 
                  è avvenuta, ma attraverso un processo inconscio: l'interazione 
                  affatto naturale tra la necessità da parte dell'industriale 
                  di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata, 
                  di palliativi a basso prezzo.
                  
 -  (...) meno quattrini si hanno e meno ci si sente 
                  disposti a spenderli in cibo sano. Un milionario può 
                  apprezzare a colazione, la mattina, succo d'arancia e biscotti 
                  leggeri; un disoccupato no. 
                  
 -  (...) Quando si è disoccupati, quando 
                  cioè non si mangia abbastanza, e si è tormentati, 
                  annoiati e depressi, non si ha voglia di mangiare tediosi cibi 
                  sani. Si ha voglia di qualcosa un po' “stuzzicante”. 
                  C'è sempre qualche cibo appetitoso e a buon mercato che 
                  vi tenta.
                  
 -  In una casa della classe operaia – non penso 
                  per il momento a case di operai disoccupati, ma ad altre relativamente 
                  prospere – si respira un'atmosfera calda, onesta, profondamente 
                  umana, che non è molto facile trovare altrove.
                  
 -  (...) l'orribile arma della disoccupazione ha 
                  sottomesso l'operaio.
                  
 -  (...) erano stati in guerra ed erano ritornati 
                  a casa col tipico atteggiamento del militare nei riguardi della 
                  vita, atteggiamento che in modo fondamentale è, nonostante 
                  la disciplina, da fuorilegge.
                  
 -  (...) il peggior criminale che abbia mai camminato 
                  su questa terra è moralmente superiore al giudice che 
                  lo condanna alla forca.
                  
 -  È solo quando s'incontra qualcuno di cultura 
                  ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire 
                  quali siano realmente le nostre opinioni.
                  
 -  (...) l'uomo occidentale inventa macchine con 
                  la stessa naturalezza con cui un polinesiano nuota nelle acque 
                  della sua isola. Affidate a qualunque individuo dell'occidente 
                  un lavoro manuale e subito comincerà a ideare una macchina 
                  che faccia quel lavoro per lui; dategli una macchina e lui penserà 
                  a vari modi di migliorarla.
                  
 -  È qualcosa peggio che inutile scartare il fascismo 
                  come “sadismo collettivo” o “di massa”, 
                  o qualche altra facile etichetta del genere. Se sostenete che 
                  è soltanto un'aberrazione che in breve tempo si esaurirà 
                  da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento 
                  in cui qualcuno vi darà una manganellata sulla testa.
                  
 -  Chiunque conosce il significato della povertà, 
                  chiunque nutra un odio genuino per la tirannide e la guerra, 
                  è, potenzialmente, dalla parte dei socialisti.
                  
 -  Ogni impiegato di banca che trema all'idea del licenziamento, 
                  ogni negoziante che vacilla sull'orlo della bancarotta sono 
                  essenzialmente nella stessa posizione. Essi rappresentano il 
                  ceto medio che sta sprofondando e molti di loro si aggrappano 
                  alla loro signorilità con l'idea che essa possa mantenerli 
                  a galla. 
                  
 -  (...) gli interessi di tutti gli sfruttati sono 
                  gli stessi.
                  
  
                  Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Sappiate 
                  che questa esperienza di Orwell tra i minatori disoccupati non 
                  si esaurisce in una testimonianza viva e drammatica sulla crisi 
                  degli anni Trenta del Novecento, ma si propone soprattutto come 
                  uno studio approfondito del complesso problema dei rapporti 
                  fra socialismo e civiltà industriale.
                   
                  Marco Sommariva 
                  marco.sommariva1@tin.it 
                 
                   
                    
