migranti  
                 
                Incroci 
                  meticci  
                  Intervista al collettivo 
                Cross-point  
                di Andrea Staid  
                   
                  Dal diritto alla casa e alla salute, alla lotta al precariato: 
                l'esperienza di un collettivo bresciano. 
                  
                   
                  Negli ultimi anni Brescia si 
                  è rivelata una città attiva nella lotta per i 
                  diritti, in particolare per quanto riguarda la questione dei 
                  migranti. Dopo l'esperienza del presidio della gru nel 2010, 
                  sono nate e si sono potenziate numerose iniziative; tra queste 
                  il progetto Cross-point: donne e uomini, migranti e non che 
                  attraverso cineforum, presentazioni di libri e atipici tornei 
                  di calcetto cercano di diffondere un'idea di cultura “meticcia”, 
                  viva e contaminata, in stretta sinergia con il territorio bresciano 
                  e le molteplici realtà che lo abitano. 
                   
                  Come e da dove nasce il progetto Cross-point? 
                  Cross-point è nato da un'elaborazione dell'esperienza 
                  della gru, o meglio nei lunghi mesi della lotta contro la sanatoria-truffa, 
                  partita da un gruppo di migranti sostenuto da differenti realtà 
                  del movimento bresciano, a cui molte/i di noi fanno riferimento, 
                  tra cui il centro sociale Magazzino 47 e l'associazione Diritti 
                  per tutti. 
                  La mobilitazione per i permessi di soggiorno prese il via a 
                  settembre 2010 con un presidio permanente sotto la prefettura 
                  che dopo un mese sfociò nell'occupazione della gru; la 
                  protesta continuò con differenti presidi permanenti - 
                  dai sagrati delle chiese alle piazze - di pochi o più 
                  giorni, che proseguirono fino all'estate 2011, quando una circolare 
                  del Ministero diede la possibilità, a chi era stato denunciato 
                  per clandestinità, di ottenere il permesso di soggiorno. 
                  Era la prima parziale vittoria. 
                  L'idea di Cross-point nasce dopo questa fase, in autunno, quando 
                  eravamo calde e caldi di un anno intenso di percorso comune. 
                  Brescia è sempre stata una città molto attiva 
                  nelle lotte dei migranti, a cui molte/i di noi avevano partecipato. 
                  Nel passato queste lotte avevano portato dei risultati più 
                  espliciti e concreti in tempi relativamente più brevi. 
                  La mobilitazione contro la sanatoria-truffa, invece, ha avuto 
                  un'evoluzione ben differente, si è scontrata con il calcolo 
                  cinico di un governo e l'ostinazione cieca di un'amministrazione 
                  locale assolutamente razzista, e perciò si è sviluppata 
                  in un tempo più ampio. Questo ci ha dato modo, da una 
                  parte di vedere come determinati meccanismi e schemi non funzionassero 
                  più, e dall'altra di constatare come l'agire insieme 
                  avesse portato a delle trasformazioni che in sé erano 
                  dei risultati importanti, frutto di un costante confronto nato 
                  dall'incrocio delle differenti esperienze. 
                  Cross-point - l'incrocio - nasce per esprimere le potenzialità 
                  di questi incontri/scontri e delle mescolanze che ne possono 
                  derivare. 
                  L'incrocio è la nostra immagine. Ad un incrocio ci si 
                  può fermare, tirare dritti, cambiare direzione, ci si 
                  può scontrare o incontrare... Qualunque sia la scelta, 
                  rimane un'opportunità. 
                   
                  Da quali incroci nasce? È importante per il vostro 
                  gruppo l'esperienza della gru? 
                  L'esperienza della gru, come dicevamo, è centrale. Sotto 
                  la gru si sono incrociati diversi soggetti, collettivi, associazioni, 
                  gruppi. Dall'abitante del quartiere al militante antirazzista, 
                  dalle persone più religiose agli atei più convinti, 
                  dal migrante in Italia da poco tempo a quello di seconda generazione, 
                  dal turbante sikh alla cresta-punk, dalle minigonne allo 
                  chador... donne e uomini di diverse età e provenienza 
                  (politica, religiosa, geografica) che per diversi giorni hanno 
                  ridisegnato le mappe sociali della città, producendo 
                  anche forme non scontate di soggettivazione individuale e collettiva. 
                   