                I treni (e la nave) 
                  per Reggio Calabria 
                 Anno esplosivo, il 1972. Letteralmente. Cominciamo da Milano. 
                  11 marzo: Il Comitato di lotta contro la strage di Stato 
                  indice una manifestazione contro un raduno della “Maggioranza 
                  silenziosa”, la “buona” borghesia milanese 
                  più fascista che democristiana. La città è 
                  in stato d'assedio, la tensione alle stelle; furibondi, scoppiano 
                  di scontri tra servizi d'ordine della sinistra extraparlamentare 
                  e polizia e carabinieri. Candelotti e proiettili di pistola 
                  sono sparati ad altezza d'uomo; muore un pensionato, Giuseppe 
                  Tavecchio, e per questo crimine saranno rinviati a giudizio 
                  un ispettore e alcuni agenti di polizia. 110 arrestati, tra 
                  cui la sottoscritta, che sarà scarcerata tre mesi dopo, 
                  alla chiusura dell'istruttoria. Il 17 marzo, sui tralicci di 
                  Segrate, salta per aria l'editore GianGiacomo Feltrinelli. Il 
                  5 maggio il compagno Franco Serantini viene barbaramente ucciso 
                  dalla polizia sul Lungarno Gambacorti, a Pisa. Il 17 dello stesso 
                  mese viene assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi. 
                  Tutto il carcere brinda all'evento; nonostante da anni si tenti 
                  di farne un eroe buono, anche i detenuti comuni lo conoscevano 
                  come un duro, un picchiatore. Nel corso dell'anno centinaia 
                  di attentati a sedi sindacali e di partiti e associazioni di 
                  sinistra, fino a quelle sui treni che dal Centro Nord portavano 
                  gli operai e gli edili, e lavoratori di altri settori, a Reggio 
                  Calabria, il 22 ottobre, pochi giorni prima del cinquantesimo 
                  anniversario della marcia su Roma. 
                  Durante la mia detenzione scoppia una rivolta nel carcere di 
                  San Vittore, che si estende anche al braccio femminile; la repressione 
                  è violentissima, non ho mai avuto tanta paura in vita 
                  mia: nessuna possibilità di sottrarsi alle botte, ai 
                  vetri in frantumi che diventavano proiettili sotto i getti degli 
                  idranti, e colpivano anche le donne e i bambini del nido. Persino 
                  alcune suore sentirono sulla testa e sulle spalle i manganelli 
                  dei poliziotti. 
                  Per tutto l'anno si susseguono senza soluzione di continuità 
                  scioperi, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, scuole, 
                  case. L'anno si conclude con la scarcerazione di Pietro Valpreda 
                  e dei compagni anarchici, mentre sotto i bombardamenti USA su 
                  Hanoi muoiono 2000 civili vietnamiti. In tutto il mondo il 1972 
                  fu un anno esplosivo. 
                  I fatti che voglio ricordare hanno origine nel 1970, quando 
                  furono indette le prime elezioni per la costituzione dei Consigli 
                  delle Regioni a statuto ordinario, la più importante 
                  riforma istituzionale italiana dopo il passaggio dalla monarchia 
                  alla repubblica nel 1946. La riforma era stata bloccata per 
                  oltre vent'anni dai partiti di centro destra, DC in testa, che 
                  temevano il costituirsi di “regioni rosse”, e soprattutto 
                  di perdere il controllo, e i relativi privilegi e affari, che 
                  il potere centralizzato garantiva. 
                  In Calabria si pose subito il problema del capoluogo, conteso 
                  tra le città di Catanzaro e Reggio. Quando fu chiaro 
                  che il governo propendeva per la prima, a Reggio esplose la 
                  rivolta: era il 14 luglio (presa della Bastiglia!) 1970, e già 
                  il giorno successivo ci fu il primo morto, Antonio Labate. I 
                  partiti di sinistra presero subito le distanze, e le sedi di 
                  PCI, PSI e Camera del Lavoro furono assaltate da squadristi 
                  fascisti, infiltratisi nella rivolta, le cui origini in realtà 
                  erano nella miseria e nella disoccupazione, che costrinsero 
                  milioni di lavoratori ad emigrare, dopo la lunga stagione dell'occupazione 
                  delle terre e l'inutile attesa della riforma agraria: era dai 
                  tempi di Garibaldi che l'aspettavano! Il 22 luglio il Treno 
                  del sole Palermo Torino deraglia a Gioia Tauro a causa delle 
                  bombe poste sui binari della ferrovia: 6 morti e 54 feriti il 
                  bilancio delle vittime. Il 3 agosto nasce, su iniziativa del 
                  sindaco DC di Reggio e del sindacalista della CISNAL Ciccio 
                  Franco, che al grido del famigerato “boia chi molla” 
                  cerca di capeggiare la rivolta, il Comitato per Reggio capoluogo. 
                  Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, noto golpista 
                  e tessitore di trame nere, cerca di tenere un comizio a Villa 
                  San Giovanni, vietato però dalla questura. Il 17 settembre 
                  Ciccio Franco e alcuni suoi compari vengono arrestati per l'omicidio 
                  di un autista di autobus (alla fine i morti furono sei). Il 
                  26 dello stesso mese muoiono in un misterioso incidente sull'autostrada 
                  cinque giovani, Gli anarchici della Baracca (un quartiere 
                  di Reggio), i quali stavano portando a Roma dei documenti comprovanti 
                  le infiltrazioni fasciste e relativi mandanti nella rivolta. 
                  Il governo invia l'esercito a controllare la ferrovia Salerno 
                  Reggio Calabria, ma col nuovo anno una manifestazione del Comitato, 
                  cui partecipano 20.000 persone, e l'occupazione del quartiere 
                  Sbarre, inducono il ministro dell'interno Restivo a sospendere 
                  le garanzie costituzionali, fino alla fine dell'anno (1971). 
                  Il presidente del Consiglio Colombo si barcamena, promettendo 
                  in TV che Reggio sarà la sede del Consiglio regionale 
                  (Catanzaro della Giunta) e soprattutto la creazione del V polo 
                  siderurgico IRI, che occuperà 7500 lavoratori. Almirante 
                  soffia ancora sul fuoco, e tiene un comizio, rivendicando il 
                  capoluogo per Reggio; ma restano solo le braci, che piano piano 
                  si spengono. 
                