                  Cosa volete fare a livello territoriale? 
                  A Brescia, ma non solo, abbiamo respirato per troppo tempo un'aria 
                  leghista, che ha inquinato la vita relazionale e il pensiero 
                  politico. Ma la responsabilità non è solo della 
                  lega nord: da destra a sinistra ci hanno abituati a pensare 
                  che la differenza è un rischio, un fattore che può 
                  mettere a repentaglio la propria identità, sia essa personale 
                  o collettiva... una seria minaccia alle nostre sicurezze e alle 
                  nostre libertà. Vorremmo scardinare e smentire questa 
                  falsa idea. L'incrocio delle differenze ci dà la possibilità 
                  di ridefinire i nostri stessi interessi, bisogni, diritti. Dà 
                  la possibilità di giocare con la propria identità, 
                  di misurarne i confini, sfidandoli quando serve, per raggiungere 
                  una consapevolezza più ampia, capace di liberare l'idea 
                  stessa di libertà dalle catene delle nostre definizioni 
                  e della nostra cultura. 
                  Riportare all'interno dei percorsi di lotta questa riflessione 
                  è centrale. Uscire dai confini che noi stessei ci diamo 
                  è un rischio, ma anche possibilità di arrivare 
                  a un passaggio determinante, che ci permette di uscire da una 
                  logica meramente difensiva. Per opporsi efficacemente alle leggi 
                  razziste, all'ossessione securitaria, alla perversione dei confini 
                  e alla guerra tra poveri necessario ripensare linguaggi e pratiche 
                  per sperimentarne di nuove, partendo da una ridefinizione dei 
                  diritti da mettere al centro delle nostre rivendicazioni. 
                   
                  Avete una sede? 
                  Molte/i di noi vengono dall'esperienza dei centri sociali, per 
                  cui siamo portate/i a pensare le nostre azioni attraverso spazi 
                  fisici che riscattiamo riappropriandocene. Al momento non abbiamo 
                  una sede ma migriamo attraverso il territorio. Questo può 
                  essere in certi casi un valore aggiunto, ma spesso lo viviamo 
                  come un forte limite. Sentiamo l'esigenza di uno spazio e sappiamo 
                  dove immaginarcelo. Buona parte del nostro percorso ha avuto 
                  come teatro un quartiere particolare, il Carmine, nel centro 
                  di Brescia, a pochi metri dalle sedi del potere locale, da sempre 
                  quartiere popolare e riferimento, fin dai primi anni Ottanta, 
                  dei migranti che arrivavano in città. Quartiere con peculiarità 
                  uniche per composizione sociale, specchio di una società 
                  sempre più complessa e meticciata. Territorio che da 
                  diversi anni rappresenta un'importante risorsa nelle sperimentazioni 
                  di convivenze possibili, di incontri inattesi, di percorsi di 
                  lotta e di resistenza ai continui tentativi di normalizzazione 
                  di quest'eccezione evidente. Quartiere che, nell'essere teatro 
                  dell'occupazione della gru, ha aperto a nuovi incontri con una 
                  cittadinanza solidale e attenta, permettendo di sperimentare 
                  collaborazioni inaspettate, ma che al contempo è anche 
                  il pezzo di città sul quale maggiormente i razzisti del 
                  governo cittadino di turno sperimentano le più becere 
                  politiche di controllo e di repressione, accanendosi principalmente 
                  con i migranti e le attività legate alla loro vita, aggredendo 
                  la libertà di tutte e tutti noi. Portare all'interno 
                  del quartiere le progettualità di Cross-point potrebbe 
                  quindi essere un modo per intercettare in maniera ancora più 
                  incisiva le varie dinamiche che ne attraversano le strade.
                
   
                   
                  Con quali comunità migranti riuscite a costruire percorsi 
                  di lotta? 
                  Comunità?...bella domanda! Una delle riflessioni più 
                  significative che è nata dal percorso della gru riguarda 
                  proprio le comunità. Abbiamo iniziato con un presidio 
                  che sembrava la fotografia di un mappamondo: ognuno si distribuiva 
                  secondo la propria provenienza geografica andando a confermare 
                  il disegno perfetto dei confini nazionali. India prossima al 
                  Pakistan da una parte, Egitto, Marocco e Tunisia dall'altra, 
                  l'Italia al centro e l'Africa sub-sahariana spostata verso il 
                  fondo! 
                  In questo quadro così ordinato, a fronte della complessità 
                  di 30 anni di migrazione, i limiti erano evidenti. Differenti 
                  persone non trovavano più una collocazione. L'idea stessa 
                  di comunità non reggeva. Il percorso personale di migrazione/trasformazione 
                  aveva ridefinito le omogeneità e, di conseguenza, le 
                  appartenenze. Quello che abitualmente anche noi attiviste/i 
                  eravamo portate/i a pensare come un riferimento, la comunità, 
                  diventava a volte un limite, spesso una forma di controllo insopportabile. 
                  Questo, che per noi era un elemento di novità, ci tornava 
                  addosso come misura dei nostri pregiudizi. E contemporaneamente 
                  diventava visibile la natura ambivalente della “comunità”, 
                  al tempo stesso luogo di solidarietà e sistema di riproduzione 
                  delle gerarchie. Ci riconosciamo nella peculiarità di 
                  essere un gruppo estremamente eterogeneo. Una peculiarità 
                  che vogliamo valorizzare fino a ritenere che, nell'agire politico, 
                  sia oggi necessario superare un'idea totalizzante di comunità. 
                  Questo aspetto è stato evidente anche nelle dinamiche 
                  assembleari: in cui si è passati dall'attesa degli italiani 
                  come interlocutori privilegiati, al ‘modello barzelletta', 
                  in cui da copione parlava una persona per comunità, fino 
                  alla partecipazione effettiva, in cui non ci si curava più 
                  della provenienza di chi prendeva parola ma del contenuto dell'intervento. 
                  Un guadagno collettivo importante che ha portato alla caotica 
                  mescolanza a cui siamo arrivate e arrivati ora. 
                   
                  Quali le difficoltà in una città come Brescia? 
                  In realtà Brescia è una città adatta allo 
                  sviluppo di un progetto come quello di Cross-point: abbastanza 
                  grande e ricca da attrarre considerevoli flussi migratori da 
                  ormai più di vent'anni, ma senza risentire eccessivamente 
                  di fenomeni di alienazione e ghettizzazione tipici della metropoli. 
                  Le dimensioni urbane e sociali favoriscono l'incrocio e le seconde 
                  generazioni meticce ne sono l'espressione più evidente. 
                  Certo, negli ultimi anni la lega al governo della città 
                  ha complicato un po' le cose, non tanto dal punto di vista politico, 
                  quanto per la vita quotidiana dei migranti stessi. Questo, sommato 
                  alla recente crisi economica, sta producendo fenomeni preoccupanti 
                  di emarginazione e chiusura identitaria. 
                  Una città come Brescia crea più difficoltà 
                  agli amministratori ottusi o incapaci che non vogliono o non 
                  sanno gestire quella che per noi è una ricchezza. Il 
                  problema è che questi errori si pagheranno a caro prezzo 
                  nel medio-lungo periodo, come avvenuto in Francia nelle banlieue. 
                   