                   
                    |   | 
                   
                  
                    La 
                        cantautrice Giovanna Marini 
                        (foto di Carmelo Giordano)  | 
                   
                 
                
                  Dal 20 al 22 ottobre del 1972 i sindacati confederali, che hanno 
                  molto da farsi perdonare, indicono a Reggio una Conferenza sul 
                  Mezzogiorno; la città è in stato d'assedio, come 
                  ai massimi livelli della rivolta. Per il giorno della chiusura, 
                  viene organizzata una manifestazione di solidarietà tra 
                  lavoratori del Centro Nord e del Sud. Nella notte tra il 21 
                  e il 22 ottobre vengono poste diverse bombe lungo la ferrovia 
                  che porta i manifestanti a Reggio; a Roma i treni restano in 
                  attesa delle ore prima di poter partire. La tensione è 
                  altissima e la paura tanta: chi ha messo le bombe sta cercando 
                  la strage. Anche molti pullman vengono bloccati alle porte della 
                  città, dove i fascisti hanno organizzato una contromanifestazione. 
                  Sembra che la manifestazione sindacale non possa partire, ma 
                  la forza di volontà vince sulla paura e, tra i sassi 
                  e gli insulti, il corteo riesce a muoversi; quando a pomeriggio 
                  inoltrato si scioglie, arrivano ancora operai che erano rimasti 
                  bloccati lungo il percorso; da Genova arrivò persino 
                  una nave coi lavoratori dell'Ansaldo. 
                  Il viaggio da Roma a Reggio, con la sua drammaticità, 
                  le paure, ma anche la voglia di lottare e la gioia e l'orgoglio 
                  di avercela fatta, sono raccontati quasi in cronaca diretta, 
                  con voce nitida ed emozionata da Giovanna Marini, che vi partecipò 
                  personalmente, ne I treni per Reggio Calabria, la sua 
                  canzone più bella, ex aequo con il Lamento per la 
                  morte di Pasolini. 
                  Nonostante il tentativo di appropriarsene delle destre clerico 
                  fasciste, favorito dall'astensionismo e dalle diverse letture 
                  dei fatti da parte delle sinistre, quella di Reggio fu la più 
                  grande rivolta sociale dell'Italia repubblicana, e la richiesta 
                  di lavoro e giustizia sociale ne furono l'elemento centrale; 
                  ma, come sempre, la risposta furono le bombe fasciste, un nuovo 
                  anello della strategia della tensione. Dopo quarant'anni il 
                  Sud è, se possibile, ancora più abbandonato a 
                  se stesso e dimenticato. Di tutti i manuali di storia che mi 
                  sono capitati tra le mani (tanti) nessuno la menziona. Un'omissione 
                  colpevole e offensiva, ma purtroppo solo una delle tante che 
                  riguardano la storia di lotte e il tributo di sangue di questo 
                  nostro popolo, che Gramsci definì “grande e terribile”. 
                   