                  Perché avete scelto di usare la parola “meticcio” 
                  nei vostri scritti e documenti? 
                  La lingua italiana spesso rappresenta un limite per noi, perché 
                  troppo conservatrice, incapace di rappresentare la molteplicità 
                  dei soggetti che vuole descrivere (partendo dal genere), fin 
                  troppo improntata a trasmettere le strutture di potere della 
                  società che abitiamo, inadatta a coglierne le trasformazioni. 
                  Fin dall'inizio è stato molto difficile per noi trovare 
                  le parole adatte a descrivere la realtà in costante mutamento 
                  in cui ci trovavamo immerse/i. Difficile accettare i confini 
                  della dicotomia tra il noi e il voi nel momento in cui non era 
                  netta la distinzione e i due termini continuavano a rimodularsi, 
                  anche sovrapponendosi. 
                  Abbiamo quindi iniziato a descrivere noi stesse/i. Non riuscivamo 
                  a sopportare la definizione di gruppo multietnico, perché 
                  tutte/i noi disconoscevamo il concetto di etnia. Ma anche il 
                  concetto di “multiculturale” ci stava stretto, perché 
                  nessuna/o di noi sarebbe stata/o in grado di dire quale macro-cultura 
                  rappresentava. 
                  Venivamo da un anno di costante confronto-scontro, una sorta 
                  di convivenza negli spazi di lotta della città. Da questa 
                  esperienza ne uscivamo tutte/i cambiate e cambiati, e la misura 
                  di questo mutamento l'avevamo ogni qual volta tornavamo nel 
                  luogo/gruppo da cui provenivamo. 
                  Alcuni ritorni significativi li avevamo quando qualcuno di noi, 
                  dopo aver finalmente ottenuto il permesso di soggiorno, tornava 
                  nel paese d'origine; se l'impressione di spaesamento dopo tanti 
                  anni di assenza obbligata poteva dirsi quasi scontata, non lo 
                  era il fatto che la contaminazione guadagnata dal confronto 
                  con l'altro scatenasse una reazione a catena: di conflitto in 
                  conflitto, di definizione in ridefinizione, la trasformazione 
                  aveva potenzialità contagiose. 
                  Non si trattava di aver perso o guadagnato qualcosa, non si 
                  trattava di una sommatoria di conoscenze o di esperienze, non 
                  si trattava di disconoscere quello che si era stati, ma era 
                  la semplice constatazione che qualcosa di nuovo si era affacciato 
                  in noi, quel nuovo che aveva iniziato a prendere forma sotto 
                  la gru e aveva iniziato a confondere i contorni delle singole 
                  identità. 
                  Il valore politico di questo potenziale trasformativo, a livello 
                  collettivo è immenso. Non riconoscerlo sarebbe una grave 
                  miopia per chi agisce politicamente nella società globalizzata. 
                  Meticcio per noi assume questo valore. 
                   
                  Quali sono state le iniziative che avete promosso nei primi 
                  mesi di attività? 
                  Per il momento ci siamo concentrate/i su iniziative-eventi con 
                  lo scopo di far conoscere chi siamo e dove siamo direzionate/i, 
                  cercando di costruire collaborazioni effettive con le realtà 
                  che sentiamo più vicine. Le iniziative proposte sono 
                  state preparate trasversalmente all'assemblea del presidio della 
                  gru, discutendole nel gruppo meticcio che oggi rappresentiamo. 
                  C'è stato innanzitutto un prologo, con la presentazione 
                  del libro Sulla pelle viva, sullo sciopero dei migranti 
                  a Nard. L'inaugurazione vera e propria del progetto è 
                  avvenuta con la presentazione del tuo libro (Andrea Staid, Le 
                  nostre braccia: meticciato e antropologia delle nuove schiavitù, 
                  Agenzia X edizioni, 2011), in cui abbiano trovato corrispondenze 
                  con quanto volevamo fare; in seguito abbiamo organizzato la 
                  proiezione del film La vita che non CIE di Alexandra 
                  D'Onofrio e Gabriele Del Grande, e in questi giorni, siamo impegnate/i 
                  nella preparazione di Kick the Borders, un torneo “antirazzista” 
                  di calcio organizzato in collaborazione con alcuni dei ragazzi 
                  arrivati nell'estate scorsa dalla Libia a Brescia. 
                  Questi primi appuntamenti sono riusciti, per quel che ci eravamo 
                  proposti: aprire spazi di confronto tra persone di differente 
                  provenienza (non solo geografica), riportare al centro la comune 
                  voglia di mettersi in gioco in percorsi efficaci nella trasformazione 
                  dell'esistente, in relazioni tra pari. Non semplice, non scontato. 
                  Dopo ogni appuntamento ci siamo ritrovatei per valutare collettivamente 
                  l'iniziativa organizzata, confrontando le singole riflessioni 
                  sui contenuti di volta in volta emersi. Un aspetto importante, 
                  una sorta di misurazione della teoria sulla pratica, da cui 
                  sono emersi molti aspetti interessanti. È stato in questi 
                  passaggi che si è resa evidente la forzatura delle definizioni: 
                  il noi e il voi, l'autoctono e il migrante, lo sfruttato e lo 
                  sfruttatore. 
                   
                  Per il futuro cosa state costruendo, programmando? 
                  Chiuso questo ciclo di iniziative, pensiamo di riaggiornarci 
                  a settembre, quando sapremo se sarà possibile avere un 
                  luogo di riferimento. Molto dipenderà da questo, per 
                  noi sarebbe un passaggio importante. 
                  Spazio o no, siamo comunque determinate/i a proseguire in questa 
                  direzione. Crediamo che sia più che mai necessario sostenere/aprire/promuovere 
                  luoghi, fisici o simbolici, di incontro e confronto, che possano 
                  portare a una condivisione reale e a uno scambio di significati. 
                  Un tentativo di rispondere all'urgenza di ricomporre il tessuto 
                  sociale, volutamente frammentato a suon di precarietà, 
                  razzismo istituzionale e retoriche su identità rigide. 
                  Superare l'attuale schema gerarchico di cittadinanze (anche 
                  non riconosciute), capaci di trasformare i diritti in privilegi. 
                  Scommettere sulla condivisione e non sull'appartenenza per investire 
                  in forme di conflittualità più profonde, per raggiungere 
                  e modificare le sinapsi stesse del sistema. 
                  L'attacco che viviamo oggi è molto duro: assistiamo a 
                  una perdita progressiva di diritti in ogni ambito delle nostre 
                  vite, dal lavoro all'istruzione, dalla casa ai servizi e ai 
                  beni comuni. Superare i confini non solo nazionali, ma anche 
                  sociali, di genere ed economici vuole unire ciò che i 
                  poteri forti da sempre tendono a dividere: quelle soggettività, 
                  donne e uomini, differenti per cultura ma libere e liberi di 
                  autodeterminarsi. Abbiamo la forza! 
                
   
                  Andrea Staid
                 
                
 
                   
                     
                        Lassù 
                          sulla gru 
                        Settembre 2009. In tutta 
                          Italia migliaia di immigrati presentano domanda di regolarizzazione 
                          in seguito alla sanatoria di colf e badanti promossa 
                          dal governo. Un anno dopo, a Brescia, delle 11.300 richieste 
                          di permesso di soggiorno inoltrate oltre 1000 sono state 
                          respinte e altre 4000 rischiano di subire la stessa 
                          sorte. Molti di coloro che hanno presentato richiesta 
                          infatti, pur non avendo commesso alcun reato, avevano 
                          sulle spalle una condanna di clandestinità che, 
                          secondo le prime indicazioni del ministero degli interni, 
                          non avrebbe dovuto costituire un impedimento alla regolarizzazione. 
                          Nel marzo del 2010 però la posizione del ministero 
                          cambia, e viene ordinato a questure e prefetture di 
                          respingere ogni domanda proveniente da persone con condanne 
                          a carico, anche legate unicamente alla clandestinità. 
                          Nell'ottobre del 2010 si moltiplicano pertanto in tutto 
                          il nord Italia le proteste contro la cosiddetta “sanatoria 
                          truffa”. A Brescia in particolare, quando anche 
                          il permesso di manifestare in presidio viene revocato, 
                          sei migranti salgono su una gru nel cantiere della metropolitana 
                          di Piazza Cesare Battisti. Si tratta di giovani tra 
                          i 20 e i 35 anni: Sajad, 27 anni, pakistano; Papa, 20 
                          anni, senegalese; Singh, 26 anni, indiano; Rachid, 35 
                          anni, marocchino; Arun, 24 anni, pakistano; Jimi, 25 
                          anni, egiziano. Due di loro abbandoneranno il presidio 
                          rispettivamente dopo 10 e 12 giorni, i restanti quattro 
                          scenderanno dalla gru soltanto il 16 novembre, dopo 
                          oltre due settimane, accolti da una folla solidale. 
                           