                  Sandra D'Alessandro 
                 
                   
                    
                I finanziatori 
                  del fascismo 
                  Chi 
                  ha finanziato il primo movimento fascista? Un elenco completo, 
                  inedito, accurato e rigoroso, di oltre tremila finanziatori 
                  del primo fascismo è stato finalmente reso noto dallo 
                  studioso salernitano Gerardo Padulo nell'opera I finanziatori 
                  del fascismo, pubblicato nel primo quaderno Le carte 
                  e la storia della Società italiana di storia delle 
                  Istituzioni curato dalla casa editrice Nuova Immagine di Siena 
                  nel 2010 (pag. 112, €. 10,00, da richiedere al n. 0577.42625 
                  email: nuovaimmagineeditrice@tin.it). 
                  Un lungo elenco di nomi e cifre che comprende banche, industriali, 
                  agrari, principi, conti, marchesi, baroni, nobildonne, avvocati, 
                  notai, editori, massoni, geometri, cavalieri, bottegai, editori, 
                  armatori, imprenditori, officine, ingegneri, medici, farmacisti, 
                  albergatori, ecc. e che copre il periodo che va dal 1 ottobre 
                  1921 al 3 marzo 1925. Accanto ad ogni nome l'indirizzo, la data 
                  e la somma versata. Le offerte vengono da circa duecentocinquanta 
                  località, comprensive di trentuno capoluoghi di provincia 
                  come Alessandria, Ancona, Ascoli Piceno, Bari, Benevento, Bergamo, 
                  Brescia, Caltanissetta, Catania, Como, Firenze, Genova, L'Aquila, 
                  Macerata, Messina, Milano, Napoli, Novara, Padova, Palermo, 
                  Pavia, Pesaro-Urbino, Porto Maurizio (l'odierna Savona), Roma, 
                  Siena, Siracusa, Sondrio, Teramo, Torino, Trapani e Verona. 
                  L'elenco non comprende oblazioni provenienti dalle provincie 
                  di Bologna, Forlì, Salerno, Cremona, Ferrara, Trieste, 
                  ecc. ed è improbabile che nessun contributo sia stato 
                  dato dagli uomini di queste provincie, alcune delle quali hanno 
                  espresso un fascismo e uno squadrismo violento e robusto. Per 
                  la verità anche Renzo De Felice aveva parlato dei finanziatori, 
                  senza però pubblicarne l'elenco, che è conservato 
                  all'Archivio Centrale dello Stato nella busta 47 del fondo della 
                  Mostra della Rivoluzione fascista. E' un notevole documento 
                  su una delle prime forme di finanziamento occulto della politica 
                  italiana. Sono più di cinquecento carte, manoscritte 
                  e dattiloscritte, raccolte in cinque fascicoli e non è 
                  da escludere che l'elenco è mutilato, nel senso che ci 
                  furono tanti altri finanziatori del fascismo, che l'autore – 
                  recuperando una felice intuizione contenuta nel titolo di un 
                  libro dell'anarchico Luigi Fabbri, pubblicato nel 1922 dalla 
                  Casa editrice Cappelli di Bologna e recentemente riproposto 
                  da Zero in condotta di Milano nel 2009 – definisce «contro-rivoluzione 
                  preventiva». Viene inoltre pubblicato l'elenco degli oblatori 
                  dal 13 giugno 1919 al 9 gennaio 1920, che è in ordine 
                  cronologico e telegrafico, nel senso che vi sono solo i nomi 
                  ma non gli indirizzi e si tratta di una lista di circa 780 oblatori 
                  completamente sconosciuta e ritrovata all'ultimo momento dall'autore, 
                  il che conferma che ulteriori ricerche potrebbero fornire altri 
                  elenchi. 
                  Le offerte oscillano tra le duecentomila lire del Credito italiano 
                  e le cinque lire. A volte gli oblatori non si accontentano di 
                  aver dato un solo contributo e mettono nuovamente mano al portafoglio 
                  per finanziare il movimento e la violenza fascista. Per dare 
                  un valore alle oblazioni bisogna ricordare che il valore di 
                  mille lire del 1924 corrisponde ad un valore attuale di 900 
                  euro. 
                  L'universo dei finanziatori è variegato: vi risaltano 
                  tutti i nomi dei «padroni del vapore». Ci sono quasi 
                  tutti quelli dell'epoca. Tra i sovvenzionatori i Fratelli Feltrinelli 
                  e Carlo Feltrinelli che insieme danno ben ventisettimilacinquecento 
                  lire; Lorenzo Allievi, Max Bondi, Giacinto Motta e Giovanni 
                  Agnelli. Padulo spiega: «Allievi e Motta erano uomini 
                  forti e rappresentativi dell'industria elettrica. Bondi era 
                  notissimo tra i “pescicani“: alla testa dell'Ilva 
                  era stato protagonista di mille imprese durante la guerra». 
                  Se all'epoca si fossero conosciuti questi finanziamenti «sarebbe 
                  stato possibile ai fascisti e ai loro estimatori sostenere che 
                  il fascismo era antisocialista quanto anticapitalista?» 
                  si chiede nel saggio introduttivo all'elenco. A ragione Gerardo 
                  Padulo sottolinea e commenta che «generalmente, chi la 
                  mano destra impegnata a ricevere denaro non alza la sinistra 
                  per minacciare il donatore» e difatti le squadracce fasciste 
                  danneggiarono sempre ed esclusivamente Camere del lavoro, Cooperative, 
                  Leghe di resistenza, giornali, sedi dei partiti popolari, circoli 
                  popolari, giammai una direzione aziendale o una struttura padronale. 
                  Inoltre nottetempo le squadracce picchiano i contadini e gli 
                  operai, devastandone le abitazioni, ma mai i padroni. Ribadisce 
                  che la grande industria non ebbe alcun timore delle proclamate 
                  volontà rivoluzionaria dei fasci e dal 1919 finanziò 
                  tranquillamente Mussolini e il movimento fascista. Il ministero 
                  dell'Interno sapeva di questi contributi, molti prima del 1922, 
                  e tacque. 
                  Infine la ricerca di Gerardo Padulo dà conto del ruolo 
                  della «scuola quadri» che il fascismo assegnò, 
                  dopo la marcia su Roma, alla casa editrice, «Imperia» 
                  di Milano, la prima casa editrice del PNF, voluta da Dino Grandi 
                  nell'ottobre 1922 per formare la classe dirigente del partito 
                  e ampiamente sovvenzionata dalla massoneria, che, «con 
                  forti capitali uomini della massoneria; entrano e governano, 
                  costituendo la maggioranza del consiglio di amministrazione». 
                  La massoneria poi cercò di contrastare il fascismo a 
                  partire dal 1925. 
                   
                  Giuseppe Galzerano 
                
                   
                      
                         Ricordando 
                          Misiano 
                           
                          Si chiamava Misiano Barbieri, ma con quel nome originale 
                          per noi è sempre stato Misiano e basta: Misiano 
                          dell'Infoshop Mag6, di Reggio Emilia. Il solito “brutto 
                          male“ se lo è portato via poco più 
                          che cinquantenne, nel bel mezzo di questa estate torrida. 
                          E tra i nostri compagni e amici della Mutua AutoGestione, 
                          Mag6, e in particolare dell'Infoshop di via Vincenzi, 
                          ora Misiano non c'è più. Lui che una ventina 
                          di anni fa aveva contribuito a fondare questo bel centro 
                          di “smistamento“ di materiali alternativi, 
                          ecologia, diritti, zingari, lotte e tanti altri temi 
                          “giusti“: e anche l'anarchia. 
                          A Renato, Matthias, Giovanna, Romano, Fabio e a tutte/i 
                          gli altri del “suo“ giro reggiano e non 
                          solo, un abbraccio fraterno da noi di “A”, 
                          di Elèuthera, del Centro Studi Libertari/Archivio 
                          “Giuseppe Pinelli”. 
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