                          L. A. C. 
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                        Meticci, 
                          precari, clandestini 
                        In questi ultimi anni 
                          a Brescia si sono intrecciate diverse lotte per affermare 
                          il diritto ad un'esistenza libera ed autodeterminata: 
                          dal diritto alla salute al diritto alla casa, dal libero 
                          sapere all'accesso ai servizi, contro la schiavitù 
                          della precarietà e la chiusura degli spazi di 
                          agibilità politica. 
                          Queste lotte sono state portate avanti da diversi soggetti, 
                          che spesso si sono trovati a unire le proprie forze 
                          all'interno di specifiche iniziative o di percorsi più 
                          articolati. 
                          Fra questi soggetti rientrano sia i collettivi e le 
                          associazioni che da anni lavorano sul territorio, che 
                          persone slegate da appartenenze, che si sono mosse sulla 
                          spinta di un bisogno o perché coinvolte/travolte 
                          da quanto stava prendendo vita nella città. Non 
                          ultima, l'esperienza del Presidio sotto e sopra la gru. 
                          Queste interazioni hanno dato vita a spazi sociali e 
                          simbolici dove le singole esperienze si sono incrociate 
                          portando a reciproche trasformazioni. Incroci di relazioni, 
                          aspirazioni, conflitti che devono essere valorizzati 
                          come atto di resistenza alle culture razziste e omologatrici. 
                          Soprattutto ora che le complessità e le contraddizioni 
                          delle società globalizzate e delle migrazioni 
                          ci pongono una sfida grande, resa ancora più 
                          dura dalla crisi e dai suoi effetti devastanti. 
                           
                          CROSS-POINT nasce da questi incroci, per affermare che 
                          migrare non è un reato ma un percorso di cambiamento 
                          della propria vita e del mondo. Migrare è una 
                          sfida complessa, determinata da molte cause. Non è 
                          solo disperazione, ma anche desiderio di conquistare 
                          nuovi diritti, esplorare terre e culture differenti, 
                          disertare la guerra. Migrare può generare frustrazione 
                          o felicità, sogno o incubo, chiusura identitaria 
                          o apertura di orizzonti, sfruttamento o ribellione, 
                          schiavitù o libertà. 
                          CROSS-POINT è un progetto che vuole esprimere 
                          le nuove soggettività che abitano e animano il 
                          tessuto sociale della città. Per opporsi efficacemente 
                          alle leggi razziste, ai permessi di soggiorno legati 
                          ai contratti di lavoro, alla cultura leghista, all'ossessione 
                          securitaria e alla guerra tra poveri è ora necessario 
                          ripensare linguaggi e pratiche per sperimentarne di 
                          nuove. 
                          CROSS-POINT vuole essere un'opportunità per la 
                          libera circolazione, per la creazione di relazioni di 
                          reciprocità, dove l'incrocio rappresenta una 
                          possibilità concreta di trasformazione personale 
                          e collettiva. 
                          CROSS-POINT vuole essere un incrocio dove valorizzare 
                          le specificità culturali e, allo stesso tempo, 
                          metterle in gioco e in discussione. Crede nel potenziale 
                          della contaminazione e della condivisione. Considera 
                          la differenza una ricchezza irriducibile, che non allude 
                          a privilegi o discriminazioni. 
                          CROSS-POINT rifiuta i miti coloniali della purezza etnica 
                          e originaria, dell'identità nazionale, fissa 
                          e immutabile. 
                          CROSS-POINT vuole superare confini e frontiere imposti 
                          da stati, guerre, condizioni sociali ed economiche per 
                          tenere insieme ciò che il razzismo istituzionale 
                          vuole dividere, quelle soggettività che vivono 
                          sulla propria pelle la precarietà, la criminalizzazione, 
                          la mancanza di libertà. 
                          CROSS-POINT è un laboratorio sociale e culturale 
                          meticcio fatto da donne e uomini, autoctoni e migranti, 
                          di prima e seconda generazione, con o senza documenti. 
                          CROSS-POINT migra in luoghi differenti per creare relazioni 
                          meticce e impure che siano all'origine di lotte e di 
                          trasformazioni possibili. 
                           
                          Tratto dal sito: 
                          cross-point.gnumerica.org 
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